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Quando il robot viene usato al posto tuo

Traccia scenari poco rassicuranti Riccardo Staglianò nel suo libro inchiesta Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro (Einaudi) che viene presentato il 16 maggio al Salone del libro, in un incontro dal titolo “Mettere a fuoco il presente il lavoro di domani” .

Come può una macchina valutare un caso clinico, fare una diagnosi? Come riesce a intercettare quei fattori, anche emotivi, che possono essere importanti nell’alleanza medico-paziente?

Ho visitato il laboratorio dell’Ibm a Yorktown a nord di New York dove sviluppano l’ultima incarnazione di Watson, il supercomputer che si occupa di medicina. Tu gli dai la cartella clinica del paziente, che in un futuro prossimo acquisirà in automatico perché saranno in formato elettronico, gli racconti i tuoi sintomi e lui ti fornisce alcune terapie. Per adesso si occupa di tumori al polmone e lo stanno utilizzando in fase sperimentale allo Sloan Kettering di New York, centro oncologico d’eccellenza.

Sostituisce il medico?

Non ancora ma non è difficile immaginare un futuro, sempre più economicamente disuguale, in cui chi ha i soldi continuerà a farsi curare dagli umani e chi non li ha si accontenterà delle macchine. D’altronde il Sedasys, una macchina per le anestesie è già usata negli Stati Uniti: le sedazioni così costano 200 dollari, mentre prima ne costavano 2000». Ma non tutto volge al peggio. «Enlitic, per esempio, è un software per leggere le radiografie e risulta già più attendibile dei radiografi umani. Intanto il New York Times racconta di un robot-chirurgo (Smart tissue autonomous robot) in grado di riattaccare un pezzo di intestino di un maiale in totale autonomia, meglio di come avrebbe fatto un chirurgo umano. Sono tutti indizi di un futuro che è già tra noi e che si diffonderà sempre più alla svelta per banali ma inesorabili leggi economiche: se una cosa si può fare quasi altrettanto bene a un costo più basso, la vecchia modalità sarà sostituita.

Nel libro un capitolo a parte riguarda la fine dei traduttori. Ma è davvero possibile arrivare con un programma elettronico ad una traduzione efficace, con una specifica sensibilità verso le sfumature di una lingua, con riguardo a un contesto di vita vissuta, al suono della poesia?
Anche qui vale lo stesso principio. Qualche tempo fa le traduzioni di Google translate erano materia prima per l’ironia di Umberto Eco nelle sue Bustine di Minerva. Facevano ridere, più che capire. Ma negli ultimi anni le cose sono cambiate radicalmente perché gli algoritmi sono stati alimentati con un’immane quantità di traduzioni di qualità, in particolar modo i milioni di pagine di traduzioni impeccabili nelle varie lingue dell’Unione europea. Risultato: Google translate traduce incredibilmente meglio. La qualità è direttamente proporzionale alla quantità di testi tradotti in quella lingua. Più ce ne sono, meglio traduce. Però potrà solo migliorare. Gli umani traducono meglio? Certo, è ovvio, ma non è il modo giusto di guardare al problema, se ci stanno a cuore i posti di lavoro. Il modo giusto è pensare che prima, se volevo capire cosa diceva la prima pagina di un giornale in tedesco, dovevo chiedere a qualcuno che lo parlasse di tradurlo per me e, verosimilmente, pagarlo. Ora Translate mi restituisce il senso gratis. Gli affiderei una traduzione letteraria? No. Ma intanto farà fuori molto lavoro basico, di servizio, per cui prima degli esseri umani venivano pagati.


 

È arrivata la quarta rivoluzione industriale, quella dei robot e delle intelligenze artificiali. Sul numero di Left in edicola abbiamo cercato di raccontarvi entusiasmi e sospetti, scenari e prospettive. Dal lavoro alle emozioni, parlandone tra l’altro con l’ex ministro Maria Chiara Carrozza e con Giovanni Dosi il direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa


 

Si parla molto di aggregatori di notizie, un giorno un robot potrà sostituire un giornalista o si tratta fantasticherie? Il pensiero critico, la verifica puntuale delle notizie può essere sostituita da una macchina?
Si tratta di due realtà a pieno regime, parlo di Quill e di Narrative Science e di Wordsmith di Automated Insights. Entrambi sono software che, senza intervento alcuno di giornalisti, prendono in automatico i dati dalle banche dati della borsa e sono in grado di scrivere migliaia di notizie alla settimana sulle cosiddette trimestrali aziendali, ovvero come Apple è andata nel secondo trimestre del 2016 rispetto a quello precedente e rispetto alla serie storica delle sue performance. Riescono anche a scrivere delle sorte di cronache di partite di baseball e di altri sport in totale autonomia. Il primo viene usato da tempo da Forbes e vari altri siti di informazione, il secondo è impiegato con successo da Associated Press, la più grande agenzia stampa del mondo. Kris Hammond, il fondatore di Narrative Science, mi ha detto che prevede che il suo software sarà in grado di scrivere il 90 per cento delle notizie (non solo finanza e sport) entro una decina di anni. Esagerazione? Forse, ma quello che è certo e che queste macchine migliorano soltanto man mano che le usi e ne correggi gli errori in un processo iterativo senza fine. Vinceranno il Pulitzer? Lo escludo, però anche in Post-industrial Journalism, il libro bianco commissionato dalla scuole di giornalismo della Columbia University, si dice che per sopravvivere le redazioni dovranno automatizzare tutte le attività a basso valore aggiunto per concentrare le energie degli umani su quelle più complesse.

Insomma qual è il futuro che ci aspetta?
Carl Frey e Michael Osborne, due ricercatori di Oxford autori di uno studio ormai celebre, ipotizzano che entro il 2033 circa la metà dei lavori attualmente esistenti negli Stati uniti saranno ad alto rischio di automazione. L’ultimo World Economic Forum, un consesso non sospettabile di contrarietà alla tecnologia, ha calcolato che nel prossimo decennio circa 5 milioni di posti di lavoro saranno cancellati per la sostituzione delle macchine. Altre prestigiose società di ricerca, da McKinsey a Forrester, danno stime più alte. Ovviamente saranno creati anche nuovi posti di lavoro che oggi non esistono e che forse non possiamo neanche immaginare, ma il saldo resta comunque negativo. Quello che è cambiato è che oggi è possibile produrre una quantità enorme di ricchezza con una porzione minuscola di forza lavoro. È vero che Instagram che quando è stata comprata da Facebook aveva tredici dipendenti o Whatsapp che serviva milioni di utenti e ne aveva, sempre all’acquisizione, 55. Una volta per produrre la stessa ricchezza sarebbero servita una forza lavoro cento volte maggiore. Se questo è the new normal, bisogna attrezzarsi. Tassando i giganti tecnologici, che diventano sempre più ricchi, sino all’ultimo euro e probabilmente pensare ad aliquote più progressive. E poi, probabilmente, prendendo in considerazione un reddito di base per tutti quelli che saranno fatti fuori dal mercato del lavoro. In assenza di tutto questo ci aspettano tempi agitati. @simonamaggiorel

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Sinistra Italiana, Fassina e il segreto di Pulcinella

STEFANO FASSINA

«La vicenda romana impone un chiarimento definitivo sulla prospettiva. Io non vedo complotti, vedo due impianti di cultura politica. Da una parte chi, come me, considera chiusa la fase del centrosinistra. Dall’altra, chi pensa che il nostro destino sia l’alleanza subalterna con il Pd.»: sono le parole di Fassina in una durissima intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera. L’estromissione delle liste dalla corsa elettorale per Roma (per un errore formale che rasenta l’autodafé) spinge finalmente l’ex candidato sindaco a dire quello che tutti sapevano ma che nessuno pronunciava: in queste elezioni amministrative (mica solo a Roma) Sinistra Italiana ha mostrato le due anime che la compongono, dilaniata tra chi non riesce a smettere di corteggiare il PD e chi (come Fassina) dal PD ci è uscito per costruire qualcosa.

Difficile quindi immaginare un soggetto unitario: qualcuno aspira a diventare una comoda “componente esterna” utile democratici mentre altri (e la maggioranza degli elettori) hanno provato a interpretare i valori che proprio il PD ha tradito in questi ultimi anni. Due sensi opposti; figurarsi se possono coesistere.

E, attenzione, Roma in realtà è l’esperimento (fallito) riuscito meglio: a Milano il gruppo dirigente di SEL appoggia Sala mentre in molti hanno deciso di puntare su Basilio Rizzo. Dov’è Sinistra Italiana? Bella domanda. E pessima risposta.

Valga intanto ciò che succede anche per tutti coloro che proprio dalle mura di Sinistra Italiana hanno accusato gli altri di non volere “l’unità della sinistra” quando molto più semplicemente (e sommessamente) si sono permessi di notare i troppi rivoli. Le diversità sono la ricchezza della politica, le tortuosità del ragionamento offrono importanti anse di discussione ma per convergere infine bisogna almeno andare tutti nello stesso senso. E combattere Renzi a Roma per poi scodinzolare ai renzini candidati in giro per l’Italia non è un gran trovata. Davvero.

Buon lunedì.

Da Porta del Sol a Place de la République, all’Europa. Oggi è #GlobalDebout

La scelta è quella del 15 maggio, quinto anniversario del Movimento 15 de Mayo spagnolo, quello degli Indignados che oggi vede un ritorno all’unità di Podemos e Izquirda unida in vista delle elezioni del 26 giugno: Unidos podemos. Il movimento parigino, nato a marzo contro la Loi travail – la nuova legge di riforma del mercato del lavoro approvata in Francia tra le proteste represse con forza dalla polizia francese – si estende a Marsiglia, Lione, Digione, Rennes, Nantes, Toulouse e fuori dalla Francia. E lancia un appello internazionale: il Global Debout, la giornata di azione globale nelle piazze d’Europa parte da Parigi, per estendere l’appello parigino di Nuit Debout fino a Roma, e in 500 città europee.

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Per seguire le piazze sui social: #GlobalDebout e #WorldDebout

Da Porta del Sol a Place de la République, dove ogni sera da tre mesi giovani e lavoratori, sans papiers e senza casa si riuniscono per dare vita al dissenso al Jobs act alla francese, parlano di contrattazione interna nelle imprese (lo si fa anche in Italia, al tavolo di rinnovo del contratto dei metalmeccanici), di licenziamenti economici, referendum aziendali, flessibilità. Di questo si parla nella piazza francese, dove si susseguono gli sgomberi con sempre maggiore violenza, con lacrimogeni e manganelli. In queste ore, una dura denuncia e condanna delle violenze a Parigi è giunta da Yanis Varoufakis e DiEM25.

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Parigi durante gli scontri del 29 aprile 2016

Nella sua dimensione europea la protesta si incentra sul No all’austerity. «Non c’è alternativa senza Europa, non c’è alternativa in questa Europa», recita l’appello che i parigini hanno lanciato all’Europa, agli studenti e ai lavoratori spagnoli, italiani, inglesi, agli europei che sono nella medesima condizione: «sono il 99% delle persone oppresse dall’arroganza e dalla violenza dell’1% che rapina, affama, distrugge, specula, confina, respinge, sfrutta le vite, i corpi, i desideri di tutti noi». La convocazione alla mobilitazione per il 15 maggio, invita a occupare le strade e le piazze, a coalizzarsi, far convergere le lotte. E l’appello viene raccolto anche a Roma, «capitale della corruzione, del malgoverno, della guerra della dittatura dell’austerità in Italia», scrivono gli organizzatori. «Raccogliamo questo appello, noi che abbiamo visto il Jobs Act approvato senza colpo ferire; noi che oggi ci vediamo spiegare che dovremo lavorare fino a 75 anni con stipendi da fame e senza diritti. Raccogliamo questo appello alla mobilitazione contro il governo Renzi e contro tutti i governi corrotti d’Europa, contro il militarismo e la distruzione dell’ambiente, contro l’innalzamento dei muri alle frontiere e contro la precarietà del lavoro. Incontriamo per discutere, per riappropriarci della decisione democratica, per organizzare la lotta». L’appuntamento italiano è oggi, domenica 15 maggio, alle ore 17 al Pantheon.

Anatomia di un’intelligenza artificiale: 4 cose da sapere

È arrivata la quarta rivoluzione industriale, quella dei robot e delle intelligenze artificiali. Sul numero di Left in edicola abbiamo cercato di raccontarvi entusiasmi e sospetti, scenari e prospettive. Dal lavoro alle emozioni, parlandone tra l’altro con l’ex ministro Maria Chiara Carrozza e con Giovanni Dosi il direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

anatomia di un'intelligenza artificiale

 

Pensare come un umano

Il test di Turing è il criterio per determinare se una macchina sia in grado di pensare. Nel 2013 Erich Schmidt, Ceo di Google, ha detto che un computer sarebbe stato in grado di passare il test entro i successivi 5 anni. Ne mancano solo 2.

 

Imparare dai propri errori

Una Ai può analizzare e mettere in relazione molti più dati di un essere umano. AlphaGo, il programma di Ai sviluppato da Google DeepMind, ha vinto a Go contro il più forte campione al mondo: ha un database con 30milioni di mosse e ha giocato contro se stesso migliaia di volte migliorando la propria performance.

 

Sostituire gli umani

Non solo lavoro, ma anche intrattenimento. Esistono già robot in grado per esempio di suonare strumenti e tenere un vero e proprio concerto. È il caso dei Compressorhead, una rock band composta di soli automi. Sorge spontanea una domanda: dove finiscono in tutto questo arte e creatività?

 

Lottare per i diritti

In occasione del World Economic Forum è stato diffuso un appello firmato “Noi, i robot” che dice così: «Chiediamo un reddito di base universale per gli esseri umani. Vogliamo lavorare per gli umani e aiutarli nella lotta per il reddito. Siamo veramente bravi a lavorare. Non vogliamo portare via posti di lavoro alle persone. Oggi milioni di persone ci vedono come una minaccia. Ma tutto quello che vogliamo è aiutarvi».

 

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La storia vivente di Tucidide. Al Salone del libro la lectio di Luciano Canfora

Luciano Canfora

Tucidide è considerato il fondatore della storiografia moderna. E allo storico greco del V sec. a.C. Luciano Canfora dedica uno sfaccettato ritratto nel libro Tucidide, la menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza) che il professore emerito dell’Univerità di Bari ha presentato  al Salone del libro di Torino il 14 maggio ( alle 17). Un volume che offre molti spunti di riflessione sul lavoro di ricerca per comprendere il senso più profondo della storia passata e presente.
Professor Canfora, il mestiere dello storico, come lei ha scritto, può essere pericoloso, perché va contro il potere e la versione della storia che vuole dare. Come si conciliano (o non si conciliano) in Tucidide il suo essere uno storico obiettivo eil suo essere un ricco uomo di potere?
L’attività storiografica entra in collisione con il potere politico. Pensiamo alla difficoltà spesso creata ad arte di accesso alla documentazione. Si sa che gli archivi sono in mano al potere politico e solo in parte confluiscono in istituzioni pubbliche. Questa condizione si è verificata anche in secoli precedenti al nostro. La situazione invece della storiografia antica (nei limiti in cui ci è nota) è alquanto diversa. Per un verso chi scrive la storia, in genere, appartiene ai ceti alti, se non senz’altro dominanti. Nella Roma antica gli storici sono per lo più senatori. Nel caso di Tucidide e dell’antica Atene del V sec. a.C. si potrebbe dire che la situazione si capovolge rispetto a quella a noi più vicina nel tempo. Sostanzialmente il bersaglio della sua critica e della sua ricerca è il potere politico democratico che domina in Atene in varie forme e con vari protagonisti. Il solo a incontrare tardivamente il suo favore è Pericle. Non deve stupire perciò che, con ogni probabilità, Tucidide si sia direttamente lasciato coinvolgere nella breve esperienza di governo oligarchico del 411 a.C.

 Canfora Tucidide
Canfora Tucidide

Tucidide era interessato al presente, alla «storia vivente», perché voleva capire come si erano sviluppate certe dinamiche politiche, per esempio, queli erano le cause della grande guerra che oppose Atene e Sparta tra il 431 e il 404 a.C.
Tucidide teorizza esplicitamente che si può raccontare in modo fondato la storia contemporanea, ma pensa questo non per ragioni di principio ma di metodo. Del resto al tempo suo la realtà archivistica cui abbiamo fatto prima cenno era quasi inesistente. Tucidide può essere anche considerato l’iniziatore del cosiddetto revisionismo storico. Ma al contempo ha sviluppato con grande libertà di pensiero una critica radicale dei presupposti retorico-ideologici del sistema democratico ateniese, in primis quello del tirannicidio.
Fare ricerca storica significa sviluppare libertà di pensiero e capacità di contestazione delle verità prefabbricate. Questo metodo ci può aiutare oggi a capire meglio cos’è la riforma costituzionale voluta dal governo Renzi?
In Italia oggi (ma è fenomeno comune a molti altri Paesi) si può rilevare che il ricorso ormai largamente diffuso con molte varianti a sistemi elettorali di tipo maggioritario ha instaurato un po’ dovunque il governo della minoranza. Una minoranza numerica, rispetto alla popolazione politicamente attiva, che grazie a leggi maggioritarie ottiene la maggioranza dei mandati parlamentari. Questo esattamente prevede, in forma particolarmente accentuata, la legge elettorale appena varata dal nostro Parlamento. Ciò è tanto più grave in quanto il Parlamento che ha varato questa legge è stato eletto con una legge elettorale che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale proprio a causa del premio di maggioranza. Paradosso nel paradosso: il presidente della Repubblica Mattarella ha firmato quest’ultima legge elettorale, pur avendo dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza, quando era giudice costituzionale. Il fatto che nessun organo di stampa abbia voluto battere su questo tasto così dolente, è la prova matematica dello stato di servitù spontanea che caratterizza la stampa italiana.

La Valle: «Referendum, il sì di Civiltà Cattolica è fatalismo costituzionale»

Raniero La Valle è uno dei promotori del Manifesto dei cattolici del no al referendum costituzionale, “contro la democrazia dimezzata”. Giornalista,  è stato senatore per tre legislature del Pci. Secondo La Valle  la riforma Boschi rappresenta un «fatalismo costituzionale», senza alternative. O prendere o lasciare. «Ma questo è un atteggiamento culturale e politico da decodificare, da spiegare, perché non è così», dice, commentando l’articolo di Civiltà Cattolica che, pur essendo molto equilibrato, in sostanza propende per il sì la riforma Boschi. C’è da dire che Repubblica ha dedicato alla notizia un’intera pagina enfatizzando un po’ i toni.

Raniero La Valle, era prevedibile l’articolo di Civiltà cattolica?
No, non era prevedibile perché l’atteggiamento di papa Francesco è di grande rispetto per i processi interni soprattutto italiani. Ma non è una catastrofe perché, anche se questo articolo è stato presentato come una pronunzia della Chiesa come tale come sì al referendum, in realtà questa posizione è contenuta solo in un inciso dove si parla di “un auspicabile risultato positivo” del referendum. Si dice anche che il voto deve entrare nel merito di questa nuova architettura istituzionale e valutare se il motore che viene messo allo sviluppo italiano sia o no compatibile con i grandi principi e diritti stabiliti nella prima parte della Costituzione. Quindi, di per sé l’articolo è molto problematico. Certo, in quell’inciso c’è una propensione verso la riforma del governo. Però mi sembra legittimo, visto che ci sono i cattolici del no che si sono schierati da tempo per far vedere la caduta anche in senso populista e antidemocratico che la nuova costituzione può avere.

L’articolo di Civiltà cattolica e il vostro manifesto “No alla democrazia dimezzata”, quanto rappresentano due mondi diversi?
Per quanto riguarda il merito, cioè il bicameralismo, le procedure parlamentari, la riduzione della rappresentanza, la prevalenza dell’esecutivo sul legislativo, questi sono tutti giudizi su cui si è aperto un grande dibattito anche tra i costituzionalisti. Su questo aspetto il nostro giudizio è completamente diverso da quello di Civiltà Cattolica: noi vediamo dei pericoli e rischi che loro non vedono. D’altra parte c’è una certa tendenza generale dell’intero mondo culturale e politico italiano a sminuire la portata delle modifiche della legge Boschi, facendone una piccola questione di assetti parlamentari e procedurali. Non è così, è un disegno alternativo alla Costituzione del ’48. Mi sembra che nella posizione di Civiltà Cattolica ci sia un atteggiamento di certo fatalismo costituzionale che in sostanza significa: “sì, questa Costituzione sarà anche brutta ma bisogna votarla”. E questo, però, è un problema che riguarda altri settori della cultura e della politica.

Mi faccia degli esempi.
C’è un Cacciari che dice: è orrenda ma poi la voto, c’è Bersani che l’ha combattuta con tutta la minoranza Pd per tutto il percorso dell’iter parlamentare, ammettendo che era sbagliata, e poi dice: sì la dobbiamo votare. C’è il direttore di Repubblica Mario Calabresi che in tv dice: sì è una bruttissima riforma, non funzionerà ma bisogna votarla. C’è Scalfari che per moltissimo tempo ha criticato Renzi, ma adesso dice: sì va bene se Renzi vuole il potere, bisogna darglielo. Noi invece non accettiamo questa inevitabile deriva. Adesso tutti sembrano rassegnati a una democrazia dimezzata, con un uomo solo al comando, con una oligarchia alpotere. Questo è un passaggio culturale, antropologico, profondo, che dobbiamo decodificare, far capire, a cui va data una risposta sul piano politico.

Questo fatalismo nasconde una situazione di crisi della politica, come assenza di idee, di risposte alla situazione grave dell’economia. Non è naturale vedere Renzi come unico appiglio?
Questo è politicamente falso. Oggi la politica è in difficoltà perché non riesce a ristabilire la propria autonomia sull’economia. La politica non risponde al popolo sovrano, è impotente. E intanto stiamo smontando gli unici strumenti che avevamo, quelli consegnati nella seconda parte della Costituzione. Certo, se si può concepire una Costituzione come questa della riforma è perché la società è già “scesa”, per così dire, in questi anni. E quindi è ovvio che vengono fuori costituzioni più scadenti . Ma almeno non smontiamo gli strumenti che abbiamo e usiamoli per ripartire.

L’auto che si guida da sola (e i numeri della robotica)

È arrivata la quarta rivoluzione industriale, quella dei robot e delle intelligenze artificiali. Sul numero di Left in edicola abbiamo cercato di raccontarvi entusiasmi e sospetti, scenari e prospettive. Dal lavororobot-tutti i numeri alle emozioni, parlando tra laltro con l’ex ministro Maria Chiara Carrozza e con Giovanni Dosi il direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Austin, Washington, Phoenix e Kirkland. E poi, naturalmente la Silicon Valley. Le auto senza guidatore di Google viaggiano indisturbate per effettuare i loro test attraverso le città americane. L’intento del colosso di Mountain View, che ha stretto alleanze con molte case automobilistiche, è quello di far familiarizzare le persone con la nuova tecnologia, organizza assemblee pubbliche e fa lobby a livello nazionale e locale.

Il problema di Google (e di Ford, Volvo e Lyft e Uber, che hanno formato una “alleanza per le strade più sicure”) è proprio convincere il mondo che le auto senza autista siano più sicure. Specie dopo l’episodio di un incidente tra un’auto Google e un autobus a Mountain View. L’auto, che combina gli input di telecamera, radar e impulsi sonori piazzati in diversi punti della macchina e li elabora e incrocia con le mappe e il diario di viaggio, è probabilmente più sicura di quella umana: non supera i limiti, non tenta manovre azzardate, non beve e non si addormenta. Vero, ma al primo morto in incidente da macchina robot con chi ce la prenderemo? E che problemi legali pone il danno provocato da un oggetto di proprietà di qualcuno che non ha colpe perché non guidava? E cosa fa un computer quando deve scegliere tra investire una carrozzina e salvare il suo passeggero?

Come che sia, la certezza è che tra qualche anno le auto circoleranno e che le autorità stanno lavorando a capire come regolare la questione. A luglio il dipartimento dei Trasporti Usa emetterà le prime regole. Sull’auto senza guidatore hanno investito tutti. FiatChrysler ha un accordo proprio con Google, i team di ingegneri lavorano assieme e stanno testando la tecnologia su un pulmino. Toyota sperimenta un autista automatico che subentra in caso di pericolo e Bmw, Mercedes-Benz, Audi e GM hanno investito tanto in ricerca. Non sarà domani, ma prepariamoci a dire addio a taxisti, autisti, camionisti.

 

 

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“Il movimento ha sbracato” Pizzarotti contro i 5 Stelle

M5S resa dei conti, titola Repubblica. “La giustizia spacca i 5 stelle”, secondo il Corriere. La giustizia c’entra poco, sono le famose “regole” del movimento e l’insofferenza del vertice verso chi voglia fare di testa sua ad aver creato questo nuovo caso. Pizzarotti si è tenuto per sé la notizia dell’avviso di garanzia, Davide Casaleggio e il Direttorio ne hanno approfittato per togliersi un dente che faceva male. Il sindaco ha pubblicato la mail in cui “lo staff” -chi è lo staff, ha chiosato, non rispondo a mail anonime- gli chiedeva “la cortese trasmissione della copia dell’avviso di garanzia ricevuto e di tutti i documenti connessi alla vicenda”. Poi ha pubblicato la chat con Fico -membro del Direttorio- al quale Pizzarotti chiedeva un incontro, una riunione per chiarirsi e definire insieme la posizione del Movimento. Richieste senza risposta. Invece è arrivata la sospensione e l’anatema di Grillo: “non si attendono le sentenze per dare un giudizio politico”,  inevitabile, secondo Grillo, la sospensione dopo aver “preso atto della totale mancanza di trasparenza”. La sostanza della vicenda è che il sindaco di Parma, a differenza di quello di Livorno, non si è voluto arrendere alla Superiore Intelligenza del Controllo in Rete, esercitato dalla Casaleggio & Associati, sotto la supervisione, dopo la morte del padre, di Davide Casaleggio. Prima ha provato a discutere con uomini in carne e ossa. Ed è stato messo da parte. Poi ha deciso di reagire con due interviste a Repubblica e Corriere: “il movimento ha sbracato”, “sono irresponsabili”, “non ci sono regole”, “potrei anche fare causa”,  “che vuol dire sospensione?, “chi ha deciso, Davide Casaleggio, Di Maio?”. Il quale Di Maio, secondo Annalisa Cuzzocrea di Repubblica, avrebbe considerato “un errore cacciarlo via”.

Bocciato il ricorso al Tar, Fassina chiede scusa

Stefano Fassina ha fatto bene, ieri a Bersaglio Mobile, a chiedere scusa “a quella fetta di Roma che crede in noi”, ad assumersi le responsabilità per la catastrofica esclusione delle sue liste – contro la quale tenterà un ulteriore ricorso al consiglio di stato- e a convocare, per martedì prossimo, tutti i candidati consiglieri per decidere insieme il da farsi.

“Non siamo un partito strutturato, siamo un movimento in costruzione -ha detto-, dei beginners”. Principianti, un giudizio severo, dettato certo dall’amarezza, ma che purtroppo rende bene l’idea. Sinistra Italiana -fuoriusciti dal Pd, ex SEL, qualche ex grillino, altri piccoli gruppi organizzati- resta per ora un insieme di identità diverse, e in qualche caso raccogliticce, alla ricerca di un leader capace di federare o di intese locali che permettano alle varie anime almeno di coesistere. Non si vede quel grande confronto, politico e ideale, che sarebbe necessario per battezzare una novità vera a sinistra. E la voglia, precoce, di confrontarsi con le elezioni amministrative non ha certo aiutato.

A Roma ora Giachetti spera di attrarre una parte dei cittadini che avrebbero votato per Fassina e riuscire, così, almeno a superare il primo turno per concorrere al ballottaggio. “Sono l’unico candidato di centro sinistra”, dice. “La sinistra falce e cashmere vuole privatizzare l’Atac e se ne va in giro in Ferrari”, risponde via tweet Virginia Raggi. Mentre,  secondo Alfio Marchini, “la sinistra ha abbandonato il suo popolo”.

Forse sarebbe il caso, dopo la riunione di martedì di Fassina con i candidati senza più lista, di convocare una sorta di Stati Generali della Sinistra Romana. In campagna elettorale e, purtroppo senza liste -a meno che il Consiglio di Stato non rovesci due gradi di giudizio-, per fare il punto su un programma, su qualche idea innovativa per Roma da sostenere anche dopo il voto, voto che non risolverà, purtroppo, i problemi della capitale

Referendum costituzionale e ritorno della questione morale

I rapporti tra politica e magistratura ormai da alcuni decenni sono caratterizzati da “alti” e “bassi” impressionanti. Non saprei dire se tutto ciò sia inevitabile, anche se osservo che, in questa esperienza senatoriale, quando si parla di giustizia in una commissione o nell’aula del Senato, praticamente tutti si sentono in dovere di intervenire e dire la loro. E questo è un bene. è il segno di quanto sia profondamente sentita la necessità di discutere di bene comune, di legalità e di correttezza istituzionale. Ma se poi si passa a una valutazione di quanto viene detto, è facile che si rizzino i capelli in testa dalle tante assurdità e alle volte vere e proprie bestialità che vengono sostenute. In questo periodo c’è una vasta gamma di esemplificazioni, dalla cosidetta riforma costituzionale alle nuove norme proposte in tema di processo penale, intercettazioni e prescrizione. Emblematico, poi, politicamente e socialmente, è ciò che si osserva tutt’attorno. Prendiamo per esempio il caso del prossimo referendum d’autunno.

Già costituirebbe grave anomalia giuridica e istituzionale il fatto di un governo, un qualsiasi governo, che propugnasse una profonda riforma costituzionale per modificare in radice
competenze, composizione e limiti del potere legislativo. E soprattutto che sostenesse a spada tratta le ragioni della modifica, reprimendo il dissenso e non curandosi dei “pastrocchi” tecnici. E ancor più aggirando la lettera e lo spirito della norma costituzionale. Che chiedesse un inutile referendum a conferma, referendum invece previsto a tutela dei contrari. E per di più prefigurando su una riforma costituzionale un plebiscito pro o contro il governo, così piegando la Costituzione a interessi che per definizione sarebbero di parte (quand’anche maggioritaria). Su tutto ciò negli ultimi giorni si è innescata una polemica su chi possa o non possa schierarsi contro questa assurda pretesa di referendum “governativo”. Nel tentativo di mettere il bavaglio a una categoria di giuristi, i magistrati, che non potrebbero – così sostiene anche il “laico” vicepresidente del Csm – partecipare a dibattiti politicizzati. Ora, a parte il fatto che la decisione del capo del governo di politicizzare a proprio favore un referendum costituzionale costituisce un’aberrazione in sé, si rischierebbe in un colpo solo di martoriare tutta una serie di principi costituzionali: dalla libertà di pensiero e di espressione alla sovranità della Costituzione di fronte a qualsiasi potere dello Stato. Per buona sorte la Costituzione rimane, mentre sono i governi, tutti i governi, quelli destinati a passare. E se anche in questa occasione si è arrivati al calor bianco nel rapporto tra politica e magistratura, tanto da coinvolgere il ministro della Giustizia e il presidente della Repubblica, significa che la tensione rischia di arrivare alle stelle. Non è di certo casuale che ci si arrivi mentre in tutta Italia sembra di assistere a una riedizione di Mani pulite.

E mentre quindi la classe politica, anzi una parte della classe politica, si sente nuovamente sotto assedio. Io penso che, per tutti e sempre, valga il famoso broccardo “Male non fare, paura non avere”. Certo, mi fa strano che nei casi di imputazione e arresti nei confronti di un politico, siano dei politici stessi a dire di voler aspettare l’esito delle indagini e del processo. Fatto salvo il sacrosanto anche se banale ricorso al principio di non colpevolezza, mi verrebbe da chiedere: dove sono finite l’autonomia e la dignità della politica? E non esistono criteri e valutazioni diversi e indipendenti rispetto a quelli giudiziari-processuali? Non è in grado la politica di capire autonomamente che determinati comportamenti sono socialmente e moralmente scorretti al di là di ogni giudizio della magistratura? Con la consequenziale necessità di trarne le debite conseguenze! Se si ragionasse in quest’ottica forse anche la crescente disillusione dei cittadini nei confronti dei politici segnerebbe un’inversione di tendenza.