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Idomeni e il resto: la settimana per immagini

A migrant woman leans on the border gate at the northern Greek border station of Idomeni, Tuesday, March 8, 2016. Up to 14,000 people are stranded on the outskirts of the village of Idomeni, with more than 36,000 in total across Greece, as EU leaders who held a summit with Turkey on Monday said they hoped they had reached the outlines of a possible deal with Ankara to return thousands of migrants to Turkey. (AP Photo/Vadim Ghirda)

 

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In evidenza: 8 marzo 2016, Una donna migrante si appoggia sul cancello di confine alla stazione nord del confine greco di Idomeni. Più di 14.000 persone sono bloccate alla frontiera tra Macedonia e Grecia (AP Photo/Vadim Ghirda)
(gallery a cura di Monica Di Brigida)

«Nessuna ripresa se manca l’iniziativa». Parla Cesare Romiti

Cesare Romiti

«Io della Fiat non parlo». È perentorio Cesare Romiti. Novantaquattro anni e cinquant’anni di Storia italiana sulle spalle. È stato quasi tutto: pupillo di Enrico Cuccia, Ad e presidente della Fiat e presidente di Rcs Mediagroup poi, per ventiquattro anni, è stato il rappresentante della prima e più blasonata industria italiana. E con l’Avvocato, come racconta spesso, non ha condiviso solo la passione per le macchine ma anche per i giornali: «Se non fosse stato il nipote del fondatore della Fiat avrebbe di sicuro fatto il giornalista. E di giornalismo parlavamo spesso. È una questione di curiosità per il mondo. La stessa che mi mantiene al lavoro alla mia età», ha dichiarato un paio d’anni fa proprio al suo Corriere della sera, di cui oggi fa fatica a parlare. Nel 2012 per Longanesi ha pubblicato Storia segreta del capitalismo italiano, con l’intento “dichiarato” di «contribuire alla formazione di una nuova classe dirigente di giovani». Poche domande, allora, per capire che ne pensa della “ripresa” e di due anni di governo Renzi.

Che dice il fiuto di Cesare Romiti? Al di là del quotidiano balletto sui numeri del Jobs act, lei la sente la ripresa?
No, purtroppo la ripresa ancora non c’è e non ci sono neanche le premesse perché possa esserci. Perché la ripresa non viene fuori da leggi, che sono anche necessarie e utili, ma da iniziative. Qui, invece, oltre che modificare il diritto del lavoro e la Costituzione, non è stato fatto nulla che permetta anche solo un inizio di ripresa.

I cartoon? Non sono solo roba da ragazzini

kung fu panda 3

C’era una volta un tempo in cui i cartoni erano cose da bambini. In tv imperversavano i cartoni giapponesi, Bugs Bunny, Mickey Mouse e co. E al cinema, c’era la Disney che dominava incontrastata il mercato con i suoi principi e le sue principesse, tutti sfortunati ma sempre – rigorosamente – belli e perfetti. Poi sono arrivate la Pixar e la DreamWorks e nel giro di vent’anni tutto è cambiato: i cartoni sono diventati anche una cosa da grandi. Non sono pochi i titoli di animazione che di recente sono riusciti a conquistare un pubblico trasversale. Certo, i bambini rimangono gli spettatori più fedeli, ma a loro si aggiungono ventenni, trentenni e ovviamente genitori di ogni età. Basti pensare a quanti adulti sono usciti entusiasti dalla sala dopo aver visto Inside Out, il film della Pixar che raccontava le emozioni umane (e in primis l’importanza della tristezza). Donne e uomini entusiasti, forse anche più dei loro piccoli accompagnatori, come in un gioco a parti invertite dove è il figlio a portare al cinema il genitore e dargli un’ottima scusa per godersi lo spettacolo. Perciò, in attesa del 17 marzo, quando sarà in sala Kung Fu Panda 3, terzo capitolo della fortunata saga realizzata dalla DreamWorks, abbiamo pensato di precedervi. Siamo andati a vederne l’anteprima in una sala gremita di centinaia di ragazzini, e: abbiamo anche partecipato a una lezione di cinema con il co-regista del film, Alessandro Carloni. Un film divertente, a tratti esilarante, che sorprende per i tanti spunti di riflessione sull’Italia di oggi. Quella della politica aggressiva che strilla e quella dell’ossessione di essere forti e cool, ma anche quella che manifesta a favore o contro il matrimonio egalitario e quella dei cervelli in fuga.


Un film divertente, a tratti esilarante, che sorprende per i tanti spunti di riflessione sull’Italia di oggi. Quella della politica aggressiva che strilla e quella dell’ossessione di essere forti e cool, ma anche quella che manifesta a favore o contro il matrimonio egalitario e quella dei cervelli in fuga.


Lo stesso Alessandro Carloni, 37enne bolognese, si può definire “un cervello in fuga”. Emigrato all’estero da giovanissimo, oggi vive in California dove lavora alla DreamWorks. Alessandro è uno dei volti della “Rivoluzione cartoon” che ha conquistato gli Stati Uniti e il mondo intero con titoli come Dragon Trainer, La Gang del Bosco e soprattutto Kung Fu Panda. A chi gli chiede come sia stato andarsene dall’Italia, Alessandro risponde: «Tutto quello che so l’ho imparato all’estero, ma credo di aver portato con me una certa sensibilità che si nota sopratutto nelle scene più minute, come quando sullo schermo si confrontano due personaggi e la dimensione si fa più intima e relazionale». Dagli Stati Uniti all’Italia Alessandro Carloni vorrebbe importare soprattutto un diverso modo di lavorare, «più collaborativo e meno individualista». Un’indole che ha delle ragioni “tecniche”: «A un film come questo collaborano in genere circa 700 persone. Se non sai lavorare con gli altri, è la fine, non esce nulla di buono. Il talento non basta».

alessandro carloni kung fu panda 3
Alessandro Carloni durante la sua lezione di cinema

Nella trama di Kung Fu Panda 3, per sconfiggere il nemico forte, brutto e cattivo c’è solo un modo: unirsi, cambiare insieme per cambiare in meglio. Quella di Po, il protagonista del film, e dei suoi compagni di avventure è quindi soprattutto un’evoluzione condivisa. «È un messaggio positivo – spiega il regista e animatore bolognese – ci dice che non siamo soli, che sono i nostri amici e la nostra famiglia a prendersi cura di noi e a darci forza. Soprattutto ad aiutarci a rispondere a una domanda che tutti ci facciamo in molti momenti cruciali della nostra vita: chi sono, sono bravo abbastanza?». Nell’ultimo capitolo della saga di questo Bildungsroman per immagini, Po, che si è sentito tutta la vita un pesce fuor d’acqua – l’unico panda a vivere in un villaggio abitato da oche, maiali, cani, e conigli – incontra finalmente i suoi simili, ma presto capisce che, anche se si è tutti uguali, ognuno è caratterizzato da una propria unicità. «Non puoi diventare qualcun altro: devi realizzarti al tuo meglio secondo le tue inclinazioni. La formula magica per riuscire è “essere se stessi” è essere uniti, capaci di collaborare con gli altri», racconta Alessandro Carloni ai ragazzi che in sala hanno appena assistito alla proiezione del film. L’epica dell’eroe gentile sembra convincere i più piccoli. Molto meglio un appassionato pasticcione come Po, che un bulletto forte e sempre vincente, ma incapace di generare empatia con il pubblico. E Alessandro di empatia ne sprigiona eccome, mentre mostra i bozzetti del lungometraggio: interpreta i vari personaggi, scorre le slide, le accompagna con dei “boom”, “sbam”, “uao”, “oohh” e vocine varie, gioca, diverte e si diverte. È capace di trascinarti, capo e piedi, nel suo mondo immaginario come solo un bravo storyteller sa fare.

Una scena in cui Po incontra il suo padre biologico. Al centro del film d’animazione anche il tema della famiglia, molto diversa da quella tradizionale che in genere viene rappresentata nei cartoni

«Gli ingredienti fondamentali per delle buone storie sono i personaggi, perché sono i personaggi a far muovere l’azione. E invece spesso si tende a riproporre sempre lo stesso stereotipo narrativo e il protagonista finisce per essere essenzialmente uno stronzo che dopo una serie di peripezie impara a non essere arrogante», spiega Carloni, sprovvisto di quello sciocco pudore che avrebbe frenato l’uso di una parolaccia. «Insomma lo stronzo innesca una storia semplice da realizzare, scontata e, soprattutto, poco empatica. Nessuno vuole immedesimarsi in lui e l’effetto comico deriva per lo più dal cinismo e dalla rigidità del protagonista. Ma perché deve funzionare sempre così?». […]


 

Questo articolo continua sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo

 

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Ex Falck, la bomba ecologica della Valchiavenna

Sondrio, Valchiavenna: 70mila mq di cromo esavalente. L’ex area Falck, uno stabilimento in stato di abbandono dal 1991, attualmente proprietà della società Novate mineraria, necessita di bonifica. E invece, le discariche interrate e l’intero stabilimento, continuano ad avvelenare la zona circostante, incluse le acque del Lago di Mezzola, e la riserva naturale circostante.
Su tutto questo, c’è il benestare – e il timbro – di Comune, Provincia e Regione. Che adesso, hanno accontentato la Novate, approvando la costruzione di un nuovo stabilimento industriale destinato alla realizzazione di massicciate destinate alla Tav. Per realizzare le quali, la capacità estrattiva delle cave adiacenti verrà aumentata – con conseguente modifica al Piano Cave – da 36mila a ben 6milioni di metri cubi. Manca solo la firma del governatore Roberto Maroni a suggellare l’ennesimo scempio all’italiana.


 

L’inchiesta la trovi sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo

 

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Perché si stava meglio quando si stava peggio

Come si stava bene con Berlusconi. Che bei tempi quando c’erano Tremonti e Sacconi, Gelmini e Calderoli. Certo nel 2011 sembravamo sull’orlo del baratro, al bar si parlava di spread, la lettera “segreta” della Banca centrale europea ordinava misure di massacro sociale «per ristabilire la fiducia degli investitori». Eppure – tenetevi forte – davvero si stava molto meglio di oggi.

Intanto si andava in pensione a un’età decente e si assumeva con l’articolo 18 – e scusate se è poco. Poi, erano migliori tutti i principali indici macroeconomici. Quando si insediava il sobrio salvator Monti, con giubilo di molta sinistra, i disoccupati erano poco più di due milioni, oggi sono tre. Tasso di occupazione (56,8%) e numero di occupati (22,6 milioni) erano identici ad adesso, ma nel frattempo si sono diffusi part time involontari e voucher; i posti di lavoro calcolati a tempo pieno sono quasi 700.000 in meno. In quelli rimasti ci sono sempre più vecchi stanchi, mentre gli under 34 sono diminuiti di quasi un milione. E i conti pubblici? Il Pil, già in calo dal 2008, è sceso di un altro 4%, i consumi delle famiglie del 5%, gli investimenti precipitati del 17%. Il debito pubblico che tanto ci terrorizzava era al 116% del Pil, oggi sfiora sorridendo il 133%. Altro che i “più zero virgola” amplificati dai piazzisti dell’ottimismo governativo, con uso osceno delle statistiche. In realtà, il confronto con i principali Paesi europei è impietoso: anche nel 2015 l’Italia ha i risultati peggiori, sia per il reddito che per l’occupazione.

Eppure Monti e Renzi sono stati molto più zelanti di Berlusconi nell’eseguire i compiti della Bce: “revisione delle norme su assunzioni e licenziamenti”, “tagli di spesa”, “sistema pensionistico più rigoroso”, “riduzione del pubblico impiego”, “privatizzazioni su larga scala”, “riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”, ecc.

Che cosa non funziona come promesso?


 

Questo articolo continua sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo

 

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Riprendiamoci il futuro

Pare che i tre giorni di lavoro in più rispetto all’anno precedente, che il 2015 – per pure ragioni di calendario – ci ha regalato, contino poco più dello 0,1% di aumento del Pil. Mettendo quei tre giorni nelle statistiche e arrotondando per eccesso anziché per difetto, l’Istat ha potuto portare la crescita del Prodotto Interno Lordo nel 2015 allo 0,8% dallo 0,6 che era. Subito proclami trionfali del governo e invito ai gufi di tacere.
Bene, Left riconosce volentieri cha il segno più del Pil è meglio del segno meno, che il numero dei contratti stabili sta aumentando, che la fiducia nel governo ha ridato il sorriso a una parte degli imprenditori, che se continuasse il trend positivo molte famiglie spenderebbero volentieri quel poco che avevano accantonato in attesa di giorni magri. Purtroppo però non si fanno nozze coi fichi secchi né miracoli con lo zero virgola. Tanto più che la Francia è cresciuta dell’1,2%, la Germania dell’1,7, la Spagna del 3,2 e l’Irlanda addirittura del 7%. Eppure, i governi di Spagna e Irlanda sono stati appena sconfitti nel voto perché gli elettori si sono convinti che questa ripresa non sia in grado di rilanciare la corsa ai consumi né di dar lavoro ai giovani che lo cercano.
Ha senso, allora, litigare sui decimali della crescita, o non è meglio aprire un grande dibattito sul futuro del Paese? Proporre scelte coraggiose di politica industriale, rilanciare gli investimenti sia pubblici che privati, combattere la corruzione, vera palla al piede – e un grafico che gira a Bruxelles lo evidenzia – dell’Italia come della Grecia. Di questo parlano a Left Cesare Romiti e Vincenzo Visco.
Intanto l’Italia è chiamata a scelte impegnative di politica internazionale. Perché la Grecia rischia di essere lasciata di nuovo sola, questa volta di fronte ai migranti che sbarcano sulle sue coste a un ritmo di 1.400 per giorno. Oltretutto, se le frontiere verso nord resteranno serrate, questi profughi attraverseranno Albania e Adriatico alla volta della Puglia.
Perché è indecente che si intenda pagare Erdogan tacendo – questo almeno Renzi non l’ha fatto – sui suoi attacchi alla stampa e ai curdi per ottenere che la Turchia, trattenga a qualunque costo i profughi. Siamo passati dall’amico (di Berlusconi) Muammar all’amico (della Merkel) Tayyip, scrive l’ambasciatore Roberto Toscano.
Perché non fermeremo il califfo e i suoi tagliagole se non provvederemo a sostenere la Tunisia con soldi, assistenza, armi (se serve) e se non lasceremo finalmente al suo destino la dinastia saudita, che da due secoli e mezzo propaga il peggiore fondamentalismo, ricatta i musulmani controllando i luoghi santi, irrora molte tasche occidentali con il mare di petrolio in cui sguazza.
La sfida del Mediterraneo ha ormai investito l’Europa e noi italiani dobbiamo scegliere con chi stare: se con Orbán o con il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che chiede in queste pagine di aprire le frontiere e far vincere l’accoglienza. Come dobbiamo decidere, noi italiani, se sia più utile uscire temporaneamente dall’euro per salvarci dal rigore tedesco, come sostiene Stefano Fassina, o se invece – come scrive Massimo Florio – l’euro non sia di destra e una diversa politica economica possibile proprio nella moneta unica.
Un confronto cruciale, che riguarda sia il centro-sinistra che governa sia la sinistra che vuole costruire un soggetto all’opposizione e che non può pensare solo a ritagliarsi un piccolo spazio elettorale tra Partito della Nazione e Movimento della Nazione, tra Renzi e Di Maio.
Noi di Left cercheremo di suscitare questo confronto, senza settarismi, senza tacere le difficoltà della sfida e in modo pubblico. Perché la politica non è solo tecnica né solo tattica e riguarda, come nella Grecia antica, l’agorà, cioè l’assemblea di tutti i cittadini.

Questo editoriale lo trovi sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo

 

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Omicidio Varani. Tacchi a spillo, smalto e cocaina e noi trasformati tutti in guardoni

Marco Prato, uno dei due arrestati per l'omicidio di Luca Varani, il ragazzo di 23 anni ucciso in un appartamento a Roma, in una foto tratta da Facebook. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO'ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Tacchi a spillo, smalto e cocaina. Sì, parliamo anche noi, per una volta, di Marc Prato e Manuel Foffo e della cosa orrenda che hanno fatto torturando e ammazzando Luca Varani. Ne parliamo perché ci sentiamo trasformati a forza in guardoni: chi era il trans? E la vittima cosa era andato a fare in quella casa? Qual era il suo interesse? E poi, sei ancora responsabile se ti strafai di alcol e ti pippi 1500 euro di cocaina?
La prima cosa che penso è che dovremmo recuperare un briciolo di senso del pudore. Il fatto certo è che Marco e Manuel hanno ucciso e lo hanno fatto nel modo più feroce. Tacchi, smalto, matita per gli occhi, droga a go go, alcol e club dove si fa sesso in tutte le pose e con tutti i generi, tutto ció è il contorno. E tale deve restare. Al contrario nella narrazione mediatica la notizia è il contesto sordido, che deve arrapare o indignare, che nella trasmissione di Vespa diventa addirittura l’alibi per un esito presentato come prevedibile e dunque necessario. L’assassinio quasi scompare sullo sfondo.
Non ci sto. Così diventiamo pure noi spettatori, noi consumatori di notizie, troppo simili a Foffo e Prato. Viviamo pure noi in una bolla dove tutto sembra potersi ammettere a condizione che lo si comunichi. Dove tutto si guarda dal buco della serratura. Dove ogni cosa si può trasformare in selfie, in un’immagine da postare su Instagram, in una sporca allusione da condividere con i simili.
Voler capire non può voler dire giustificare. E non va bene neppure mettersi sotto la ghigliottina ad aspettare che la testa dell’assassino rotoli, per godere della sua smorfia di dolore dopo aver goduto di quella della vittima. E
Un po’ di pudore. I valori fondano l’umanità dell’uomo: teniamoceli cari. C’è una linea che divide il bene dal male. Banalizzare il male rischia di cancellarla nella nostra testa.

Lo showcase del nuovo album di Esperanza Spalding

Fa piacere che tra le star del pop contemporaneo ci sia anche Esperanza Spalding. Voce, basso (o contrabbasso per il quale è diventata famosa nel mondo) e canzoni senza un centro, non esattamente da heavy rotation sulle radio commerciali. Eppure la Spalding è un’icona pop: sarà perché la sua enorme chioma afro su un corpo esile, abbinati a un contrabbasso fanno uno strano effetto oppure, molto più semplicemente perché è molto brava. Fatto sta che in questi giorni esce Emily’s D+Evolution, il suo nuovo album, molto centrato sulle sue abilità vocali (che si tratti di cantato, sussurrato o spoken word) e che la Npr, la radio pubblica statunitense ha pubblicato sul suo sito questo showcase nel quale Spalding suona il basso elettrico invece del contrabbasso e propone un sound meno jazzy di quanto fatto ascoltare in passato: il trio che forma con chitarra e batteria non è jazz per niente, così come le distorsioni e i vocalist sul palco. Il mix di suoni, suggestioni, parole è quello di una identità ricca culturalmente e di una musicista che innova e rilegge la propria cultura e quella degli altri. La sala concerti è a Brooklyn, che è un po’ come dire il luogo perfetto, oggi, per un’artista del genere.

L’ossessione della purezza. Dall’America di oggi ai vecchi regimi. Il nuovo libro di Franzen

Purity by Jonathan Franzen

Cinque anni di lavoro, in condizioni di quasi totale isolamento. Così erano nati Le correzioni e Libertà, i romanzi che hanno rivelato il talento di Jonathan Franzen al pubblico internazionale. E in una separazione pressoché totale dal mondo è nato Purity: il suo quinto romanzo (appena pubblicato in Italia da Einaudi, nella bella traduzione di Silvia Pareschi), con cui lo scrittore americano intreccia le vicende in una giovane di nome di Purity che vive in una comunità in stile Occupy a trame nere nell’ex Germania dell’Est, alla vigilia della caduta del muro. In una Germania ancora controllata dalla Stasi dove l’ipocrisia regna sovrana e ogni ideale di uguaglianza si infrange contro i privilegi dell’apparato, incontriamo giovani feriti dal totalitarismo, ma anche e soprattutto da rapporti personali e familiari all’insegna della falsità, della doppiezza, dell’assenza di veri sentimenti. Il giovane Andreas Wolf ha un padre anziano impiegato ai piani alti del regime e una madre colta, bellissima, seduttiva, che parla mescolando slogan ideologici e citazioni di Shakespeare, ma che nasconde un animo gelido, vuoto, calcolatore. Così il giovane “principino” cresce con una rabbia e un odio che non lasciano scampo, fino ad assassinare il patrigno violentatore di una giovanissima amica.

Jonathan Franzen
Jonathan Franzen

Quando una fiumana di gente pacifica – sotto gli occhi sgranati di chi ha passato la vita a sorvegliare e punire – arriverà a riversarsi per le strade chiedendo trasparenza e la fine delle vessazioni, Andreas si fingerà uno di loro per rubare i dossier segreti della Stasi che lo riguardano. E da assassino riuscirà a farsi passare per un pirata informatico che lotta per la divulgazione dei segreti di Stato, usando i riflettori internazionali per rifarsi un’identità.

Intanto, dall’altra parte dell’Oceano: Il mondo apparentemente libero della rete è quello in cui vive anche Purity, dickensianamente detta Pip. Anche lei come Andreas ha una madre che la manda al manicomio, ha un debito universitario insormontabile, è poverissima, ma piena di rabbia che si traduce in un rigorismo astratto che la porta ad essere cieca nei rapporti. Le sue giornate passano in un appartamento infestato di topi e dominato dalla violenza del coinquilino schizofrenico che, nonostante vagonate di psicofarmaci evidentemente poco o nulla efficaci,  crede di vedere invasioni di tedeschi e di nemici in cucina. È un’America emarginata e devastata quella che Jonathan Franzen racconta, tratteggiando curiose e interessanti assonanze con la devastazione e il deserto umano di quella parte della Germania che rimasta chiusa dietro la cortina di ferro.

9788806216603L’apparentemente aperta e democratica America dove le classi meno abbienti vivono in un isolamento pneumatico si specchia in questo nuovo romanzo di Franzen nell’uguaglianza solo formale delle giacchette grigie, di un comunismo di regime, che annulla ogni vera possibilità di rapporto umano e di realizzazione. Romanzo complesso, sfaccettato, questo nuovo lavoro di Franzen in cui in filigrana si può leggere anche un apologo sulle false promesse di libertà e democrazia della rete e, soprattutto, una critica di quell’ideale astratto di purezza che nella storia ha connotato molte e terribili ideologie. Evocando i fantasmi del nazismo e la disumana idea hitleriana della purezza della razza ariana, ma anche un’ideologia puritana ben presente nella storia americana, in cui i pionieri pensavano di avere una missione da compiere sterminando i nativi americani ed appropriandosi delle loro terre.
@simonamaggiorel

Purity diventa film

In America Purity è uscito nel settembre scorso e, secondo Deadline, il romanzo sarà presto tradotto sul grande schermo in una serie in venti episodi che sarà trasmessa anche in streaming da Netflix, Hulu e Amazon. L’adattamento sarà scritto da Todd Field con lo stesso Franzen e sarà prodotto da Scott Rudin, il produttore di Grand Hotel Budapest. Si parla dell’ex James Bond Daniel Craig come protagonista.

L’intervista del Guardian: There is no way to make myslf not a male

Lula nel mirino, Brasile nel caos. E parte la campagna #LulaValeALuta

l'ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva

Falsità ideologica e riciclaggio. Non ha nemmeno finito di pronunciare la frase con cui annunciava la sua candidatura alle presidenziali del 2018, che l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva si è visto arrivare addosso lo scandalo. Le accuse della procura di San Paolo si collocano all’interno nell’ambito della maxi inchiesta brasiliana, battezzata “Lava Jato”, per frode contro la compagnia petrolifera di stato Petrobras. Tra i 16 denunciati, oltre a Lula, ci sono anche la moglie e uno dei figli, Fabio Luis, ritenuti beneficiari di un immobile di lusso (216 mq su tre livelli) a Guarujà, sul litorale di San Paolo. I magistrati sospettano che l’immobile sia stato acquistato da Lula con tangenti pagate dall’azienda petrolifera statale Petrobras e che la proprietà sia stata occultata con un prestanome. Lula nega, continuando a smentire di essere mai stato proprietario dell’appartamento. E urla al golpe, dicendosi vittima di accuse che hanno solo motivazioni politiche.

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L’apice della tensione è stato raggiunto all’alba del 4 marzo, quando la polizia brasiliana ha fatto irruzione a casa dell’ex presidente: dopo la perquisizione, lo ha prelevato e lungamente interrogato. Tre ore di interrogatorio, dopo di che Lula è stato rilasciato. Poi, ieri, la richiesta di custodia cautelare da parte del procuratore Cassio Coserino. «La verità è che Lula aveva visitato la proprietà in questione, aveva dato soldi e, poi, se li è fatti restituire perché non era più convinto. Quella casa quindi non è di sua proprietà», ha dichiarato il suo avvocato. La proprietà è della OAS, una gigantesca impresa di costruzioni accusata di aver pagato tangenti nello scandalo Petrobras. «È necessario che le inchieste proseguano perché alla fine venga sanzionato chi deve essere sanzionato», ha commentato la presidenta Dilma Rousseff, ricordando che «bisogna sempre esigere il rispetto della legge e dei diritti di tutti gli indagati». Mentre si attende di capire se sarà di nuovo portato nelle prossime ore a Curitiba per essere interrogato dallo stesso giudice Sergio Moro. Per le strade di San Paolo si susseguono i tafferugli tra manifestanti a favore e contro Lula.

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In Brasile – e non solo – cresce il sentore che Lula sia vittima di una campagna denigratoria, al solo scopo di «far deragliare la sua candidatura nel 2018 e di fermare il progetto popolare-democratico avviato nel 2003 in Brasile». I sindacati brasiliani hanno lanciato una campagna internazionale – #LulaValeALuta – in sostegno di Lula, su chimata dell’Unione Cut e dell’International Trade Union Confederation.

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Il testo del Manifesto di sostegno a Lula

Sin dall’inizio del sentiero contro la dittatura militare di fine 70 e per la ridemocratizzazione del Brasile, il nome di Luiz Inácio Lula da Silva è diventato un esempio di determinazione, un simbolo della lotta e della giustizia per la classe operaia e, soprattutto, per i più poveri.
Alla guida di scioperi storici, che hanno minato le fondamenta del regime militare, e affrontando le persecuzioni e gli abusi della polizia, Lula ha sempre dimostrato discernimento e serenità nell’andare avanti, traendo il meglio di ciascuno e di tutti per costruire un nuovo tempo, contribuendo alla fondazione della Cut, del Pt e alla lotta per le libertà democratiche.

Gli anni passavano e il leader metallurgico, divenuto presidente della Repubblica, ha messo in piedi due governi considerati da tutti i punti di riferimento della crescita economica, con la valorizzazione del lavoro e la redistribuzione del reddito.
Avanzando rapidamente i miglioramenti sociali, il Pil brasiliano ha raggiunto il settimo posto nel mondo. L’aumento reale del salario minimo durante il governo Lula è stato del 53,6%, oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati e 40 milioni di brasiliani sono stati sottratti alla povertà.
Durante il suo governo, più di 6 milioni di lavoratori domestici – storicamente emarginati nella nostra società – hanno avuto riconosciuti i propri diritti.
Con determinazione, Lula ha investito sull’integrazione latinoamericana, sul rafforzamento dei legami con i Paesi africani e sul consolidamento di relazioni internazionali più eque, accogliendo a braccia aperte i rifugiati, rafforzando l’autodeterminazione dei popoli, attivando relazioni efficaci senza dispotismo e sottomissione, tenendo ferma la bandiera della comprensione e della convivenza pacifica in un mondo in guerra.
Di fronte a questi fatti, denunciamo la sordida e spensierata campagna mossa dai settori conservatori che usano il potere giudiziario e i media per perseguitare l’ex presidente e la sua famiglia. Sono gli stessi che hanno sostenuto la dittatura e ogni sorta di governo contro la sovranità e la democrazia, e adesso vogliono macchiare la sua rilevante figura per far deragliare la sua presenza nella scena politica nazionale e attuare la regressione neoliberale, privatistica e di esclusione.
Poiché abbiamo fiducia nell’esemplare sentiero di Lula e sappiamo che i suoi beni sono completamente compatibili con i suoi guadagni, alziamo la nostra voce affinché i golpisti non abbiano più chanche.

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