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Arrivederci Presidente

Oggi si è concluso il mandato di José Alberto Mujica Cordano, quello che noi conosciamo come Pepe Mujica, “il più elegante capo di stato del mondo”. Mujica Presidente dell’Uruguay, un piccolo paese sudamericano che confina con Brasile e Argentina. A Pepe io sono affezionato e ho letto molto di lui anche se ne ho scritto poco, pochissimo, questo è forse il primo post in cui ne parlo, perché ho sempre avuto paura di semplificare il suo pensiero, profondo e nobile, riducendolo a un racconto frettoloso impiantato su qualche frase ad effetto.

Oggi però ho trovato uno stralcio di un suo discorso, contenente un orizzonte così ampio, e un profumo di libertà così profondo, che voglio condividerlo con voi. E sono felice di farlo perché non è il saluto di chi se ne va ma il cammino di chi resta:

“A guidare la vita di ciascuno deve essere il principio della sobrietà, concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui che però ti tolgono il tempo per vivere. Lo spreco è [invece] funzionale all’accumulazione capitalista [che implica] che si compri di continuo [magari indebitandosi] sino alla morte”.

PS. Un giorno, caro Presidente, ho sentito dire che le belle persone come lei non nascono più. Io non ci credo. Io credo invece che nascano di continuo e che ogni bambino sia come lei. E mi creda, questo è il più bel complimento che mi viene in mente. Arrivederci.

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Primarie regionali, Renzi non porta niente di nuovo

Elezioni regionali di maggio in arrivo tra le polemiche.  È questo il leit motiv che ha accompagnato le primarie del Pd in Liguria – con Cofferati che esce dal partito –  ma anche quelle appena concluse in Campania. «Non andate a votare» aveva detto Roberto Saviano alla vigilia, temendo il rischio brogli di precedenti consultazioni, come quelle per le comunali del 2011. Un appello subito rilanciato da Grillo che non ha perso tempo ad approfittare del vento di antipolitica letto nelle parole dello scrittore. Quest’ultimo ha tenuto a precisare che il suo voleva essere solo un monito per denunciare il fallimento della classe politica in Campania.

I due candidati della regione governata dal centrodestra di Caldoro sono nient’altro che i rappresentanti del “vecchio” sistema politico che per anni ha dominato la regione, territorio martoriato tra criminalità, inquinamento e corruzione. Il vincitore (con il 52% delle preferenze), Vincenzo De Luca, il sindaco “sceriffo” di Salerno, ex Pci e ex Ds, è sulla scena politica locale da decenni.  Con una condanna in primo grado per abuso d’ufficio si è presentato alla corsa elettorale decaduto dalla carica di primo cittadino per gli effetti della legge Severino. Ma non ha un volto “nuovo” nemmeno l’altro esponente del Pd, Andrea Cozzolino, eurodeputato: è considerato il delfino di Antonio Bassolino, il quale, come si sa, ha dato fortemente una sua impronta alla gestione politica della Regione.  Polemiche in Campania anche per il ritiro, negli ultimi giorni, della candidatura dell’ex Sel confluito nel Pd Gennaro Migliore.

Clima più “sereno” nelle Marche, dove la contesa si è svolta tutta in un Partito Democratico ormai appiattito sulle posizioni di Renzi e dei renziani, della prima e soprattutto della seconda ora. Così alla fine ha avuto la meglio Pietro Ceriscioli, ex sindaco di Pesaro che ha battuto (con il 52,53%) l’altro piddino Pietro Marcolini anche grazie ad una forte mobilitazione dei militanti della provincia pesarese, storica roccaforte di sinistra.

Calato il sipario sulle primarie in Campania e Marche, si avvicina veloce la scadenza elettorale di maggio. Che è un vero test per il governo Renzi. Si voterà probabilmente il 10 maggio (lo ha annunciato lo stesso segretario in Direzione il 27 febbraio) in sette regioni: Veneto, Toscana, Liguria, Umbria, Marche, Campania e Puglia. I candidati Pd sono: Alessandra Moretti (Veneto), Raffaella Paita (Liguria), Enrico Rossi (Toscana), Pietro Ceriscioli (Marche), Catiuscia Marini (Umbria), Vincenzo De Luca (Campania) e Vittorio Emiliano (Puglia). Le polemiche però non accennano a finire, sia per la natura delle leggi elettorali delle singole regioni (in Toscana otto consiglieri Pd al momento del voto hanno lasciato l’aula), sia per la questione delle alleanze, e per il ruolo di Sel.

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Le cinque delle 13.00

Egitto: esplode bomba nel centro del Cairo, due morti e molti feriti

Una bomba è esplosa nel centro del Cairo, davanti al palazzo della magistratura, sede di diverse sezioni di tribunali. Secondo le prime informazioni ci sarebbero due morti e varie persone sono rimaste ferite. La Tv Nile News parla anche di morti senza precisarne il numero.

LAVORO
Occupazione, a gennaio segnali di ripresa dopo un 2014 nero. Renzi: Bene ma non basta
Nel 2014 il tasso di disoccupazione è salito in Italia al 12,7% dal 12,1% del 2013, rende noto l’Istat specificando che il dato annuale è il massimo mai registrato dal 1977. Lo scorso anno il Pil italiano è diminuito dello 0,4% rispetto al 2013 e il rapporto tra deficit e Pil si è attestato in Italia al 3%.

POLITICA
Primarie in Campania, De Luca vince con il 52% dei voti
“Ringrazio di cuore gli elettori di Napoli e provincia: l’elemento nuovo, entusiasmante e vincolante è stata questa loro straordinaria adozione politica, che mi riempie di orgoglio”. Questo il messaggio di Vincenzo De Luca, vincitore delle primarie del centrosinistra per le regionali in Campania. A votare alle primarie del centrosinistra per il candidato della coalizione alla Presidenza della Regione sono andati in 157mila. L’ex sindaco di Salerno: sarà rivoluzione. Ancora polemiche sull’appello di Saviano per disertare le urne.

IRAQ
L’esercito governativo alla riconquista di Tikrit
L’esercito iracheno, appoggiato da combattenti sciiti e sunniti – uno sviluppo importante, questa collaborazione, nella lotta al Califfato – ha dato il via ad una operazione militare su larga scala per riconquistare la città natale di Saddam Hussein. A dare l’annuncio dell’inizio è stata la televisione di Stato irachena: “Le forze di sicurezza stanno avanzando su tre fronti principali verso Tikrit, Ad-Dawr e Al-Alam”, ha spiegato un colonnello presente sul posto.

CRONACA
Atterraggio d’emergenza per Renzi causa maltempo
L’elicottero che stamani trasportava il premier da Firenze a Roma è stato costretto all’atterraggio nei pressi di Arezzo, a Badia al Pino. Tutti illesi gli occupanti. Il velivolo è sceso in un campo sportivo.

La Grecia è stata lasciata sola. E l’Unione non cambia

Almeno per il momento, il nuovo governo greco è risultato perdente nel conflitto che l’ha contrapposto all’establishment europeo. Aveva chiesto che fosse tolta di mezzo la troika, cioè il trio Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea, Commissione europea.

Niente da fare. La troika rimane, anche si chiamerà in altro modo. Aveva chiesto l’apertura di una conferenza europea sui debiti pubblici e prospettato la sostituzione delle attuali regole con nuovi criteri, come quello di far dipendere il tasso di interesse corrisposto sul debito dal tasso di crescita dell’economia. Anche qui non se ne parla. Le regole non si toccano.

Aveva chiesto che il proprio avanzo primario previsto per quest’anno fosse ridotto a un terzo. Spieghiamo di cosa si tratta. L’avanzo primario è l’eccedenza delle entrate del bilancio pubblico sulle spese al netto degli interessi. Corrisponde dunque alle imposte impiegate nel pagamento di interessi: quanto più alto è l’avanzo primario, tanto minori sono le risorse destinate ai servizi pubblici e alle misure di sostegno dell’economia. Ebbene la risposta alla richiesta del governo greco di abbattere l’avanzo primario è stata negativa, con una piccolissima apertura a “qualche margine di flessibilità”.

Ancora. Il governo greco aveva annunciato una serie di riforme per alleviare il gravissimo stato di disagio sociale (salario minimo, riassunzioni nel settore pubblico, aumenti delle pensioni ecc.). Dovrà rimangiarsi tutto, perché tali riforme non rientrano negli accordi a suo tempo stipulati. Infine aveva chiesto sei mesi di tempo per lavorare a un nuovo progetto da proporre ai creditori, ne sono stati concessi solo quattro e a condizione di un impegno immediato a una serie di riforme da sottoporre all’approvazione delle istituzioni e dei governi europei.

Come si spiega tale disastro? Il potere contrattuale della Grecia nella trattativa dipendeva, in primo luogo, dalla minaccia di uscire dall’euro, con gli enormi rischi che, si pensava, questo avrebbe comportato per l’intero sistema. Si è tuttavia diffusa, negli ultimi tempi, l’aspettativa che l’euro sarebbe sopravvissuto senza eccessive difficoltà all’uscita della Grecia. Il rischio di contagio ad altri Paesi, in primo luogo l’Italia e la Spagna, che si era verificato nel caso delle precedenti crisi, sarebbe stato ora molto limitato, soprattutto per effetto del codone sanitario pazientemente costruito in questi anni dalla Bce di Mario Draghi.

D’altra parte, Paesi governati da forze conservatrici, e in prossimità di elezioni, a cominciare dalla Spagna, non potevano certo darla vinta a Syriza. Tali Paesi, che in altro contesto avrebbero potuto essere dei naturali alleati della Grecia, in quanto accomunati da molti problemi a partire da quello del debito, sono diventati, in questa congiuntura politica, i principali alleati della Germania nella posizione di assoluta rigidità. D’altra parte i due grandi Paesi, Francia e Italia, con governi che, in linea di principio, potevano simpatizzare con la Grecia, e che pure hanno problemi con il rispetto delle regole europee, si sono ben guardati dall’esporsi, limitandosi ad assumere solo toni più amichevoli rispetto a quelli, moto duri, della Germania, ma allineandosi nella sostanza.

La Grecia è dunque rimasta sola, e da sola non poteva farcela. Una vicenda che condizionerà pesantemente ogni futura prospettiva di cambiamento nell’Unione. E sulla quale si dovrà riflettere a lungo.

La Puglia di Amedeo Fago

Da una fotografia scattata nel 1917, durante la prima guerra mondiale, è nato il nuovo spettacolo di Amedeo Fago. Quel ricordo di famiglia, ritrovato un po’ per caso, lo ha spinto a fare una ricerca a ritroso nel tempo che ha riportato alla luce spaccati di una Puglia novecentesca che guardava all’Europa e al Medio Oriente. Su questo filo, fra memoria e storia, si dipana I parenti delle salme del regista, scenografo e architetto romano, che debutta il 4 marzo al Théatre Gerard Philipe di Saint Dénis, a Parigi, nell’ambito del festival Le standard idéal. Con musiche di Franco Piersanti e costumi di Lia Francesca Morandini.

«La grande guerra ha un suo peso nel testo ma vi si arriva attraverso le storie private dei personaggi che sono riuscito a ricostruire con una complessa ricerca in archivi pubblici e privati», racconta Amedeo Fago, durante una pausa delle prove. La drammaturgia, nata da lettere, foto e diari, riannoda i fili della storia familiare del regista, ma non solo. «Mio nonno era un imprenditore ed ebbe dieci figli, come si usava un tempo. Che poi diventarono professionisti, medici, diplomatici. Fra loro, per esempio, emerge la figura di Vincenzo Fago che fondò l’Università del Cairo, lavorò nel Gabinetto del principe Fuad in Egitto e in Turchia fu al fianco Kemal Atatürk. Insomma ho ritrovato documenti interessanti anche dal punto di vista storico al di là delle storie private e personali» .

Italia, Turchia, Egitto. Una storia che lega Puglia e Medio Oriente.

Il fratello di mio padre scrisse una monografia sull’arte araba. Era un letterato. Nello spettacolo si recita una delle sue poesie. Fu un personaggio che in qualche modo varrebbe la pena di riscoprire.

In scena lei è affiancato da un giovane attore. Qual è il suo ruolo?

Si chiama Giulio Pampiglione, è un giovane attore di talento. In scena fa la parte di mio padre da giovane, che io non ho conosciuto, perché sono nato quando lui era già anziano.

Potremmo dire che il vero protagonista dello spettacolo è il tempo?

Il discorso sul tempo mi ha sempre interessato molto. In particolare la contemporaneità dei tempi. Ci ho lavorato sia livello di ricerca che di scrittura.

Ma anche dal vivo con interventi multimediali?

Dal punto di vista tecnico lo spettacolo è piuttosto complesso. Con effetti visivi digitali ho realizzato una animazione della fotografia del 1917, ma faccio anche apparire i vari personaggi. Dal vivo siamo due, ma altri dieci attori sono in video. In una forma particolare. Utilizzando due schermi co-assiali si riescono ad ottenere effetti interessanti.

Da tempo lei preferisce lavorare a Parigi. C’è un’altra considerazione del lavoro teatrale rispetto all’Italia?

A Parigi ho trovato accoglienza, un produttore che mi ha sostenuto. Il mio spettacolo storico, Risotto, negli anni è andato in scena molte volte in Francia. Qui mi trovo benissimo.

Ci sarebbe da imparare dai francesi riguardo al sostegno che offrono reti produttive e di distribuzione?

Oggi i francesi si lamentano moltissimo. Dicono che qui sta cambiando tutto. Ma la scena continua ad essere culturalmente molto viva. Solo per fare un esempio nel giorno del mio debutto a Parigi ci saranno 15 prime. In città ci sono 500 teatri. Parigi è la terza città al mondo per offerta teatrale, dopo New York e Londra. Quanto a vita teatrale non c’è paragone con l’Italia. Basta dire che a Roma i dei teatri più importanti, L’Eliseo e il Valle, sono chiusi.

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Egitto batte Libia

Il 18 giugno 1953, il colonnello egiziano Nasser abolisce la monarchia e affida la presidenza del Consiglio della Rivoluzione al migliore dei suoi Liberi Ufficiali. Il Paese intanto è pronto ad ospitare la prima edizione dei Giochi Panarabi, fortemente voluti da un altro egiziano: Abdul Rahman Azzam, segretario generale della stessa Lega Araba e zio materno di Al Zawahiri il futuro numero due di Al Qaeda. Teatro della competizione non è Il Cairo ma la suggestiva Alessandria, città dell’omonimo protocollo che l’Egitto ha firmato sul finire della secon- da guerra mondiale insieme alla Siria, all’Iraq, alla Giordania e al Libano.

Partecipano alla kermesse i cinque Paesi fondatori della Lega e quattro tra i membri più recenti: la Libia, il Kuwait, l’Indonesia e la Palestina. Non c’è l’Arabia Saudita e non ci sono gare femminili. Il calendario della manifestazione investe le due settimane a cavallo tra luglio e agosto, scandite dall’assalto dei ribelli castristi alla caserma Moncada di Santiago de Cuba; dall’arresto in massa dei mormoni poligami dell’Arizona e dall’armistizio che pone fine alla guerra in Corea.

La disciplina che gode di maggior seguito su queste sponde di mare è naturalmente il football, uno dei pochi retaggi positivi della presenza inglese lungo il Canale di Suez e a ridosso della diga di Assuan. Sei squadre divise in due gironi: Siria, Giordania e Libano da una parte; Egitto, Libia e Palestina dall’altra.

La Siria pareggia 0-0 con il Libano, batte 4-1 la Giordania e vola in finale. L’Egitto straccia la Palestina 8-1 e attende la Libia per la seconda gara: quella che segnerà l’esordio assoluto della Nazionale di Tripoli sulle scene internazionali.

La presenza britannica in Tripolitania e in Cirenaica è infatti cosa ben più recente rispetto a quella indimenticabile degli italiani. E non solo perché il regime fascista, dopo aver istituito il Gran premio automobilistico di Tripoli e dopo aver sempre impedito la costituzione di squadre di calcio di soli arabi, aveva proclamato il Governatorato generale di Libia a pochi mesi dal primo titolo mondiale azzurro datato 1934. Ma soprattutto perché il cosiddetto “scatolone di sabbia” regalatoci da inglesi e francesi all’indomani della Grande guerra si era potuto ingrandire e unificare alle conquiste costiere di giolittiana memoria a ritmo di massacri di civili e stragi di donne e bambini perpetrati impunemente dall’esercito. Strade, ponti, ospedali ed altre “opere di bene” sono venute dopo.

Il 29 luglio del ’53 non c’è storia: gli egiziani sono molto più forti dei libici e molto meglio preparati. Tra l’ex Regno d’Egitto, oggi Repubblica e l’ex Governatorato di Libia, oggi Regno finisce 10-2. Il primo gol nella storia della Nazionale rosso-nero- verde è un calcio di rigore trasformato da Alì Zantouny omonimo di un altro Zantouny: l’allenatore Massoud.

La squadra padrona di casa vince la medaglia d’oro superando agevolmente 4-0 la Siria nella finalissima. La Libia invece segna cinque gol ai poveri palestinesi e piega la Giordania 3-2 nella finalina per la medaglia di bronzo. Intanto tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan continuano a giocarsi tre campionati distinti. Perché in territorio libico inizi un torneo unico bisogna ancora aspettare dieci anni.

Xenofobia in scena

Il giorno della verità è arrivato: 28 febbraio. Dopo due mesi di annunci e preparativi Matteo Salvini porta i suoi a Roma per aggiungere la voce della piazza a quella dei sondaggi. Una prova di forza con la quale il leader del Carroccio, al grido di “Renzi a casa!”, intende coronare il tour meridionale a caccia di sostenitori e, in prospettiva, consensi elettorali. Ma la giornata romana si annuncia calda: i movimenti di sinistra non ci stanno a lasciare la ribalta capitolina al partito della secessione e del “Roma ladrona”.

«La Lega va in piazza ma il popolo è da un’altra parte», spiega Emiliano, attivista romano, tra gli animatori della mobilitazione anti Salvini. «Davanti a quel palco ci sarà un miscuglio di fascisti e xenofobi che nulla ha a che vedere con i valori antifascisti e antirazzisti della Capitale. Ma c’è anche molto di più: una proposta politica avanzata da chi ha contribuito a determinare e governare questa crisi e fondata su valori identitari e neoprotezionisti ottocenteschi». A pochi giorni dalla manifestazione, Salvini ha ribadito che Lega e CasaPound hanno «la stessa visione sull’immigrazione fuori controllo» e gli ingredienti per trasformare la manifestazione contro il governo in un raduno della destra, italiana e non solo, ci sono tutti. Il videomessaggio di Marine Le Pen, la partecipazione di Giorgia Meloni, che sarà ricambiata con la presenza di Salvini alla manifestazione veneziana di Fratelli d’Italia il 7 marzo.

In più, tante frange della destra estrema che si troveranno già nella Capitale dalla mattina, per incontrare il segretario della Lega al convegno “Mille Patrie per l’Italia”, assieme al direttore del Talebano Fabrizio Fratus, a esponenti del Bloc Identitaire, a destra del Front National in Francia, e ai tedeschi islamofobi e xenofobi di Pegida, che di recente hanno esteso la loro presenza anche in Svizzera.

Contro «l’orribile sfilata di Lega Nord e CasaPound, al fieri del razzismo del terzo millennio» si sono mobilitati anche numerosi artisti, tra cui Elio Germano, Ascanio Celestini, Erri De Luca, Moni Ovadia e il fumettista Zero Calcare, che ha disegnato la locandina di lancio della contro-manifestazione organizzata da centri sociali e gruppi antifascisti capitolini, con l’adesione di numerose associazioni tra cui l’Arci, e sindacati di base. L’appello di artisti e intellettuali aderenti alla campagna #maiconSalvini chiama a raccolta cittadini e movimenti «al fianco della Roma che resiste tutti i giorni nei quartieri, nelle scuole, nelle università, nelle case occupate alle politiche di austerity, alle campagne razziste e omofobe di cui Salvini e i suoi sono responsabili».

Alle 15 da piazza Vittorio, cuore della Roma multietnica, il corteo si muove verso Sant’Andrea della Valle, a poca distanza dalla manifestazione leghista di piazza del Popolo. Dopo gli atti vandalici dei tifosi del Feyenord la Capitale è blindata. Il questore di Roma Nicolò D’Angelo ha parlato di un «sabato delicato»: al di là del “segnale” lanciato con due recenti blitz contro la convention leghista all’Nh Hotel di corso d’Italia e la sede di Noi con Salvini ai Parioli, si temono regolamenti di conti legati agli episodi di Cremona di un mese fa, quando un corteo di solidarietà a un militante del centro sociale Dordoni aggredito da esponenti di CasaPound è sfociato in guerriglia urbana.

Ma la contestazione al leader leghista e alla sua lista creata ad hoc per sfondare fuori dal feudo padano non è solo quella che va in scena per le vie della Capitale. I #maiconSalvini hanno fatto sentire la loro voce anche al Sud. L’8 febbraio in Sicilia, dietro cartelli “Lega ladrona, Palermo non perdona” c’erano i giovani che hanno dato vita alla giornata dell’orgoglio terrone: solo il cordone delle forze dell’ordine ha impedito che lanci di uova e ortaggi raggiungessero il leader leghista arrivato all’Hotel delle Palme per incontrare i supporter. Pochi giorni prima a L’Aquila stessa scena: Matteo Salvini arriva attorniato dai suoi sostenitori locali e parte la contestazione. Poi le tappe saltate in Calabria e in Puglia e il “flash mob” messo in scena a Bari contro un banchetto di soste- nitori della lista che porta il nome del segretario leghista.

Un gruppo di giovani del collettivo ex caserma Rossani, vestiti di verde, ha distribuito vignette anti Lega con la scritta “Bari è antifascista” attraversando le vie del centro al grido di «Leghista barese, vattene a Varese». «Non si tratta di semplici con- testazioni», precisa l’attivista romano. «In tutta Italia è sempre più evidente l’abbraccio di Salvini con le destre più pericolose. Per questo a sfilare con noi a Roma ci saranno anche tante persone da tutta Italia e in particolare dal Sud, che non vuole aggiungere al danno delle destre che disseminano odio sul territorio la beffa di un leghista mascherato da salvatore della patria. La sfida è costruire la risposta fuori dai movimenti in senso stretto. La battaglia contro la “Lega nazionale” si gioca nella piazza ben più ampia della cittadinanza democratica».

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Violenza e paura. Quando il rifiuto sarà “collettivo” avremo fatto un bel passo avanti

Quando hanno chiesto a Lilian Thuram  se aveva mai pensato di abbandonare il campo da gioco a causa dei cori razzisti, ha risposto: «Mai. Penso anzi che a uscire dal campo dovrebbero essere i compagni di squadra del giocatore coinvolto: sono loro che devono aiutare chi è vittima di cori razzisti, non farlo sarebbe omissione di soccorso. Quando un’intera squadra uscirà dal terreno di gioco, avremo fatto un bel passo avanti nella lotta al razzismo».

Impossibile non immaginare la meraviglia di un’intera squadra che se ne va. E di un giocatore che rimane in campo, simbolo di uguaglianza. Forse il segreto è lì. È nell’intera squadra che se ne va, in un rifiuto che diventa “collettivo”. Nel giorno in cui Matteo Salvini, sostenuto da CasaPound, sceglie Roma per la sua manifestazione “Renzi a casa!” e fa salire sul suo palco Giorgia Meloni, i tedeschi di Pegida, i francesi del Bloc identitaire e tanta altra destra, Left mette in copertina un calciatore. Un calciatore che ha scritto un libro dal titolo Per l’uguaglianza e che ha scoperto di essere “nero” a nove anni, quando ultimo di cinque figli, è partito da Guadalupe e ha raggiunto la madre in Francia: «Giocavo a calcio per strada con altri bambini: portoghesi, pachistani, algerini, zairesi, c’era di tutto, le origini non importavano. Poi a scuola hanno cominciato a chiamarmi “Noiraude”, la mucca nera di un cartone animato, e ho scoperto di essere nero. Il razzismo comincia così, quando qualcuno ti dice “tu sei nero”».

Poi è diventato un campione. Anche della sua Nazionale, quella francese. Record di presenze e vincitore del Mondiale di Francia 1998, è convinto ancora oggi che «razzisti non si nasce, lo si diventa». È una costruzione sociale che si trasmette di generazione in generazione. Lo va ripetendo da anni, nei suoi libri e con la sua Fondazione: «Alla base del razzismo c’è il mancato riconoscimento del diverso come essere umano.

Salvini cerca consensi facendo passare il concetto che gli immigrati non sono esseri umani, non hanno i nostri stessi diritti. È un pensiero estremamente pericoloso, fonte d’ispirazione di tutte le forme di schiavitù e genocidio». L’uguaglianza ripete, «l’uguaglianza viene prima di tutto». Allora, in questa settimana, in cui Salvini ne ha sparate di pessime sui migranti, da “Lasciamoli in mare” a “Fermate i barconi, ci stiamo portando a casa l’Is”; la stessa in cui la Grecia è stata lasciata completamente sola da un’Europa, Italia e Francia incluse, che continua a imporre politiche di austerità e che, in questo anno, ha giudicato troppi 100 milioni di euro per Mare Nostrum, senza pensare che equivalevano a 2 caffè l’anno per ciascun italiano, noi ribadiamo il nostro No. Perché Thuram lo dice: «Violenza e paura sono ormai concetti politici: riconoscendole come tali rischiamo di cadere nella trappola.

La prima reazione – invece – dev’essere quella di capire il grado di difficoltà di certe persone nello sviluppo della libertà di pensiero: è da qui che bisogna partire, dal comprendere il tipo di educazione ricevuta e il pregresso personale». Parola di calciatore nero. E io, a volte, me lo chiedo, anche quando leggo certe battute veloci di Matteo Renzi (questa settimana ad esempio quella a Maurizio Landini), mi chiedo che tipo di educazione abbia ricevuto e che tipo di pregresso personale abbia. Cosa lo spinga, dall’alto del suo ruolo, a dire frasi di scherno come: «È il sindacato che ha abbandonato lui e non lui che abbandona il sindacato» o peggio ancora quando, tronfio, manda «abbracci a #gufi e #sorciverdi». Di una cosa sono certa però, che “quando un’intera squadra uscirà dal terreno di gioco di Renzi avremo fatto un bel passo avanti”. Verso un nuovo Umanesimo.

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