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La donna che ha tolto il sonno a Roberto Maroni

Forse è la legge del contrappasso: dopo anni in cui Maroni è riuscito a proiettare un’immagine di incorruttibile nemico di mafie e corruzione (ha vestito i panni del ministro dell’Interno con la calzamaglia del quasi supereroe e ha agitato le scope in casa della Lega) alla fine si ritrova, da presidente della Lombardia, a fare la conta degli arresti. Il primo è stato il suo vicepresidente Mario Mantovani e la Lega ha avuto gioco facile nello scaricare tutte le responsabilità sugli alleati di Forza Italia, ma negli ultimi giorni lo scossone è tutto in salsa verde: Fabio Rizzi è il “padre” della riforma sanitaria in Lombardia, quella “rivoluzione leghista” che avrebbe dovuto portare la Regione fuori dalle acque torbide del formigonismo. E invece niente: Rizzi, il consigliere regionale, è stato arrestato e con lui finiscono in manette anche l’imprenditrice Maria Paola Canegrati, attiva nel campo dell’odontoiatria privata, nonché la moglie di Rizzi, un suo collaboratore e la sua compagna, oltre che una decina di funzionari pubblici ovviamente asserviti. La solita bava, insomma: un servizio pubblico che si piega agli interessi privati ungendo i burocrati con le giuste mazzette. Altro che “cambio di passo”: la sanità lombarda ha lo stesso odore degli ultimi anni solo con un po’ di più di salsa al prezzemolo.
Ma come è cominciato l’incubo di Maroni? Questa volta la denuncia arriva dall’interno, l’esposto da cui è partita l’operazione Smile ha un nome e un cognome: Giovanna Ceribelli.
Ceribelli è una donna di sessantotto anni che viene dal piccolo paese di Caprino, siamo tra le valli bergamasche. Parla con cadenza quasi teutonica, grandi occhiali, il passo sempre spedito e l’immancabile pila di faldoni sotto il braccio. È lei che, da revisore dei conti nel collegio sindacale di un’azienda ospedaliera, ha notato che qualcosa non tornava in quei bilanci e ha deciso di mandare le carte in Procura. «Ho fatto il mio lavoro – mi dice quasi a sminuirsi – magari qualcosa di più delle ore che mi sono state pagate ma nulla di eccezionale. Non immaginavo però che un unico cittadino riuscisse a dare un colpo del genere. E i magistrati e gli investigatori hanno fatto un gran lavoro».
In questi giorni è sulle pagine di tutti i giornali, subissata dalle interviste, lei che con i giornalisti non ha mai amato troppo parlarci. Ma questa volta ha deciso di fare un’eccezione: «Oggi finalmente sono un po’ più tranquilla», mi dice sorridendo stanca, «ed è meglio, altrimenti andavo nel pallone. Sono contenta che si stiano chiarendo molte cose – continua – visto che stava passando il messaggio sbagliato, cioè che Maroni avesse cambiato il passo della sanità lombarda. Bisogna ancora cambiare, invece. E questo è il messaggio che volevo mandare».
Io ho conosciuto Giovanna in Regione Lombardia quando ero consigliere nel gruppo di Sel e – al momento delle nomine per i revisori dei conti…


 

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Le foto della settimana. Dalla Siria a New York.

Pictures of the Syrian President Bashar Assad are seen at a check point on one of the entrances to the popular Hamidiyeh old market in Damascus , Syria, Sunday, Feb. 21, 2016. The Islamic State group claimed responsibility for a triple blast in Sayyida Zeinab, a Shiite suburb of Damascus, saying two IS fighters set off a car bomb before detonating their explosive belts, killing dozens. (AP Photo/Hassan Ammar)

Nella foto in slto: volantini con l’immagine del presidente siriano Bashar Assad presso una delle porte di accesso alla zona popolare di Hamidiyeh, il vecchio mercato di Damasco (Siria). L’Is ha rivendicato la responsabilità della tripla esplosione in Sayyida Zeinab, uno dei sobborghi sciita di Damasco. (AP Photo/Hassan Ammar)

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gallery a cura di Monica Di Brigida

La mia africa in fuga da terrore e politica vuota

Colpito da una ribellione e dall’offensiva di movimenti armati fondamentalisti, il Mali sta tornando timidamente alla musica. Il festival “Acoustik”, a fine gennaio, ha rotto per pochi giorni il clima teso dello stato d’emergenza in vigore dagli attacchi del novembre 2015 all’Hotel Radisson, portando ritmo e poesia in un digiuno di note che, nella capitale Bamako, dura dal 2012. In versione ridotta a causa dell’instabilità che attraversa sempre di più il sud est del Paese, nelle scorse settimane anche il “Festival sur le Niger” di Sègou ha affollato la riva del grande fiume, mescolando rap impegnato a conferenze su pace e convivenza. Segnali di resistenza, in una regione che si auto rappresenta come il cuore musicale dell’Africa, forte di grandi vecchi come Ali Farka Touré, Salif Keita e Tinariwen e, fra le ultime generazioni, di virtuosi della kora come Toumani Diabate e Habib Koité e delle voci raffinate di Fatoumata Diawara e Rokia Traore. Proprio quest’ultima, abituata ormai a calcare i palcoscenici internazionali, è in Italia il 29 febbraio. Una data unica all’Auditorium di Roma, in cui presenta Né so, sesto album di una carriera quasi ventennale, uscito il 12 febbraio. Alla vigilia del concerto, la cantante, chitarrista e compositrice ci ha raccontato del suo impegno per un Mali in cui «la musica e la cultura possano offrire sogni ai giovani e battere il reclutamento dei gruppi fondamentalisti, che vivono dell’assenza della politica». Un obiettivo difficile, che si scontra con l’inedia dei governi locali e una «mancanza di comprensione da parte dell’Europa, troppo centrata su se stessa». A partire dalla cosiddetta crisi dei migranti, che attraversa sottile le parole del disco, iniziando dal titolo.
Né so in lingua bambara significa “a casa”, e l’omonima canzone ricorda i milioni di rifugiati costretti a lasciare «casa, abitudini e futuro, senza sapere quando potranno tornare». Vista dall’Africa, quella dei migranti è veramente una crisi?
L’Africa è sempre stata attraversata da migrazioni e ogni famiglia, ogni villaggio, ha qualcuno in esilio in Europa o in nord America, ma le dimensioni viste negli ultimi anni, almeno per quanto riguarda la parte occidentale, hanno qualcosa di straordinario. La guerra in Libia e poi in Mali e la distruzione seminata da Boko Haram hanno causato enormi spostamenti di popolazione e, in quanto accesso all’Europa, l’Africa è stata attraversata anche da rifugiati siriani, palestinesi, curdi. Se vogliamo parlare di crisi però, il cuore della crisi non è il movimento delle persone – come spesso si pensa in Europa – ma sono le persone stesse, i loro bisogni, la loro umanità allo sbando, che mette in crisi un sistema, quello delle frontiere, degli Stati nazionali, che non funziona più. Ho scritto Né so nel 2014, dopo aver visitato un campo per rifugiati maliani in Burkina Faso, senza sapere che sarebbe diventata sempre più attuale. Come “doppia cittadina”, africana e europea (l’artista ha studiato in Belgio, dove è tornata a vivere dal 2012, ndr), sono obbligata ad avere poi uno sguardo ampio e profondo, non mi accontento delle risposte preconfezionate di molti leader). […]


 

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“Da Goteborg al Califfato”, La Svezia scopre la paura

epa05008445 Swedish police evict migrants from a illegal camp in Malmoe, Sweden, 03 November 2015. Swedish police have started clearing a Roma camp in Malmo after a months-long standoff between city authorities and about 200 people who had settled there without permission. EPA/DRAGO PRVULOVIC EPA/DRAGO PRVULOVIC SWEDEN OUT

«Questa è Goteborg. Un attacco non ci chiediamo se avverrà, ma solo quando». È questo il racconto di un greco che vuole rimanere anonimo e parla via Skype dalla città scandinava dove i Sapo, i servizi segreti svedesi, hanno alzato per la prima volta nella storia del Paese il livello d’allerta terrorismo a livello quattro. Quattro su cinque. Ovunque, in Svezia, il rischio è altissimo ma Goteborg è «fuori da qualsiasi altra statistica». Più in alto. Sirpa Franzen, ufficiale Sapo, sa che è la città con il più alto tasso di reclutamento del Califfato in Europa. Dei 280 combattenti partiti dalla Svezia, 120 sono di Goteborg o dei suoi distretti adiacenti, Bergsjon e Angered. La cittadina è un serbatoio di giovinezza martire per l’Is e una sala d’attesa per chi è tornato indietro dal Levante. Il primo arresto di stranieri legati alla jihad in città è avvenuto a luglio scorso. Allora Sirpa ha dichiarato: «È la prima volta in Svezia che arrestiamo qualcuno accusato di terrorismo in Siria». Su un dossier dove c’è scritto azzurro su blu “proteggeremo la Svezia e la sua democrazia” Anders Thornberg, a capo dei Sapo, scrive che «le primavere arabe hanno aperto nuove opportunità per i terroristi per operare in territori chiusi finora». Procede analizzando sul territorio gli Al Quaeda inspired network e i lone wolves, i lupi solitari: i primi per attacchi su larga scala, su piccola i secondi. «Ma gli svedesi ti rispondono ancora con umorismo nordico se testi il loro panico da attentato: dicono no, ho paura del winter virus, della febbre da gelo siderale», ci dice ancora il greco.
Il Paese che ha ospitato nel 2015 più migranti pro capite in Europa (163mila richiedenti asilo) è anche dunque quello che ha fornito più combattenti all’Is. Ne ragiona ad alta voce il poliziotto Ulf Bostrom: «Siamo un Paese unico che ha goduto di 200 anni di pace, ospitiamo rifugiati da tutto il mondo che ci spiegano cos’è la guerra. Ma in Svezia abbiamo Al Quaeda, Al Shabab, Is: we have it all». «Li abbiamo tutti». Alcuni di quelli che Bolstrom chiama young people che credono di avere no future e si immolano alla causa della jihad sono tornati dalla Siriaq: «Sono almeno 100, conosciamo perfino il numero di previdenza sociale, il Governo gli garantisce ancora assistenza sanitaria». Cioè non li arresta.
Non sono solo uomini, comunque. Molte ragazze partono, scrive Magnus Ranstrop, della Swedish Defence University, perché «guardano i combattenti come pop star». Delle trenta ragazze partite volontariamente dalla Svezia la maggior parte era residente a Stoccolma e, ancora, a Goteborg.
Il terrorismo è però così una vena sottilissima che è riuscita ad infilarsi, confondendosi, nel fiume della disperazione dei migranti. E adesso il paradiso dei biondi scricchiola. Il Paese fa i suoi conti: dei 58mila migranti arrivati nel 2014 il diritto d’asilo è stato concesso al 55 per cento. Dei 21mila destinati all’espulsione 14mila sono scomparsi e vivono in Svezia underground. Il 24 novembre scorso il premier Stefan Lofver aveva dichiarato «we can’t simply do it anymore» e forse nessuno l’aveva sentito. Il Ministero degli interni Anders Ygeman è stato più chiaro in seguito: ce ne sono da rimpatriare 80mila «volontariamente o con la forza». La prima pagina della Migrationsverket, l’agenzia svedese per i migranti, ha avuto per qualche giorno un messaggio d’apertura fin troppo chiaro: no longer available for accomodation. Perfino Ikea aveva finito le sue scorte: magazzini e depositi vuoti significa migranti senza materassi. Adesso «abbiamo ripristinato i controlli ai confini esattamente com’era prima di Shenghen», dice il poliziotto Stephan Ray.
Lo spettro di qualche notte fa, del buio di San Silvestro che ha cambiato la Germania a Colonia a Capodanno, sta silenziosamente rimodellando la Svezia da Malmo in poi. […]


 

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PlanB Madrid: così in Spagna si lotta contro il debito pubblico

Si chiama Auditoria ciudadana contro il debito. È una rete di economisti, attivisti e liberi cittadini che si mobilita contro il debito degli enti locali. Democrazia e partecipazione popolare le parole d’ordine.

“Contro l’austerità e per un’Europa democratica” è il titolo del manifesto del PlanB firmato da centinaia di politici, intellettuali, economisti e attivisti (tra cui il regista Ken Loach, il filosofo Noam Chomsky, la sindaca di Barcellona Ada Colau). Numerosi i personaggi della politica e dell’economia accorsi a Madrid. Da Yanis Vaoufakis che ha appena creato il movimento pan europeo DieEM25 agli eurodeputati Miguel Urban e Lola Sanchez (Podemos), Fabio De Masi (Linke), Karima Delli (Verdi francesi), Eleonora Forenza (L’altra Europa per Tsipras).

C’è da dire, inoltre, che  l’assemblea del PlanB al Matadero di Madrid (di cui parliamo nella cover story di Left in edicola dal 27 febbraio) è un evento che nasce su un terreno fertile, costituito da democrazia dal basso e partecipazione popolare.  In Spagna, infatti, a partire dalla protesta degli Indignados del 2011 è attiva Pacd, la Piattaforma per l’Audit cittadino del debito. Si tratta di un gruppo pilota costituito dagli Economistas sin Fronteras, Ecologistas en accion, Attac e molti cittadini che partecipano a titolo personale. Tutti insieme favoriscono la creazione di audit pubblici cioè commissioni di analisi e denuncia dei bilanci ma anche dei singoli atti delle amministrazioni pubbliche locali. In questo modo la deuda, il debito, è possibile “vederlo”, analizzarlo in tutti i suoi dettagli. Un primo atto, quello della conoscenza delle cifre, che è ritenuto fondamentale per poi passare alla mobilitazione e al cambiamento. «Se per esempio il preventivo per un acquisto era di 50 euro e scopriamo che ne sono stati spesi 250, cerchiamo di capire il perché della lievitazione del prezzo», spiega Chiara Giacco, una ragazza italiana che fa parte della Auditorìa ciudadana di Madrid e che ha appoggiato insieme ad altri compagni il PlanB. Le commissioni audit che esistono nelle centinaia di “nodi” spagnoli (da Madrid a Saragozza, da Barcellona a Siviglia) sono organismi tecnici indipendenti dai partiti e dai movimenti politici. «Vogliamo essere completamente liberi di giudicare le amministrazioni senza alcun condizionamento di sorta», afferma Chiara. I dati acquisiti poi vengono divulgati ai cittadini favorendo la partecipazione collettiva alla cosa pubblica. Le commissioni audit sono anche un deterrente per la corruzione, oltre che uno strumento per trovare soluzioni. Fior di economisti partecipano alla Plataforma. Al PlanB era presente, salutato da ovazioni da parte del pubblico, Carlos Sanchez Mato, economista della Pacd e con le ultime elezioni diventato assessore alle Finanze di Madrid.
Ma il personaggio che ha ispirato la piattaforma è Eric Toussaint che ha fatto parte anche della Commissione presidenziale sul debito dell’Ecuador (che ottenne una parziale ristrutturazione) e che ha guidato la Commissione per la verità sul debito in Greca instaurata dal Parlamento greco nell’aprile del 2015.

Mentre in Spagna la rete è ormai sempre più diffusa, in Italia siamo ancora all’anno zero. «Per ora sono pochissimi i Comuni che hanno attivato degli audit, tra questi Venezia, Livorno, Roma, Milano, Parma», spiega Francesca Coin che fa parte della rete veneziana e anche lei accorsa al PlanB. A Madrid è arrivata anche Cristina Quintavalla, candidata alle regionali dell’Emilia Romagna per L’Altra Europa. Fu lei, insegnante di Parma a costituire la commissione per il debito a Parma. Nel 2012 il comune si era ritrovato un passivo nel bilancio di 800 milioni di euro. Un regalo del governo di centro destra.

Per approfondimenti qui e qui

@dona_Coccoli

Miseria della politica

Dunque, politica è questo? Dopo aver detto che su unioni civili e adozione del figlio del partner omosessuale avrebbe deciso liberamente il Senato, ci si allea con i peggiori nemici dei diritti – Alfano, Giovanardi, Verdini – per mutilare la legge e imporla con la fiducia. Una doppia piroetta con cambio di cavallo pur di garantire stabilità al governo.
È dunque politica farsi scrivere un papello in inglese per chiedere all’Europa di sforare i vincoli di bilancio, dopo aver lasciato Tsipras nelle fauci dei cerberi del rigore e dopo aver svalutato il lavoro con il jobs act, il decreto Poletti, la decontribuzione alle imprese senza chiedere innovazione né impegni per l’occupazione?
Politica è edulcorare i dati per narrare a reti unificate – Rai è del governo, sia Mediaset che Sky hanno bisogno del governo – che l’Italia è sulla strada giusta? Un giornalista esperto in dati, Luca Ricolfi, ha dimostrato che la decontribuzione alle imprese costerà 10 miliardi e ha portato nel 2015 solo 186mila posti fissi in più. Mentre i contratti a tempo sono cresciuti di 420mila unità. E se si depura lo 0,7% in più del Pil dai fattori “esogeni” di ripresa – quantitative easing di Draghi, calo del petrolio – che avrebbero dovuto portare a un +1%, si constata che l’Italia è tuttora in zona negativa: -0,3%. Non importa, Ricolfi scrive per il Sole24Ore, chi volete che lo legga? Intanto si riducono le stime di crescita per il 2016 (+1,4%), ma è sempre +! Allora?
Politica significa ripetere le stesse frasi, piene di svarioni storici e millanteria: «Di legge elettorale si discuteva da venti anni e di riforme istituzionali da settanta», «in Italia si sono cambiati i governi e non si sono cambiate le cose: sessantatré governi e non si sono realizzate le riforme», «vedrete che l’Italicum sarà copiato in mezza Europa», «l’Italia tra vent’anni sarà leader in Europa e non lo dico come training autogeno», «il dato di fatto, inequivocabile e oggettivo, è che mai, in nessun paese d’Europa, tante riforme sono state fatte in così poco tempo». Tanto da far sbottare Gian Antonio Stella: «Cala Trinchetto!».
Sarà, ma noi di Left non ci rassegniamo a questa politica senza popolo. Non pensiamo che dare la parola agli elettori – visto che nessuno fa più le cose per cui era stato eletto – significhi «far perdere sei mesi all’Italia». Non celebreremo un Principe che, rafforzando la sua presa sul potere, invochi di volta in volta diritti da estendere, tutele da garantire, politiche per il lavoro o per i giovani. Salvo sostenere poi che non si poteva fare altro e che è comunque meglio del niente che si faceva prima. Un Principe non eletto, revisionista e pieno di sé.
Non ci rassegniamo, e cerchiamo negli Usa – nel numero scorso – e nella sinistra europea – in questo – i segni di una politica diversa. Una politica che non abbia paura del voto né dei diritti. Che sappia ascoltare i 9 milioni di cittadini italiani – 3milioni con contratto a tempo, 3 milioni che lavorano senza contratto, 3 che cercano lavoro e non lo trovano (dati Ricolfi) – esclusi dalle magnifiche sorti e progressive del capitalismo finanziario. Il quale controlla i mercati, erode reddito e aspettative del ceto medio, favorisce la concentrazione in poche mani di ricchezze enormi, postula che la democrazia diventi decidente. Democrazia sì, ma per i mercati!
Per noi è politica battersi per l’Europa, un’altra Europa. Sgrassare, in Italia, corruzione e intermediazione criminale, che sono il peggior lascito del neoliberismo. Garantire istruzione per tutti e rivoluzionare il sistema sanitario, rendendolo di nuovo pubblico, mettendo la persona al centro delle cure, puntando sulla ricerca, come fanno in India. È battersi contro la svalutazione del lavoro che alla fine è svalutazione della donna e dell’uomo, ridotti a merce e scarto.
Utopia? Forse, ma in nome delle utopie si sono mossi milioni di donne e di uomini, costruendo speranza, futuro, benessere.

Questo editoriale lo trovi sul n. 9 di Left in edicola dal 27 febbraio

 

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Cos’è un hotspot? Un istant doc denuncia: fabbriche di clandestinità

Centri in cui identificare rapidamente, fotosegnalare e registrare le impronte digitali dei migranti in arrivo. Centri che ci chiede l’Europa, a noi italiani e ai greci. Questo sono gli hotspot. Strutture di transito – e non di accoglienza – che hanno lo scopo di classificare i migranti: migranti “economici” o richiedenti asilo. In 48 ore (estensibili al massimo a 72 ore), dunque, si decide il destino di chi sbarca: rimpatrio per i primi (economici) domanda di protezione internazionale per i secondi. Quarantotto ore, solo quarantotto ore. Tempi strettissimi. Ne consegue che la classificazione avviene per lo più in base alla nazionalità del migrante. E, talvolta, come denunciano Marco Bova, Francesco Bellina e Marta Gentilucci, l’immediatezza si traduce in una classificazione basata sul colore della pelle: nero? Migrante economico; più chiaro? Richiedente.
A chi è classificato migrante economico, poi, viene rilasciato un foglio di via (per l’auto-rimpatrio) e mandato in strada. Ne è un esempio l’hotspot di Trapani (uno dei tre attivi in Italia, insieme a Lampedusa e Pozzallo). Dove, come denunciano gli autori, i 196 migranti sbarcati a inizio gennaio sono stati frettolosamente classificati “migranti economici” ed è stato intimato loro l’ordine di lasciare il territorio italiano entro 7 giorni. Morale della favola: 196 persone abbandonate a loro stesse, si riversano per le strade di Trapani.

Hotspot Factory è un sistema che – insieme a frontiere e muri – mette a nudo l’incapacità della Commissione Europea di far fronte al problema senza cadere nell’ideologia dell’emergenza. Nell’istant doc gli autori e gli ospiti intervistati, tra cui il professor Fulvio Vassallo dell’Università di Palermo.

Allarmismi e approssimazione. Fretta e perseveranza nell’ostinarsi a non considerare le persone come individui, ma come “fogli bianchi” sui quali apporre un numero, un codice e una data di espulsione. Per la cronaca, i migranti in arrivo nell’intera Europa rappresentano lo 0,1% della popolazione europea; in un Paese come il Libano rappresentano il 25% della popolazione libanese. L’Europa si sgretola sotto gli occhi di Schengen.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Trivelle, il divieto della Francia e i sussidi dell’Italia

La piattaforma Ombrina ricevuta da Nuovo Senso Civico

I sussidi pubblici, le royalties più basse d’Europa e per giunta detraibili dalle tasse. E perfino l’esenzione dall’Ici. Se qualcuno si chiede perché c’è ancora chi ha interesse a trivellare l’Italia nonostante i rischi ambientali e il prezzo del petrolio ai minimi storici, ecco la risposta. Nel nostro Paese il business delle concessioni petrolifere resta appetibile perché può contare sul sostegno delle politiche governative (le stime delle diverse forme di sostegno alle fonti fossili nel nostro Paese di aggirano attorno ai 17,5 miliardi di euro l’anno), che invece penalizzano le fonti pulite. Il decreto Milleproroghe in via di approvazione, per stare ai fatti più recenti, prevede la cancellazione della norma che prevede la progressività della bolletta energetica in base al principio che chi consuma di più (e non presta attenzione a efficienza e risparmio energetico) paga conseguentemente di più.

In attesa che gli italiani si esprimano attraverso il referendum del 17 aprile, è giunta ieri una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce l’obbligo di pagare l’Ici per quattro piattaforme di estrazione in acque italiane al largo dell’Abruzzo. Il Comune di Pineto, nel Teramano, si era opposto alla decisione delle commissioni tributarie provinciale e regionale di esentare le trivelle dalla tassazione sugli immobili in quanto non iscritte al catasto e strumentali rispetto all’impianto sulla terraferma a cui sono collegate.

Non la pensa così la sezione tributaria della Suprema Corte, che ritiene le piattaforme petrolifere assoggettabili alla categoria degli immobili ai fini civili e fiscali, quindi soggetti ad accatastamento e strumento che consente di produrre reddito. Dal canto suo l’Eni, proprietaria delle piattaforme in questione, fa notare che il governo con l’ultima legge di Stabilità ha abolito l’Ici-Imu sui cosiddetti imbullonati e sottolinea in una nota che questa sarebbe «la dimostrazione della grande irrazionalità di applicare agli impianti produttivi le imposte concepite per i plusvalori immobiliari e per il finanziamento dei servizi locali».

Intanto dalla Francia arriva la notizia che d’ora in poi saranno vietate le ricerche petrolifere su tutto il territorio nazionale. Il ministro dell’Ecologia e dell’Energia, Segolene Royal, ha spiegato che la mossa di non concedere più permessi di esplorazioni darà una forte spinta allo sviluppo dell’industria dell’efficienza energetica e delle rinnovabili, convogliando gli investimenti pubblici e privati su questo settore.

Il ministro francese, da poco nominata presidente della Cop21 e anche in questa veste alle prese con l’applicazione degli accordi sul clima di Parigi, fa compiere al suo Paese – che diventa così il primo in Europa a rinunciare a nuove trivellazioni – un importante passo avanti verso la riduzione delle emissioni climalteranti. «Dal momento che dobbiamo ridurre la quota dei combustibili fossili – ha chiesto Royal davanti ai parlamentari d’Oltralpe -, perché continuare a fornire autorizzazioni agli idrocarburi convenzionali?». Una scelta, quella francese, che rende più chiara la posta in gioco in Italia con il referendum del 17 aprile.

Fortuna che non fanno che ripetere «difendiamo i nostri figli»

Si possono punire i bambini perché i loro genitori sono andati contro la legge? Buon senso, ma anche diritto, porterebbero a rispondere di no. A un ladro, omicida, terrorista, mafioso non viene automaticamente tolta la patria potestà, nonostante il suo esempio educativo sia lungi dall’essere esemplare e nonostante la pena cui viene eventualmente condannato impedisca di fatto di avere rapporti continuativi con i figli. Alle madri di figli molto piccoli condannate al carcere si consente di tenere il figlio con sé, privilegiando, a torto o a ragione, la continuità del rapporto rispetto alle limitazioni materiali e simboliche che la condizione carceraria pongono allo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino.

Le norme sull’affido famigliare e la dichiarazione dello stato di adottabilità consentono di togliere un bambino ai genitori solo nel caso questi si siano dimostrati gravemente incapaci di svolgere il loro ruolo genitoriale, quando rappresentino un rischio per l’incolumità psico-fisica del bambino. E in questi casi neppure sempre. Alla signora Franzoni, per esempio, non sono stati tolti i figli, nonostante lei sia stata condannata in modo definitivo per l’omicidio del piccolo Samuele, suo figlio anch’esso. Il Tribunale dei minori ha valutato che l’intorno famigliare – il padre, i nonni – fosse una garanzia protettiva sufficiente per gli altri figli, evitando la separazione. Il principio che regola queste decisioni è sempre l’interesse del bambino e la capacità genitoriale dei genitori, indipendentemente dal rapporto di questi con la legge. Non è più il tempo in cui alle madri nubili si toglievano i bambini perché le si giudicava inadatte a priori solo per il fatto di non essere sposate.

Eppure, c’è chi, tra gli altri la ministra Lorenzin e parte dei parlamentari sia della maggioranza sia dell’opposizione, sta pensando di mettere in carcere per molti anni chi ricorre alla gestazione per altri, e di negare l’adottabilità del figlio da parte del genitore non biologico, di fatto condannando i bambini a essere privati di entrambi i genitori.

Non entro qui in merito alla discussione sulla liceità etica della gestazione per altri, salvo ricordare che i contesti in cui questa può avvenire sono molto diversi dal punto di vista delle garanzie e della libertà di scelta per le donne che vi si prestano. Si può essere in radicale disaccordo con questa pratica a prescindere dal contesto e cercare di vietarla. Ma non è chiaro in nome di quale principio etico, aver messo o essere venuti al mondo per suo tramite – se non altro un indizio di quanto quel figlio sia stato fortemente voluto – debba comportare una condanna che non viene pronunciata neppure nel caso di genitori gravemente e pericolosamente delinquenti. Soprattutto non si capisce perché si debbano punire i figli concretamente esistenti in nome di un principio astratto. Altro che “difendiamo i nostri figli”: qui si prevede di punire i figli, insieme ai loro genitori, per la loro venuta al mondo non standard. Se mai in Italia una norma del genere venisse approvata, andrebbe per altro contro l’indicazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha riconosciuto, proprio in caso di ricorso alla gestazione per altri, la figura del genitore sociale. Una decisione fatta propria anche da sentenze di tribunali italiani, di fatto cancellando la norma già presente nella legge 40 che stipula la punibilità (con la detenzione fino a due anni e un’ammenda) del ricorso alla gestione per altri, indipendentemente dal fatto che ciò sia avvenuto in Paesi in cui è legale. Approvando una norma contraria sia ai diritti dei minori sanciti dalle convenzioni internazionali, sia alle indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’Italia si metterebbe in condizione di essere portata in giudizio davanti alle Corti internazionali.


 

Questo articolo è tratto dal n. 9 di Left in edicola dal 27 febbraio

 

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Irlanda al voto. Perché la questione aborto è così importante

Sono in tante come S. a prendere un qualsiasi volo dall’Irlanda per raggiungere la Gran Bretagna. S. ha 19 anni, a tutti, ad eccezione di qualche amico, ha detto che andava a fare un giro, non in Uk. Appena atterra manda un messaggio a quella che alla sua migliore amica: «Il mio numero sembra strano? Qualcosa può far capire che sono in Inghilterra?». Quella di S. non è la fuga di un’adolescente per andare a divertirsi, la fuga di S. ha una ragione ben precisa: in Irlanda abortire è illegale.
Il tassista che porta S. dall’aeroporto al suo indirizzo di destinazione lo capisce subito e in poche parole riesce a descrivere la situazione: «Ah, sei Irlandese, capisco». Come se a quello stesso indirizzo avesse trasportato già molte ragazze connazionali di S..
E i numeri sembrano dare ragione al tassista: le irlandesi che dal 1971 si sono recate in Inghilterra o in Galles per interrompere la gravidanza sono 177.000. Chiunque infatti possa permettersi un “temporaneo esilio” in Inghilterra sceglie quest’opzione per aggirare una legislazione per cui l’aborto è illegale e che, secondo il Centre for Reproductive Rights, è «una violazione assoluta delle norme internazionali sui diritti umani e sul diritto delle donne alla salute e alla dignità».
Circa 3 anni fa, il 12 luglio 2013, con il “Protection of Life During Pregnancy Bill” erano state introdotte eccezioni alla totale illegalità, stabilita nel 1983 con un referendum costituzionale in cui veniva vietata l’interruzione di gravidanza. La legge del 2012, pur essendo di portata storica, di fatto sancisce un iter talmente tortuoso da costringere comunque le donne irlandesi al “temporaneo esilio” per abortire, come è successo a S.. Eppure le cose potrebbero cambiare presto nella cattolicissima Irlanda che, dopo aver approvato lo scorso anno il matrimonio omosessuale, proprio oggi va al voto e sembra avere intenzione di eleggere il prossimo premier anche sulla base dell’idea che ha dell’interruzione volontaria di gravidanza.
Negli ultimi mesi infatti i movimenti e le manifestazioni a favore della tutela delle donne che si trovano nella stessa situazione di S. sono stati, come mai prima d’ora al centro della vita politica del Paese. E con l’imminente elezione del nuovo primo ministro irlandese la posizione del futuro premier sull’interruzione di gravidanza è soprattutto questione di voti. Il dilemma che più risuona nei palazzi della politica è semplice: valgono di più i voti dei movimenti e dei cittadini pro-aborto oppure quelli dei cattolici conservatori?

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Project X-ile, le irlandesi ci mettono la faccia per chiedere la legalizzazione dell’aborto

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Per rispondere basta dare un’occhiata all’Irlanda di oggi. Che non è sicuramente quella del 1983 pronta a votare a favore dell’Eighth Amendment della Costituzione, perché moralmente convinta che la vita del feto sia uguale a quella della madre e che l’aborto debba essere illegale. Sicuramente rimane uno dei paesi più cattolici e conservatori d’Europa, ma quest’identità sta iniziando a convivere con un’altra identità più progressista, più tecnologica, più aperta e che dilaga più in fretta fra la gente. Quella delle imprese hi-tech o dei colossi del web (basti pensare a Twitter, la cui sede europea è proprio a Dublino), quella dei laureati iperqualificati ormai multilingue e di tutte quelle giovani generazioni che si sentono molto più europei che irlandesi. Cittadini di un’Europa di cui mal tollerano le politiche economiche di austerity ma della quale condividono i valori progressisti e liberali su cui è stata fondata. Di un’Europa che ha vissuto un processo di secolarizzazione capace di aprire le menti e svuotare le chiese, con grande rammarico del Vaticano. Nel 1984 circa il 90% dei cattolici irlandesi dichiarava di andare in chiesa settimanalmente. Nel 2011 questa stessa percentuale è crollata al 18%. Segno tangibile del fatto che qualcosa è cambiato. «Fin dagli anni settanta con il suo ingresso nella Comunità europea, l’Irlanda ha iniziato un processo che l’ha vista diventare progressivamente sempre più urbanizzata e in linea con gli standard europei» ha detto a Newsweek Carol Holohan, professore di Storia moderna dell’Irlanda al Trinity College. Ma in Irlanda il distacco con la chiesa cattolica aumenta sempre più, non solo per cause culturali, ma anche per motivi storici e soprattutto per fatti di cronaca che hanno ridotto a brandelli il rapporto di fiducia fra fedeli e Vaticano. È il caso per esempio di una serie di scandali per abusi su minori che hanno travolto negli anni 90 e nei 2000 il clero irlandese. Proprio sulla pedofilia il governo ha addirittura commissionato un rapporto che è stato reso pubblico nel 2009. Nel documento di ben 2600 pagine emerge che le violenze sui bambini nelle scuole e negli orfanotrofi cattolici del Paese erano endemiche. Nonstante i continui tentativi di insabbiamento, le accuse e le prove mosse contro preti e suore per abuso di minore, hanno quindi indubbiamente messo in discussione di fronte a gran parte della popolazione l’autorità morale della Chiesa e con essa la sua capacità di influenzare tematiche politiche che aprivano spazio a una dimensione anche etica come aborto e matrimoni omosessuali.
Il successo nell’approvazione delle nozze gay nel maggio 2015 indica proprio questo: una volontà di rimettersi al passo con i principi europei abbandonando il pesante bagaglio di bigottismo cattolico che aveva frenato l’Irlanda dal diventare un Paese progressista. Revocare l’Ottavo emendamento sull’aborto, anche se sarebbe solo un primo passo, suscita ancora reazioni più agguerrite rispetto all’approvazione dei matrimoni gay. Quale sarà la strada scelta e intrapresa dall’Irlanda lo vedremo dal risultato e dalle reazioni che ci saranno dopo il voto alle elezioni del 26 febbraio. Intanto in vista delle urne il Labour irlandese, che fa parte della coalizione di governo, e Sinn Fein, partito indipendentista che nei sondaggi è al terzo posto per gradimento, hanno già dichiarato che in caso di vittoria supporteranno un referendum per abrogare l’Ottavo Emendamento. Enda Kenny, primo ministro in carica e leader del partito di centro-destra Fine Gael, invece la prende più alla lontana e dichiara che, in caso di rielezione, nominerà un gruppo di cittadini per determinare se il Parlamento dovrebbe o meno tenere un referendum sulla modifica costituzionale che sancisce l’aborto. La prudenza di Enda Kenny ha ovviamente radici molto concrete, da un lato la volontà di non deludere l’elettorato coservatore cattolico, dall’altro la consapevolezza che il Paese sta cambiando e che secondo molti sondaggi la maggior parte degli elettori voterebbe per l’abrogazione dell’Ottavo Emendamendo, spianando la strada a un’Irlanda più laica e progressista, dove una ragazza come S. non sarebbe costretta a un “esilio temporaneo” per abortire.