Home Blog Pagina 1161

PD: I Paninari Democratici usciti da Drive In e che pisciano sul referendum

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi, commenta davanti ai giornalisti il risultato del referendum sulle trivelle, Roma, 17 aprile 2016. ANSA / GIUSEPPE LAMI

Il referendum, innanzitutto: hanno votato 15 milioni di persone. 15 milioni di persone che per tutto il giorno ieri sono stati coglionati da una banda di fascistelli 2.0 che sbavano arroganza sui social. Niente olio di ricino: la nuova frontiera è la presa per il culo di quattro dirigenti servetti (che senza Renzi sarebbero ad animare la pro loco del paesello) che si inventano un #ciaone per pisciare sui referendum con il Matteo nazionale che parla di “un fronte pro referendum che ha monopolizzato le tv” e di “politici che vivono su twitter”. Matteo Renzi, capite: quello che riesce a berlusconare in 140 caratteri, senza nemmeno il calcio, la gnocca e la mafia.

Riuscire ad offendere milioni di persone che nonostante una campagna diffamatoria sul referendum, sulla Repubblica e sulla Costituzione hanno deciso di recarsi alle urne nel Paese più impolitico d’Europa (qui dove la Merkel ha incoronato Monti e poi Napolitano ha incoronato Renzi) in una domenica d’aprile è l’ennesima conferma di ciò che continuo a credere da tempo: siamo di fronte alla più sciatta, insolente, paninara, bulla, arrogante, saccente seppur ignorante, insulsa e pericolosa classe dirigente politica degli ultimi anni. Questi di oggi sono personaggi da televisione anni ’80 cresciuti lobotomizzati da un ego problematico che li ha resi vendicativi e torvi: anche quando sorridono non riescono a nascondere il filo di bava che gli cola dagli angoli dalla bocca per l’ultima masturbatoria vittoria dell’Io. Sono adolescenziali nella gestione dei risultati, immaturi nelle reazioni e appaiono ogni giorno di più come una combriccola di inadeguati che per un colpo di culo si sono incastrati perfettamente convergenti agli interessi del loro tempo. Sono la fibbia patacca di una cintura che tiene le fila delle più vecchie corporazioni: Renzi e renzini sono la buccia geneticamente colorata di un frutto marcio e rimasticato; fingono di avere innestato una nuova generazione nella politica italiana ma sono i figli diretti dei mediocri della prima repubblica con la sola differenza che sanno cercare più in fretta l’aforisma giusto su google in base all’evenienza.

Matteo Renzi in televisione, alla chiusura dei seggi, è apparso con tutta la ferocia di chi per governare ha bisogno di nutrire il proprio risentimento: ha ribaltato la realtà, ha infilato una serie di falsità sparate con il suo solito mezzo sorriso e ha rovesciato il risultato come letame sugli avversari (Michele Emiliano in primis). Non sa, Renzi, che chi ha bisogno dello scontro per brillare è quanto di meno politico ci si possa augurare a capo del governo: l’unica mediazione di cui è capace è quella di parlare di lui al massimo di sponda smontando qualcun altro, buttando legna sul braciere del tifo come un patetico aizzatore del quartierino.

È servito questo referendum a mostrare la vera faccia del potere dominante di questo tempo. Un potere che domina semplicemente perché è malleabile da dominare per coloro che hanno bisogno di restare nascosti e che vive la politica come un’incessante serie di occasioni di rivalsa. Matteo Renzi è la chioccia di un assembramento di mocciosi che non si accorgono, cretini, di essere i migliori amici di coloro che vorrebbero (ma davvero?) combattere: hanno instillato un rancore politico peggiore di alcuni esegeti del Movimento 5 Stelle, rincuorano i conservatori meglio della migliore Democrazia Cristiana, hanno sdoganato la “solidarietà solo tra sodali” meglio di un clan, usano l’Italia come slogan come un partituncolo di destra, leccano le scarpe a confindustria meglio della Forza Italia dei tempi d’oro, continuano ad ammansire imbolsiti comunisti come una sezione rifondarola ma cattocomunista, piacciono ai cardinali ma non disdegnano le puttane, fingono di combattere il sistema che li tiene al guinzaglio meglio dei socialisti dei tempi d’oro, pisciano sul referendum, inaugurano la Salerno-Reggio Calabria, promettono (a chi serve che capisca) il ponte di Messina, fanno petting con i gay con una mezza legge tremolante che accontenta anche i parroci, twittano contro twitter, facebookano contro Facebook, vanno nei talk per dirsi contro i talk, trasformano il giornale di Gramsci in un bugiardino di partito, rendono il partito la lettiera del giglio magico e coglionano gli elettori come faceva quell’altro.

Sul referendum quindi sì, i maggiorenti del PD hanno vinto. Ma tecnicamente parlando a sentire l’effetto che fa viene il dubbio che, come si diceva a Drive In, abbiano pestato una merda.

Buon lunedì.

Energia senza idrocarburi? Così nacque in Spagna l’elefante bianco

Quando gli uomini si trovano in una situazione nuova, si adattano e cambiano. Ma fintanto che sperano che le cose rimangano come sono ne fanno oggetto di compromesso, e non ascoltano volentieri le idee nuove.
Jean Monnet, cittadino onorario d’Europa

Quando Javier Morales, poi vicesindaco dell’isola di El Hierro, partì dalle Isole Canarie verso la Spagna per chiedermi di contribuire alla progettazione di un’economia locale che un giorno fosse indipendente nell’approvvigionamento di acqua e carburante, non mi ci volle molto a proporre una strategia basata su energia eolica, idroelettrica e volani (sistemi di accumulo meccanico dell’energia). L’obiettivo era quello di fornire energia rinnovabile e acqua in abbondanza per stimolare l’agricoltura e le industrie locali. L’investimento totale per questo progetto è stato stimato, nel 1997 in via preliminare, intorno ai 67 milioni di euro. La reazione del mondo politico e finanziario fu sprezzante: se una piccola isola con 10.000 abitanti chiede tanti soldi, vuol dire che cerca di costruire un “elefante bianco”. Spesso trascuriamo quanto sia “ristretto” il nostro pensiero!
L’isola stava spendendo 8 milioni di euro l’anno solo per importare il carburante diesel necessario per generare energia elettrica. Le petroliere sversavano l’olio, l’impianto era rumoroso e inquinante.
È interessante notare come questo modello economico ed energetico fosse considerato “normale”, nonostante non servisse un economista per capire che la spesa totale in 10 anni si sarebbe aggirata intorno agli 80 milioni di euro. Senza dire che il denaro sarebbe finito tutto nelle tasche dei produttori di petrolio – nessuno dei quali ha sede in Spagna. Così ci siamo chiesti: «Come si può considerare normale l’importazione di combustibili fossili inquinanti mentre riconvertire la spesa verso fonti rinnovabili di energia che avrebbero mantenuto nell’isola le risorse, sarebbe “un elefante bianco”»?
L’idea di convertire El Hierro nella prima isola autosufficiente nella produzione di acqua e carburante è costata 86 milioni di euro, a cui si devono aggiungere altri 21 milioni dopo l’eruzione di un vulcano, che ha reso necessarie altre infrastrutture. L’impianto è stato inaugurato nel 2013. Ora gli isolani sono molto decisi a fare il passo successivo: riconvertire entro un decennio i 6mila veicoli che circolano sull’isola in mezzi elettrici.
Tuttavia, anche dopo il successo del progetto, gli avversari continuano a ripetere la loro accusa. È “un elefante bianco” anche spendere 150 milioni di euro nella conversione dei motori a combustibile fossile in motori elettrici. Di nuovo, con pazienza, abbiamo riformulato la stessa domanda: “Può un’isola permettersi di spendere ogni anno 12 milioni di euro per l’acquisto di carburante e gasolio?”. Denaro che viene “buttato fuori” dall’economia locale, mentre, come è avvenuto per gli 8 milioni che si spendevano per alimentare la centrale, si possono tenere nell’isola anche i 12 milioni di euro per il carburante dei veicoli circolanti?
Così l’isola di El Hierro ha deciso di creare una propria società di leasing di auto elettriche. Tutti i taxi e le auto a noleggio saranno elettrici da subito, e non appena ci saranno 500 veicoli elettrici sull’isola, l’azienda di leasing installerà una rete intelligente, che stabilizzerà la fornitura di micro-corrente quando la domanda lo richiede, e immagazzinerà l’energia in eccesso nelle batterie delle auto. Non appena i veicoli saranno 2.500, la combinazione di eolico, idroelettrico, volani e batterie offrirà un livello di efficienza che avrà come ulteriore effetto l’abbassamento del costo dell’acqua. Sì, l’acqua è vita e per secoli l’isola ha sofferto di una drammatica carenza di questa risorsa, ma provate a immaginare la svolta possibile grazie alle fonti rinnovabili e a una rete intelligente integrata da trasporti a emissione zero: il doppio dell’acqua alla metà del costo!
Troppo spesso ci dimentichiamo che l’energia è uno strumento, non un fine. Le nostre vite hanno bisogno di acqua, cibo, alloggio, salute, mobilità. E ognuna di queste attività della vita richiede energia. È fondamentale superare il dibattito su “rinnovabili o no”, o peggio “a favore o contro i combustibili fossili”, e spostare l’attenzione sulla nostra capacità di rispondere ai bisogni di base di tutti nelle nostre società. Se siamo pronti a mettere al centro il soddisfacimento dei bisogni, allora il dibattito sui combustibili fossili ritorna nelle sue giuste dimensioni.
È arrivato il tempo di andare oltre il “pro o contro”. Questo approccio divisivo in cui c’è il bene contro le forze del male, divide la società e le persone. Non possiamo trascurare il fatto che la comodità di combustibili fossili e la sua abbondanza ha permesso a molti e per decenni di vivere in ambienti con aria condizionata, senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni collaterali connessi con la combustione di tanto carbone, petrolio e gas naturale. Abbiamo bisogno di alzare il livello del confronto, e troveremo chi verrà a mostrarci le straordinarie opportunità di creare una economia locale fiorente utilizzando ciò che è disponibile in loco. Si tratta, dunque, di passare dal carburante facile e a basso costo, che però nasconde molte verità scomode e costi differiti, a fonti energetiche locali, che ci permetteranno di far crescere l’economia del territorio, usando risorse già disponibili e naturalmente in modo sostenibile.

Se in natura si tira un filo, ci si rende conto rapidamente che è collegato a tutto il resto.
John MuirQ

A Crotone il carcere dell’accoglienza

A vederlo da fuori ha tutti i tratti di una caserma. E in effetti il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto – una delle strutture che dovrebbero garantire l’inclusione dei richiedenti asilo cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato – sorge all’interno di un’ex base militare dell’Aeronautica, lungo la statale 106 che porta a Crotone. Emblema di un sistema ancora fondato sulla militarizzazione dell’accoglienza e sull’emergenza, il Cara di Sant’Anna secondo alcuni è una macchina perfetta, per altri perfetta solo per fare soldi, con il dubbio che finiscano anche nelle casse della ’ndrangheta. Occasione di business e raccolta di consenso politico attraverso gli appalti dei servizi che queste strutture dovrebbero garantire. Si consideri che la sola gara di appalto per la pulizia del Cara nel triennio 2009/2012 valeva ben 2 milioni di euro.

Stride l’esigenza di inclusione con le reti metalliche, muri e telecamere. I circa duemila ospiti, a fronte dei 729 posti disponibili, fuggiti dalla violenza e dalla persecuzione sono sorvegliati da una presenza massiccia di militari. Una macchina della “sicurezza” che guarda distrattamente dentro mentre sarebbe il caso di guardare anche a quello che accade fuori, se è vero quello su cui stanno indagando i magistrati della procura di Catanzaro: la ’ndrangheta e soprattutto il clan Arena, la potente ’ndrina locale – tenterebbero di accaparrarsi la gestione di alcuni servizi.

[divider] [/divider]

Leggi anche: La denuncia di Medici Senza Frontiere sulle condizioni dell’accoglienza per rifugiati in Italia

[divider] [/divider]

«Mi sembra difficile che la ’ndrangheta non si interessi al Cara. Quella struttura è una miniera di soldi», racconta Pino De Lucia, presidente della cooperativa Agorà Kroton, che dal 2002 gestisce un centro Sprar con una ventina di ospiti. «La ’ndrangheta chiede il pizzo ai piccoli commercianti, figuriamoci se non ambisce ad entrare nel business del Cara, che per la sua gestione richiede milioni di euro. Forse non direttamente, ma di sicuro è interessata agli appalti, alla gestione della manutenzione ordinaria e straordinaria, alle pulizie, mense e ristorazione». Il presidente della coop racconta anche di atti di intimidazione rivolti contro la sua persona e contro la struttura di accoglienza: «Minacce ne abbiamo sempre subite, sia personalmente che come cooperativa. Sulla porta di casa ho trovato più volte incise delle croci con la scritta “devi morire”, hanno bruciato i mezzi della cooperativa, abbiamo subito sabotaggi e intimidazioni, bombe esplose dentro i nostri uffici. Le indagini non hanno però mai portato a risultati concreti».

Poi c’è la vita dentro il Cara. E a raccontarcela è Achal, scappato dal Bangladesh perché ricattato da un gruppo di terroristi che minacciavano di ucciderlo e finito per diversi mesi al Sant’Anna. «È stata un’esperienza durissima», ricorda. «Dormivo in piccole stanze con altre 12 persone e avevamo un solo materasso peraltro senza rete. C’era  un solo bagno senza porta per 30 persone. I pasti che arrivavano non erano buoni e le porzioni erano troppo piccole». L’Italia è stato il suo primo Paese di approdo e qui è rimasto suo malgrado. Achal tradisce una profonda inquietudine mentre racconta la sua esperienza.


 

Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA

Nuit debout in Place de la République, la Francia ha smesso di annoiarsi

PARIS, FRANCE - APRIL 10: Members of Nuit Debout occupy on Place de la Republique (Republic Square) during a night protest against a new labor act about workers' rights in Paris, France on April 10, 2016. Nuit debout is a French social movement that emerged from opposition to the 2016 neoliberal labor reforms known as the "Loi Travail," and began on March 31, 2016. Rodrigo Avellaneda / Anadolu Agency

Parigi – Nuit debout (notte in piedi) è una piazza simbolica nel cuore di Parigi, la Place de la République, occupata giorno e notte dal 31 marzo da centinaia di cittadini che vegliano su teloni, pezzi di cartone, e sampietrini umidi. Cittadini risvegliati che scelgono di non dormire per uscire dal coma politico. All’alba i poliziotti disperdono gli ultimi gruppi, le spalatrici distruggono le poche cose costruite, i camion delle pulizie cancellano le tracce. Gli occupanti lasciano la piazza ma tutti i giorni, ritornano, armati di tende e sacchi a pelo. E malgrado la pioggia, gli assilli della polizia, l’incredulità, qualche cosa si costruisce, si alza una rivendicazione unitaria per un’altra società: la possibilità di decidere insieme di un futuro non suicidario. In meno di dieci giorni Nuit debout si è già esteso ad altre 60 città francesi e inizia a fare emuli in Europa. Nato all’origine contro la legge El Khomri sul lavoro (che prevede licenziamenti) – dopo la sfilata del 31 marzo una parte dei manifestanti non è tornata a casa -, il movimento va oggi ben al di là della riforma del lavoro e del rifiuto della precarizzazione di massa: vuole la rimessa in causa di un sistema capitalista all’ultimo stadio. La frattura è ormai totale fra questa politica cittadina e quella di un governo autodenominato di sinistra, a cui la disoccupazione, i grandi progetti, le derive dello stato d’urgenza, e infine la revoca della nazionalità, hanno finito di togliere ogni leggitimità.
Come recita il testo fondatore di Nuit debout: «Il re è nudo, come nella favola. Dai nostri occhi allucinati, abbiamo visto i nostri dirigenti tradire con un aria sorridente tutti i loro mandati, i nostri banchieri rovinare i popoli con gesti eleganti saccheggiarli nel nome dell’interesse generale, i nostri militari esportare la guerra con aria di virtù nel nome della pace, i nostri esperti iper remunerati accusare i loro pari di menzogna se parlavano di riscaldamento climatico o di pericoli industriali, i nostri intellettuali ricostruire il discorso razzista nel nome del dibattito». O ancora come dichiara l’economista Frédéric Lordon, tra le teste del movimento: «Non si regge una società con Bfmtv, i poliziotti e del Lexomil (neurolettico diffuso, ndr)».
In questo spazio urbano che è una piazza, in questo vuoto che diventa possibile, si reinventa la democrazia diretta con la festa e la fantasia liberata. Non si contano i numerosi laboratori e scambio di saperi nati dalla piazza: «Jardin debout», «Sciences debout», «Dessin debout»; Assemblee popolari, seguite in piazza e in streaming da almeno 100mila persone, e tra seminari, concerti gratuiti, e prese di parola libere (si discute molto), qualcosa si riallaccia e si semina. Nonostante il freddo primaverile, si afferra lo stesso respiro dei movimenti degli ultimi 5 anni dagli Indignados a Occupy, e in filigrana risuonano Ghezi park, piazza Tahrir e le altre. Intanto, come in tutti i poteri destituenti e costituenti, si è rovesciato il calendario, marzo non finisce mai, oggi mentre scrivo siamo al #41 marzo.
Ma la sfida di questo neonato movimento è la convergenza delle lotte (nome del loro sito) – tanti tra i disoccupati, i liceali, gli intermittenti, i tranvieri e i ribelli di Notre-Dame-des Landes, hanno già raggiunto il raduno. Ma alcuni analisti lo giudicano un movimento bobo, senza le classi popolari e con i grandi assenti delle banlieue. Nuit debout pero è un serbatoio di persone pronte ad agire velocemente, con sms e twitt, per tutti i beni comuni da proteggere: l’alloggio, le occupazioni, i sans papiers. Nuova caratteristica dell’aria che tira, la saldatura avvenuta con il movimento dei rifugiati con raduni spontanei contro gli sgomberi della polizia degli accampamenti informali sotto la metro. è subito nato «La Chappelle debout» un collettivo che unisce le vecchie e nuove lotte dei Sans Papiers, rivendica occupazione, scolarizzazione e disobbedienza civile. Intanto, se avvenisse la trasformazione della rabbia che ribolle nel Paese, da questa politica accampata e notturna potrebbero nascere nuovi sogni. L’Eliseo già trema.

Politica della verità, verità della politica

Esplode la primavera, ma un vento gelido soffia su Palazzo Chigi. Renzi ripete che sul referendum costituzionale si gioca la testa e, alla Camera, le opposizioni lo lasciano solo. Il presidente della Consulta lo corregge e dice che si deve votare al referendum di domenica; anche Mattarella fa sapere, sottovoce, che andrà alle urne. Così, se il 17 aprile il quorum dovesse mancare, la scarsa partecipazione sarebbe colpa del premier e se invece il referendum avesse ragione, il suo successo sarebbe una sconfitta per Renzi.

Rien ne va plus! La ripresa resterà dello zero virgola, più di un commentatore, imbarazzato, comincia a prendere le distanze, il giglio magico del premier gracchia in televisione come un disco usurato. Dov’è la grinta con cui Renzi tolse la campanella dalle mani di Letta? Dov’è finita la gioia spaccona con cui ripeteva «li ho spianati, asfaltati». O gli squilli di tromba per il 42% alle europee, il peana che i giornali intonavano sulle riforme. Persino Boschi lo gela e non crede a complotti mediatici orditi dei magistrati.

In due anni la parabola del giovane leader si è consumata. Certo è possibile che resti ancora nel suo ufficio, che tagli nastri o porti il made in Italy a Teheran o a Dubai. Finché qualcuno non avrà mostrato che un’alternativa è praticabile. Ma non sarà più lo stesso. Premier per necessità, in mancanza di meglio, tollerato ma non amato, se non da coloro ai quali, di volta in volta, concederà un bonus, prometterà un incarico, procaccerà un affare. Così giovane e già così consunto, con le ali impiastricciate nel petrolio di Tempa Rossa. Lobbista di governo tra i lobbisti per le aziende.
Destino triste il suo, ma non solitario. Cameron sta annegando nel mare di denaro off shore che si celava a Panama. Sanchez, il socialista spagnolo, ha avuto paura di dar vita a un governo “del cambio” e sta spingendo il Paese verso nuove elezioni se non nelle mani dello “sconfitto” Rajoy. Valls e Macron, giovani leader miglioristi, fanno finta di non vedere i giovani che trascorrono la Nuit debout, in place de la Republique, diventata simbolo di una Francia che forse ha smesso di annoiarsi – La France s’ennuie, si scrisse prima del maggio ’68. Persino in America il cavallo di razza Hillary Clinton conquista delegati ma non convince, non commuove la middle class, non scalda i cuori dei giovani millennials, ora viene contestata anche dalle minoranze per aver investito più sul carcere e sulla repressione che sui giovani e l’istruzione.

Il fatto è che questa politica, di destra o di sinistra che sia, ma sempre realista, con tanti soldi e troppi polli di apparato, non pare autentica alla gente che la guarda dal basso, non sembra vera a chi sta fuori dal palazzo e non punta a entrarci come eunuco in una corte senza imperatore. La ragione è che chi è in basso ha capito che non si sceglie lì dove si pretende di farlo. Che Google e Facebook, Airbnb e Uber, Total e Pfizer decidono senza bisogno di chiedere permesso ai governi e ai professionisti della politica, i quali altro non fanno che adeguarsi.

Cosa resta, allora? Il populismo di Trump o Sanders, di Podemos o della Le Pen, che gli uni e gli altri, alla fin fine, pari sono? No, in una serie Netflix, The 100, si scontra chi vuol dire la verità al popolo dell’Arca, perché crede nell’umanità dell’uomo, e chi vuole nascondergliela per evitare panico e tumulti. Di sinistra è chi cerca la verità e la dice.

Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA

Le elezioni in Perù, quelle farsa in Siria e i lacrimogeni di Idomeni. La settimana per immagini

A girl looks at a self-defense force member during a meeting about security for tomorrow's general election in Uchuraccay, Peru, Saturday, April 9, 2016. In Uchuraccay, self-defense members will provide security alongside police and soldiers. (AP Photo/Rodrigo Abd)

[huge_it_gallery id=”179″]
Immagine in evidenza: 9 aprile 2016. Una ragazza a Uchuraccay guarda un rappresentante delle forze di autodifesa che affiancano poliziotti e soldati durante le elezioni in Perù. (AP Photo/Rodrigo Abd)

La Vallonia rifiuta il Ceta (il Ttip con il Canada), l’accordo di libero scambio tra Canada e Unione europea

Ceta – che sta per Accordo generale per l’economia e il commercio – è uno dei due accordi commerciali che l’Unione europea ha intenzione di sottoscrivere con il Canada, insieme a quello con gli Stati Uniti, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, il Ttip (se ancora non avete chiaro cos’è, provate a cliccare qui). Rispetto al Ttip, Ceta è avanti di quattro anni, ma contiene regolamentazioni simili a quelle del Ttip, come i collegi arbitrali privati (Isds) e il reciproco riconoscimento degli standards. Chi sostiene gli accordi di libero scambio, in nome crescita economica, annuncia la creazione di posti di lavoro. Ma da quando i contenuti di questi segretissimi accordi sono venuti allo scoperto, aumentano le fila dei contrari, per cui saranno le grandi multinazionali a beneficiare da questi accordi e non i cittadini. L’ultimo No al libero scambio arriva dal Belgio e in relazione al Canada. L’annuncio è arrivato nella mattinata del 13 aprile, dal primo ministro della Vallonia, Paul Magnette: la Vallonia – che è una delle tre regioni che formano il Belgio e costituisce il 32% della popolazione belga – si rifiuta di dare pieni poteri al governo federale per firmare l’accordo di libero scambio tra il Canada e l’Unione europea, Ceta.

«Non abbiamo garanzie», ha detto il primo ministro che per questa risoluzione ha trovato il supporto dei gruppi Ps-Cdh-Ecolo. Molte le questioni lasciate in sospeso nel testo in fase di negoziazione, secondo la Vallonia, in particolare per quanto riguarda il meccanismo di arbitrato tra gli Stati e le multinazionali. Intanto, il movimento non si indebolisce il contrario: proprio il 13 aprile, a Bruxelles, i movimenti belga si sono riuniti sotto la bandiera “Stop Ttip&Ceta” per preparare una grande mobilitazione a settembre.

Gli italiani, invece, non attenderanno l’autunno. La manifestazione nazionale contro il Ttip è stata fissata per il 7 maggio, a Roma.

Savonarola e le sue 5 stelle

Gianroberto Casaleggio esce dal Senato della Repubblica dopo aver incontrato i gruppi del M5S a Palazzo Madama, 19 dicembre 2013 a Roma. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Nel cuore di Ferrara, al centro della piazza che porta il suo nome, svetta alta la statua di Girolamo Savonarola. Il frate domenicano rimane lì, di marmo e con le braccia aperte, ad ammonire i passanti con il suo sguardo torvo e severo. Oggi, cinque secoli dopo, quando la vicenda umana e politica di Gianroberto Casaleggio esce dalla cronaca per entrare (forse) nella Storia, c’è da chiedersi se una memoria simile, duratura e popolare, spetterà anche al fondatore del Movimento 5 stelle morto la notte del 12 aprile a Milano. Se davvero si vuole comprendere cosa ha rappresentato questo manager datosi alla politica, infatti, se si vuole cercare almeno un filo per raccontare il profilo di quest’uomo dalla voce sottile e dai modi sfuggenti, è anche alla categoria dei “profeti” che bisogna accostarsi.

A prima vista Gianroberto Casaleggio sembrerebbe il primo e più precoce esempio italiano di esponente di spicco della società connessa. A prima vista potrebbe assomigliare a una sorta di Mark Zuckerberg della politica italiana. Di una generazione precedente, nato nel canavese nel’54, già perito informatico, il futuro “guru” pentastellato fa esperienza in Olivetti fino a quando la passione per i computer lo porta, tra i primi, ad appassionarsi della nascente tecnologia Internet. A cavallo del secolo è amministratore delegato di Webegg, azienda in joint venture con Telecom, fino alla fondazione della sua Casaleggio Associati, che si farà conoscere prima per l’innovativa gestione dell’immagine di Antonio Di Pietro e poi per essere diventata la rampa di lancio dalla quale Beppe Grillo salirà in orbita.
Casaleggio condivide con Zuckerberg il talento dell’innovatore, di chi prima degli altri riesce a creare dei prodotti che rispondono a nuovi bisogni. Il fondatore di Facebook ripete di continuo che la sua piattaforma vuole rendere «il mondo più piccolo» ma al contempo monitora ogni attività dei suoi utenti per rendere più efficace la pubblicità. Casaleggio si è fatto portatore di una idea simile della Rete: nelle sue parole Internet è lo strumento politico che porterà all’anelata “democrazia diretta”: grazie al web la politica non sarà più delega, ma partecipazione; non più apparati, ma “comunità” piuttosto, “cittadini in Rete”. Ma la Casaleggio e Associati è anche l’azienda privata che distribuisce dividendi a fine anno grazie a un uso massicciamente commerciale della stessa Rete: l’obiettivo dei post di beppegrillo.it, delle sue iniziative, delle sue campagne, è sempre stato quello di diventare virale, raccogliere click, non certo di addentrarsi nelle sottigliezze del ragionamento e dei distinguo.
Eppure questo non basta. Come detto non capiremmo a pieno il co-fondatore del Movimento 5 stelle appena scomparso se sottovalutassimo il suo anelito profetico che si muove tra due poli distanti ma coerenti, tra Jean Jacque Rousseau e la mitica Gaia.


 

Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA

Panama papers: il capitalismo non è bello non è giusto e non è virtuoso

Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle mani del quale ci siamo ritrovati dopo la guerra, non è un successo. Esso non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. Così scriveva John Maynard Keynes nel 1933. La condizione odierna del capitalismo non è molto differente, se consideriamo che noi, così come Keynes, ci ritroviamo nel bel mezzo di una grande crisi innescata dalla finanza.

I Panama Papers, l’inchiesta-shock di un consorzio internazionale di giornalisti sulle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali di politici, imprenditori e celebrità, ha conquistato le prime pagine dei media in tutto il mondo. Sia chiaro, nulla di nuovo sotto il sole. L’evasione e l’elusione fiscale sono parte del capitalismo moderno, che «non è bello, non è giusto, non è virtuoso». Così come lo sono le manipolazioni dei tassi di interesse e dei cambi, che hanno fatto scalpore qualche anno fa. O lo scandalo LuxLeaks nel quale è stato coinvolto il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, facilitatore per diversi anni, nella veste di primo ministro del Lussemburgo, di pratiche illegali o al limite della legalità e in ogni caso ben lontane da quello spirito di collaborazione e coordinamento che dovrebbero essere alla base dell’Unione europea. Perché, questo è poco chiaro in questi giorni in cui si parla solo di Panama, l’Unione Europea stessa contiene dei paradisi fiscali.

Partiamo dall’elusione fiscale, la versione “legale” dell’evasione fiscale. La forma più comune di elusione fiscale è il cosiddetto transfer pricing, che consiste nella pratica, comune a tutte le multinazionali, di “spostare” gli utili verso quei Paesi con regimi fiscali più “convenienti” (cosa ovviamente non consentita ai comuni mortali). In Europa questa pratica si traduce nel fenomeno – diffusissimo – del dumping fiscale, quella forma di concorrenza fiscale in cui gli Stati europei competono tra di loro nell’abbassare le aliquote sulle imprese e sui redditi alti nel tentativo di attrarre investimenti e capitali, in una folle corsa al ribasso. È uno dei motivi per cui oggi l’Ue presenta in media uno dei livelli di tassazione d’impresa più bassi al mondo. Spostando i profitti verso i Paesi a fiscalità agevolata – tra cui spiccano l’Irlanda, la Svizzera, l’Olanda e il Lussemburgo -, a prescindere dal Paese in cui vendono i loro prodotti, le grandi imprese transnazionali che operano in Europa riescono a pagare ancora meno dell’aliquota media europea. In cima alla lista dei “peggiori elusori fiscali del continente” spiccano megacorporation come Apple, la società di maggior valore al mondo (che nel 2012 ha pagato un’aliquota risibile dell’1,9 per cento sugli utili percepiti fuori dagli Usa utilizzando delle sussidiarie irlandesi e olandesi), Amazon, Google, Ebay, Starbucks e Cisco Systems. Secondo uno studio condotto dall’organizzazione Tax Research Uk, il fenomeno dell’elusione fiscale costa agli Stati dell’Ue circa 150 miliardi di euro l’anno.

Si tratta di una cifra esorbitante, che impallidisce però di fronte al costo dell’evasione fiscale, a sua volta collegato al problema dei paradisi fiscali, che ha ricadute ancora più pesanti sui conti pubblici. Secondo la “lista nera” stilata dall’organizzazione britannica Tax Justice Network, esistono 73 paradisi fiscali al mondo (secondo l’Ocse, gli unici due paradisi fiscali rimasti al mondo sarebbero invece le due isole-nazioni di Nauru e di Niue). Incredibilmente, tra i 20 maggiori paradisi fiscali al mondo, otto di questi – Svizzera, Lussemburgo, Jersey, Germania (“destinataria di grossi volumi di flussi illeciti da varie parti del mondo”), Regno Unito, Belgio, Austria e Cipro – si trovano in Europa (e con l’eccezione della Svizzera e di Jersey fanno parte dell’Unione europea). Stabilire con precisione la somma di denaro occultata in questi paradisi è, per ovvi motivi, piuttosto difficile. Secondo le stime di James S. Henry, ex capo economista della McKinsey e autore di uno degli studi più esaurienti sul tema realizzati finora, essa ammonterebbe a qualcosa tra i 21 e i 32 trilioni di dollari (appartenenti in buona parte a individui facoltosi e imprese transnazionali), pari al 24-32 per cento di tutti gli investimenti globali e più del Pil degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme.


 

Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA

Tre motivi per cui Bernie Sanders sarà in Vaticano

Democratic presidential candidates Sen. Bernie Sanders, I-Vt., right, and Hillary Clinton speak during the CNN Democratic Presidential Primary Debate at the Brooklyn Navy Yard on Thursday, April 14, 2016 in New York. (AP Photo/Seth Wenig) NYPM109

Dopo uno scambio piuttosto duro, il più duro, con Hillary Clinton nel dibattito Tv che precede le primarie di New York (e poi Pennsylvania e altri Stati il 26), Bernie Sanders oggi sarà in Vaticano. Ci sono diverse ragioni per fermare la campagna elettorale e fare questa visita lampo.

Cosa è successo al dibattito di stanotte?

Che sul ring, come al solito, Hillary tende a essere più brava e preparata e che, ancora una volta, Bernie ha argomenti capaci di mettere l’ex Segretario di Stato in difficoltà. Sui soldi presi per parlare ai convegni organizzati dalle grandi banche Clinton non ha nulla da rispondere se non che il suo curriculum mostra come non si sia mai fatta influenzare dalla relazione con la finanza. Vero solo in parte: negli anni d’oro dei Clinton le banche e Wall Street non erano viste come il male assoluto e le politiche nei loro confronti piuttosto accondiscendenti (ho sbagliato, disse Clinton qualche anno fa). Hillary ribatte sulle armi e qui, Bernie, scivola difendendo il venditore di armi. La differenza cruciale è che in un caso il sospetto di una relazione con la lobby è credibile, nel secondo si tratta di vezzeggiare un elettorato che Sanders sa poter essere suo e a cui le armi un pochino piacciono. Il risultato è uno scontro duro che, è la prima volta che c’è questo clima dall’inizio delle primarie, divide un po’ il partito.

Perché Bernie va in Vaticano?

Ci sono diverse cose che uniscono il candidato democratico e Bergoglio, le ha elencate Sanders in un’intervista a Repubblica e si mettono in fila facilmente: cambiamento climatico, necessità di creare un’economia più attenta agli ultimi (come direbbe la Chiesa) e la riforma dell’immigrazione – milioni di ispanici senza diritti negli Stati Uniti per i quali la Chiesa è in prima fila da anni, anche organizzando grandi manifestazioni. C’è insomma un’intesa di Sanders con una figura importante del panorama politico mondiale e al senatore del Vermont, che fino a ieri era uno sconosciuto, un appuntamento internazionale di alto profilo serve per darsi un’immagine di candidato serio e credibile. Se c’è un gap con Clinton è proprio quello, la mancanza di relazioni. Partecipare a un convegno non cambia le cose, ma aiuta, tanto più che si tratta di un appuntamento con un programma importante.

I numeri dei cattolici

Il secondo aspetto è più da calcolatrice. Il voto di New York è cruciale per Sanders: se rimarrà incollato a Clinton anche in questa occasione, continuerà la sua corsa credibile e per Hillary saranno ancora mal di testa. La settimana dopo si vota in una serie di Stati del New England, oltre che in Pennsylvania. Bene, tutti questi Stati, pur con composizioni demografiche non identiche, hanno una caratteristica in comune: l’alto numero di elettori cattolici. Nel New York State sono sei milioni su circa 20 milioni di abitanti, in Pennsylvania il 30% della popolazione, in Connecticut un terzo della popolazione e in Rhode Island il 43%. Il premio più grande, quello di NY, è cruciale per Bernie e sommare ai giovani di sinistra di New York City, un po’ di voto cattolico bianco e ispanico, potrebbe essere determinante. Una foto opportunity con Bergoglio due giorni prima del voto, è uno spot importante.

Il dibattito Tv nella sintesi di tre minuti del Washington Post