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Nel film Pride le lotte per i diritti nell’Inghilterra anni 80. Con humour

Nel 1984 i minatori incrociano le braccia, denunciando la perdita di 20.000 posti di lavoro; la Thatcher lancia compassati proclami sull’urgenza di imporsi come leader forte e manda la polizia a reprimere gli scioperi; il movimento gay sfila a Londra tra i lazzi dei benpensanti.

Film, Pride, LeftCome stiano insieme questi tre momenti della storia britannica ce lo racconta il regista Matthew Warchus – direttore artistico dell’Old Vic Theatre, al posto di Kevin Spacey – nella commedia brillante Pride. I temi sono quelli del dramma impegnato, affrontati da Loach, Frears, Leigh, ma qui vengono declinati con leggerezza e tocco alla Ealing – gli studios, che raccontavano storie a sfondo satirico e sociale, sdoganando, con humour, rigidità, pregiudizi e snobismi moralistici.

La vicenda: Mark Ashton, leader gay e attivista comunista, decide di sostenere con amici lo sciopero dei minatori nel Galles, lo fa sui marciapiedi di una Londra cosmopolita e ribelle ma al momento della consegna del denaro esplodono le contraddizioni. I minatori non vogliono i “pervertiti” al loro fianco e i gay non riescono a comunicare la loro solidarietà. Tutto sembra precipitare, finché le posizioni antagoniste si riconciliano in una nuova idea di solidarietà, complici la birra e la musica.

Film sul tema della diversità – sia essa di gender, estrazione sociale o local (metropoli contro provincia) politically correct e fin troppo incline ai clichés, smussati dalla performance degli attori. C’è il coming out del bravo ragazzo, la lotta dell’idealista puro, la famiglia ostile alla scelta gay, la violenza su chi ha già scelto, la consapevolezza delle donne dell’alterità, l’ironia sui luoghi comuni sui gay e infine la cupa ombra dell’Aids, ma tutto è svolto in modo semplificato. Una favola moderna su un fatto realmente accaduto, la cui conclusione fu la fine degli scioperi dopo un anno di cruda resistenza.

Sullo sfondo, iconografia queer, brit-pop e dance music anni 80, brani degli Smiths, Soft Cell, il falsetto di Jimmy Somerville con i Bronski Beat e la cantilena suadente “You Spin Me Round,” che, fuori dalle nostalgie vintage, un sussulto ai fianchi continua a trasmetterlo.

Dell’Utri, Berlusconi e Mangano: il nuovo spettacolo di Giulio Cavalli

Marcello (Dell’Utri), Silvio (Berlusconi) e Vittorio (Mangano) sono i tre protagonisti de L’amico degli eroi, il nuovo spettacolo teatrale di Giulio Cavalli, rigorosamente chiamati per nome come vuole la “dizione berlusconian-renziana” che ha preso piede negli ultimi 20 anni. Marcello è un giovane e intraprendente siciliano nato da una famiglia borghese ma decadente del centro di Palermo.

Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova professionalmente fuori gioco negli ambienti che contano. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo.

Vive in un paese di provincia, ma appena ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora della Città e soprattutto: di eleganza, soldi e affari. Così Silvio decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è invece mafioso figlio di mafiosi. Porta con sé una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. Prepotente e manesco, frequenta poco e male una scuola palermitana che utilizza più per arruolare guappi nel suo “esercito” che per attitudini di studio.

Tra tutti un filo conduttore oltre all’ambizione e all’essere disposti a tutto: la passione per il calcio. Lo spettacolo incentrato su «parole, opere e omissioni di Marcello Dell’Utri» è arricchito dalle musiche dal vivo di Cisco Bellotti. Totalmente autofinanziato tramite crowdfounding sulla piattaforma www.produzionidalbasso.com L’amico degli eroi andrà in scena al raggiungimento della cifra di 10.000 euro. Per contribuire mancano 41 giorni e poco meno di 2000 euro, se volete godervi lo spettacolo non vi resta che cliccare qui.

L'Amico degli Eroi

Il Labour al voto in Inghilterra con Ed Miliband, il leader normale

Si può fare una bellissima e credibile campagna elettorale che non poggi solo ed unicamente sul leader del proprio partito/coalizione. Ce lo ha insegnato il Labour in questi mesi.

Ed Miliband non è e non sarà mai un personaggio da far rizzare i capelli, non è e non sarà mai Tony Blair (per fortuna?): modesta presenza scenica, zeppola, attitudine da “North London Geek”, come da molti è stato appellato con disprezzo. Eppure mentre attraversava il paese in lungo e in largo, in venue più o meno grandi, ingaggiando i suoi avversari nei pochi dibattiti tv – anche quello a cui secondo tutti gli strategist non avrebbe mai dovuto presentarsi, cioè il dibattito tra le minoranze -, fronteggiando il temibile Jeremy Paxman, a cui ha confermato di essere “tough enough”, e bussando alle porte di britannici disillusi e sull’orlo di una crisi di nervi, il modo in cui il “fratello sfigato” della famiglia Miliband è percepito dalla public opinion è sensibilmente cambiato.

Ora Ed non è più “debole”, ma “sensibile”. Non è più “noioso”, ma “credibile”. Non è più “goofy”, ma addirittura “charming”, soprattutto se lo andate a chiedere alle teenager impazzite sui social del ‪#‎milifandom‬. Un gran lavoro: non sorprende ci sia la mano di David Axelrod, già campaign advisor del Presidente più cool dell’universo mondo (indovinate chi). I Tories hanno sin dall’inizio puntato tutto sulla presunta debolezza di Miliband, e questo non ha fatto che rinforzarlo: la magia dello spin.

Ma come dicevo all’inizio, il Labour ha mostrato che si può fare una bella campagna sopperendo ai limiti del proprio leader. Mostrandosi soprattutto una comunità, trovando appoggi esterni nella cosiddetta “società civile”, mandando avanti altri “senior Labour” come il brillante e -molto probabilmente – futuro leader Chuka Umunna, evitando contrasti interni, soprattutto in un periodo così delicato.

Numerosissimi sono stati i militanti accorsi da tutta Londra a dare una mano a Neil Coyle, e tante le persone che per la prima volta, sentendo il bisogno di fare qualcosa per la propria comunità, si sono affacciati alla doorstep di losche council estates con un invito a votare Labour “on may the 7th”. Uniche armi di persuasione: un sorriso, e la stessa presenza su quel ciglio di porta. Quest’ultimo, in particolare, è stato un mantra ripetutamente utilizzato dai candidati Labour: “Conservatives has big money, we have people”. Un continuo invito alla mobilitazione, come all’autofinanziamento, nelle ripetute ma mai urticanti newsletter inviate ai volontari.

Non si può negare che il governo della Coalition di David Cameron abbia riportato un sentore di stabilità e crescita nell’economia britannica. Tuttavia, ciò è stato fatto con costi sociali innegabili. Budget annuali draconiani, imposti dall’ala thatcheriana dei Tories, quella del Chancellor of the Exchequer, il nostro Ministro delle Finanze, George Osborne. Tagli lineari al welfare, privatizzazione selvaggia del National Health Sistem (Sistema Sanitario Nazionale), un focus esagerato sulla City finanziaria della Londra guidata da Boris Johnson. Ma soprattutto, e queste sono le scelte che più hanno colpito le fasce più deboli, oltre che il consenso dell’alleato Lib-Dem e vice-Premier Nick Clegg: le tasse universitarie aumentate del 50%, l’impazzare dei zero-hour contracts (che in sintesi funzionano così: ti chiamo la mattina per lavorare 10 ore quel giorno stesso, ma magari poi non ti chiamo più per una settimana), un mercato immobiliare che sta letteralmente cacciando via i meno benestanti dalle zone “gentrificate”. Le zone rurali si sentono sempre più escluse dalle politiche di Westminster, da qui il razzismo galoppante e la crescita di UKIP, e l’Unione stessa del Regno sembra in pericolo: lo Scottish National Party, forza progressista ma indipendentista della Scozia, vincerà tutti (o quasi) i seggi in cui si candiderà.

In questo contesto, il focus tematico del Labour non poteva che tornare a sinistra, dopo il decennio delle opportunità e della successiva Grande Crisi, e quindi sull’uguaglianza: “We believe that Britain succeeds when working people succeed”. Salvataggio del NHS, eliminazione degli zero-hour contracts, abbassamento delle fees universitarie, regolamentazione del mercato immobiliare, un’apertura più convinta all’Europa, l’investimento sulle skills di britannici ormai spesso surclassati da immigrati dall’alto livello professionale.

La carta che ha incredibilmente convinto Russell Brand, il comico anarchico, un po’ Beppe Grillo un po’ Daniele Luttazzi, a dare in questi ultimi giorni il suo appoggio a Miliband, è stata però la generale “disponibilità all’ascolto”, e le chiare posizioni contro i monopolisti del settore bancario e mediatico (vedi Murdoch, oggi inferocito a giudicare della copertina del Sun): c’è chi storce il naso per questo endorsement, io ne sono piacevolmente stupito. Perchè ciò che non è successo in Italia, ciò che ha congelato l’incredibile energia di cambiamento scaturita nell’inverno 2013, sta forse succedendo qui: un leader di sistema anche piuttosto posato ed istituzionale, Ed Miliband, che dichiarandosi disponibile, con la sua comunità – condizione imprescindibile: la comunità -, a un coerente ma radicale cambiamento del sistema, convince il paladino dell’anti-sistema. Cosa c’è di più politico, e romantico di questo?

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La cosa più stucchevole ma divertente: le previsioni. Credo i Tories vinceranno la maggioranza relativa di pochissimi seggi, ma non avranno lo spazio necessario per riproporre la Coalition per il probabile insuccesso dei Lib-Dem. La palla passerà al Labour: Miliband dovrà rimangiarsi la promessa, e fare un patto con Nicola Sturgeon degli indipendentisti scozzesi. Che almeno è progressista e anti-austerity.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/nicoloscarano” target=”on” ][/social_link] @nicoloscarano

Civati esce dal Pd, Fratoianni «Da giugno lavoriamo a un nuovo partito»

«A Civati e a tutti coloro che vivono con disagio e sofferenza questa fase della vita politica del Partito Democratico, diciamo che Sel è pronta da ora a mettere in discussione il nostro partito e i nostri gruppi parlamentari per costruire tutti insieme una forza più grande, una sinistra moderna, nuova, popolare. Credo che ce ne sia bisogno e che sia urgente farlo». Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, il partito di Nichi Vendola, è decisamente contento della scelta di Pippo Civati di lasciare il gruppo e il partito di Matteo Renzi. «Senza la fretta delle scadenze elettorali», dice, «dobbiamo dare una risposta alle piazze della scuola, della Cgil e della Fiom». Left gli ha chiesto quale sarà il percorso.

Civati esce dal Pd. Va nel gruppo Misto. E poi?

«E poi facciamo quello che mi pare sia urgente: mettere all’ordine del giorno, anche con Civati e gli altri esponenti del Pd particolarmente critici – e sono tanti, soprattutto nei territori – la costruzione di un nuovo soggetto politico di cui oggi in tanti sentono la necessità».

È un nuovo partito.

«Spero sia quello il punto di arrivo: una forza politica che sia in grado di rispondere alle piazze della scuola, della Cgil e della Fiom. Dobbiamo tenere bene a mente, però, che non serve fare le corse».

Che percorso immagina?

«Io penso che sia necessario, passata la frenesia delle regionali, mettersi tutti insieme, dichiarare la comune intenzione, attivare un percorso e coinvolgere tutte le forze che bisogna coinvolgere, partiti, movimenti, singoli cittadini. Dobbiamo costruire per tempo una discussione sul programma politico e sulle pratiche di questa cosa che chiamiamo sinistra, per evitare, come troppo spesso è accaduto, di finire col fare solo una lista elettorale, in tutta fretta».

Il nuovo soggetto politico certificherà che la stagione del centrosinistra è chiusa?

«La stagione del centrosinistra, con quel nome, è chiusa da tempo, veramente, perché siamo di fronte a una profodna modificazione del Pd e a un’agenda di quel partito che non consente di immaginare collaborazioni né alleanze».

Anche ieri sera con Irene Tinagli, a Ballarò, avete avuto uno scontro molto forte sull’abbassamento dell’età pensionabile e sulla legge Fornero, che Tinagli difendeva.

«Proprio per questo dico che Irene Tinagli rappresenta l’agenda di un governo e di un partito che ancora vuole seguire la lettera della Bce, che vuole restringere i diritti e ridurre gli spazi di partecipazione. È evidente che se l’agenda del Pd è quella di Irene Tinagli, il centrosinistra non esiste».

Mi tocca però far notare che in alcuni territori Sel e Pd governano insieme…

«Ma succede proprio perché il punto non sono le formule magiche. Pd e Sel, in alcune città, governano insieme su un’altra agenda politica rispetto a quella che il Pd applica a suon di voti di fiducia a palazzo Chigi. Milano, per esempio, con Pisapia, va in una direzione che è sicuramente diversa da quella del governo di Matteo Renzi».

Civati ha incontrato Maurizio Landini, prima di dare l’annuncio definitivo. Lei ha capito se sarà lui il leader?

«Ho capito che Landini è un punto di riferimento importante e che abbiamo bisogno di concentrarci sulle cose da fare, sulle nostre riforme, sull’alternativa, anche perché – ripeto – non c’è una scadenza elettorale. Ormai mi pare sia chiaro, no? Non basta più dire che bisogna fare una forza “di sinistra” per convincere le persone che stai parlando di loro»

E Nichi Vendola che ruolo avrà?

«Nichi è il leader di Sel e non può che avere un ruolo fondamentale in questo percorso che stiamo in realtà già facendo da tempo. Abbiamo detto che siamo pronti a mettere in discussione tanto i gruppi parlamentari quanto il partito, perché siamo convinti che questa sia la strada, tant’è che già alle regionali, e prima ancora alle ultime europee, con il limite della scadenza elettorale, ci siamo impegnati in liste unitarie della sinistra, non pensando neanche per un secondo che valesse la pena rivendicare la presenza del nostro simbolo».

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Civati lascia il Pd: «Io vado via. Da solo, poi vedremo». L’annuncio ufficiale a Left

«Concludo in tutti i sensi»: una frase lapidaria. È definitivo: Pippo Civati lascia partito e Gruppo Parlamentare Pd. Pronto già il simbolo, e le idee sono chiare «ci sarà un uguale», confessa. Ha avuto molto tempo, per elaborarle, il leader della minoranza dem. L’hashtag ironico è #raggiungopastorino.

«La mia non è una rinuncia al Pd, alla sua storia. Ma togliendo la mia fiducia a Renzi, inevitabilmente esco dal Gruppo del Pd». Pronto al salto nel Gruppo Misto, che «tutto sommato assomiglia al Pd: c’è un po’ di tutto nel Gruppo misto, c’è un po’ di tutto nel Pd, dove oramai si candidano tutti, anche i fascisti», scherza ma non tanto, Civati, intervistato in esclusiva dalle telecamere di Left.

Alla base della scelta travagliata, molto attesa ma che allo stesso tempo non sorprende, una serie di mosse sempre più indigeribili del governo Renzi. Solo l’ultima delle quali l’imposizione della fiducia sull’Italicum. «Io non ho più fiducia in questo governo. E mi chiedo e chiedo anche ai colleghi del Partito democratico, se è possibile dopo una fiducia del genere – i cui precedenti si sono visti, secondo il leader lombardo, nei momenti peggiori della nostra storia: «con De Gasperi e Mussolini». Un appello ben preciso con una domanda ben precisa: «Come si fa ad avere ancora fiducia in questo governo?». L’abbiamo scritto nella copertina in uscita questo sabato: cosa deve fare ancora Matteo Renzi per far capire di che pasta è fatto?

Già il Jobs act e la riforma costituzionale sembravano essere state le gocce che avrebbero fatto traboccare il vaso. «Non è soltanto l’Italicum. Di episodi ne abbiamo visti diversi», e cita lo Sbloccaitalia, le dimissioni del Ministro Alfano, le riforme costituzionali: «La decisione finale l’ho maturata ascoltando gli insegnanti ieri. Mentre il ministro Giannini dichiarava che era uno sciopero politico, un ministro del Pd, insegnati del Pd manifestavano e dichiaravano che il Pd, non l’avrebbero più votato».

Civati di dubbi non ne ha da un pezzo: «come si fa a rimanere in questo Gruppo? Che senso ha rimanere in un governo che liquida le minoranze, le umilia… Sui giornali abbiamo letto parole come “li ho sterminati”, li ho asfaltati. Ecco, io spero che qualcuno voglia uscire dall’asfalto».

Una vera e propria chiamata alle armi, iniziata da tempo. Pronti anche gli interlocutori, infatti: «Almeno da un anno costruisco relazioni con la società, con la politica». E allora si parte da Maurizio Landini, con cui ha parlato stamattina, e Susanna Camusso che incontrerà domani, ma ci si aspetta che saranno svariate le figure che verranno attratte dal quarantenne con una precisa idea di sinistra in testa, alternativa al Partito di Renzi, «anche con un altro linguaggio: la sinistra non parla così da nessuna parte al mondo». Trai futuri compagni papabili, esponenti di Sel, di Rifondazione e i socialisti. Non i soliti noti, «mi interessano di più quelli che ancora non conosciamo», ammette, la cosiddetta maggioranza invisibile più volte raccontata sulle pagine di Left.

E poi ci sono i senatori della minoranza critica del Partito di Renzi, anche loro scalpitanti, e che spesse volte si sono trovati a condividere il disappunto di Civati nei confronti di modalità e contenuti politici del presidente del Consiglio. Numeri che potrebbero fare la differenza. E Civati lo dice a chiare lettere: «Anche al senato – dove la maggioranza è ben più risicata e deve ancora passare al vaglio la legge di riforma costituzionale – c’è qualcuno che farà la stessa cosa che ho fatto io». E dalla Camera, chi altro lo seguirà? «Non importa, intanto io esco. Poi vediamo cosa accade.» E a giugno, forse la Convention. Si parte. Finalmente.

Sul suo blog Civati pubblica un lungo post in cui spiega agli elettori Pd le ragioni del suo addio e conclude: «Questa non è solo una fine, è anche un inizio».

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Civati lascia il Pd. I tweet ironici in attesa dell’annuncio ufficiale

Ieri sera Civati aveva convocato i suoi per discutere la sua imminente uscita dal Pd dopo l’approvazione dell’Italicum. Oggi la dichiarazione: «Non ho più fiducia, non sosterrò il governo e per questo lascio il gruppo del PD». Nel frattempo sui social si scatenano le reazioni anche ironiche degli utenti.

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Elezioni in Inghilterra, tra Ed Miliband e Cameron i britannici scelgono Internet

Il leader dei Laburisti, Ed Miliband, potrebbe strappare di un soffio il ruolo di primo ministro inglese a David Cameron. Westminster appare, già dai sondaggi elettorali, completamente ingovernabile. Ma, nonostante l’incertezza del risultato che usciraà dalle urne tra poco più di 24 ore, è chiaro fin da subito chi ha vinto le elezioni inglesi del 7 maggio: internet.

Questa è la prima maratona elettorale completamente social e, a parte l’eccitazione per la nascita della Royal baby che i sondaggisti danno come un punto a favore per i conservatori per il modo in cui ha stretto gli inglesi attorno alla famiglia reale, è il popolo del web ad avere già vinto a mani basse la competizione elettorale tra Labour e Tories per l’ambito posto di nuovo inquilino al 10 di Downing street.

Da mesi gli osservatori politici versano infatti fiumi di inchiostro per denunciare quanto sciapo sia stato il confronto tra i due maggiori partiti, laburisti e conservatori, mentre internet ha preso la palla al balzo, trasformando la competizione da noiosa a esilarante. Almeno per chi ha il senso del ridicolo e uno humour prettamente inglese.

L’ultimo in ordine di tempo è la metamorforsi di Miliband in Mosè. Durante il lungo weekend del primo maggio, il leader laburista ha fatto incidire su pietra il suo patto elettorale per dimostrare come il suo partito “non tradirà le promesse fatte” e subito il web si è scatenato su Twitter e Instagram a suon di photoshop e slogan surreali.

Miliband Moses, Left

A mandare in delirio i social network sono stati anche e soprattutto i quattro dibattiti andati in onda tra marzo e aprile e che hanno visto i sette candidati alla premiership confrontarsi su temi come immigrazione, tasse, Scozia ed Europa. Ma se si fa un giro tra i pub londinesi e si chiede quale sia il politico che più di altri ha lasciato il segno durante la diretta televisiva, gli inglesi alzano le spalle. Tutto quello che ci si ricorda è lo sguardo sornione di Miliband direttamente in camera che gli utenti di Vine hanno riadattato con in sottofondo l’ammiccante Careless Whisper di George Micheal.

Ma anche l’attuale primo ministro inglese, David Cameron, non è uscito immune dall’ironia al vetriolo dei social network. Qualche settimana fa il leader conservatore era in visita a una scuola elementare e una piccola studentessa, dopo aver pronunicato male una parola di fronte al premier, ha chinato la testa sul banco presa dalla vergogna. Alla vista della fotografia il web è esploso: «Cameron annoia a morte anche i bambini» hanno twittato i più maligni.

Cameron Toddler, Left

E che vinca Cameron o Miliband, che le geometrie parlametari cambino drasticamente o che la Gran Bretagna rimanga in Europa o meno, poco importa. Internet, da vincitore indiscusso, ha già il proprio paladino elettorale: la capretta che il premier inglese ha sfamato a Pasqua. Perchè, risate a parte, il web si commuove sempre quando c’è un animale carino e batuffoloso di mezzo.

Cameron Sheep, Left

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ma_paradiso” target=”on” ][/social_link] @ma_paradiso

Le cinque delle 13.00

#BuonaScuola dopo lo sciopero di ieri Matteo Renzi pensa alle modifiche al ddl. Insieme al ministro dell’Istruzione ha convocato alla sede del Pd al Largo del Nazareno i parlamentari Pd di Camera e Senato delle commissioni competenti. Possibili modifiche sul potere dei presidi di scegliere i professori, questi potrebbero autocandidarsi e i dirigenti scolastici selezionarli in base a colloqui per poi motivarne la loro scelta.

#Migranti Oltre 600 profughi a Napoli, 300 a Messina, altri 400, salvati dalla Guardia Costiera di Sassari, arriveranno a La Spezia. Per il ministro dell’Interno Alfano è necessaria un’equa distribuzione in Ue e nelle nostre Regioni.

#Italicum al vaglio del presidente della Repubblica Mattarella. Renzi twitta la sua firma: “Dedicato a quelli che ci hanno creduto”, poi dichiara «Andiamo avanti con la testa dura». L’opposizione chiede il referendum, ma senza un accordo unitario.

#Austria, scontro tra treni: un morto e diversi feriti. L’incidente è avvenuto in una linea locale, vicino a un bosco nei pressi di Graz. A causare la collisione forse il mancato rispetto del segnale dell’alt ad un bivio.

#CubaUsa svolta storica. Dopo il disgelo avviato da Barack Obama e Raul Castro, riapre la rotta turistica via mare tra la Florida e l’isola caraibica. E da luglio al via anche collegamenti tra gli aeroporti di New York e L’Avana.

Un fantasma si aggira per la 56esima Biennale d’arte di Venezia

Si accendono i riflettori sulla 56esima Biennala di Venezia che si a apre il 9 maggio. Dopo anni di disimpegnato postmoderno, attraverso i linguaggi dell’arte, la mostra All the world’s future del curatore nigeriano Okwui Enwezor torna ad interrogare  la politica e, accende i riflettori sull’ingiustizia e sulle disuguaglianze e i conflitti fra sud e nord del mondo. E porta Karl Marx in Laguna con una lettura integrale del Capitale nell’Arena (proseguirà per tutta la durata della Biennale fino al 22 novembre). «Perché il capitale è il grande dramma della nostra epoca», dice Enwezor .

Una provocazione non tanto per per celebrare un pedissequo ritorno a Marx i cui strumenti critici oggi non ci bastano più. Ma perché «oggi il capitale incombe più qualsiasi altro elemento su ogni sfera dell’esistenza, dal dominio dell’economia sulla politica alla rapacità dell’industria finanziaria. Dallo sfruttamento della natura attraverso la sua mercificazione sotto forma di risorse naturali,  al crescente sistema di disparità e all’indebolimento del contratto sociale che incombono un cambiamento». Lo abbiamo raccontato su left numero 16,nell’articolo Una Biennale di importanza Capitale (acquista la copia).

Ma il filo rosso della riflessione politica non attraversa solo la mostra, riguarda anche l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera al’artista ghanese El Anatsui  che da oltre vent’anni crea arte  con tappi di liquori e resti del passato coloniale.  E riguarda la proposta di molti Padiglioni nazionali. A cominciare da quello dell’Armenia che apre un focus sugli artisti della diaspora con Armenity (catalogo Skira) indagando lo sradicamento sociale e culturale. Per arrivare ad eventi collaterali come la mostra My East is your West che in Palazzo Benzon  racconta le storie di un popolo artificialmente diviso fra India e Pakistan e che risente ancora della colonizzazione occidentale.

Grande attenzione quest’anno anche al tema della sostenibilità e al rispetto della natura, mentre a Venezia è di fatto ancora irrisolto il problema delle grandi navi. In particolare Jimmie Durham nella mostra “Venice: Objects, Work And Tourism alla Fondazione Querini Stampalia invita a riflettere criticamente sui rapporti fra turismo di massa e Laguna. E il tema dell’attenzione verso l’ambiente è al centro anche dela lavoro di Sean Scully,  in Land Sea, in Palazzo Falier. Scegliendo la strada dell’allegoria tematizza i problemi che riguardano la situazione ambiente ( oltreché scottanti temi politico-sociali) anche il Padiglione dell’Azebaijan con la mostra Beyond the  Line….
Stay tuned, continueremo il nostro viaggio nella Biennale!

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel