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Il Presidente e la Costituzione

Il Presidente ha compiti ben precisi da compiere. In particolare, è considerato il garante della Costituzione: l’attentato alla Costituzione e l’alto tradimento sono i soli due motivi che possono portare alla sua destituzione. La laicità, ricorda la Consulta, è un supremo principio costituzionale. E il Presidente è dunque chiamato a garantirne il rispetto – chiunque sia e qualunque concezione del mondo abbia. Nella storia repubblicana vi sono stati presidenti credenti e non credenti, ma la loro azione raramente ha risentito delle loro convinzioni.

C’era preoccupazione, nel 1992, quando fu eletto Oscar Luigi Scalfaro: ancora ricordato per le pubbliche ingiurie che, 42 anni prima, aveva rivolto a una donna “colpevole” di indossare un vestito che le lasciava nude le spalle. Ma nel suo primo incontro con Wojtyla gli disse che «lo Stato è laico perché deve essere la casa di tutti, né alcuno ha il diritto di porvi il proprio marchio di fede politica o religiosa». Il devotissimo Scalfaro uscì dal Quirinale addirittura laicista, per gli standard cattolici: finito il mandato si espresse contro l’Otto per Mille e, suscitando gli strali della Cei, votò per il referendum sulla fecondazione artificiale.

Anche Carlo Azeglio Ciampi, cattolico azionista, intervenne con fermezza quando, prima delle elezioni politiche del 2001, il numero due vaticano Sodano si mise a “consultare” i leader dei due poli, Rutelli e Berlusconi. Ciampi ricordò loro di avere “sempre presente” l’articolo 7 della Costituzione, quello che recita che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Ebbe qualche piccola sbandata, come la perorazione pubblica del crocifisso nel corso di un messaggio di fine anno. Ma nel complesso fu ligio al suo ruolo laico.

Giorgio Napolitano è stato invece un caso un po’ a parte. La sua presidenza è stata caratterizzata da novità (il primo ex comunista, la rielezione) ma, soprattutto, da un certo allargamento della sua influenza. Riconosciuto sia da chi l’ha giustificato come “necessaria supplenza”, visto lo stallo del quadro politico, sia da chi l’ha criticato come “indebita ingerenza”. Qualcosa del genere è accaduto anche sui temi laici. Napolitano non firmò il decreto con cui Berlusconi voleva proseguire indefinitamente la “non vita” di Eluana Englaro. Ma è spesso intervenuto per accreditare la Chiesa cattolica come parte essenziale della nazione: dall’esplicita attenzione ai messaggi di Benedetto XVI (pur trascurati dagli stessi cattolici) al messaggio agli integralisti di CL in cui definiva “l’impoverimento spirituale” una “emergenza che viviamo”. Chiese la rimozione dei simboli padani dalla scuola di Adro, ma non quella dei crocifissi: che, come i “soli delle Alpi”, erano simboli di parte imbullonati in luoghi di tutti. Per i 150 anni dell’Unità d’Italia non prese la parola durante la cerimonia alla breccia di Porta Pia, lasciando che solo il cardinal Bertone dicesse la sua. E la “sua”, ovviamente, fu l’apologia del papa-re Pio IX.

L’auspicio, all’inizio di un nuovo settennato, è che il nuovo Presidente abbia sempre presente che i cittadini sono tutti uguali, indipendentemente dalla concezione del mondo che coltivano, e che gli spazi istituzionali sono di tutti. Il Quirinale è lo spazio istituzionale per eccellenza: il suo nuovo inquilino non deve e non può dimenticarlo.

*Segretario nazionale Uaar

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Oltre il muro, l’arte

«Street art è un’espressione ambigua che vuol dire tutto e niente». L’artista e muralista Agostino Iacurci preferisce parlare di arte urbana o di arte contemporanea. Classe ’86, originario di Foggia, vive a Roma ed è conosciuto al grande pubblico per le sue opere su grandi superfici. Ha dipinto i muri di Londra, Mosca, Parigi. A Roma, ha portato la sua arte dal Porto Fluviale al quartiere Prenestino e ha partecipato a “Rebibbia on the wall” all’interno dei passeggi della sezione Alta Sicurezza del carcere. Ma oltre il muro ci sono le sculture e le tele che ha esposto in ogni dove. Australia, Brasile, Stati Uniti.

A 28 anni può vantare centinaia di lavori in tutto il mondo. Quando ha iniziato a dipingere?

Quando avevo 12 anni. Ho cominciato con i graffiti nella mia città. Poi, crescendo, ho deciso di studiare arte e ho traslato questa mia passione per il murales nel nuovo linguaggio che avevo elaborato con i miei studi, abbandonando i canoni del graffito. Ho aperto uno studio e ho cominciato a fare i primi murales fuori Roma, poi in Europa e in America, lavorando, per così dire, a viso aperto.

Grazie ad artisti come Bansky, Blu, JR, il dipinto murale che prima era considerato un segno di degrado oggi è definito arte.

Il passaggio c’è stato perché la “Street art” è diventato un fenomeno conosciuto e riconosciuto da grande pubblico e istituzioni. Il terreno, però, è sempre scivoloso perché da un lato gli interventi murali sono accettati e ci sono addirittura promotori che lavorano solo su questo settore, dall’altro, non esiste una legislazione chiara e i limiti tra graffiti e arte urbana si mescolano molto. C’è una situazione un po’ contraddittoria tra il riconoscimento degli interventi come “arte” e i rischi che si corrono se si dipinge su muri illegalmente.

L’arte urbana è un’evoluzione del graffito?

È semplicemente qualcosa di diverso. Il mondo dei graffiti è vivo, ha nomi di spicco che continuano a fare cose molto interessanti. Da una costola del graffitismo è nata questa arte che oggi tutti chiamano “street art”, una forma contaminata che ha in comune con i graffiti la strada ma che si serve di codici molto diversi. Quasi tutti gli artisti delle prime e seconde generazioni che conosco vengono da quel mondo. Ora, però, il passo è stato fatto. Per le nuove generazioni ci sono molte più possibilità di realizzare questo tipo di arte: ci sono muri legali, centinaia di progetti che coinvolgono ragazzi e non è difficile ottenere le autorizzazioni. C’è sempre chi parte dalla spinta del graffito per arrivare all’arte urbana ma oggi ci si giunge nei modi più diversi.

Come nasce un suo lavoro?

Dal punto di vista pittorico, faccio un lavoro di ricerca sulla semplificazione delle forme, sull’equilibrio degli elementi. C’è quasi sempre una figura umana che pongo in situazioni quotidiane e poi c’è un elemento che rompe con la familiarità della situazione per innescare qualcosa che magari è all’opposto rispetto a quello che l’immagine sta dicendo. Il fulcro del contenuto, invece, è la condizione dell’essere umano. Il mio lavoro è quindi una ricerca sull’immagine, sul linguaggio e sulla relazione tra le persone.

 Anche rispetto ai fruitori del suo lavoro?

Esatto. Lavorare in strada mi piace perché la mia opera diventa un pretesto per generare delle relazioni: più che l’opera in sé, mi interessa l’esperienza di instaurare un dialogo anche diretto con gli spettatori. Il linguaggio che utilizzo mi aiuta molto perché credo sia abbastanza intelligibile, chiunque riesce a leggere qualcosa e, da quel punto di partenza, costruisco delle storie.

Quindi la sua arte ha anche un valore sociale?

Ha un valore “socievole”, nel senso che la socialità è il movente che mi spinge a fare questo lavoro. Non mi sento un artista romantico auto-riferito che dipinge per la necessità di farlo: io dipingo perché mi piace che il mio lavoro entri in comunicazione, in rotta di collisione con altre cose. Non la definirei “arte sociale” ma una ricerca poetica che ruota attorno all’idea di costruire relazioni.

Cosa prova guardando un lavoro finito?

Sentimenti contrastanti. Anzitutto la soddisfazione di aver portato a termine qualcosa, come quando si prepara un piatto di pasta. D’altro canto, sento la responsabilità di essere intervenuto sul paesaggio collettivo. Le opere che realizzo sono sempre ispirate al luogo, cerco di lavorare in termini di dialogo anche dal punto di vista cromatico. Ma la richiesta di modificare quel paesaggio non viene da ciascuna delle persone che lo vive quotidianamente, è quasi un atto di prepotenza, quindi avverto anche questa responsabilità.

La street art può riqualificare un quartiere degradato?

Un’enorme quantità di progetti nasce sotto la voce di “riqualificazione urbana”. Io credo che un murales non lo sia di per sé. Neanche colorando tutta la città la si riqualifica realmente. Il murales non serve a rendere bello un ecomostro: la forza che può avere dal punto di vista dell’impatto sociale è quella di riattivare il dibattito sugli edifici dimenticati, abbandonati, che diventano parte integrante del paesaggio perché ci si abitua alla loro bruttezza. Ma per riqualificare bisogna andare oltre.

L’arte oggi è anche il suo lavoro?

È l’attività a cui dedico la mia vita ed è anche il mio lavoro. Il dramma della precarietà della mia generazione, nel nostro caso si è quasi rivelata una fortuna perché, nell’impossibilità di avere una strada certa, ci ha messo nelle condizioni di scegliere quello che più ci interessa. Io mi sento fortunato a passare giornate intere nel mio studio.

Ora che l’audience si è spostata sul web dipingerà su muri digitali?

Non credo sia necessario. L’arte visiva ha il vantaggio di essere un linguaggio universale e, attraverso internet, può avere un bacino di utenza enorme. Io, partendo da Foggia, ho trovato persone interessate al mio lavoro dall’altro capo del mondo. In un momento in cui si digitalizza tutto, credo ci sia anche la richiesta di cose concrete, di esperienze di vita reale.

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Quell’uomo che giocava con Che Guevara

«Ma no, “passetto” vale!», esclamo quando Alessio Spataro – matita conosciuta dai lettori di Left – mi fa questa rivelazione tremenda. Passetto vale in tutti i Paesi del mondo eccetto che in Italia. Racconta, Spataro, del suo Biliardino, romanzo a fumetti che uscirà in primavera per la Bao publishing, la stessa di ZeroCalcare.

«Passetto non vale! E neppure girella», è stato il mantra all’inizio di ogni partita, per diverse generazioni di giocatori. Passetto è quando la pallina viene accostata da una sagoma all’altra nella medesima stecca senza prima farla sbattere alla sponda. Girella, invece, era una cosa da “femmine”: consiste nel girare vorticosamente la manopola in attesa che, prima o poi, la pallina incocci in un pupazzetto. «Faccio parte di quella metà di giocatori che, scientificamente, può essere definita schiappa. E forse per me è affascinante proprio perché raramente vinco», spiega il fumettista catanese, trapiantato a Roma, trentanovenne, ormai esperto di storia, teoria, tattiche e anche teorico della questione.

Ad esempio non crede che il biliardino sia uno sport, tanto meno olimpico, come le varie federazioni tentano di accreditare, sebbene sia a metà strada tra «il biliardo e il ping pong, ma solo quest’ultimo è uno sport». Quello che lo avvince è il fatto che sia un gioco in cui sono importanti quelli che lo praticano e quelli che lo guardano giocare finché i ruoli non si invertono. Ma non crediate che Biliardino sia la storia del dispositivo noto anche come calcio balilla.

Si tratta della vita del suo inventore, Alejandro Finisterre, al secolo Alexandre Campos Ramirez. Finisterre (dal paese galiziano in cui nacque) è lo pseudonimo dietro cui si cela nel terzo dei suoi cinque esili. «Succede alla fine della II guerra mondiale, quando Ramirez-Finisterre diserta dall’avamposto marocchino della legione straniera spagnola dov’era in servizio militare coatto.

Era scampato alla repressione franchista, forse, solo perché aveva passato il tempo della guerra civile in convalescenza, dopo essere stato ferito a Madrid dov’era emigrato dopo il fallimento del padre». A diciannove anni, nel ’38, scappa dunque in Francia tra gli stessi esuli di cui scriverà Almudena Grandes in Ines e l’allegria. Alessio si imbatte in Finisterre nel febbraio di otto anni fa, quando legge su internet della sua morte e intuisce subito lo spessore del personaggio. Ma in quel periodo ha in testa Zona del silenzio, la sua prima graphic novel dedicata al caso di Federico Aldrovandi, dentro cui non rinuncia a inserire la scena di una sfida al biliardino in un noto locale del Pigneto di Roma, il Fanfulla.

«È lo sguardo malinconico dei piccoli mutilati dalla guerra civile, mentre osservano i loro coetanei che giocano a pallone nel cortile della Colonia Puig, che ispira ad Alejandro il biliardino. Se c’è un tennis da tavolo, ci sarà anche un futbol da mesa». La Colonia è un ricovero per ragazzi feriti dal piombo franchista a una trentina di chilometri da Barcellona. Con lui ci sono anche un militante giovanissimo del Poum e un falegname anarchico basco che procurerà i materiali per il prototipo, più simile al biliardino contemporaneo di altri tentativi sperimentati in altri luoghi d’Europa.

«L’unica eccezione sono i piedi dei giocatori – spiega Spataro – sono due, a differenza di oggi, proprio per fare meglio il “passetto”. Una mossa che solo in Italia è proibitissima ma non nei tornei internazionali dove peraltro l’Italia non vince mai». Per la cronaca i più forti bisogna cercarli in Belgio, Germania e negli States. «A Finisterre non piaceva il gioco italiano, così “veloce e barbaro”, lui propendeva per un gioco più mentale. Come il biliardo, appunto».

Non esistono libri su di lui se non una vecchissima autobiografia stampata ai tempi dell’esilio messicano, quando era appena cinquantenne. Alessio è andato fino alla Colonia Puig a cercare le tracce di Finisterre, ha spulciato biblioteche, collezioni di giornali, musei, sentito testimoni. La sua vita è piena di avventura e mistero, perfetta per quest’oggetto narrativo non fiction, per dirla alla maniera di Wu Ming. Il biliardino di Finisterre si chiamerà “Futbolin”, lo brevetta a Barcellona ma ormai la guerra civile butta male: i repubblicani sono divisi, si sparano addosso e i fascisti avanzano.

Alejandro alza i tacchi e in dieci giorni di fuga arriva a piedi a Perpignan, oltre i Pirenei ma la copia del brevetto s’è infracidata con la pioggia. Un imprenditore colluso col franchismo trafuga il brevetto di Finisterre e inizia a produrlo. Finisterre, ormai in clandestinità, lascia ovunque conti non pagati finché non viene arrestato ancora e, dopo una misteriosa evasione, torna in Francia a fare il critico di teatro per il giornale degli esuli, poi salpa per l’America Latina.

Ormai siamo a ridosso degli anni 50. Finisterre sarà giornalista in Ecuador poi, finalmente, fabbricante di biliardini e giocattoli nel Guatemala democratico di Jacobo Arbenz Guzmán. Quel governo non aveva riconosciuto il franchismo e ospitava un’ambasciata della Repubblica spagnola in esilio. E’ un paese accogliente. Così Finisterre può giocare con un giovane argentino che s’era unito ai ribelli cubani, Che Guevara, che – pare – fosse una schiappa proprio come Spataro a differenza di Hilda Gadea, sua moglie, l’unica che riusciva a battere Alejandro.

Ma nel ’54 la Cia rovescia il governo e insedia un regime. Ancora i fascisti, ancora un arresto. Per lui sembra la fine, sta per essere deportato in Spagna dove lo aspetta la garrota. Ma… Qui mi faccio forza e supplico Alessio di interrompere il racconto, vorrei godermi il fumetto quando arriverà in libreria. Per convincermi che non mi ha rovinato la lettura, Spataro compila la lista di alcuni dei personaggi che hanno incrociato e conosciuto l’inventore del futbolin e che compaiono nella storia: poeti come Pablo Neruda e Leon Felipe, Max Aub, Cocteau, Sartre e Camus proprio nel momento della loro lite, Simone de Beauvoir, l’equivoca figura di Vittorio Vidali, Manu Chao e suo padre Ramon. L’ultima casa di Finisterre, a Zamora, in Castiglia, è un pozzo di tesori della letteratura spagnola. Ma c’è un mistero anche lì.

Il (prevedibile) discorso di Mattarella

Traffico. Traffico, traffico, traffico. Ah ecco, è normale: ci sono i vigili. Ma questi uomini in divisa, lo sanno che stanno boicottando il mio diritto di ascoltare la benedizione alla Nazione del nostro nuovo Presidente? Il Presidente sta facendo il discorso di insediamento, e io non lo posso sentire a causa di pubblici ufficiali. Paradossi del nostro Paese. Sono momenti solenni che un cittadino animato da amor di patria non dovrebbe perdersi. Un po’ come il discorso di Capodanno: quanti di noi alle 20 in punto del 31 dicembre non stanno incollati – naturalmente sobri – davanti alle patrie reti unificate? Non ci posso credere che me lo sto perdendo. Allora provo a immaginarlo.

Ecco, lo scrivo io. Tanto per cominciare: viva la Repubblica (sia mai qualcuno facesse confusione) e viva la Democrazia (qualunque cosa significhi). Dopodiché, il Presidente rivolgerà il suo primo saluto alle donne. Perché noi siamo importanti. Per la famiglia. Le donne sono il pilastro della famiglia e consentono agli uomini di andare a lavorare.

E col nostro stato sociale, per fortuna che ci sono loro, altrimenti chi si occuperebbe dei disabili? Senz’altro la carità cristiana anima il nostro Paese, è evidente – basta guardare le persone alla guida. Quindi il Presidente ringrazierà colui che veramente lo merita. L’Ispiratore di gesti di solidarietà e coraggio. È un presidente di sinistra (in fondo), quindi il simbolo sarà una persona che lavora sodo, perché è sul lavoro (degli altri, ma sono dettagli) che è fondato il nostro Testo Sacro. Costituzione e lavoro, lavoro e Costituzione: sicuramente prenderà a modello qualcuno che incarna questi valori.

Qualcuno che salva vite e cerca di renderle migliori, che non vive nel lusso e ripudia la guerra. Sicuramente… no, non un magistrato, sarebbe autocelebrativo e noi siamo per l’umiltà; e no, non un medico come Gino Strada, sarebbe banale e poi noi siamo no-logo. Qualcuno più a sinistra, qualcuno che si fa chiamare per nome. Se fosse anche cattolico magari, sarebbe meglio. Ecco si, Francesco. Ringrazierà il papa.

E non si pensi che uno stato laico sia migliore di uno stato di ispirazione cristiana, perché : NON È COSÌ. Non si può vivere di miti.

Poi parlerà dei giovani, della loro centralità nel percorso di miglioramento dell’Italia. I giovani: futuro della nostra nazione. E della scuola: il diritto all’istruzione. Perché, l’istruzione cura le coscienze. I ragazzi devono andare a scuola, per essere strappati alla mafia. La lotta alla mafia e alla corruzione – che vanno sempre in coppia – dev’essere il primo pilastro coraggioso di ognuno di noi. Pensiamo al sacrificio di Falcone e Borsellino. Troppi sono morti per la mafia. Troppi ne vivono ancora, di mafia. Ma magari questo non lo dirà, perché non sta bene e ci saranno troppi presenti che potrebbero aversene a male, magari pensano stia parlando di loro, magari gli avrà stretto la mano. E non sta bene iniziare un Settennato in nome della contraddizione.

Ma soprattutto, la scuola tiene viva la Memoria. Quella del passato passato che non fa più male ai presenti, perché la memoria a breve termine quella lasciamola ai giornali che tanto a fine giornata si buttano. No, il nostro Presidente parlerà della Storia, perché noi siamo la nostra Storia e la nostra storia racconta di un popolo che ha difeso la propria libertà… Si, d’accordo, siamo stati anche fascisti, con l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche e monarchiche, ma vuoi mettere? La Resistenza! Noi siamo il popolo della Resistenza. A oltranza, oserei dire.

E a proposito di difesa: grazie alle Forze Armate (anche ai vigili di cui sopra?), che ci tutelano il nome della legalità, accompagnando la lotta alla corruzione, piaga più punitiva di tutte le altre sette. Perché il senso delle Istituzioni, gli italiani lo devono avere tutti! Noi siamo le Istituzioni. E lasciamo perdere che le Istituzioni non sanno chi siamo noi: non siate egocentrici.

Non pensiamo a cosa può fare il nostro Paese per noi, ma a cosa noi possiamo fare per il nostro Paese. No, mi sa che questo forse era un altro. Questa, era un’altra storia. La nostra, è lastricata di buoni propositi e standing ovation.

C’ho preso?

Il primo messaggio alla Nazione di #MattarellaPresidente

Mattarella Presidente della Repubblica
Il discorso alle camere di Mattarella

Oggi l’inizio del settennato per  il XII Presidente della Repubblica, il neoeletto Sergio Mattarella, riportiamo il testo integrale del discorso di insediamento tenuto di fronte alle Camere riunite in seduta comune a Montecitorio.

«Signora Presidente della Camera dei Deputati, Signora Vice Presidente del Senato, Signori Parlamentari e Delegati regionali,
Rivolgo un saluto rispettoso a questa assemblea, ai parlamentari che interpretano la sovranità del nostro popolo e le danno voce e alle Regioni qui rappresentate.
Ringrazio la Presidente Laura Boldrini e la Vice Presidente Valeria Fedeli.
Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al voto.
Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari.
A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani.
Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso.
Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.
Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato.
La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno.
Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini.
Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.
L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze.
La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo.
Ha aumentato le ingiustizie.
Ha generato nuove povertà.
Ha prodotto emarginazione e solitudine.
Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi.
Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.
Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo.
Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione.
Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa.
È indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo.
Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.
Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza.
L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.
Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente.
Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito.
Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali.
Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.
Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana.
Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza.
Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società.
A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.
Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso.
Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese.
La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica.
La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.
Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento.
La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti.
I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare.
A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.
L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese.
Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità.
Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti.
È necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.
La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi.
È significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione.
Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia.
Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.
Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.
Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.
Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione.
È una immagine efficace.
All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale.
I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.

Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione.
La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno.
Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.
Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro.
Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale.
Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici.
Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace.
Significa garantire i diritti dei malati.
Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale.
Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi.
Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.
Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità.
Significa sostenere la famiglia, risorsa della società.
Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia.
Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.
Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva.
Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità.
La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.
La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile.
Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini.
Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato.
Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci.
L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».
È allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti.
Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata.
Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.
Altri rischi minacciano la nostra convivenza.
Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti.
Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.
Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.
La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa.
Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.
La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza.
Per minacce globali servono risposte globali.
Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali.
I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.
La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse.
Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione.
La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.
Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989.
Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.
L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.
Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi.
Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia.
È questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale.
L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.
A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.
Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere.
Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.
Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo.
Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.
Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati,
Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.
Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:
il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi.
i volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti.
Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto.
Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.
Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri.
Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto.
Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose.
Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.
Viva la Repubblica, viva l’Italia!»

Il vero volto di Silone

 Silone spia della polizia fascista? Due storici molto scrupolosi, Mauro Canali e Dario Biocca, hanno portato alla luce una corrispondenza epistolare che sembrerebbe inchiodare lo scrittore. Anche se restano alcuni punti di difficile interpretazione. Quando sarebbe cominciata l’attività di informatore? Nel 1919 o nel 1923, o più tardi? Siamo certi che tutte le lettere (non firmate) riportate dagli storici siano di Silone? Se le lettere contengono perlopiù notizie irrilevanti sull’attività degli antifascisti non si tratterebbe di un diversivo (senza arrivare a ipotizzare il triplo gioco, come pure fece Terracini)?

Renzo Paris, Fenicottero, leftAddentrandosi in una materia così rovente Renzo Paris ha scritto un libro bello e pieno di affabulazione (l’ho letto con più gusto di quasi tutti i romanzi contemporanei). Ha inventato un genere letterario, una sottospecie del genere biografico: la biografia sciamanica, o realistico-visionaria, che consiste nella evocazione della vita di uno scrittore attraverso intuizioni poetiche, empatia, ricerca, libere associazioni, colloqui, memoir, ascolto del genius loci, scandaglio dell’opera.

Qui ricostruisce l’esistenza pubblica e privata dello scrittore marsicano (“fenicottero”, com’erano chiamati i comunisti clandestini), dai primi anni fino ai 30 anni. Anche Paris, approdato alla psicanalisi dopo il Grande Riflusso, ha “tradito”, anche se – aggiunge – “un vertice politico vieppiù ‘cretino’”. La notizia per me più sorprendente è quella relativa a una amicizia omosessuale – non certissima ma comprovata da vari documenti – tra Silone e il suo interlocutore, il commissario Bellone. E qui Paris scrive delle pagine commosse, delicate, che tratteggiano una storia d’amore atipica. Sappiamo come Silone abbia tematizzato il tradimento in tutti suoi romanzi.

Anima tormentata, dirigente comunista e poi fiero anticomunista, cuore inquieto vicino a un socialismo evangelico, Silone venne rifiutato, dal movimento del ’68. Tanto che il libro di Paris, anch’egli marsicano, potrebbe valere come risarcimento postumo. Certo, “la letteratura è pericolosa e spesso nasce in territori malati”, e non ci sono maestri senza macchia. Però la sua etica si esprime su un piano più alto (non è mai moralista), sapendo che nulla di umano ci è estraneo.

Il dovere di liberare i cittadini

Un governo ha il dovere di salvare la vita dei suoi cittadini. Come? Con tutti i mezzi possibili. Per quanto riguarda gli ostaggi fatti prigionieri in zone di guerra – Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, etc. – l’unica strada è quella del negoziato per verificare quali sono le condizioni per la loro liberazione.

Non si possono porre precondizioni riguardanti la legalità in Paesi dove nessuna legge è rispettata. Anzi a volte la difficoltà è quella di trovare interlocutori credibili per una trattativa. E se il negoziato si conclude con la richiesta di un riscatto non c’è altra possibilità che pagare. Non sempre il riscatto richiesto è in denaro, a volte si chiede la liberazione di prigionieri, una scelta forse ancora più difficile, eppure anche gli inflessibili israeliani liberano decine di prigionieri palestinesi per salvare la vita di un loro soldato.

Una vita umana vale più di qualche migliaio di dollari. Per di più se pensiamo che l’Italia spende 52 milioni di euro (secondo dati Nato) o 72 (secondo dati Sipri) al giorno per le spese militari, che servono a fare la guerra e non certo a salvare vite, la quota per i riscatti diventa ben poca cosa. Ma la critica al pagamento di riscatti riguarda il fatto che questi soldi andrebbero a finanziare il terrorismo.

Ebbene l’Italia e l’occidente hanno già finanziato lautamente il terrorismo con l’intervento militare in Libia che ha fatto del Paese – ora controllato da varie milizie armate – il più grande mercato di armi. Un mercato che ha rifornito i gruppi qaedisti siriani. In Libia sono stati addestrati anche molti jihadisti poi partiti per la Siria.

Non solo, i finanziamenti – sauditi, del Qatar e occidentali – all’opposizione siriana sono arrivati in gran parte proprio all’Isis (Stato islamico in Iraq e nel Levante) e al Fronte al Nusra – che ha rapito Greta e Vanessa – poiché controllano la frontiera con la Turchia, da dove passano tutti gli aiuti anti-Assad.

E poi, non è sorprendente che tante polemiche sul pagamento del riscatto scandalizzino tanto solo quando gli ostaggi sono donne? Avete mai sentito proteste quando abbiamo pagato milioni di dollari per liberare giornalisti, cooperanti o lavoratori maschi? Forse perché i benpensanti di turno ritengono che le donne – proprio come sostengono gli islamisti – dovrebbero stare a casa invece di rischiare la vita per fare “cose da uomini”.

Ed è inaccettabile la violenza con cui ci si è scagliati contro le due ragazze che, forse un po’ ingenuamente ma animate da uno spirito di solidarietà, hanno rischiato la vita e sono rimaste prigioniere per mesi. Se poi veramente a preoccupare sono i soldi, ci sono altri modi per risparmiare davvero: annullando l’acquisto dei cacciabombardieri F35 che costano miliardi e non milioni e non servono certo per sconfiggere il terrorismo. Anzi, nei Paesi in cui l’Italia e l’Occidente sono impegnati militarmente il terrorismo è dilagato.

In Afghanistan, dopo tredici anni di guerra, i talebani sono forti come o forse più di prima.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/GiulianaSgrena” target=”on” ][/social_link] @GiulianaSgrena

Sequestri senza fondo

«Sotto le bombe faremo più affari». È la battuta che il Guardian attribuisce a un dirigente di Hiscox, la società del comparto sicurezza che assicura contro i rapimenti, garantendo un rimborso del riscatto pagato. Con sede alle Bermuda – per immaginabili motivi fiscali – Hiscox si appoggia al gruppo londinese Lloyd’s e gestisce polizze a livello globale per diversi miliardi di euro, registrando una crescita annua del 15-20%. Dopo il 2011, anno di disastri ambientali e rivolte nel mondo arabo, la società vive un momento di crisi: troppi premi da rimborsare ai clienti con attività in zone che fino a poco prima erano considerate sicure.

Ma il dissesto è relativo e Hiscox, come molte compagnie, approfitta dell’instabilità politica per forgiare la strategia di “incoraggiare il coraggio”. In altre parole: andate pure nei posti pericolosi, tanto ci siamo noi. La vicenda di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ha portato sulle prime pagine la questione delle polizze assicurative. Ma il business dei rapimenti internazionali è un mostro dalle molte teste.

CROWDFUNDING PER TERRORISTI

L’idea che i riscatti siano la principale fonte di guadagno di al Qaeda e Isis non dice tutta la verità: il portafoglio dei terroristi è diversificato. Secondo un’inchiesta del New York Times, i riscatti hanno fatto incassare ad Al Qaeda 125 milioni di dollari fra 2007 e 2013, metà dei quali solo nel 2013. Il dipartimento del Tesoro statunitense ha parlato invece, per lo stesso periodo, di 165 milioni.

A beneficiarne, soprattutto Aqmi e Aqpa, movimenti affiliati di al Qaeda nel Maghreb islamico e nella Penisola Araba e, in parte, Tahrik i-Taliban in Pakistan. Quando Isis si è affacciato sulla scena mondiale, a fine 2013, poteva dunque contare su parte di questi fondi. Ma ha presto avuto accesso ad altre risorse: pozzi petroliferi, vendita di beni artistici, tassazione ed estorsioni, hanno portato il budget del gruppo – secondo il ricercatore australiano Adam Dolnik – a 2 miliardi di dollari. Incrociando le fonti, si può ipotizzare che Isis guadagni 2-3 milioni al giorno dall’estrazione di greggio e 1 milione in media dal pagamento dei riscatti. Una cifra comunque considerevole e più alta di ogni altra organizzazione analoga del passato.

Pagare o non pagare, quindi? È ancora il New York Times a stilare una classifica dei principali Paesi che hanno versato riscatti ad al Qaeda: Francia, Qatar, Oman, Svizzera, Spagna e Austria. Nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite post-11 settembre, afferma il Times, gli europei continuano a finanziare il terrorismo. Le stime, però, sono più complesse, a tratti oscure. Il quotidiano Independent sosteneva nel 2010 che il giro d’affari annuale dei riscatti fosse di 1 miliardo di dollari, altre stime oscillano fra i 500 milioni e il miliardo e mezzo. I dati, molto probabilmente, sono arrotondati per difetto, visto che la gran parte dei rapimenti non viene denunciata alle autorità. Secondo Catlin, una società privata di analisi dei rischi, nel 2014 sono stati circa 40mila i rapimenti a scopo estorsivo nel mondo. Numero che include tutti i sequestri di persona, legati a diversi tipi di criminalità. Il triste primato se lo aggiudica il Messico, patria dei rapimenti “express”, ovvero rapidi, gestiti dal narcotraffico. Lo seguono India, Pakistan, Iraq, Nigeria, Libia e Afghanistan. In Italia – va evidenziato – sono oltre 1.000 i sequestri di persona denunciati nel 2013, alcuni dei quali operati dalla criminalità nazionale nei confronti di stranieri.

QUANDO IL RISCATTO È POLITICO

Fra i 40mila rapiti del 2014 si contano anche molti stranieri in visita, presi di mira come buoni investimenti in termini economici e, per il terrorismo internazionale, di visibilità politica. «I sequestri con finalità di terrorismo e presunte finalità politiche, hanno intenti ricattatori nei confronti delle istituzioni, non delle famiglie delle vittime», spiega l’avvocato Rosario Di Legami, esperto di criminalità economica e amministratore di beni confiscati alle mafie. «Le richieste includono spesso il ritiro di truppe e altre forme di concessioni, come il rilascio di prigionieri».

I riscatti, insomma, vengono chiesti agli Stati e non alle famiglie. A questo punto, la distinzione è fra i Paesi che pagano e quelli che non lo fanno. O, meglio, che dichiarano di non pagare ma poi lo fanno, coperti dal segreto di Stato e da clausole di riservatezza fatte firmare a tutti i soggetti coinvolti. Ricostruzioni giornalistiche fanno pensare che i governi di Italia, Francia, Spagna e Germania paghino attraverso compagnie private, a differenza di Danimarca e Olanda che, pur non pagando, lascerebbero ai privati la libertà di farlo.

A rigor di logica, quindi, gruppi come Isis e al Qaeda dovrebbero rapire soprattutto cittadini di questi Paesi, per poi rilasciarli appena pagata la somma richiesta, che si aggira in media intorno ai 2 milioni di euro. Ma non è necessariamente così: Hervé Gourdel, francese in viaggio in Algeria, era stato ucciso nel settembre 2014 da un gruppo “simpatizzante” di Isis, mentre poco prima il giornalista americano Peter Theo Curtis era stato rilasciato dopo quasi due anni di prigionia in Siria, sfuggendo al destino crudele dei colleghi James Foley e Steven Sotloff.

John Cantlie, giornalista inglese rapito con Foley, è stato invece tenuto in vita e usato dal Califfato per fare pressioni sul governo di Cameron. Le richieste economiche si mescolano alle rivendicazioni politiche. Le cifre richieste per alcuni rapiti sono altissime: 130 milioni di dollari per Foley e 200 per i due ostaggi giapponesi rapiti di recente. Numeri che fanno pensare ad atti simbolici più che a pure estorsioni economiche.

Usa e Gran Bretagna, alla testa della coalizione contro il terrorismo, hanno risposto a queste rivendicazioni con la politica delle “zero concessioni”. Eppure nel 2012, durante un discorso alla think thank Chatham House, il sottosegretario per il Terrorismo e l’Intelligence del governo Obama, David Cohen, ha dichiarato che, pur attenendosi alle “zero concessioni”, «alcuni riscatti possano essere pagati». A Londra, poi, sono nate le principali compagnie assicurative contro i rapimenti, come la già citata Hiscox, che garantiscono un rimborso del riscatto pagato senza che vi sia necessariamente un coinvolgimento delle istituzioni. Un sistema che potrebbe aggirare la politica ufficiale di Downing Street e di altri governi.

POLIZZE SOFISTICATE

A beneficiare del sistema dei riscatti non sono solamente i gruppi terroristici, ma anche i gruppi assicurativi e gli intermediari come Hiscox, Iaab, Nya e Catlin. «Abbiamo assistito a una crescita esponenziale del volume d’affari e del costo delle polizze», spiega Cesare Bidoli, manager di Allianz. Hiscox da sola registra 250 milioni di dollari di ricavi netti nel settore, mentre assicurarsi oggi costa fino a dieci volte di più che nel 2009, partendo dai 10mila euro annui per raggiungere i 1.500 euro al giorno a persona.

Come funzionano e cosa offrono queste polizze? Tecnicamente chiamate K&R, ovvero kidnap and ransom (rapimento e riscatto), le polizze assicurano singoli cittadini con buone disponibilità e soprattutto aziende impegnate in zone critiche, dal trasporto marittimo nel golfo di Aden o di Guinea all’estrazione petrolifera in Libia, Nigeria e Iraq. A lanciarle è stata la Lloyd’s di Londra, sull’onda del rapimento del figlio di Charles Lindbergh nel 1932, ma il perfezionamento del prodotto è avvenuto in Italia, agli albori degli anni di piombo.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 31 gennaio 2015

Recuperiamo l’ottimismo di Keynes: l’umanità può realizzare il “meglio”

Nel 1930 John Maynard Keynes scriveva più o meno così: “Tra cent’anni, risolti tutti i nostri problemi economici, ci rimarrà da affrontare la grande questione del tempo libero. Sarà sufficiente lavorare tre ore al giorno e avere libero tutto il resto della giornata”. Affrancata dalla lotta per la sopravvivenza, all’umanità non sarebbe rimasto che da risolvere “la grande questione del tempo libero”. Questione che Keynes viveva con una certa angoscia. Dread, questo il termine che l’economista usa.

Spavento, terrore, come ci ricorda in un saggio Ernesto Longobardi (in Quale crescita, a cura di A. Pettini e A. Ventura).

Cent’anni son quasi passati. La previsione ottimistica di Keynes ci farebbe sorridere se non fosse che la crisi che stiamo vivendo, evidentemente non solo economica, è talmente grave da non consentircelo. Risolvere la grande questione del “tempo libero” non è pane per i nostri tempi. Tempi nei quali, in Europa per esempio, si muore perché non ci si cura più. E non ci si cura più perché in alcuni Paesi la sanità pubblica è stata smantellata dai tagli imposti dalla Troika.

Eppure dovremmo pensarci bene. Siamo in tempo. Ci sono rimasti quindici anni per non “bucare” del tutto le previsioni di Keynes che voleva «coniugare efficienza, equità e libertà». In Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930) l’economista si diceva sicuro che «l’umanità stesse procedendo alla soluzione dei suoi problemi economici». Era convinto che «avarizia, usura, prudenza dovevano essere il nostro dio ancora per poco» così da poter uscire «dal cunicolo del bisogno economico» e affrontare finalmente la grande questione del tempo libero. Bisognerà cambiare abitudini, comportamenti, valori: l’amore del denaro di per sé dovrà essere considerato alla stregua di una malattia mentale, “mental disease” scrisse Keynes.

Anche Marx, prima di lui, aveva ipotizzato una fase futura in cui la vita dell’uomo sarebbe stata libera dalle necessità economiche ma diversamente da Keynes non la immaginava possibile nell’ambito di un sistema capitalistico. Bensì solo in quella che lui definì la «società dei produttori associati» in cui i «bisogni radicali» avrebbero finalmente giocato un ruolo fondamentale. Il bisogno radicale di tempo libero, di universalità, di sviluppo integrale della persona. Entrambi però, sia Keynes che Marx, teorizzavano due fasi, quella dello sviluppo della ricchezza materiale e quella, solo successiva, dello sviluppo della ricchezza umana.

Alexis Tsipras, il leader greco alla testa del primo governo dichiaratamente contrario alla Troika, si rifà sia a Marx che a Keynes. Cosa farà lo vedremo e ne scriveremo. Nel frattempo vi ricordiamo le parole che ha usato nel suo primo discorso dopo la vittoria: «Ha vinto la Grecia della creatività. Che combatte e spera. Che vuole spazio e tempo. Lavoro, sapere, onestà, amicizia, uomini e donne. Fine dell’austerità della catastrofe, fine di cinque anni di oppressione. Fine della paura. Dignità, ottimismo. Passione. Lotteremo con passione – ha detto – “senza nessun obbligo”. Perché democrazia significa benessere. E se il benessere non c’è vuol dire che non c’è democrazia».

Partiamo da qui allora. Se non c’è benessere inteso come ben-essere, e prendo a prestito l’espressione di Claudio Gnesutta, non c’è democrazia. Per dire che certamente su Left scriveremo di cosa farà Tsipras, e se lo farà per bene. Ma annotiamo che forse è arrivato il momento di invertire le due fasi, o di unirle. Scriveremo e riscriveremo che è inutile perseguire la sola sopravvivenza materiale, fondamento necessario ma non sufficiente e la Storia lo dimostra: la creazione di ricchezza materiale di per sé genera mostri. È tempo di «accettare che il riferimento sia il ben-essere piuttosto che il prodotto (nell’accezione ampia di Pil)», spiega Gnesutta. E questo impone un cambiamento di prospettiva, di paradigma economico, politico, culturale. «Il problema politico dell’umanità consiste nel mettere assieme tre momenti: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale», Keynes lo scriveva già nel 1926. Bisogna capire cosa accade «sotto il pelo dell’acqua» e andare oltre. Recuperare l’ottimismo di Keynes sulla capacità dell’umanità di realizzare il “meglio”. E trasformare in profondità l’agenda della nostra politica affinché “comprenda” una realtà più “vera”. Giorgio Lunghini nel 1995 scriveva: «Per poter cantare insieme occorre un diverso rapporto tra ciclo sociale e ciclo produttivo, tra tempo di lavoro e tempo di vita». Per cantare insieme, non “contare”.

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Ferdinando “Nando” Valletti, questo è un uomo

Quando il kapò mise la testa nella fredda baracca di legno, Ferdinando Valletti indossava un pigiama a righe con una lettera sul petto, seguita da una serie di numeri. Il kapò era stato mandato a cercare qualcuno capace di giocare a pallone perché nel campo di Gusen, in terra d’Austria, le SS avevano anche il tempo di divertirsi e quel giorno, evidentemente, erano rimasti a corto di uomini.

I due soldati pensavano che quel ragazzo con gli occhi ancora troppo vivi per i loro gusti li stesse prendendo in giro mentre spiegava, aiutato dal kapò stesso, di aver giocato addirittura con il Milan. Ferdinando “Nando” Valletti (nella foto è il terzo da destra nella seconda fila) era nato nel ’21 a Verona, dove aveva iniziato proprio nelle giovanili dell’Hellas. Si ritrovò a Milano con 18 anni ancora da compiere e con un diploma da perito industriale che gli permise di entrare all’Alfa Romeo senza mai perdere il contatto con la palla.

Sebbene la sua fabbrica avesse la squadra del relativo dopolavoro regolarmente iscritto alla serie C, Ferdinando Valletti, per gli amici Nando, divenne il mediano titolare del Seregno, formazione sorteggiata in un girone diverso da quello in cui militava, oltre all’Alfa, anche la rappresentativa della Pirelli Bicocca. Era il ’42. Con l’Italia ormai in guerra da due anni, lo stabilimento del Portello, sviluppatosi vertiginosamente già in epoca coloniale, divenne uno dei maggiori centri di produzione di mezzi di trasporto.

Il ragazzo finì presto nel mirino dei talent scout del Milan, qualifica professionale che all’epoca stava ad indicare gli osservatori dell’Associazione calcistica Milano, il nuovo nome imposto dal regime all’antica e anglofila società rossonera. Tra i suoi compagni di squadra: il vicentino Romeo Menti e il triestino Ferruccio Valcareggi. Valletti gioca tutta la stagione ’42-’43 senza riuscire a concludere il campionato successivo.

Nel marzo del ’44, infatti, un combinato disposto di delazioni tra colleghi lo indica come uno dei principali organizzatori dello sciopero che il Comitato sindacale d’agitazione della Lombardia proclama per bloccare tutta l’attività produttiva della Repubblica Sociale. La milizia fascista lo arresta insieme ad altri venti operai dell’Alfa e lo consegna alle SS. Dopo un breve soggiorno a San Vittore, tutti sul treno di legno in partenza dal famigerato binario 21 della Stazione centrale. Destinazione Mauthausen. Valletti è un metalmeccanico, è abituato al lavoro duro. Ma il ragazzo è anche un atleta, tonico e resistente. Dopo un primo periodo alla cava di pietra, viene assegnato al campo di Gusen dove gli fanno costruire gallerie. Il pittore Aldo Carpi racconterà nei suoi diari di prigionia come il Valletti gli abbia salvato la vita più volte.

La prima partita che si ritrova a giocare insieme alle SS gli fa guadagnare la fiducia dei suoi aguzzini che, nonostante i piedi scalzi, ne riconoscono il valore tecnico. Rimedia altre convocazioni, un paio di zoccoli, l’esclusione dalle linee di produzione e finalmente un ruolo da sguattero nelle cucine. E proprio dalle cucine, Ferdinando per gli amici Nando, riuscirà a trafugare giorno dopo giorno quel minimo di cibo necessario per non far morire di fame i suoi compagni ormai allo stremo. Quando, a maggio del ’45, arrivano gli alleati, i sopravvissuti nella sua baracca sono soltanto cinque. Uno di questi è lui, Ferdinando Valletti: 24 anni, metalmeccanico, calciatore, uomo.