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L’ossessione dell’Ungheria per i rifugiati: referendum contro le quote europee

Migranti al confine con l'Ungheria, 23 Settembre 2015. ANSA/ US/ OXFAM +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Un referendum per respingere il piano Ue di ricollocazione dei rifugiati. È questa l’ultima scelta del governo ungherese, che ha fatto della crisi uno dei suoi cavalli di battaglia nello scontro con Bruxelles. Dopo il via libera della Corte di Giustizia Suprema, anche il Parlamento ungherese ha approvato, con 136 voti favorevoli su 199, la proposta di far votare ai cittadini un referendum anti-rifugiati. La consultazione, che si dovrebbe tenere il prossimo autunno, verterà sulla legittimità del programma europeo di spartizione di quote di profughi tra Paesi membri. Lo scorso settembre Budapest era già parte del quartetto – insieme a Repubblica Ceca, Romana e Slovacchia – ad aver fortemente criticato e respinto l’accordo. «Siete d’accordo, anche senza l’autorizzazione del Parlamento nazionale, ad accogliere quote di cittadini stranieri ricollocati dall’Unione europea?» è il quesito che verrà posto ai cittadini ungheresi.

A favore del «No» è il Primo Ministro, Viktor Orban, principale proponente dell’iniziativa e strenuo difensore dei confini nazionali. «Ho deciso di tenere il referendum perché l’Unione Europea non ha il diritto di ridisegnare l’identità culturale dell’Europa» – ha tuonato a febbraio Orban, a capo di un governo di destra dalle forti tinte nazionaliste e autoritarie – «Non possiamo adottare, all’insaputa dei cittadini e contro il loro volere, decisioni che cambieranno le loro vite e quelle delle generazioni future».

Per diventare vincolante il referendum ha bisogno di un quorum del 50% + 1 dei votanti. Ma la vittoria del «No» è comunque molto probabile. Innanzitutto per l’appoggio che danno al referendum il governo e il partito di maggioranza relativa, la conservatrice Fidesz, che nell’ultima tornata elettorale del 2014 ha ottenuto il 44% delle preferenze. Anche i sondaggi incoraggiano la linea governativa: secondo l’agenzia di stampa Szazadvég, ben l’84% degli ungheresi sarebbe favorevole al «No», mentre solo il 10% voterebbe «Si». Ma la cosa più incredibile è quel 57% di elettorato che si dichiara «di sinistra» schierato contro il piano europeo.

E se da una parte l’Europa si sta lacerando al suo interno e rischia la sua stessa sopravvivenza per la crisi dei migranti, dall’altra i 28 paesi membri hanno firmato all’unanimità un accordo con la Turchia, che prevede il respingimento dei migranti nel caso in cui non facciano richiesta di asilo in Grecia prima di sbarcare in territorio europeo. Ankara ha chiesto in cambio della “gestione dei flussi” la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi che entrano in Unione Europea e aiuti per sei miliardi di euro.

La denuncia di Human Rights Watch sulle violenze alla frontiere turco-siriana

Nel frattempo aumentano le denunce delle organizzazioni internazionali sul modo in cui l’Europa tratta i rifugiati. In questo caso la critica è a A lanciare l’ultimo allarme è Human Rights Watch: secondo cui le autorità turche «sostengono di accogliere i rifugiati siriani a braccia aperte. Ma le guardie di frontiera tentano di respingere con la forza i profughi, talvolta uccidendoli».
Human Rights Watch ha intervistato vittime e testimoni coinvolti in sette incidenti tra la prima settimana di marzo e il 17 aprile. Dai racconti emerge una realtà inquietante. “Siamo scappati da Aleppo dopo i bombardamenti”, racconta Abdullah, uno degli intervistati – “Le guardie di confine al valico non ci lasciavano passare, ci siamo rivolti a un contrabbandiere che ci ha portati più vicini, ma ci hanno sparato addosso una serie di colpi». Con i nostri corpi abbiamo protetto bambini, ma mia sorella e mio cugino di fianco a me sono stati colpiti, e sono morti.”
L’organizzazione aveva già denunciato le autorità di Ankara il mese scorso, accusandole di aver ucciso 5 persone che stavano oltrepassando la frontiera, tra cui un ragazzo di 15 anni, e di averne ferito altre 14 (tra cui tre bambini, di età compresa tra 3, 5, e 9), di cui 6 in maniera grave.
Il 4 maggio Human Rights Watch ha inviato una lettera con questi risultati al ministro degli interni turco chiedendo alla Turchia di indagare sulle accuse e di fermare l’uso della forza, invitandola alla riapertura effettiva dei confini.
Inoltre, i primi effetti dell’accordo Ue – Turchia (contrario secondo gli esperti al diritto internazionale – Ankara non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra mentre tutti i paesi Europei l’hanno fatto) cominciano a sentirsi: gli arrivi dei profughi in Grecia sono drasticamente diminuiti da inizio anno (67mila a gennaio, 57mila a febbraio, 26mila a marzo e solo 3500 ad aprile). Inoltre oltre 400 migranti sono stati riammessi in Turchia.

Il video di HRW con le testimonianze dei rifugiati siriani  (Attenzione, contiene immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità)

«Ma il mondo, non era di tutti?». Paolo Nori al festival Sabir

«Scrivo questa nota la notte del 7 marzo 2016, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Georges Perec, che subito dopo la seconda guerra mondiale era un bambino senza ricordi d’infanzia». Inizia così la prefazione di Paolo Nori all’opera collettiva promossa dall’Arci in uscita per settembre da Marcos y Marcos con una domanda che già nel titolo Ma il mondo, non era di tutti? è un urlo contro la violazione costante dei diritti umani. Perec – i genitori persi da piccolo, la guerra, “un’assenza di storia” – «è cresciuto in un mondo, l’Europa occidentale del dopoguerra, che a me sembra l’abbia protetto dalla sua solitudine e abbia avuto interesse a tramandare la sua storia», scrive Nori. E oggi? «Una della domande che credo salteranno fuori da questa antologia è: il nostro mondo, è in grado di proteggere qualcuno dalla sua solitudine? Gli interessa tramandare le storie dei Perec di oggi?», scrive sempre nella prefazione. Tutta «da comporre» l’antologia che sarà presentata da Paolo Nori  venerdì 13 maggio a Pozzallo per Sabir, il festival delle culture diffuse del Mediterraneo (qui il programma). Partecipano alla “composizione” dell’antologia autori molto diversi tra di loro, Emmanuela Carbè, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Antonio Pascale e Christian Raimo, con incursioni di disegnatori come Gipi e Giuseppe Palumbo.

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Paolo Nori, qual è la forza (o il senso?) della parola oggi di fronte alla forza della ragion di stato e della paura?
Qual è la forza della parola è una bella domanda. In letteratura, io ho l’impressione che la letteratura abbia una forza che equivale alla forza di gravità. Ci si può opporre alla forza di gravità? Io non ci riesco.
Nella prefazione parli di Georges Perec, della sua vita e dell’“assenza di storia”. Oggi vale per i migranti, per gli stranieri, ma vale anche per noi, persi in un presente di solitudine?
Monica Massari, in un saggio del 2013, riporta la testimonianza di un ragazzo ghanese, che ha dovuto attraversare il deserto per arrivare in Libia, e che è stato abbandonato dalla guida che aveva pagato, e che ha dovuto, coi suoi compagni di viaggio, proseguire da solo, a lume di naso, orientandosi con i cadaveri, se c’era un cadavere voleva dire che c’era una strada, e a un certo punto, di notte, avevan visto la luna e avevan pensato che, siccome c’era una luce, fossero delle case, e avevan seguito la luce della luna. Mi sembra che, al confronto, il nostro presente di solitudine sia abbastanza desiderabile.
Gli uomini nascono liberi e uguali, ricordi citando la Dichiarazione universale del 1948. E parli anche di fraternità. Ti faccio la domanda che c’è anche nella prefazione: ha ancora senso tutto questo in Italia?
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo dice che: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità». Quando leggo queste cose mi viene in mente quel che diceva uno scrittore russo che si chiama Aleksandr Zinov’ev in un libro appena ripubblicato da Adelphi, Cime abissali, quando diceva che tutto quello che ufficiale, è falso. Io sono di Parma, e a Parma si dice «essere falsi come una lapide». Ecco questa dichiarazione dei diritti dell’uomo è come se fosse scolpita nel marmo, ma è vera? L’idea che siamo stati così civili da aver costruito un mondo dove tutti sono uguali è un’idea vera? L’antologia credo si muoverà in questa direzione.
Hai scritto il Manuale del giornalismo disinformato. Cosa significa?
Il Manuale pratico di giornalismo disinformato è un romanzo, e io non sono capace di spiegare, in due righe, cosa significa un romanzo. Né credo che la letteratura serva per informare. Per informare ci sono altri strumenti, la letteratura mi sembra faccia un giro diverso, secondo Šklovskij rende il mondo più mondo, serve per far sì che la pietra sia pietra, e una cosa simile la dice Agamben, quando dice che la letteratura (o l’arte) non serve per rendere visibile l’invisibile ma per rendere visibile il visibile.
E quando penso a questa cosa mi viene in mente l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo Agamben e Šklovskij esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto Agamben, lo ripeto, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile e questa cosa, con l’Emilia, cioè con la realtà che trovo sotto casa mia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri.
E allora raccontaci cosa hai provato vedendo le immagini di Ghirri.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini campestri che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo. Lui, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.
Ecco, se noi andassimo, con la nostra antologia, in quella direzione lì in cui è andato Ghirri con le sue fotografie, mi sembra che faremmo una bella cosa.

L’11 maggio 1904 nasceva l’eccentrico e geniale Salvador Dalì

Roxanne Lowit - Salvador Dalì Janette Dalì and recipient of a kiss Ny 1979 - 40x50cm - ed.20. Le celebrità e il glamour che aleggia intorno alla loro vita, soprattutto quella notturna, catturato all'improvviso dalla macchina fotografica di Roxanne Lowit. Ecco il cuore della mostra Be Fabulous, inaugurata il 16 giugno 2014 alla Aria Art Gallery di Firenze grazie ad una collaborazione con la Steven Kasher Gallery di New York. Si tratta di una mini-retrospettiva dedicata alla nota fotografa in cui sono esposte 40 fotografie tra opere vintage, moderne ed a colori in grande scala. La curatrice della mostra, Federica Cirri, documenta così la nascita del fenomeno delle celebrità negli ultimi quarant'anni. Con un archivio di oltre 200.000 negativi e diapositive a colori scattate durante centinaia di eventi di moda da Parigi, New York, Milano e Londra, Roxanne Lowit ha presenziato alle migliori feste e sfilate di moda. ANSA/ UFFICIO STAMPA/ Copyright Roxanne Lowit, courtesy Steven Kasher Gallery, New York/ Aria Art Gallery, Florence. ++ HO - NO ARCHIVES - NO SALES - EDITORIAL USE ONLY ++

L’11 maggio, nel 1904 a Figueres in Catalogna nasceva Salvador Dalí stravagante e indiscusso genio surrealista.
Salvador Domènec Felip Jacint Dalí i Domènech, marchese di Púbol è stato scrittore, pittore, scenografo, regista, scultore, fotografo e designer. Viveur dal look eccentrico era un perfetto animale da party e da salotto e insieme alla moglie Gala fu una delle personalità più influenti nel mondo dell’arte dello scorso secolo.

Oggi proprio a Figueres sorge un teatro-museo per ricordare il grande maestro spagnolo, all’interno del quale sono racchiusi e rappresentati tutti i simboli che negli anni erano andati a costruire l’immaginario e l’alfabeto surrealista di Dalì: enormi uova, figure deformate, orologi liquefatti, occhi e lande desolate, addirittura bocche di donna (nello specifico della diva Mae West) che diventano divani rossi e telefoni aragosta a testimonianza del suo amore per il design e per l’arredamento.

Molti esponenti del mondo della cultura espressero scarsa simpatia nei confronti del genio catalano, probabilmente proprio a causa dei suoi modi costruiti e spocchiosi.

George Orwell, autore del fantascientifico 1984, di lui disse: «Bisognerebbe essere capaci di tenere presente che Dalí è contemporaneamente un grande artista ed un disgustoso essere umano. Una cosa non esclude l’altra né, in alcun modo, la influenza».
Ma, a quanto pare, nessun commento e nessuna critica sembrò mai intaccare l’autostima di Dalì:

«Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalí!».

Così il Parlamento approva le unioni civili

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 23-01-2016 - Roma - Italia Cronaca Manifestazione per i diritti civili #svegliatiitalia a sostegno delle unioni civili e gay al Pantheon Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 23-01-2016 - Rome - Italy Demonstration for the same sex rights and for the civil relationships

Gli alfaniani che votano disciplinati, sia la fiducia che la legge, (solo Binetti e Pagano, annunciano di votare no) e devono mostrarsi anche contenti, orgogliosi, come fa Fabrizio Cicchitto che dice ad Alfio Marchini di stare tranquillo («Se divento sindaco non celebrerò le unioni», ha detto il candidato di Forza Italia): «L’amico Marchini può stare tranquillo», dice il deputato alfaniano, «tra la legge sulle unioni civili e il matrimonio c’è una netta distinzione, che infatti sta determinando l’insoddisfazione di una parte di coloro che volevano una legge diversa, a partire dalla stepchild adoption».

Le destre che ripetono i loro discorsi «in difesa della famiglia tradizionale». In questo clima arriva, scontata, l’approvazione della legge sulle unioni civili. Prima con il voto sulla fiducia (369 i sì, verdiniani compresi) e poi con il voto sul testo (372 sì, 51 no, 99 astenuti) quando alla maggioranza si aggiungono anche i voti di Sinistra Italiana, pur critica sulla legge, quelli di qualche liberale di destra, come Daniele Capezzone, o dell’ex 5 stelle Mara Mucci, oggi nel gruppo misto e impegnata con i Radicali.

Per Matteo Renzi «è un giorno di festa». E può dirlo a ragione, il premier, anche perché pure da chi critica la legge, e la definisce troppo arretrata, arrivano dunque i voti e i complimenti. Non vota la fiducia ma vota la legge, come detto, Sinistra Italiana, che pure indica la legge Cirinnà come portatrice di «un’insopportabile discriminazione». Ed è dal senatore dem Stefano Lo Giudice, padre omosessuale ricorso alla gestazione per altri, che – favorevole ai matrimoni egualitari e molto insoddisfatto per lo stralcio dell’adozione del figlio del partner – parla comunque di un «gran giorno». Anche se «in fin dei conti».

Tiene ferma la critica radicale solo Possibile di Giuseppe Civati, che non vota contro ma non vota certo a favore di una legge che – scrive il costituzionalista Andrea Pertici sul blog del partito – «raggira ancora una volta i cittadini. Darà loro l’impressione – che sarà certamente agevolata dalla circolazione di notizie approssimative – che finalmente abbiamo una legge che tutela i diritti di tutte le coppie e di tutte le famiglie», mentre, «le coppie composte da persone dello stesso sesso – e solo loro (non i loro figli) – acquisteranno alcuni diritti, questo è vero, ma lo faranno dovendo accettare una situazione di minorità. Di discriminazione. Ghettizzati nel recinto “per omosessuali” delle coppie di fatto mentre il grande spazio del matrimonio rimane privilegio degli eterosessuali».

Come Possibile, anche i 5 stelle non votano la legge ma per altre ragioni. Adducono ragioni “tecniche” i 5 stelle, che non condividono ad esempio il fatto che la legge stabilisca – non affidandosi più alla sola giurisprudenza – che anche per le coppie di fatto un giudice possa riconoscere degli alimenti in casi di stato di bisogno di uno dei due ex conviventi. Quando i 5 stelle hanno concluso la loro dichiarazione di voto, un boato è arrivato dai banchi del Pd, che vede così confermato che nessuna altra legge era possibile dall’intesa con i 5 stelle, che sarebbero in realtà in difficoltà sui diritti civili.

È lo scorno degli ultra cattolici, però, il bello della giornata. Con il leader del Family Day, Massimo Gandolfini, che assicura che si ricorderanno, le associazioni del Circo Massimo, della legge sulle unioni quando ci sarà il referendum costituzionale. «Non è una vendetta», dice a Repubblica, ma così suona. Sono già nel cassetto, poi, i moduli per un referendum abrogativo e la richiesta di occupazione di suolo pubblico per una nuova manifestazione da convocare se il parlamento proverà a mettere mano alla legge sulle adozioni.

Al Salone del libro si parla di nuovi desaparecidos. Dal Messico all’Egitto, all’Iran

An Iranian woman walks past a mural in a sidewalk in downtown Tehran, Iran, Saturday, April 30, 2016. (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Si è aperto nel segno della difesa dei diritti umani e del diritto alla conoscenza e alla libera ricerca il Salone del libro di Torino  (1216 maggio) con un convegno internazionale al campus Einaudi dedicato ai Mukhtafun ai nuovi desaparecidos in Egitto, come in Siria e molti altri Paesi non democratici. Sono intellettuali, scrittori, attivisti politici che i regimi fanno “sparire”, come drammaticamente racconta il caso del giovane ricercatore Giulio Regeni, assassinato dopo lunghe torture. Il suo volto ora campeggia sui muri del Cairo dopo che l’artista egiziano El Teneen  l’ha dipinto in un’opera di street art, con  accanto la scritta “uno di noi”.

Migliaia di desaparecidos si contano oggi in Messico,  dove  fare il giornalista è diventato un mestiere in cui si rischia la vita e spesso si muore, come denuncia Paco Ignacio Taibo II che al Lingotto il 14 maggio presenta il suo primo libro, A quattro mani, pubblicato in Italia con la La Nuova Frontiera,  la casa editrice romana che  ha appena pubblicato Il violento mestiere di scrivere di Rodolfo Walsh , un volume in cui sono raccolti i profondi e lucidi articoli in cui  dal 1953 al 1977  lo scrittore e giornalista argentino desaparecido denunciava le condizioni sociali e politiche che portarono al golpe e alla dittatura argentina.

In Iran, non solo sotto il regime teaocratico di Khomeini, e ancora sotto Ahmadinejad, operavano dei veri e propri squadroni della morte che, in accordo con lo Stato, facevano fuori gli intellettuali dissidenti e che lottavano per una legge più laica e giusta. Come racconta il Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi nel libro Finché non saremo liberi e che incontrerà il pubblico del Salone il 14 maggio.

L’anno scorso la proposta di fare dell’Arabia Saudita il Paese ospite, scatenò violente polemiche.  La scrittrice Paola Caridi , autrice di Arabi invisibili, fu tra le voci critiche più incisive e la direzione del Salone ha accolto molte delle sue obiezioni, tanto che oggi  anticipa il Salone con un convegno sui nuovi desaparecidos e ha  collaborato all’apertura di numerose finestre sulla complessa galassia del mondo arabo, organizzando incontri al Lingotto con autori,  che vanno sotto il titolo “Visioni”.

 Il tema del fondamentalismo  religioso e del terrorismo, dopo gli attentati in Francia e non solo, sono un tema che ricorre in molti incontri con gli autori. A cominciare da quello con Boualem Sansal che presenta  il suo visionario romanzo  2084. La fine del mondo (Neri Pozza,  a Torino  il 13 maggio) in cui immagina il mondo dominato da una teocrazia islamica. Decisamente meno catastrofista, ma con l’urgenza di comprendere come un ragazzo possa accettare di morire come kamikaze, il marocchino Mahi Binebine ne Il Salto (Rizzoli 14 maggio), rievoca gli attentati di Casablanca del 2oo3, mentre Saleem Haddad, racconta l’oppressione religiosa e politica in un Paese arabo post rivoluzione nel libro Ultimo giorno al Guapa (Edizioni e/o, 13 maggio). E’ una lettera aperta ai terroristi  il libro Non ci avrete mai (Rizzoli) della musulmana italiana Chaimaa Fatihi, 23 anni, delegata nazionale dell’Associazione giovani musulmani d’Italia al Forum nazionale giovani.  Mentre un maestro del noir come Yasmina Kadra, pseudonimo dello scrittore Mohamed Moulessehoul, presenta il suo romanzo più complesso e maturo, L’attentato (Sellerio). Mentre il grande poeta siriano Adonis parla del suo coraggioso pamphlet Violenza e Islam (Guanda).

"GIULIO era uno di noi ed è stato ucciso come veniamo uccisi noi". Il tratto elegante della grafia araba non ammorbidisce parole pesanti come pietre. El Teneen, uno dei più importanti writers egiziani le ha vergate in rosso, perché in nessun modo possano passare inosservate. "Era uno degli hashtag più popolari in Egitto quando si è saputo della sua morte: mi è sembrato giusto disegnarlo così, senza aggiungere troppo. Perché questo è quello che la gente pensa".
“GIULIO era uno di noi ed è stato ucciso come veniamo uccisi noi”. Il tratto elegante della grafia araba non ammorbidisce parole pesanti come pietre. El Teneen, uno dei più importanti writers egiziani le ha vergate in rosso, perché in nessun modo possano passare inosservate. “Era uno degli hashtag più popolari in Egitto quando si è saputo della sua morte: mi è sembrato giusto disegnarlo così, senza aggiungere troppo. Perché questo è quello che la gente pensa”.

Le donne nelle società arabe e musulmane è un altro filo rosso che attraversa l’edizione 2016  del Salone del libro. Ha scritto un romanzo contro i matrimoni combinati Tahar Ben Jelloun che esordisce nella collana La nave di Teseo con il romanzo Matrimonio di piacere. Il salone è entrato in medias res con un intenso dialogo fra  Roberta Mazzanti, Lucia Sorbera  Francesca Paci sull’eredità lasciata da due grandi autrici scomparse l’anno scorso. Parliamo di un importante approfondimento sul lavoro di due studiose e scrittrici come  l’algerina Assia Djebar e la marocchina Fatema Mernissi che ha smascherato l’esotismo dello sguardo occidentale e l’estetizzazione di una dimensione durissima come quella dell’Harem. L’algerina Djebar è stata in prima fila nel fronte di liberazione dell’Algeria e ha scritto romanzi e raccolte di racconti in francese, ma ricchi di echi arabi e berberi.  La sua opera letteraria ha ispirato molte battaglie per i diritti delle donne nel mondo arabo e ha fatto crescere una nuova generazione di femministe laiche. Con i suoi studi sul Corano la marocchina Mernissi, che non era religiosa, ha permesso alle praticanti musulmani di rifiutare come non corrette le interpretazioni del Corano più misogine propagandate dai fondamentalisti.

Un altro tema forte è quello di migranti e dei loro diritti negati in Europa. Il ventisettenne Alì Ehsani è  fuggito dall’Afghanistan insieme a suo fratello, dopo aver perso i genitori quando aveva otto anni. Rievoca il suo doloroso viaggio animato dalla speranza di un futuro migliore in  Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli).  Della tragedia della guerra in esilio e dell’esilio forzato a cui è stata costretta la sua famiglia scrive l’attivista per i diritti umani Shady Hamady nel toccante Esilio dalla Siria» (Add), che segue il suo fortunato esordio La felicità araba.  Immagina il viaggio di un giovane che è cresciuto in un ambiente religioso fondamentalista il premio Strega Giuseppe Catozzella ne Il grande futuro (Feltrinelli), dopo il grande successo di Non chiedermi perché non ho paura, in cui raccontava la storia della giovane atleta somala Samia che sognava di raggiungere l’Italia.

 Su Left in edicola dal 14 maggio approfondimenti con interviste a talenti emergenti e voci affermate del panorama della letteratura araba

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Sanders ha perso la nomination, ma continua a vincere primarie

Democratic presidential candidate, Sen. Bernie Sanders, I-Vt., is cheered by supporters supporters during a campaign rally at the Lexington Convention Center, Wednesday, May 4, 2016, in Lexington Ky. (AP Photo/Timothy D. Easley)

C’è una parte dell’elettorato democratico a cui Hillary Clinton proprio non piace. Quella parte, consistente, continua a votare Bernie Sanders nonostante questi non abbia quasi nessuna possibilità di arrivare alla nomination. È successo di nuovo in West Virginia (e in  Indiana la scorsa settimana). Bernie ha preso il 51,4% dei voti contro il 36% di Hillary, ricordando alla ex senatrice di New York quanto difficile resti per lei raccogliere i consensi dei lavoratori bianchi maschi: Indiana e West Virginia, come un’altra parte consistente degli Stati vinti dal senatore del Vermont hanno quella come componente cruciale dell’elettorato che partecipa alle primarie.

La sconfitta per Clinton è l’ennesimo campanello d’allarme per una campagna che fatica a trovare un’identità forte e che ha la fortuna enorme di trovarsi di fronte un partito repubblicano che ha scelto un candidato outsider che non piace a una parte importante della base del Grand Old Party. I sondaggi nazionali in una sfida Clinton-Trump, assegnano infatti la vittoria a Hillary con un certo margine – che in alcuni Stati sarebbe più grande se a correre contro il miliardario newyorchese fosse Sanders.

Il candidato della sinistra democratica ha ribadito che la sua corsa prosegue e che lotterà fino all’ultimo voto, ma a meno di una improbabile vittoria in California, dove il voto delle minoranze, favorevole a Clinton, pesa molto, non ha speranze di ottenere la nomination. La sua corsa è comunque destinata a dare altri mal di pancia a Clinton: non solo continua a perdere nonostante sia la nominata de facto (succedeva anche a Obama, ma contro di lei, ma è un fenomeno raro), ma le prossime primarie, per la demografia e composizione sociale favoriscono Bernie. La campagna del senatore del Vermont continua però a produrre effetti sulle posizioni della sua rivale: ieri Hillary ha presentato una proposta di espansione di Medicare, l’assicurazione medica pubblica per gli anziani over65, un programma che resta molto popolare tra tutti gli americani. Per contrattaccare sull’idea di Sanders di creare un sistema sanitario in stile europeo, Clinton propone di consentire alle persone che hanno passato i 50 di potersi iscrivere al sistema pubblico – ovvero pagando quello, che è più equo e meno caro, invece dell’assicurazione privata. È l’ennesimo spostamento a sinistra per Hillary (che a dire il vero la riforma sanitaria la propone da quando Bill faceva il presidente).

C’è però un aspetto interessante della vittoria di Bernie in West Virginia, Stato ex minerario, montanaro, povero, bianco e piuttosto conservatore. Il 41% dei partecipanti alle primarie ritiene che il prossimo presidente debba essere meno liberal (ovvero meno di sinistra) di Obama, quello stesso 41% ha votato al 51% per Bernie. Segnale che in senatore raccoglie voti anche tra coloro che non ne sposano l’ideologia ma che preferiscono lui a Clinton perché: a) lei proprio non piace e non si fidano; b) è una donna. Gli elettori di sinistra hanno votato in maggioranza Sanders, ma questa non è una sorpresa.

L’altro elemento interessante degli exit polls è che poco meno di un terzo circa degli elettori che hanno scelto Sanders dice che nella sfida tra lui e Trump voterebbe quest’ultimo. Un segnale di come il successo del senatore sia anche dovuto al fatto di essere outsider e di usare toni fuori dagli schemi come il miliardario. Quest’ultimo, però, su certi elettori ha più presa perché le spara più forti e più improbabili.

 

Cosa pensano i milanesi in vista dell’elezione del nuovo sindaco il 5 giugno

Siamo andati nelle principali città italiane al voto il 5 giugno per sapere cosa ne pensano i cittadini e quali sono i problemi che secondo loro dovrà risolvere il nuovo sindaco. In questo video l’opinione dei milanesi sulla loro Milano.

Servizio di Giorgia Furlan
Riprese di Felice V. Bagnato

Jobs act, le affinità elettive tra Francia e Italia

Tale e quale al Jobs act. La riforma del lavoro in Francia verrà imposta dal governo con un decreto che scavalca il Parlamento, aggirando così l’opposizione e i malumori di una parte del partito socialista. L’esecutivo francese invoca l’articolo 49 della costituzione che prevede l’approvazione della riforma per decreto. La decisione, è stata annunciata dal premier Manuel Valls al Consiglio dei ministri straordinario del 10 maggio: «Je le ferai tout à l’heure», ha detto  davanti ai parlamentari francesi il premier. Un colpo di scena che arriva dopo settimane di proteste.

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Parigi, 29 aprile. Mezzo milione di manifestanti protesta contro il progetto di legge El Khomri

«Chi può sinceramente temere una legge che dà più spazio e risorse per i sindacati? Una legge che migliora la capacità di anticipare le nostre imprese? Una legge che rafforza la protezione sociale dei nostri cittadini?», sono le parole del ministro del Lavoro francese Myriam El Khomri. E il progetto di legge che porta il suo nome è uno dei nodi centrali del governo socialista e del presidente François Hollande, che si è sbilanciato, vincolando la sua corsa per la rielezione all’abbassamento del tasso di disoccupazione di almeno il 10%. Come Renzi, Hollande spera che la riforma possa incoraggiare le imprese ad assumere.

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9 ottobre 2014. Il premier Renzi e il ministro del Lavoro Poletti al Senato

In Italia, intanto, il Jobs act inizia a mostrare le sue crepe: 60mila aziende hanno usufruito indebitamente di 600 milioni di euro in sgravi contributivi e dovranno restituire le cifre percepite. Lo ha reso noto la direttrice delle entrate dell’Inps, Gabriella Di Michele. In altre parole, le 60mila aziende in questione hanno fatto carte false per accaparrarsi i bonus stanziati da Renzi per il 2015 (nella Legge di Stabilità del 2015 il governo ha stanziato 11,8 miliardi per il triennio 2015-2017 in sgravi contributivi alle imprese). Come? Lo aveva denunciato da subito la Cgil Emilia Romagna, che qualche azienda avrebbe licenziato alcuni lavoratori per riassumerli con il contratto a tutele crescenti e incassare lo sgravio previsto dal governo: 8.060 euro annui a testa, per tre anni. I settori interessati sono quello agricolo, edilizio, il lavoro domestico e le piccole aziende di servizi. E sono 100mila i lavoratori, su un milione e mezzo di assunti nel 2015, che non hanno diritto all’esonero dei contributi previdenziali previsto dal governo.

La sproporzione tra le risorse pubbliche impegnate e gli scarsi effetti prodotti dagli sgravi a pioggia è notevole: dopo il calo di febbraio (-0,4 per cento, ovvero -87 mila unità), a marzo la stima degli occupati è cresciuta dello 0,4 per cento (+90mila occupati), tornando ai livelli di gennaio. Sull’anno, la variazione dei nuovi occupati è quasi nulla (+0,1).

Ultimo appunto. Quando saranno terminati gli sgravi e con essi, la convenienza delle assunzioni, le imprese potranno licenziare i neo assunti con il Jobs act, come previsto dalla legge (che non c’è più, ovvero l’articolo 18). «A pensar male si fa peccato, ma si indovina quasi sempre», è una delle massime forse più azzeccate dell’italianissimo presidente Andreotti.

C’è una palestra per la stagione estiva: il referendum

Chissà che forma ha il muscolo della politica. Se davvero non l’abbiamo completamente perso, ingoiato dal fegato e dalla pancia, masticato da una campagna elettorale che per ora galleggia a Roma tra errori da azzeccagarbugli (Sinistra Italiana, come fu per Sel con Claudio Fava, un perseverare diabolico) e Marchini che dice che non sposerà i gay; a Milano dove i manager si sfidano a colpi di dichiarazioni dei redditi aggiustate; a Napoli con la Valente che inorridisce per le parolacce di De Magistris e intanto premia con un posto in lista gli inquinatori delle sue primarie e poi dappertutto i soliti cartelloni sui campi rom, la sicurezza per tutti e il noioso neofascismo alla carbonara. Chissà se davvero c’è rimasta ancora qualche antenna funzionante, dico, per la politica.

Ogni tanto provo a immaginare cosa succederebbe se da domani, per decreto, non si potesse più riportare su giornali e web le sparate della politica. Una sorta di sciopero della superficialità: cosa rimarrebbe di queste ultime settimane? Come si metterebbe con l’astensionismo? Di cosa vivrebbero interi pezzi di partiti che prosperano sulle dichiarazioni acchiappaclic che ci compaiono nei box riservati ai gattini e agli ops di mutande intraviste in televisione?

Ecco perché il referendum è un’occasione sana, gratuita e con risultati certi: perché se non si cade nella tentazione di farne una battaglia pro o contro Renzi (che è quello che Renzi vorrebbe) ci regala mesi per riflettere sui delicati equilibri che stanno tra la rappresentanza democratica e i meccanismi di governo; ci permette di discutere del peso reale dei poteri dell’esecutivo e del Parlamento; ci costringe a riflettere su un superamento del bicameralismo perfetto con la delicatezza però di chi vuole preservare i criteri democratici di selezione dei rappresentanti; ci propone l’occasione di una rilettura (o forse di una prima lettura, per molti) di una Costituzione che è figlia di un Paese in bilico tra mestieranti del consenso, imbonitori e appassionati costruttori di diritti; ripropone la bellezza di scorgere nelle leggi le opportunità per cui sono state pensate e scritte e soprattutto rischia di rendere terribilmente pop il tornare alla politica.

È l’apertura gratuita della palestra di cittadinanza per tutta la stagione estiva, il referendum, una vacanza costituzionale e ri-costituente che rischia davvero di riportarci ai contenuti. E allora chissà che non torni ad allungarsi e tonificarsi anche il muscolo della politica, in qualsiasi angolo sia, per un Paese che impari a fare proposte, oltre che proteste. Pensa che estate indimenticabile.

Buon mercoledì.

Al via Cannes con Allen, Spielberg, Loach. E Pericle il nero di Mordini

L’11 maggio si alza il sipario del 69° Festival di Cannes che si concluderà il 22 maggio. In realtà sulla kermesse i riflettori sono già accesi da tempo, i chiaroscuri non mancano e qualche scintilla ha elettrizzato l’aria. Il gioco dei titoli papabili è andato avanti così per mesi, fino a quando il presidente Pierre Lescure e il direttore artistico Thierry Fremaux hanno dato l’annuncio ufficiale e si è capito che quest’anno non vi sarebbero stati film italiani in concorso. Il produttore Riccardo Tozzi ha detto che in concorso vanno solo i beniamini di Cannes ovvero Moretti, Garrone e Sorrentino; qualcuno ha alzato il patrio orgoglio, per lo stato di grazia del cinema nazionale, dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg robot, Perfetti sconosciuti e Veloce come il vento; qualcun altro, più pragmaticamente, ha sottolineato l’importanza delle relazioni e degli accordi commerciali. Non sono mancati, come sempre, giudizi perentori sulla mostra: troppo eccentrica, autoriale e terzomondista; troppo francese ( 4 titoli più alcune coproduzioni); troppo ritagliata sui gusti del direttore; troppo compiacente verso gli Usa; troppo glamour e glittering (l’anno scorso era il contrario); troppo colpevole di aver ignorato cinematografie importanti come quella cinese, messicana e araba; troppo conservatrice perché ignora il documentario; troppo esigua la presenza femminile nel concorso, anche se quest’anno le registe sono tre, mentre la rappresentanza generale è circa il 20 per cento.
Premesso che bisognerebbe indagare approfonditamente lo stato di salute del cinema nazionale, botteghino a parte, va detto che i selezionatori di Cannes da anni forgiano un festival, da cui emerge il miglior cinema europeo e internazionale. La giuria 2016, presieduta da George Miller, è indipendente, ed i film in gara certamente hanno il pregio così come è accaduto tante volte, si pensi a 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni del rumeno Mungiu, Palma nel 2007, o al complesso Lo zio Boonmee del tailandese Weerasethakul, Palma nel 2010), ma nella selezione i film, oltre a vantare propri meriti, possono offrire il valore aggiunto di co-produzioni importanti. Il cinema è un’industria. Tuttavia un film è prima di tutto un oggetto estetico, con un’identità, uno stile, una ricerca formale, quando non vuole essere mero passatempo domenicale o narcotizzante.  Il film è ricerca, pensiero visivo che produce senso, emozioni, suscita interrogativi. È lo sguardo di un regista, il mondo che intercetta e i suoi conflitti meno evidenti, le pieghe della storia, il movimento segreto di un personaggio. E questo Cannes continua a proporlo. Non c’è un sentimento anti-italiano, anche se il riferimento di Fremaux all’Italia nello splendido manifesto di quest’anno – Villa Malaparte nel film Le mépris di Godard – sa di ironico contentino. Nella sezione Un certain regard sarà presentato il film di Stefano Mordini, Pericle il nero, protagonista Scamarcio, tratto dal libro di Ferrandino. Ambientato nel mondo della camorra, con la sua intrigante geografia espansa dal Sud dell’Italia al Belgio fino a Calais, ha tutti i numeri di un polar melvilliano elegante e rigoroso. La Quinzaine des Réalisateurs, manifestazione parallela diretta da Édouard Waintrop, antagonista del concorso ufficiale propone tra gli altri i film di Virzì (La pazza gioia), Giovannesi (Fiore) e Bellocchio (Fai bei sogni).

Prendiamoci il buono dell’Europa unita, augurandoci che nessuno alzi muri, pensando, fuori da provincialismi, che ci sia un cinema autonomo, sovranazionale, interculturale, denso, libero gioco dell’immaginazione, che aspiri all’universale. Nelle diverse sezioni, Cannes propone registi/e agli inizi e altri autorevoli (Loach, i Dardenne, Jarmush, Assayas ecc). Alcuni vantano una indiscutibile coerenza intellettuale e rigore stilistico, ad altri è necessario lasciare spazio e dare visibilità. Va riconosciuta a Cannes la dedizione nell’allevare talenti e contribuire alla loro vita artistica. Si pensi cosa abbiano significato in questi anni di palude il riconoscimento ad Alice Rohrwacher per la sua opera seconda Le meraviglie (2014), l’affermazione di Matteo Garrone con Gomorra (2008) o di Paolo Sorrentino con Le conseguenze dell’amore (2004), film come Respiro (2002) di Emanuele Crialese o Miele ( 2013) di Valeria Golino o un attore come Elio Germano nel film di Lucchetti La nostra vita (2010). Momenti vitali. Quando si aprono nuovi scenari, in Italia come altrove, si tratta di non richiuderli, invocando il passato, discriminando l’autorialità, assestandosi su film di genere o puntando solo su essi, tarpando le ali a chi intraprende altre strade, magari più sperimentali o personali, si tratta di lasciare emergere nuove aspirazioni e nuovi sguardi. E il festival di Cannes questa funzione la assolve ( in foto la locandina del festival di Cannes che rende omaggio alla villa di Curzio Malaparte nel film di Godard).

Cannes si tinge di noir con il film di  Stefano Mordini

di Simona Maggiorelli

E’ un noir molto francese Pericle il nero, il film di Stefano Mordini, in corsa nella sezione Un certain regard (al festival di Cannes il 19 maggio). Protagonista Riccardo Scamarcio nel ruolo di un ragazzo  napoletano cresciuto in quartieri difficili, costretto  per sopravvivere  a «fare il culo alla gente». Tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Ferrandino che nel 1993 fu un caso editoriale in Francia (prima di essere pubblicato in Italia da Adelphi) il film scava nella personalità del protagonista, allontanandosi dagli stereotipi di genere. Perciò il regista ha scelto di non girare a Napoli, preferendo un contesto diverso, meno connotato. «Il libro di Ferrandino circola nel mondo del cinema fin da quando è uscito. In molti ne hanno subito il fascino» racconta il regista che è riuscito a tradurlo sul grande schermo, stimolato da Riccardo Scamarcio, che era già stato contattato da Abel Ferrara.

«Se avessimo ambientato il film a Napoli sarebbe venuto fuori un gangster e non è la mia cifra», commenta il regista, che ha esordito nel 2005 con Provincia meccanica e nel 2012 ha girato Acciaio dal romanzo di Silvia Avallone. «In Pericle il nero mi interessava lavorare sulla parte esistenziale del personaggio che nel libro è molto forte, nascosta fra riflessioni e un cut up di scrittura tipo beat generation. In realtà – spiega Mordini – il film non ha una vera storia, ma ha un livello emotivo alto. Migrando con la troupe all’estero, trovandoci tutti in situazioni nuove, ho pensato potesse essere un buon modo per mettere in primo piano l’interiorità del personaggio». Un tipo non facile, in una storia che appare violenta. «Ma se tu leggi il libro stando ad ascoltare il personaggio emerge che quella di Pericle è una violenza semmai subita, non esercitata» precisa il regista.

Il romanzo di Ferrandino, che è un autore di fumetti, permette a Stefano Mordini anche ricreare idealmente il lavoro fatto nel 2000 con il docufilm Paz’77. «Sono appassionato di quella forma di letteratura per immagini», ammette. «Manara mi ha detto che di solito si disegna a matita e poi si ricopiano i personaggi a china. E mi ha fatto notare che Andrea Pazienza invece di ricopiare il personaggio ne disegnava completamente un altro sopra, non lo rifiniva, lo trasformava, andava avanti e questo creava una vibrazione nelle sue creazioni. Mi sono ispirato a lui nel lavoro con gli attori. Abbiamo dato una sorta di definizione “a matita” di tutti i personaggi per poi in scena, pian piano ridisegnarli e creare un movimento fra quello che credevamo potessero essere e quello che invece sono diventati alla fine».

Questo articolo è comparso sul n. 19 di Left in edicola dal 7 maggio

 

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