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La Venere degli stracci rinasce ancora. A colloquio con Michelangelo Pistoletto

Venere degli stracci Pistoletto

«Nel mio lavoro non c’è difesa. La Venere degli stracci deve essere un’opera aperta». Così Michelangelo Pistoletto ci disse all’indomani dell’attacco alla sua opera a Napoli, compiuta da una persona con problemi psichici che lui ha cercato in tutti questi mesi di fare uscire dal carcere perché fosse curato. Oggi 6 marzo, la sua opera rivive a Napoli in nuova forma nuova. La conferenza stampa di presentazione dell’opera si può seguire sul sito del Comune di Napoli

Qui riproponiamo la nostra conversazione pubblicata su Left il 2 agosto 2023
Maestro Michelangelo Pistoletto, l’incendio in piazza del Plebiscito a Napoli della sua Venere degli stracci è stato un femminicidio, lei ha detto in una intervista. La sua Venere è una immagine femminile che vive e si rigenera dal 1967 e nota in tutto il mondo. Come sta vivendo questo momento?
In realtà non è stata una mia espressione: devo alla mia compagna questa considerazione. Quando abbiamo saputo dell’incendio dell’opera ha reagito dicendo: “l’ho sentito come un femminicidio”. Mi ha colpito il suo commento sensibile, mi è parsa molto significativa questa sua intuizione. Concretamente il fuoco è stato appiccato agli stracci. Ma hanno bruciato la Venere insieme ad essi. L’attacco morale di fondo, oltreché estetico, è la Venere che rappresenta la femminilità, che attraversa tutta la storia dell’umanità come emblema di bellezza, di sensibilità, di amore e di venerabilità.
Ha detto di voler incontrare la persona che è accusata di aver incendiato l’opera. Accadrà?
Avevo chiesto di poterlo incontrare quando era stato ipotizzato si trattasse di un clochard. Ma dalle indagini di polizia sembra emergere qualcosa di diverso. A questo punto non voglio intromettermi nel loro lavoro. Non so quali siano state veramente le motivazioni che hanno fatto scattare questo gesto incendiario e mi rendo conto che non posso in un rapporto così, amichevole, arrivare alla verità.

La sua Venere come tutta l’arte in piazza è vulnerabile, è di tutti, è gratuita, non chiede un biglietto. Anche questo concorre alla sua forza e bellezza?
Nel mio lavoro non c’è difesa. L’esposizione pubblica è fatta apposta per favorire l’interazione. Accade fin dai miei primi quadri specchianti dove il mondo rappresentato dalle persone che si guardano nell’opera è interamente compreso in essa. Lo spettatore è parte dell’opera d’arte, viene incluso, non ha una posizione esclusivamente contemplativa. La Venere degli stracci deve essere un’opera aperta. I vestiti che la circondano sono chiamati stracci perché sono stati usati, hanno avuto dentro di sé corpi umani; è l’umanità stessa che si ritrova nella moltitudine di questi indumenti, così come si può ritrovare nella moltitudine delle persone che si riflettono nei quadri specchianti.
Non è la prima volta che le sue opere vengono colpite. Era già accaduto molti anni fa negli Stati Uniti: i suoi quadri specchianti subirono una violenta aggressione nella galleria di Leo Castelli. Cosa scatenò quell’attacco?
Trovai colpi fortissimi sulla parte specchiante dei miei lavori. Accade proprio dentro la galleria di New York dove stavo per inaugurare la mia mostra. Quella volta ebbi un po’ paura. Avvertivo una violenza contro di me, anche a livello personale, che veniva da un certo ambiente artistico. All’epoca il mio lavoro veniva incluso nella Pop art newyorchese. Non perché io mi ci fossi infilato, ma perché mi ci misero dentro. Il mio lavoro era oggettivo e la Pop art praticava l’oggettività della raffigurazione, ma il problema fu che gli artisti americani, già dall’epoca dell’Action Painting, scrivevano esplicitamente che intendevano tagliare i ponti con l’arte europea. L’Europa doveva diventare secondaria rispetto al potere americano, questo era inteso sotto tutti i profili, ma soprattutto sotto quello politico a cui aderirono gli artisti pop. Sposarono quel sistema universalmente inteso che è il sistema consumistico. Il mio lavoro non avendo nulla a che fare con quel sistema non aveva più ragione di essere presente là dove si voleva negare il rapporto con il passato e con l’Europa.

Nella storia, prima del turbo capitalismo, la fantasia degli artisti è stata attaccata dalle teocrazie e dai regimi. La secolare e feroce storia dell’iconoclastia ci insegna che dittatori e religiosi non tollerano riferimenti all’arte che allude all’umanità più profonda e a una possibilità di trasformazione interiore. Che ne pensa?
L’iconoclastia è un fenomeno estremamente complesso e cruciale. Curiosamente nei giorni scorsi stavo appuntando delle note proprio su questo tema (continuo a scrivere man mano che procedo nella mia ricerca). Da sempre mi colpisce la necessità che molte persone hanno di identificarsi in un elemento che possa unirle; fosse pure una bandiera, un dogma, un simbolo di appartenenza. Ma se c’è di mezzo l’aspetto religioso, invece di “religare” (unire), l’effetto è “relegare” (escludere): crescono elementi che confliggono distruttivamente fra di loro, per il possesso del potere. Da qui le guerre, le fratture insanabili. Nell’incapacità di “religare” i rapporti umani si relega e si confligge drammaticamente fra le varie bandiere.
Al contrario lei ha sempre cercato un modo per poter far sì che l’arte sia fattore di coesione e motore di un cambiamento sociale “progressista”, oserei dire, evolutivo per l’umanità. Come si è sviluppata questa sua ricerca?
Io ho sempre pensato che l’arte sia il fermento essenziale del pensiero umano. Non solo in astratto. L’arte è la messa in pratica dell’attività umana; la parola tecnè corrisponde al concetto di arte: è l’arte che pensa, l’arte che fa. Nel Novecento l’arte ha sviluppato una sua autonomia man mano sempre più chiara, sempre più precisa. Ogni singolo artista ha assunto autonomia e autorialità propria. Per me, tuttavia, non era sufficiente che l’artista realizzasse la propria identità e libertà assoluta, perché in questo modo sarebbe rimasto solo, fuori dal mondo. La libertà dell’artista doveva essere messa a disposizione dell’intera umanità.
L’artista, in questo senso, ha una responsabilità?
L’arte per mantenere la propria autonomia non deve essere sottomessa a nessuna altra trama. Ma deve assumersi la responsabilità di produrre in prima istanza il sistema sociale, che va dalla politica all’architettura, a tutto ciò che fa la società. E qui torniamo a ciò che lei accennava: l’arte deve essere al centro di una trasformazione responsabile della società. Lo vediamo tutti i giorni: il mondo è attraversato da molti conflitti distruttivi, dobbiamo liberarcene per andare verso ciò che l’arte può portare: equilibrio, armonia e consapevolezza.
In questa direzione va il suo progetto Terzo paradiso, nato da una espressione persiana, che allude a un giardino protetto?
Il Terzo paradiso è un’idea che mi è balenata quando ho visto che nel mondo erano entrati in conflitto natura (mondo naturale) e artificio (mondo artificiale). Sappiamo ormai benissimo che stiamo procurando al pianeta un danno che torna completamente contro di noi. Non possiamo più aspettare. Come artista sento di dover prendere l’iniziativa per stimolare la capacità di creare che è insita in tutti gli esseri umani. Ribadisco, come artisti possiamo realizzare questa massima libertà e responsabilità. Ma bisogna trovare le forme e i metodi opportuni. Anche per questo ho creato il simbolo che ho chiamato Terzo Paradiso, terzo stato dell’umanità in cui i due elementi contrapposti si incontrano al centro producono un elemento nuovo, una realtà che non esisteva, la sintesi di due opposti. Gli estremi e le contraddizioni ci saranno sempre, sta a noi usare il metodo della creazione per dar vita a quell’equilibrio che corrisponde al termine di “umano”, ancora ben lungi dall’essere raggiunto.

Benché lei avesse già un suo percorso avviato, decise di prendere parte al gruppo dell’Arte povera. Più di recente a Biella ha fondato la Cittadellarte dove collaborano ragazzi da ogni parte del mondo. Quale importanza ha per lei il lavoro creativo collettivo?
Ora, secondo me, non conta più tanto lo studio personale come luogo fisico dell’artista, dove produce il proprio lavoro esclusivo e neanche l’opera dell’artista che va in gruppo per strada facendo i suoi graffiti sui muri. Per me è stato importante creare un luogo dell’arte in cui si incontrino tutti gli elementi, tutti i settori che formano la società. L’arte produce una sensibilità che permette di intuire come i vari aspetti della società stessa possano essere modificati, ricreati, riformulati, proponendone la concreta rigenerazione. La Fondazione Pistoletto Cittadellarte punta a una rifondazione della società. L’asse portante è la scuola: una accademia laboratorio dove si insegnano non solo le diverse discipline ma un’arte interdisciplinare che incentiva lo sviluppo di una nuova società. Si formano i giovani che diventano maestri delle nuove generazioni

La Galleria Arte Continua a San Gimignano propone in particolare un suo nuovo autoritratto in cui lei appare con la regalità della statuaria classica e con la pelle tatuata di qrCode. Quale passo ulteriore rappresenta questa opera rispetto ai suoi celebri autoritratti e ai quadri specchianti?
Nei quadri specchianti ho introdotto la memoria nello specchio. Lo specchio riflette immediatamente ciò che sta accadendo, rispecchia il presente continuamente mutevole: quello che c’era ieri oggi non c’è più, è una incessante trasformazione. Ma io fisso nel quadro un presente che rimane e diviene memoria. La memoria per noi esseri umani è fondamentale. E l’arte evoca la memoria più antica fin dai primordi, fin dalle prime tracce che gli esseri umani hanno lasciato. L’arte, che sia figurazione o parola scritta, rimane.
Nei suoi quadri specchianti c’è la realtà in fieri, il divenire continuo, ma c’è anche lo scatto di un istante fisso fotografato?
Ciò che io fisso su un quadro specchiante è la memoria di un istante che fermo e non lascio passare, dunque, quell’istante durerà fin quando esisterà il quadro specchiante e qualcuno apparirà in esso. Nel quadro specchiante c’è la memoria dell’istante che passa. L’autoritratto qrCode include molteplici memorie di me stesso. Molti momenti della mia vita artistica sono impressi in quella mia immagine: c’è la memoria fissa e c’è la memoria lunga e complessa, così come se dentro la mia immagine ci fosse un libro che racconta me stesso. Ho realizzato questo lavoro ben sapendo che probabilmente in un domani questi dispositivi tecnologici potrebbero anche non funzionare più, come è accaduto per le cassette musicali e video, floppy disk ecc. In futuro la tecnologia attuale sarà superata. Per aggirare una eventuale perdita di memoria questi codici che sono impressi nel mio corpo vengono trasmessi anche attraverso la scrittura e il sistema tradizionale di stampa.
La stampa su carta alla fine è la più longeva, come dimostrano millenni di storia?
Sì, penso che la pubblicazione cartacea sopravviverà come sono sopravvissute le incisioni rupestri, io voglio spaziare in tutti i sistemi tecnologici ed essi ritornano sempre alle basi primarie.

 

In 90 anni del Maestro dell’Arte povera

Michelangelo Pistoletto non si è mai fermato, ha sempre continuato con passione una propria originalissima ricerca, fin dagli anni della sua prima formazione, quasi da autodidatta, con suo padre pittore figurativo, rifiutando Gesù e il Duce, come guide che venivano imposte in quegli anni e poi lasciando lo studio di Armando Testa dove l’aveva iscritto sua madre, pensando che la pubblicità fosse il futuro. Lui non si rifiutò, ma – come racconta nel libro intervista La voce di Pistoletto (Bompiani) – usò quell’occasione per studiare l’arte contemporanea. Sussunto, suo malgrado, nella Pop art ne rifiutò le ragioni mercantilistiche. Benché fosse già un artista conosciuto si unì al gruppo dell’Arte povera (il nome fu coniato da Germano Celant) che proponeva una nuova estetica attenta al rapporto fra esseri umani e natura, tema assolutamente all’avanguardia negli anni Sessanta. Per poi tornare a sviluppare la propria ricerca in modo autonomo, sperimentando a tutto raggio, investendo molto sull’arte negli spazi pubblici, assumendosene tutti i rischi. Che si sono resi palesi a Napoli, dove la sua ricreazione in chiave monumentale della Venere degli stracci, (concepita nel 1967) curata da Vincenzo Trione nell’ambito del progetto Open. L’arte in centro, è stata attaccata, arsa, ridotta in cenere. La Venere di Pistoletto, simbolo femminile di rigenerazione risorgerà dalle sue ceneri, assicurò il sindaco di Napoli Manfredi, all’indomani del rogo. Mente l’associazione Mi Riconosci? gli contestava la scarsa concertazione con la cittadinanza.

Ci pare importante tornare a raccontare la straordinaria ricerca di Michelangelo Pistoletto che da più di 60 anni si sviluppa giorno per giorno, con una fiducia profondissima nell’umano, investendo proprio nel dialogo con gli altri. Con i giovanissimi giunti da ogni parte del mondo che popolano la sua Accademia alla Cittadellarte a Biella, ma anche con i cittadini dove vengono esposte le sue opere pubbliche e non solo. Di recente ricordiamo la sua mostra a Roma nel Chiostro del Bramante dal titolo Infinity curata da Danilo Eccher: il percorso squadernava 50 opere e 4 installazioni fra le quali una potente edizione della Venere degli stracci, accanto al simbolo del Terzo paradiso che ricrea l’idea del giardino segreto mutuata dalla antichissima e laica cultura persiana. (Nel libro La voce di Pistoletto l’artista afferma di essere ateo, «preferisco pensare e non credere»). A Roma negli spazi della Galleria Continua all’interno dell’albergo The St. Regis si è tenuta Color and Light, the latest works, dedicata a nuovi, coloratissimi lavori. A San Gimignano invece Galleria Continua ha proposto una selezione di quadri specchianti, fra i quali anche il nuovissimo auto ritratto con qrCode. Altre mostre si sono svolte a San Paolo, a Beijing, a  Dubai, a Biella e al Castello di Rivoli.

La sinistra ancillare e il futuro del Paese

Per quanto gli elettori e i dirigenti di Sinistra italiana più Verdi, i Progressisti di Massimo Zedda e Sinistra futura abbiano ragioni per considerare con soddisfazione il loro risultato in Sardegna – avendo totalizzato insieme il 10,6% dei voti – e guardare così avanti con fiducia, le dichiarazioni e le considerazioni che vengono fatte sulla vittoria di Alessandra Todde non paiono riconoscerne l’importanza e, anzi, vanno tutte in altra direzione. Lo sguardo sembra essere tutto rivolto ai “moderati” – e ai loro sedicenti leader – che dovrebbero riconsiderare le loro posizioni per rendere il famoso “campo” finalmente “largo”, larghissimo, e marciare così uniti – si fa per dire – alla riconquista di altre Regioni come Abruzzo e Basilicata e poi del governo del Paese.
Una serie di considerazioni, però, vale la pena fare sulle reazioni pavloviane di opinionisti e politici, perché segnano il ruolo che certa sinistra pare destinato a giocare nel futuro prossimo, quello ancillare di serbatoio di voti utile a coprirsi a sinistra e consentire il successo, salvo poi essere un partner di bandiera, per la riaffermazione di principi, e non incidere sulle scelte di fondo, che restano sempre orientate a soddisfare la domanda di quei “moderati” di tutte le schiere che determinano il corso di lungo periodo delle politiche.
Molti commenti di questi giorni lasciano emergere questa visione e mostrano quanto l’affermazione e il ruolo delle sinistre in appoggio a Pd e 5 Stelle alleati passino quasi inosservati perché, alla fine, considerato di facile gestione, che non sposterà più di tanto la barra di marcia. Pendiamone due come esempio, usciti su un giornale tutto sommato autonomo, ben più di altri supini “convergenti”.
Piero Ignazi, sul Domani del 29 febbraio, tesse le lodi dei 5 Stelle, lamentando come non fossero stati compresi, prima di tutto dal Pd, come fossero la formazione politica con il massimo numero di laureati tra gli eletti – e, quindi, come non debba sorprendere che siano stati loro a proporre una candidata con il profilo della Todde – e come la deriva «antipolitica e populista» sia accaduta solo perché il Pd (di Bersani) «non li seppe prendere per mano», dimenticando lo sbeffeggiamento di cui quelli fecero oggetto stesso Bersani, all’insegna del «partito di Bibbiano» e di altre amenità simili. Non solo, tralasciando di ricordare che delle cinque stelle che stanno nel loro simbolo una volta al governo si sono bellamente dimenticati (Cingolani ministro dell’ambiente, tanto per dirne una), che con la Lega sono stati capaci di proporre i provvedimenti più ignominiosi (prima del governo attuale) e che la loro vocazione “egalitaria” è riuscita a portare a casa il reddito di cittadinanza e null’altro, provvedendo a snaturare quel Parlamento che andava «rivoltato come una scatoletta» con il taglio del numero di seggi con una legge elettorale iniqua che lasciava la scelta dei candidati in mano alle segreterie dei partiti. Insomma, un curriculum da partito di governo non propriamente left-wing, raccolto ora dall’ex avvocato del popolo che non fa che distinguersi pur di non finire dentro quel perimetro “progressista” in cui, forse, il suo elettorato originario lo voleva comunque, senza per questo affidarlo a un trentenne venditore di gassose di buone speranze. Se con questi si possa andare nella direzione giusta – che giustifica l’appoggio delle sinistre – resta però da dimostrare (e qui, davvero, non ci si può che affidare alla Todde, in Sardegna).
Gianni Cuperlo, sempre sul Domani, è ancora più deludente. Il focus è tutto sulla relazione Conte-Calenda, richiamando nostalgicamente il «profumo d’Ulivo». Le sinistre, nell’orizzonte di Cuperlo, non ci sono. Lodiamo pure la “pazienza” di Elly Schlein, sapendo però che gli elettori, non il partito, sono con lei. Certo, alla fine è quello che conta, ma due domande elettori e militanti delle sinistre se la devono porre. La prima è, naturalmente, cosa ci stiamo a fare? Esigiamo ascolto, vogliamo contare, sulle scelte strategiche, diranno i loro dirigenti. La seconda è, ovviamente: perché siamo divisi, in Sardegna come nel resto del Paese? Perché qui si parla del futuro dell’Italia. Ci sono ragioni così serie per restare divisi?
L’operazione che abbiamo visto svilupparsi in Emilia-Romagna rischia di diventare emblematica e ciò che è appena successo in Sardegna sembra ricalcare quello schema, che peraltro si va delineando anche per Abruzzo e Basilicata e poi, chissà, lo sarà magari alle prossime regionali in Emilia-Romagna tra meno di un anno. Il centro-sinistra (o “campo largo” che dir si voglia) vince grazie alla sinistra – in Emilia-Romagna fu la lista Coraggiosa della Schlein a portare in dote il bottino, con la spinta finale delle “sardine” – ma poi si perseguono le stesse politiche, nel segno del produttivismo, del consumo di suolo, dello sfregio anti-ambientale, del dirigismo che ha fatto saltare ogni intermediazione (adesso pure abolendo le primarie). A Bologna, il Pd di Lepore cooptò il gruppo che alla sinistra del Pd aveva fatto opposizione nel sociale, che ora difende scelte come il raddoppio della cintura autostradale, le dissennate decimazioni del patrimonio arboreo e la gentrificazione (e, tuttavia, formula le “mappe di genere”!), incapace di una pur timida critica.
La domanda, naturalmente, è: conviene alle sinistre avere un ruolo ancillare, per reggere la candela mentre il Pd armeggia nella stanza dei bottoni, piuttosto che non raccogliere il disagio profondo che attraversa la società? Anche in Sardegna, come ormai accade ovunque, è andata a votare solo la metà degli aventi diritto, gli esclusi avendo ormai perso ogni fiducia di trovare chi li rappresenti. Il futuro del Paese resta in mano a Conte e al partito di Schlein, con l’appoggio innocuo delle sinistre consenzienti, che in tale modo, tuttavia, non sposteranno di un epsilon lo smembramento sociale in atto nell’indifferenza degli eletti.
Ora verranno le elezioni europee in cui, vivaddio, ognuno si misurerà con il suo elettorato. Peccato che sono elezioni percepite da molti come “inutili”, proprio ora che in Europa ci sarebbe bisogno di una voce ben diversa, nel nome della non belligeranza, della coesistenza, della transizione ecologica (e non più armi e meno green). Saprà la sinistra ancillare rispondere a questo appello? Qualcuno si muove, fuori da quei confini, e c’è solo da sperare che abbia più successo delle ancelle degli atlantisti di ritorno.

Meri Calvelli: «La mia Palestina, senza pace né diritti»

Il rapporto Onu del 2017 Gaza 10 anni dopo – cioè dopo 10 anni di aggressioni militari e di ferreo blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele – conteneva una drammatica allerta: Gaza sarebbe potuta diventare invivibile già entro il 2020 a causa delle persistenti crisi energetiche, sanitarie e alimentari, il 95% di acqua non potabile e la più alta percentuale di disoccupati al mondo. Dal 7 ottobre 2023 il destino della Striscia di Gaza sembra essere quello di una irreversibile ecatombe. Il massiccio attacco terroristico sferrato a sorpresa dall’ala armata di Hamas – le Brigate al-Qassam – che è riuscita a penetrare in Israele causando la morte di circa 1.200 persone, in gran parte civili, e il rapimento di 240 ostaggi, ha determinato da parte dell’esercito israeliano una reazione di proporzioni che possiamo definire bibliche. Basti ricordare le parole pronunciate il 9 ottobre dal ministro della Difesa Yoav Gallant: «Stiamo mettendo Gaza sotto completo assedio, non avranno cibo, non avranno acqua, non avranno carburante. Chiuderemo tutto. Stiamo combattendo contro animali umani e ci comporteremo di conseguenza».
Mentre scriviamo, l’operazione militare ha già causato la morte di oltre 30mila persone, di cui più del 40% bambini. Oltre 62mila sono i feriti. L’11 e 12 gennaio all’Aja, davanti alla Corte internazionale di giustizia, si sono svolte le due udienze in cui è stata esaminata la denuncia contro Israele mossa dal Sudafrica che, con il sostegno di alcuni Paesi, tra cui il Brasile, lo accusa di violazione a Gaza della Convenzione Onu sul genocidio. La ferma condanna dell’attacco terroristico di Hamas non può esimerci dall’analizzare il retroterra entro cui ha potuto prendere forma. Lo facciamo con Meri Calvelli che abbiamo contattato in Cisgiordania e in questi giorni partecipa alla missione di Amnesty International a Rafah. Non è solo la direttrice del Centro italiano Vik – fondato a Gaza in memoria dell’attivista Vittorio Arrigoni e che da anni promuove progetti di carattere socio-culturale tra l’Italia e la Striscia – ma è anche una cooperante internazionale con una lunga esperienza sul campo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dove vive da anni, e con una profonda conoscenza della società civile e politica sia palestinese che israeliana.
Meri Calvelli, in quale contesto dobbiamo collocare ciò che è avvenuto il 7 ottobre?
È stato un attacco molto violento quello che ormai viene chiamato il Black Shabbat. L’esplosione di una situazione che non era più sostenibile era però nell’aria, non solo dentro la Striscia, dopo ben 16 anni di assedio e cinque operazioni militari, ma anche in Cisgiordania, dove dall’inizio del 2023, con la formazione del governo Netanyahu, sono aumentati gli insediamenti illegali e gli attacchi violenti dei coloni verso i palestinesi. I coloni rimangono impuniti anche quando responsabili di uccisioni, addirittura vengono sostenuti dalla coalizione del governo più a destra della storia di Israele in cui sono stati fatti entrare partiti ultraortodossi che rifiutano la nascita di uno Stato palestinese – in linea con lo slogan di Netanyahu già alle elezioni del 2015: “Se vinco le elezioni, non nascerà uno Stato palestinese”. Potenza ebraica, il partito del ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir, per esempio, si richiama alle idee del rabbino razzista Meir Kahane, già messo fuori legge da Israele, accusato di istigazione al terrorismo. Questo governo ha provocato violente proteste anche dentro Israele a causa della riforma della giustizia – recentemente bocciata dall’alta Corte israeliana -, ma anche per le politiche di espansione degli insediamenti ed è considerato dall’opposizione “una minaccia per la pace nel mondo”. Poi ci sono state anche le irruzioni delle forze militari israeliane nella moschea al-Aqsa ad aprile 2023, con attacchi ai fedeli musulmani in preghiera – centinaia sono stati arrestati e feriti. A ciò si sono aggiunte le provocatorie visite alla Spianata delle Moschee di Ben-Gvir, condannate addirittura anche dagli alleati americani. I continui soprusi quotidianamente subiti da quello che la stessa Amnesty ha definito un sistema di apartheid, il completo abbandono anche da parte della comunità internazionale di trattative per la pace, ha condotto il popolo palestinese alla perdita di ogni speranza. Era prevedibile che tutto ciò prima o poi potesse sfociare in un atto di brutale violenza, ma non è stato fatto niente per evitarlo.
Il 24 ottobre il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto: «Gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. … Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese ». Cosa cambierebbe in queste parole?
Cambierei il conteggio degli anni: 75, partendo non dal ’67 ma dal ’48, quindi dall’esodo forzato dei palestinesi che furono cacciati dalle loro case e dalle loro terre. Nel 1948, già prima dell’inizio della prima guerra arabo-israeliana, iniziò la Nakba: 700mila palestinesi divennero profughi, sia interni, costretti a fuggire e a trasferirsi in altre zone della Palestina, che esterni, costretti a rifugiarsi in Giordania, Libano e Siria. Non sono più potuti tornare. Sono rimasti profughi da quattro generazioni. L’occupazione di Israele ha di fatto impedito la creazione di uno Stato palestinese. E dobbiamo ricordare la delusione seguita agli accordi di Oslo: ratificati da Rabin e Arafat, rappresentarono la speranza per il popolo palestinese di poter finalmente, attraverso un graduale passaggio, giungere alla creazione anche di un loro Stato e quindi all’acquisizione di quei diritti e libertà basilari che continuano a essergli negati. Invece la storia da quel 2003 prese un altro corso. Rabin fu ucciso da un fanatico dell’estrema destra israeliana e Israele ha continuato ad annettersi illegalmente terra palestinese in violazione del diritto internazionale, come attestano le numerose risoluzioni Onu sempre completamente ignorate. Gli accordi di Oslo non sono stati onorati, Israele non li ha rispettati.
Hamas è un’organizzazione di carattere politico e paramilitare considerata come terroristica da molti Paesi tra cui Israele, Stati Uniti e Unione europea mentre alcuni Paesi considerano tale solo la sua ala militare. La Striscia di Gaza con i suoi abitanti viene comunemente identificata con Hamas che vi governa dal 2007. Da qui “la punizione collettiva” a cui fa riferimento lo stesso Guterres?
Hamas è di fatto l’autorità della Striscia. Ha molte dimensioni, politiche, militari e anche di welfare sociale. Pur non avendo mai fatto parte dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), in qualche modo ha rappresentato la lotta palestinese. È sempre importante ricordare che Hamas vinse le elezioni legislative del 2006 svolte in tutta la Palestina nella legalità, alla presenza di osservatori internazionali. Vinse a sorpresa e con gran numero di voti rispetto ad Al Fath, fazione storica palestinese e la maggioranza dei voti la ottenne in Cisgiordania e non a Gaza. Identificare gli abitanti di Gaza con Hamas non ha senso anche perché quelle del 2006 restano le ultime elezioni palestinesi a cui la maggioranza della popolazione della Striscia non ha partecipato perché non ancora nata o non in età per votare. Ritornando alle elezioni del 2006, se a questo partito subito boicottato dalle potenze internazionali, – furono anche arrestati i suoi deputati -, fosse stato invece stato permesso di governare, forse avrebbe potuto intraprendere la strada della “normalizzazione” come era già accaduto con l’Olp, considerata anch’essa prima degli accordi di Oslo un’organizzazione terroristica. Arafat, il suo leader, nel 1988 dichiarò pubblicamente la rinuncia al terrorismo e il riconoscimento del diritto a esistere di Israele. Ecco, questa opportunità ad Hamas non fu data. Nel 2006-7 ci fu il tentativo di creare un governo di unità nazionale, fallito perché la chiusura verso Hamas con il contemporaneo appoggio dato da Israele e Usa, con il tacito assenso dell’Ue, ad Al Fath, che aveva perso le elezioni, rispecchiava la volontà di dividere in due la classe politica e il popolo palestinese. Divisione che avrebbe favorito Israele nella sua marcia verso l’annessione totale della Palestina. Tale divisione fu poi sancita con la battaglia di Gaza nel 2007. Il controllo della Striscia andò ad Hamas – con il conseguente inizio dell’assedio da parte di Israele – quello della Cisgiordania ad Al Fath.
L’attacco indiscriminato ai civili, i bombardamenti anche su rifugi per gli sfollati, su ospedali già privati di energia elettrica, e poi le immagini dei bambini nati prematuri fuori dalle incubatrici dell’ospedale di Al Shifa, così come l’accesso negato all’assistenza umanitaria: queste, oltre ad altre atrocità commesse dall’esercito israeliano, crede stiano modificando la percezione nell’opinione pubblica mondiale di Israele unica democrazia del Medio Oriente che deve difendere la propria esistenza dal terrorismo arabo-palestinese?
Sicuramente sì, ma ad un prezzo altissimo pagato dalla popolazione palestinese. C’è una grande mobilitazione a livello mondiale a supporto della Palestina, che preme per il cessate il fuoco, anche se si limita alla società civile in quanto i governi degli Stati soggiacciono al diktat americano e al suo potere di veto all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Israele è stato accusato da Amnesty di non proteggere i civili e di essersi macchiato di crimini di guerra, dal Sudafrica di aver compiuto atti di genocidio. L’esercito israeliano sta compiendo uccisioni sommarie di civili, decimando anche intere famiglie. Come è avvenuto anche in passato: ex combattenti o veterani che ora fanno parte di associazioni israeliane per i diritti umani, come Breaking the Silence, testimoniano le violenze commesse dai militari in Cisgiordania e anche nella Striscia. Ricordiamoci poi che durante le prime due settimane Israele ha addirittura impedito l’arrivo di aiuti umanitari, ad oggi i camion entrano nella Striscia con il contagocce… ma voler usare la fame come arma da guerra era stato annunciato fin dall’inizio.
Il conflitto si è esteso in Cisgiordania dove la violenza dell’esercito israeliano e dei coloni dal 7 ottobre è aumentata. Può dirci cosa sta accadendo?
La situazione qui in Cisgiordania è incandescente. I coloni armati quotidianamente entrano nei villaggi e nelle case dei contadini palestinesi, danno fuoco alle coltivazioni, picchiano e uccidono. I territori maggiormente colpiti sono i villaggi nell’area C, sotto il controllo israeliano, intorno ad Hebron, dove sono state allargate le colonie illegali, ma ora stanno entrando anche in quelli che si trovano nell’area A, sotto il controllo palestinese. Dal 7 ottobre le città sono scollegate, isolate tra loro perché i checkpoint sono stati chiusi limitando ulteriormente la libertà di movimento della popolazione palestinese. I giovani vengono sottoposti a intimidazioni e controlli da parte delle forze di sicurezza israeliane direttamente sui loro cellulari. Ricevono messaggi in cui vengono minacciati di essere arrestati se non rimuovono immediatamente i loro post sui social… poi di fatto li vanno a prendere comunque: a Jenin due giorni fa hanno arrestato 500 persone, altre sono state arrestate a Ramallah, Nablus e Betlemme ma anche nei villaggi attorno. Gli arresti sono aumentati in maniera esponenziale, al momento si calcolano circa 7mila palestinesi nelle carceri israeliane di cui oltre 2mila in detenzione amministrativa. L’esercito invade le città e i villaggi, i militari sparano a vista ma hanno armato anche i civili, un’operazione questa iniziata già da prima. Chiunque può ottenere un’arma per difesa personale, basta farne richiesta e può essere ritirata. Si sta verificando una crescita di violenza e repressione impressionante, in Cisgiordania dall’inizio della guerra sono state uccise circa 358 persone.
Meri Calvelli, lei doveva rientrare nella Striscia di Gaza l’8 ottobre per portare avanti alcuni progetti, tra cui la realizzazione della Casa internazionale delle donne. Alla fine di ottobre era attesa in Italia la tournée, organizzata dal Centro Vik, dello spettacolo teatrale, ispirato all’Odissea, All What is Left to Me scritto e interpretato da giovani attori di Gaza. Tutto si è fermato con l’esplosione di questo ennesimo conflitto…
La tournée dello spettacolo ovviamente non è mai iniziata, uno degli attori è stato ucciso dalle bombe nella sua casa a Gaza poco dopo l’inizio della guerra. Per quel che riguarda il Centro Vik, non sappiamo se l’edificio dove si trovava la sede è ancora in piedi. Dovevamo iniziare la costruzione della Casa internazionale delle donne, un progetto già avviato lo scorso giugno con Acs (Associazione di cooperazione e solidarietà Ong ndr), la cooperazione italiana e varie associazioni sia italiane che di Gaza, con uno sportello antiviolenza. Un progetto questo, importante in un contesto di stampo fortemente patriarcale che prevede la segregazione di genere e addirittura l’imposizione, per le donne, di un codice di abbigliamento. Altri progetti che avevamo iniziato nel nord della Striscia sono andati distrutti così come tutte le case popolari e le infrastrutture ricostruite con fatica dalla cooperazione internazionale dopo i bombardamenti dell’attacco del 2014, Margine protettivo. La zona Nord non esiste più, non ci sono più né i suoi abitanti né le città, né i villaggi. Non esiste a Gaza un singolo edificio che non sia stato distrutto o danneggiato. Alla popolazione è stato detto di trasferirsi al sud della Striscia ma, come sappiamo, i civili sono stati bombardati anche lì. I palestinesi riescono a sopportare tutto, anche la guerra e la fame, pur di non lasciare la loro terra e questa è da sempre la loro resistenza pacifica.

Maria Gabriella Gatti: L’assurdità di considerare il feto vita umana

«Affermare che il “concepito”, cioè l’embrione, è un soggetto di diritto deriva da un pregiudizio ideologico di natura religiosa cristiana: così l’identità umana sarebbe rappresentata dal solo genoma», dice la neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti 

 

Il 24 giugno del 2022 la Corte suprema degli Stati Uniti, con una decisione storica che riporta gli Usa indietro di 50 anni, ha annullato la sentenza Roe vs Wade del 1973, che proteggeva l’accesso all’interruzione di gravidanza fino al momento in cui un feto può vivere al di fuori dell’utero – ovvero intorno alle 23 o 24 settimane di gravidanza. Ed è stato proprio questo il punto dirimente attaccato dai giudici ultra conservatori in sintonia con le associazioni anti abortiste e le Chiese evangeliche che negano la nascita umana e confondono il feto con il bambino. Per rispondere alle loro argomentazioni religiose e anti scientifiche abbiamo rivolto alcune domande a Maria Gabriella Gatti, che da anni svolge ricerche in questo ambito ed è autrice di molte pubblicazioni scientifiche. Psicoterapeuta, per tanti anni neonatologa dell’Azienda ospedaliera di Siena, insegna alla scuola di psicoterapia Bios Psychè a Roma.

Professoressa Gatti, facciamo chiarezza, quale è la radicale differenza tra feto e neonato?
Affermare che il “concepito” cioè l’embrione è un soggetto di diritto deriva da un pregiudizio ideologico di natura religiosa cristiana: l’identità umana sarebbe rappresentata dal solo genoma. Le sequenze nucleotidiche del Dna nello zigote o nella blastocisti sono necessarie ma non sono sufficienti a definire una singolarità umana biologica. Le cellule indifferenziate e tutte uguali della Blastocisti, dopo circa cinque giorni dal concepimento, quando avviene l’impianto nella parete uterina o qualche settimana più tardi, quando l’embrione non ha ancora formato la corteccia cerebrale, non possono essere considerate persona e quindi “soggetto di diritto”. Il genoma dello zigote è il punto di partenza per la costruzione della biologia umana ma non è persona. Il pensiero religioso completamente astratto altera sia il rapporto con la realtà materiale in questo caso biologica che con la realtà psichica umana. Possiamo pensare che l’embrione è persona senza far ricorso all’anima che scende dal cielo per dar vita ad una materia biologica senza pensiero?

Cosa contraddistingue la nascita umana? Nel cinquantennale della pubblicazione di Istinto di morte e conoscenza quali sono le nuove acquisizioni delle neuroscienze e della neonatologia a conferma di ciò che Massimo Fagioli aveva affermato con la Teoria della nascita?
Lo psichiatra Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza pubblicato nel 1972 e di cui quest’anno si celebra il cinquantenario ha scoperto l’evento trasformativo della nascita: il pensiero emerge per lo stimolo epigenetico dei fotoni sulla retina e sulla sostanza cerebrale. Lo stimolo fotonico nuovo, non presente in utero, apre una nuova finestra temporale attraverso l’attivazione di geni che consentono il passaggio dalla funzione cerebrale fetale, con lo scopo solo di accrescimento morfologico ad un’attività cerebrale neonatale stimolo dipendente che ha come conseguenza l’emergere della vita psichica. La nascita è una cesura: durante la gravidanza il feto ha una esistenza biologica, solo alla nascita è “vita umana”. Fagioli ha scoperto che lo specifico del pensiero umano è la realtà irrazionale non cosciente, matrice della fantasia, della capacità di immaginare e della creatività umana e si costruisce nel primo anno di vita nel rapporto con la madre.

Dunque l’embrione non può dirsi vita umana?
È assurdo considerare l’embrione “vita umana” quando ancora non si sono realizzate strutture anatomo-funzionali nel sistema nervoso che possono sostenere un’attività di pensiero: prima delle 23-24 settimane se il feto nasce, la corteccia cerebrale non è pronta per reagire ad uno stimolo esterno e non ci può essere alcuna reazione e quindi nessuna possibilità di pensiero. L’attività elettrica cerebrale del feto è endogena auto-generata, indirizzata alla costruzione delle strutture morfologiche e funzionali del sistema nervoso: per tutta la gravidanza qualunque stimolo viene tradotto in attività elettrica endogena e diventa funzionale al processo maturativo. Anche i riflessi e i movimenti embrionali e fetali, che sono automatici e geneticamente programmati, non hanno nulla di volontario, sono una fonte di stimolazione somato-sensoriale finalizzata allo sviluppo dei circuiti e delle connessioni del sistema nervoso.

In che modo questo pensiero nuovo “riconosce”, dà identità alle donne, che per millenni è stata negata dal patriarcato e dal pensiero religioso?
In Italia nonostante la legge 194 riconosca il diritto di poter interrompere una gravidanza, alle donne giungono in continuazione dei falsi messaggi sulla natura del loro ruolo nella società e sulle presunte responsabilità morali nell’effettuare un aborto, che viene equiparato ad un omicidio. Sono state messe in atto delle vere crociate dentro i reparti di ginecologia che fanno sentire la donna marchiata da un delitto inespiabile agli occhi del mondo. L’altissimo numero di ginecologi (a volte obiettori solo per motivi pratici) che si rifiutano di eseguire un atto medico dovuto per legge come la pratica abortiva è indicativo di quanto la mentalità colpevolista sia diffusa nella nostra società. Queste false informazioni sull’interruzione della gravidanza determinano nelle donne un senso di colpa dal quale non hanno strumenti per difendersi. Fagioli ha analizzato per più di dieci anni sulle pagine del settimanale Left la violenza della cultura dominante nei confronti delle donne sia a livello antropologico, filosofico e medico, e che ha la sua radice nel pensiero greco e cristiano. L’alleanza ideologica e storica fra la religione cattolica cristiana e la razionalità della cultura greca che ha negato l’identità di persona alle donne e ai bambini, ha condannato il genere femminile a una subalternità culturale e sociale subita per millenni.

Quale pensiero c’è dietro la sciagurata decisione della Corte suprema Usa che cancella la sentenza Roe vs Wade che aveva sancito la legalità dell’aborto a livello federale?
Si pensa che la procreazione sia un evento che non può avvenire senza l’intervento divino e in tal modo si attribuisce sacralità anche al Dna umano. Proprio la sacralità del Dna che questo pensiero pensa di difendere ha portato a non riconoscere come esseri umani chi ha un altro colore della pelle. Non a caso negli ultimi anni negli Usa è aumentato il suprematismo bianco, alimentato da idee complottistiche di sostituzioni etniche che, a loro dire, sarebbero causate da ondate migratorie. Pensando che l’identità umana sia definita dal genoma si finisce nel riduzionismo e nel determinismo genetico, conseguenza di un pensiero razionale che ha demandato la ricerca sulla realtà psichica umana al divino. La psichiatria americana infatti ha trovato le sue risposte nel determinismo e nell’organicismo riducendo le malattie della mente ad alterazioni dei neuromodulatori e neurotrasmettitori. La sentenza della Corte suprema del 1973 Roe vs Wade riconosceva il diritto di Roe di ricorrere all’aborto ed è stata una svolta epocale per la libertà delle donne che ha avuto ripercussioni positive anche fuori dagli Usa.

Quali conseguenze ha portato con sé il dietrofront della Corte?
La sentenza della Corte suprema che annulla tale diritto nasce da un’ideologia culturale. Il precedente presidente Donald Trump volle e pianificò questa sentenza, nominando nella Corte suprema prima della fine del suo mandato tre nuovi giudici conservatori e appena seppe saputo del risultato dichiarò: «È stata fatta la volontà di Dio! È la vittoria sulla vita! La prossima battaglia sarà contro la contraccezione e i diritti degli omosessuali». Questa sentenza che limita la libertà delle donne è l’espressione di un atteggiamento violento che di fatto corrisponde a non riconoscerne l’identità. Il considerarle inoltre oggetto di controllo e di possesso nega che tra un uomo e una donna ci possa essere una dinamica di desiderio tra identità uguali e diverse.

Intervista pubblicata su Left dell’1 luglio 2022

Per approfondire, leggi il nuovo numero di Left: All’opposizione per Costituzione

Assange nel sacco dell’umido

Finalmente s’ode una parola per la tutela di Julian Assange dall’Europa che si è fatta unione per proporsi come culla del diritto e della libertà al resto del mondo. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ieri ha detto che «sarebbe bene che i tribunali britannici gli garantissero la necessaria protezione, perché deve effettivamente aspettarsi persecuzioni negli Stati Uniti, in considerazione del fatto che ha tradito segreti di Stato americani». 

Non è un caso che la domanda gli sia stata posta da uno studente durante un incontro in un centro formativo professionale a Sindelfingen. I grandi media, soprattutto quelli che si definiscono più progressisti, perdono la lingua ogni volta che si pronuncia il nome dell’attivista statunitense che rischierebbe 175 anni di carcere se estradato negli Usa. 

Tra i vari sconcerti di questa storia magnificamente silenziata c’è anche la cupidigia con cui gli stessi giornali che oggi si scordano di parlarne quando Assange era fonte autorevole per riempire le prime pagine dei giornali. È qualcosa che ha a che vedere con il giornalismo e con la lealtà. Giornalisticamente è obbligo per ogni testata custodire e proteggere la propria fonte, ancora di più se ha permesso di svelare vergognosi crimini di guerra compiuti in nome dell’esportazione di democrazia. Dal lato della lealtà (meglio, della slealtà) c’è la tranquillità con cui si è buttato nel sacco dell’umido un personaggio che anche dalle nostre parti qualche anno fa era un eroe. Tra il prima e il dopo è cambiata semplicemente l’ossessiva rabbia degli Usa. 

Buon martedì. 

Per approfondire Patrick Boylan Julian Assange la posta in gioco è la sua stessa vita 

Il libro di Left su free Julian Assange

Il premierato, una riforma bugiarda narrata in maniera bugiarda

Un convegno nella sede della Cgil a Roma lancia una campagna di massa contro l’ autonomia differenziata e la proposta di “premierato”. Il convegno di alto profilo scientifico si è tenuto il primo marzo con interventi di intensa passione democratica. Significativo anche il titolo: “Un capo assoluto nell’Italia spezzata”, che coniuga i due aspetti del disegno di eversione costituzionale che emerge dalle due controriforme del governo delle destre.

Due aspetti, tra i tanti, ho apprezzato: si è finalmente detto, innanzitutto, che, dopo decenni di attacchi alla Costituzione, bisogna passare all’offensiva, per attuare la Costituzione più inattuata del mondo. In secondo luogo, ed è una novità importante, la riflessione ha coinvolto, dialetticamente, intellettualità democratica, sindacalismo confederale e conflittuale, giuristi democratici e, insieme, quella che Gramsci chiama la “società civile”, formata dalle associazioni più importanti e da soggettività minori, di scopo, conflittuali, molto radicate nel territorio. È emerso, di conseguenza, con forza il nesso tra istituzioni e materialità delle condizioni sociali, l’attuale configurazione del “liberalismo autoritario”.

L’associazione Antigone ci ha illustrato uno degli aspetti (di cui poco si parla) della controriforma, il giustizialismo: peggioramento della già mediocre legge sulla tortura, disegno di legge sicuritario sulla “sicurezza”, Stato penale che sostituisce lo Stato sociale. Vi è stato un passo avanti rilevante, finalmente: la convinzione comune che è in gioco un modello di società e di democrazia, per di più in un contesto di rottura democratica nazionale ed internazionale. Metà dei cittadini non va più a votare; e, in generale, sono quelli che stanno peggio. È alta, allora, l’urgenza di formare comitati territoriali e luoghi di approfondimento e controinformazione. La battaglia referendaria sarà durissima e, per certi versi, decisiva per la legalità costituzionale.

È meglio non illudersi e attrezzarsi subito. Spiegheremo che noi siamo innovatori, non conservatori; ci opponiamo ad una riforma bugiarda narrata in maniera bugiarda! Dagli anni 80 è iniziata la demolizione dei diritti costituzionali. In nome del mercato e della ricostruzione delle catene del valore. La controriforma, in 2 articoli, mette il sigillo. Vi è bisogno di mettere al centro la sovranità popolare contro quello che Dossetti chiamava il “popolo del sovrano”, cioè la demagogia sovranista. Vi è, oggi, un forte tentativo di mediazione, di centrismo politicista, tra alcuni settori parlamentari e la Meloni.

Ma nel convegno siamo state tutte e tutti d’accordo: non vi è nessuna mediazione possibile sul terreno dell’avversario. Occorre, invece, costruire una consapevolezza diffusa: la rottura costituzionale voluta da Meloni cambia le nostre stesse vite, la nostra quotidianità. Non siamo di fronte ad un artificio tecnicistico; lo scopo della intellettualità democratica deve essere quello di recuperare la abissale distanza tra politica e realtà materiale del Paese. Sono deleterie deleghe assolute al “capo”; occorre recuperare partecipazione popolare ed autoorganizzazione. Come? Tentando di collegare difesa e attuazione della Costituzione con bisogni e aspirazioni di massa. Progetti e conflitti. “Non è”, infatti, “la coscienza delle persone che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” (Marx, Per la critica dell’economia politica).

Il convegno dell’associazione Salviamo la Costituzione Un capo assoluto in un’Italia spezzata, 1 marzo, si può vedere qui Hanno partecipato, tra gli altri, Maurizio Landini, Gaetano Azzariti, Gianfranco Pagliarulo, Marina Boscaino, Claudio De Fiores.

Il 10 febbraio si è svolto a Firenze il convegno organizzato da il Coordinamento CdC e da Libertà e giustizia, con la partecipazione di Left. Qui il video integrale

Per approfondire, Re Giorgia, inchiesta sul premierato, Left, dicembre 2023, qui

Per questo di Gaza va scritto tutti i giorni, tutto il giorno

“Le morti di bambini che temevamo sono arrivate, mentre la malnutrizione devasta la Striscia di Gaza. Secondo le notizie, almeno dieci bambini sono morti per disidratazione e malnutrizione nell’ospedale di Kamal Adwan, nel nord della Striscia di Gaza, negli ultimi giorni. È probabile che altri bambini stiano lottando per la vita da qualche parte in uno dei pochi ospedali rimasti a Gaza e che un numero ancora maggiore di bambini nel nord non possa ricevere alcuna cura. Queste morti tragiche e orribili sono causate dall’uomo, prevedibili e del tutto evitabili”. Lo scrive l’Unicef in un comunicato di ieri a tarda sera. 

La disparità di condizioni tra nord e sud è la prova evidente che le restrizioni agli aiuti nel nord stanno costando vite umane. Gli screening sulla malnutrizione effettuati dall’Unicef e dal Wfp nel nord del Paese a gennaio hanno rilevato che quasi il 16% – ovvero 1 bambino su 6 sotto i 2 anni – è gravemente malnutrito. Esami simili sono stati condotti nel sud, a Rafah, dove gli aiuti sono stati più disponibili, e hanno rilevato che il 5% dei bambini sotto i 2 anni è gravemente malnutrito.

La diffusa mancanza di cibo nutriente, di acqua sicura e di servizi medici, conseguenza diretta degli ostacoli all’accesso e dei molteplici pericoli che le operazioni umanitarie delle Nazioni Unite devono affrontare, si ripercuote sui bambini e sulle madri, ostacolando la loro capacità di allattare i propri figli, soprattutto nel nord della Striscia di Gaza. Le persone sono affamate, esauste e traumatizzate. Molti si aggrappano alla vita. L’arma più feroce usata su Gaza è il senso di impotenza iniettato tra la gente che può solo osservare attonita. Per questo va scritto tutti i giorni, tutto il giorno. 

Buon lunedì. 

Il senso di Shahrazād per la nonviolenza. A colloquio con Kader Abdolah

Dopo averci regalato una traduzione del Corano, letto laicamente come opera letteraria, lo scrittore iraniano Kader Abdolah, che da molti anni vive esule in Olanda, ha prestato il proprio talento alle Mille e una notte, il libro a cui lo legano memorie d’infanzia. Una copia figurava sulla mensola del camino di casa in Iran all’epoca in cui abitava proprio accanto alla moschea, come lo scrittore racconta nel toccante docufilm Getting older is wonderful di Fabrizio Polpettini che è stato presentato il 3 marzo al Milano nell’ambito del festival Boreali dal regista e dallo scrittore in un incontro dal titolo “Fermare il tempo con le parole: Kader Abdolah e il fascino delle Mille e una notte“.

«Tutti erano religiosi nella mia famiglia. Io no – racconta Kader Abdolah -. I am the like one. Perché io no? Forse la mia fortuna è stata che mio padre era sordomuto. Non mi poteva comandare, dicendo leggi questo, fai questo. Ci esprimevamo a gesti, comunicando l’essenziale per noi», dice con affetto.
L’aver inventato e sperimentato un linguaggio emotivo per comunicare con suo padre a gesti, forse – immaginiamo – gli dette la forza poi per mollare gli ormeggi e avventurarsi nell’impresa di scrivere in nederlandese «lingua della libertà», pur fra mille difficoltà.

Diventato uno dei più grandi scrittori olandesi Kader Abdolah e non da ora – guarda con nostalgia alle sue origini, continuando a costruire un ponte speciale fra Europa e cultura persiana e del Medio Oriente.
Proprio per fare un regalo all’Occidente ha lavorato a questa sua affascinante edizione delle Mille e una notte pubblicata in Italia da Iperborea, liberando i racconti dalle scorie, dagli innesti successivi (da quelli pornografici di marca orientale alle fantasticherie d’Occidente) lucidandone il diamante narrativo, nato dalla tradizione orale che attraversa molti Paesi orientali.

Kader Abdolah (Iperborea courtesy)

Curiosi di sapere come sia stata questa sua esperienza di lavoro, gli chiediamo cosa abbia scoperto da questo nuovo incontro con il testo: «Rileggere le Mille e una notte è stato un grande divertimento», risponde a Left. «Devo dire che non ero mai andato così in profondità. Chiede molto tempo. Perlopiù le persone si limitano a leggerne alcuni brani». Ora – racconta – «diversamente da quando ero giovane l’ho potuto riconsiderare alla luce della mia esperienza di scrittore. E sono rimasto sorpreso e affascinato dalla forza letteraria del racconti, dalla solida struttura, dalla potente affabulazione. Lavorando sul testo, ho visto cose non avevo mai notato prima e mi è apparso del tutto chiaro che le radici della letteratura mondiale sono proprio qui, in questo grandioso libro».

Nella edizione Iperborea molte di queste scoperte riguardo alle Mille e una notte sono affidate a libere digressioni d’autore, annotazioni meta narrative che intervallano le antiche “fiabe” che si intrecciano qui dopo aver percorso millenarie strade dell’oralità attraverso il Medio Oriente, l’antica Persia, la Cina, l’Arabia felix.

Con “leggerezza” Kader Abdolah illumina i personaggi, approfondisce le storie, ricrea i contesti. Spesso li fa emergere dopo secoli e millenni di cancellazione, riportando alla luce la cultura pre-islamica che innerva profondamente le Mille e una notte, censurata dai religiosi, quanto dai razionalisti, seppur per opposte ragioni. «In realtà la mia è stata una scelta naturale – dice lo scrittore – mi sentivo più mio agio con un palinsesto persiano. Mi sentivo a casa fra quelle storie. Le basi di questo libro sono in Iran. Nella tradizione persiana esisteva un libro dal titolo Mille favole. Gli arabi lo utilizzarono come base, innovarono la tradizione e fecero… più uno, intitolandolo Mille e una notte. Così hanno creato un vero capolavoro, mixando favole e storia».

Una complessa narrazione in cui convivono principesse, re, presenze magiche (jinn) insieme a personaggi realmente esistiti. L’ambientazione ci porta nella antica Bagdad, nel mercato del Cairo e in molte altre fiorenti città dell’antichità. Anche alla luce di tutta questa ricchezza narrativa e storica ci colpisce che ci siano voluti molti secoli prima che le Mille e una notte fossero riconosciute e tramandate in Occidente. Il primo a capirne il valore fu lo scrittore del Settecento francese Antoine Galland che si era imbattuto fortunosamente in una parziale raccolta. Il suo assemblaggio fu un grande successo editoriale per l’epoca ed ebbe un impatto fortissimo sulla cultura. Ma a quel tempo la grande circolazione del testo fu anche dovuta all’invenzione di Aladino e dei tappeti volanti e a un massiccio strato di orientalismo che offuscò in parte la forza originale dell’opera. «Galland ne fece una propria versione – commenta Kader Abdolah-. Di fatto è lui il padre delle Mille e una notte, grazie a un paziente lavoro di ricerca e di raccolta di una grande messe di racconti provenienti dall’Oriente. Fu lui a comporre il libro e lo fece alla perfezione. Non esiste una operazione simile in Oriente».
Ma secoli dopo ci voleva Kader Abdolah per far emergere con tutta la loro vitalità personaggi femminili straordinari, principesse e schiave, regine e popolane, che nella loro vita privata non temono di esprimere il proprio desiderio, che osano prendere l’iniziativa nel rapporto amoroso, sfidando il patriarcato imperante.

«Una delle mie scoperte è proprio questa: Le mille e una notte è un libro che parla soprattutto di donne, che ne celebra il potere e l’intelligenza. Shahrazād ne è brillante esempio. È una giovane donna di 16 o 17 anni che tiene testa a un sovrano violento e diventa regina. L’altra mia scoperta – aggiunge lo scrittore- è che questi racconti furono diffusi da nobili cantastorie. Maestri della narrazione, sapevano bene quel che dicevano e facevano. Da artisti ebbero la sensibilità di vedere l’oppressione che colpiva le donne e dettero loro uno spazio da protagoniste nelle loro storie».

Shahrazād aveva letto molti libri, ci dice questa versione delle Mille e una notte. E, come scriveva la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, la sua arma non era l’erudizione ma il “samar” il parlare gentile nella notte. Con intelligenza sensibile riuscì a fermare la violenza del re, che voleva ucciderla, “curando” la sua pazzia. Questa sua rivoluzionaria femminilità è stata però a lungo negata dai commentatori dell’opera che, nella storia, l’hanno spesso descritta come scaltra e astuta.

«Shahrazād è intelligente, è una affabulatrice di talento – risponde Kader Abdolah-. Rappresenta una giovane donna che si alza in piedi per i diritti delle donne». E il pensiero corre alla lotta non violenta e a costo della vita dei ragazzi e delle ragazze iraniane oggi contro il regime teocratico. Sono loro le moderne Shahrazād, ha detto Kader Abdolah presentando il libro a Palermo.
E parlando con Left aggiunge: «È straordinario che a creare questa immagine siano stati artisti, mossi da nobili principi a beneficio dell’umanità, nei secoli. Per bocca di Shahrazād questo libro insegna come affrontare le difficoltà, il dolore, i lutti, la guerra, la vecchiaia, ma anche l’amore, la poesia. Mille e una notte, significa mille e una lezione di vita. Per l’umanità».
Nel film Getting older is wonderful, Kader Abdolah racconta che fu proprio la lettura di libri, di ogni tradizione, ad aprirgli la mente, a far maturare in lui il rifiuto di ogni oppressione religiosa e di regime.

Che cosa la spinse, gli domandiamo, a impegnarsi in prima persona nella lotta politica contro lo scià e poi contro il regime degli ayatollah? «Era un’esigenza di vita insopprimibile – risponde -, scegli la lotta perché non è accettabile che tuo fratello venga ucciso (come è accaduto a lui ndr), non è accettabile che vengano uccisi i tuoi compagni (come è accaduto a Kader e Abdolah, da cui l’autore trae il suo nome di scrittore ndr). Non è accettabile che le donne siano obbligate a indossare il velo. Esigenze così semplici, così essenziali».
Nel film Kader Abdolah mostra una copia del reportage dal Kurdistan per il quale i suoi familiari furono incarcerati e suo fratello ucciso. Scrivere per lei, è anche un modo per trasmettere la loro voce? «Scrivere per me è il modo per sopportare la perdita di quel bellissimo Paese. È un modo per riportare in vita mio fratello e i miei compagni – dice a Left -. Scrivere è stato un modo per costruire una casa per me dopo l’esilio. Scrivere per me è un dovere. Un atto di resistenza contro il criminale regime teocratico che impera nel mio Paese».
Un’ultima domanda: cosa pensa di quel che sta accadendo a Gaza, dove ormai sono oltre 30mila i civili uccisi dalle forze israeliane, compreso un enorme numero di bambini? «Questa guerra mi colpisce profondamente. Non ci sono parole, neanche la letteratura può esprimere la profondità del nostro dolore. Penso che i leader attuali, di Israele e Palestina, non siano capaci di risolvere l’annoso conflitto israelo palestinese. Servono nuovi, più validi, rappresentanti politici, spero che possano emergere dalle nuove generazioni. Nuovi esponenti politici democratici cresciuti nell’era dei social media, con WhatsApp, con TikTok con l’intelligenza artificiale. Ho fiducia che possano nascere nuovi leader fra i tanti giovani che si occupano della lotta al climate change, impegnati per i diritti umani, per i diritti delle donne , per i diritti dei bambini. Spero che nascano nuovi leader fra i milioni di giovani che sono scesi in piazza contro la guerra nel mondo, gridando: Stop!»

La guerra è un affare, firmato Ue

“Servono più armi, dobbiamo produrne di più come abbiamo fatto con i vaccini”. Così Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue in corsa per le elezioni dove si presenta candidata dei Popolari per riprendersi l’incarico che terminerà il 31 ottobre 2024. E per questo conta sul sostegno della presidente del Consiglio Meloni. Evidentemente ritiene di ricevere più voti promuovendo nell’Unione europea una maggior quantità di introiti per aggiustare le economie traballanti del dopo Covid grazie all’industria della guerra.
Con questa frase choc, rivolta all’Europarlamento di Strasburgo riunito in seduta plenaria, che paragona con tipico cinismo politico uno strumento di vita a degli strumenti di morte, Von der Leyen sembra preparare il terreno in Europa per una guerra contro Putin, ora colpevole della morte del dissidente Navalny, come del resto la democratica Gran Bretagna lo sarà – temiamo, a breve – di quella di Julian Assange se continua così. (E le similitudini tra il “dissidente buono” e quello “cattivo”, a mio avviso, finiscono qui).
La Russia torna ad essere il vecchio/nuovo nemico da abbattere, se possibile con il concorso degli Stati Uniti, sempre che resti un democratico alla loro guida, visto che Trump ha già ammesso in tutta sincerità che preferisce investire in “casa propria”, spendendo per la difesa dei confini col Messico, piuttosto che nelle armi da mandare in Ucraina.

Nel corso del suo intervento Von der Leyen annuncia inoltre che “la guerra non è impossibile, l’Europa si armi: la libertà della Unione euroepa è in gioco”. E ci sarebbe pure una data: non ora, tra 5 anni, nel 2029. “I rischi di una guerra – ricorda – non dovrebbero essere esagerati, ma bisogna prepararsi. E tutto ciò inizia con l’urgente necessità di ricostruire, rifornire e modernizzare le forze armate degli Stati membri. L’Europa dovrebbe sforzarsi di sviluppare e produrre la prossima generazione di capacità operative vincenti. E di garantire che si disponga della quantità sufficiente di materiale e della superiorità tecnologica di cui potremmo aver bisogno in futuro. Il che significa potenziare la nostra capacità industriale della difesa nei prossimi cinque anni”.
La guerra è un grande affare. Per questo nessuno la ferma. “Che la guerra sia diventata un affare lo dimostra il fatto che alla menzione generica del corpo d’armata si sostituisce, nella moderna società della tecnica, il nome della ditta che fabbrica gli aerei…”, scriveva nel Novecento il filosofo e sociologo francofortese Theodor W. Adorno. Due anni fa Biden aveva dichiarato che il conflitto in Ucraina sarebbe finito entro due anni: poi si è auto-smentito. Tant’è che ha risolto la questione degli aiuti a Zelensky con l’invio di nuove armi, dopo aver sostenuto di non voler colpire la Russia dal territorio ucraino. E in un articolo pubblicato sul New York Times ha fatto sapere che gli Usa forniranno a Kiev sistemi missilistici “più avanzati” per centrare “obiettivi strategici”.
Che la guerra sia un affare per gli stati traspare anche dalle recenti dichiarazioni del presidente francese Macron, che non esclude “l’invio di truppe occidentali per aiutare l’esercito ucraino”. Uno scenario ancora remoto, confessa il capo di Stato, da ora reso però possibile: benché i leader di Usa, Regno Unito e Italia si siano dichiarati contrari, qualcuno ne ha parlato.
Anche il recente appello di Draghi ai parlamentari di Strasburgo a “fare qualcosa”, a “non dire sempre no”, suona diverso alla luce delle parole della leader Ue, che lo ha investito lo scorso anno del compito di stilare un rapporto sul futuro della competitività europea. La richiesta del nostro ex premier sui conti economici somiglia all’allarme di von der Leyen: “L’Europa deve svegliarsi. E aggiungerei: con urgenza! Perché la posta in gioco è molto alta: la nostra libertà e la nostra prosperità”.
E cosa ci assicura prosperità? “Negli ultimi due anni, l’Europa ha dimostrato che sosterrà l’Ucraina per tutto il tempo necessario – osserva von der Leyen- E abbiamo anche dimostrato che un’Europa più sovrana non è solo un pio desiderio. L’Europa deve spendere di più, spendere meglio, spendere in modo europeo”. Già, e i fondi chi ce li dà? “Nelle prossime settimane presenteremo alcune proposte con la prima strategia industriale europea per la difesa”. Non solo, “la Banca Europea avrà un ruolo nel rafforzare la Difesa Ue”.
Dunque mercato e guerra, è questa la sovranità che cerchiamo? E’ questa l’Europa che vogliamo, in preda a rigurgiti nazionalisti e fascisti? Dove è finito il disegno di Altiero Spinelli a poco più di 80 anni dalla sua formulazione? “Per un’Europa libera e unita”, era il titolo originale, oggi conosciuto come “Il Manifesto di Ventotene”, uno dei testi fondanti dell’Unione europea, nato con l’idea di creare una federazione europea ispirata ai principi di pace e libertà, con base democratica dotata di parlamento e governo e alla quale affidare ampi poteri, dal campo economico alla politica estera.

Come escalation conduca a escalation lo dimostra lo stesso Putin, nel discorso appena tenuto all’Assemblea federale russa, “il suo messaggio elettorale” in vista delle presidenziali di metà marzo, a detta del portavoce Dmitry Peskov. Alle nazioni occidentali, nel caso considerino l’invio di truppe in Ucraina, il presidente risponde che il suo Paese reagirà e “sconfiggerà” la Nato sul proprio territorio.
“L’Occidente sta cercando di trascinare la Russia in una nuova corsa agli armamenti, ripetendo lo scenario degli anni Ottanta. Si stanno preparando a colpire il nostro territorio e utilizzano le migliori forze possibili per farlo”. E secondo il leader del Cremlino, la minaccia di espansione potrebbe innescare un “conflitto con l’uso delle armi nucleari e di conseguenza la distruzione della civiltà”.
C’è dunque una terza, imprevista parte nel programma “Armiamo Kiev”, dal momento che la Russia continua a mietere preoccupanti successi militari sul territorio. Invece di trovare soluzioni diplomatiche, invece di tentare delle mediazioni per una soluzione pacifica del conflitto (una pace giusta), al presente auspicata solo dal Papa e dalla Cina, invece di pensare con ragionevolezza a una forza di pace e agli aiuti dopo un “cessate il fuoco” duraturo – che (a quanto pare non) si spera imminente – si pensa a far prosperare i guadagni con una futura guerra europea. C’è poco da condannare: gli affari sono affari. In modo europeo, naturalmente, ossia formato Ue.

Per approfondire Left, Europa a rischio

Abolire sfruttamento e precarietà. Così si ferma la strage sul lavoro

“Una legge che introduca il reato di omicidio sul lavoro”. È la richiesta al centro della manifestazione di oggi, 2 marzo, a Firenze (piazza Dalmazia, ore 14.30) promossa da  Unione Sindacale di Base, Cub, Cambiare Rotta, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Collettivo Gkn e Rete dei Comunisti. Il 23 marzo alle 15.30 la città si mobilita contro le morti sul lavoro e per la costruzione di un parco pubblico al posto del centro commerciale nel cui cantiere hanno perso la vita cinque operai. Sulla strage del 16 febbraio pubblichiamo la versione in italiano dell’articolo di Giuliano Granato uscito su Canal Red, diretto da Pablo Iglesias.

Sono le 8:52 di venerdì 16 febbraio.
Siamo a Firenze. Più precisamente sull’enorme area dove un tempo sorgeva il panificio militare e oggi un cantiere edile. Almeno 50 operai sono al lavoro. C’è da avanzare nella costruzione di un supermercato Esselunga, una delle principali imprese della Grande distribuzione organizzata.

Sono le 8:52 e si sente un boato. Passano pochissimi minuti: “Pronto emergenza? Correte, è crollato tutto”. È una delle prime telefonate al 118, il numero per richiedere soccorso. Una trave di cemento di 15 metri di lunghezza e 5 tonnellate di peso è crollata e ha trascinato con sé tre piani dello scheletro del supermercato.

Sotto le macerie sono coinvolti in otto. Per tre, per fortuna, la vita è salva. Non così per gli altri cinque. Si tratta di Luigi Coclite, 60 anni; Mohamed Toukabri, 54 anni, tunisino; Mohamed El Farhane, 24 anni, marocchino; Taoufik Haidar, 43 anni, marocchino; Bouzekri Rachimi, 56 anni, marocchino. Il cadavere di quest’ultimo viene ritrovato solo il 20 febbraio.

Una strage operaia. L’ennesima in questi ultimi anni in Italia. L’ultima era avvenuta nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2023 presso la stazione ferroviaria di Brandizzo, sulla tratta Torino-Milano: un treno passeggeri aveva travolto e ucciso una squadra di operai al lavoro sui binari. Il bilancio fu di 5 morti e 2 feriti.

In realtà, però, la strage è quotidiana. Nel 2023 in Italia ben 1.485 lavoratori e lavoratrici sono morti sui posti di lavoro o in itinere, cioè nel viaggio verso e dal luogo di lavoro. Una media di 4 morti ammazzati ogni giorno. Tutti i giorni, Capodanno, Pasqua e Natale inclusi.
Solo che l’occhio del potere mediatico e del potere politico ci si posa solo quando i lavoratori muoiono tutti insieme nello stesso posto.

E ci si inizia a chiedere il perché di quello specifico dramma. Come sia potuto accadere. Quale sia stata la dinamica precisa. Chi abbia sbagliato e cosa.
Politici ed esponenti istituzionali si affrettano a mostrarsi a favore di telecamera tristi e commossi, rilasciando dichiarazioni tratte da un copione sempre identico: “non è accettabile”; “non si può morire per andare a lavorare”; “mai più”. Salvo che poi tutto continua esattamente come prima, in una tragica ripetizione quotidiana.

Se si ripete è perché il problema, checché ne pensi chi denuncia che “su troppi posti di lavoro manca la cultura della sicurezza”, è in realtà strutturale e strettamente legato a come agisce la logica del profitto.

Il cantiere Esselunga di Firenze non è eccezione; al contrario, è lo specchio del mondo del lavoro oggi in Italia.

Il supermercato, una volta concluso, sarà di Esselunga, grande impresa della distribuzione organizzata. L’impresa committente dei lavori è Vallata S.p.A., partecipata al 100% da Esselunga, e il cui presidente è Angelino Alfano, ex ministro, prima con Berlusconi (ministro della Giustizia), poi con il centrosinistra di Letta, Renzi e Gentiloni (ministro dell’Interno e infine degli Esteri). A proposito di porte girevoli tra politica ed economia…
L’impresa appaltatrice, invece, è la Aep, Attività edilizie pavesi srl, con sede a Pieve del Cairo (Pavia). Già coinvolta in ben due episodi di incidenti sul lavoro negli ultimi anni.
La Babele di appalti e subappalti è comunque appena iniziata. Nel complesso delle attività del cantiere di Firenze ci sono addirittura 64 imprese. Molte di piccole o piccolissime dimensioni.

Come spiega Alessandro Genovesi, segretario della Fillea, federazione della Cgil, il principale sindacato italiano: “È sempre più evidente il fenomeno delle imprese individuali, ovvero operai che non vengono assunti ma costretti ad aprire la Partita Iva (lavoratori autonomi) e presi in subappalto per realizzare l’impianto elettrico o la colata di cemento”.
Insomma, lavoratori salariati a tutti gli effetti, ma che risultano come lavoratori autonomi. Così le imprese che ne utilizzano i servizi scaricano su di loro tutte le rogne, dalle questioni salariali a quelle relative alla sicurezza.

Sempre per risparmiare sugli oneri per la salute e la sicurezza tante imprese dell’edilizia non fanno firmare ai dipendenti il contratto nazionale (Ccnl) del settore edile, bensì quello dei metalmeccanici o, addirittura, quello dei giardinieri. Perché così possono risparmiare sulla busta paga, offrendo stipendi più bassi, ma soprattutto evitare di adempiere agli obblighi di formazione per la sicurezza, previsti dal Ccnl edilizia e non dagli altri.

Perché è così che funziona la giungla degli appalti e dei subappalti: ogni anello della catena, cioè ogni impresa, deve portare a casa un suo profitto. Gli appalti si vincono al “massimo ribasso”: vince cioè chi offre il prezzo più basso. Un prezzo che si può praticare solo schiacciando fin sotto terra le condizioni offerte ai “propri” lavoratori.

A partire dagli stipendi.
Al cantiere Esselunga di Firenze, ad esempio, l’imam Izzedin Elzir spiega che alcuni lavoratori erano sottoposti a pratiche assolutamente illegali: “Tre ragazzi egiziani che lavoravano nel cantiere mi hanno raccontato che, pur avendo un contratto regolare, dovevano dare metà del loro stipendio a chi aveva trovato loro il lavoro”. Caporalato, così si chiama. Punito dalla legge. Ma troppo spesso solo sulla carta.

Pare poi che due dei cinque morti un contratto non ce l’avessero proprio. Lavoratori irregolari al 100%. Lavoratori in nero. Fantasmi che si possono cacciare o far sparire quando più fa comodo.

Lavoro irregolare che nelle costruzioni è la norma. Il 93% di 4.200 grandi, medie e piccole imprese controllate nel 2023 dall’Ispettorato nazionale del lavoro sono risultate irregolari. Nel 2022 su 10.500 cantieri visitati ben 8.648 non rispettano le norme, per più di 15mila violazioni.

I contratti irregolari si affiancano all’assoluta irregolarità nel rispetto e applicazione delle misure di sicurezza.
“Quella mattina dicemmo al responsabile che sarebbe stato meglio aspettare un giorno prima di lavorare al piano terra, visto che sopra c’erano altri che preparavano una gettata.
Rispose: ‘Cosa dici! Qui si lavora. Se non ti va bene, prendi i documenti e te ne vai!’”. È la testimonianza di un lavoratore rumeno del cantiere fiorentino, raccolta dal quotidiano Il Manifesto.

Non può dunque sorprendere il dato dell’Inail (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro), che riporta che le denunce di infortuni nel settore costruzioni aumentano anno dopo anno. Nel 2020 se ne contavano 32.700, 39mila del 2021, 40.135 nel 2022 e nel 2023 pare che i risultati, non ancora definitivi, segnino un ulteriore aumento del 4,1% sull’anno precedente.
Purtroppo non tutti i lavoratori infortunati riescono a portare la pelle a casa. Nel 2023 l’edilizia è risultato il settore col maggior numero di “omicidi bianchi”, cioè di morti sul lavoro, ben 150.
E in questa stima dell’Inail non sono conteggiati i lavoratori in nero.

Infine, dei cinque operai morti ammazzati al cantiere Esselunga di Firenze, ben quattro erano stranieri. La terribile riprova di quanto scrive l’Osservatorio sicurezza sul lavoro e ambiente Vega Engineering di Mestre, che registra 59 morti ogni milione di lavoratori stranieri contro le 29 italiane. I lavoratori migranti, insomma, sono l’ultimo anello della catena. Carne da macello da sacrificare sull’altare dei profitti degli imprenditori. Come e più dei colleghi autoctoni.
È questo il sistema dentro cui si produce il meccanismo di morti quotidiane. La logica del profitto che si impone sulla logica della vita.

Di fronte a questo scenario l’indignazione del momento non basta. Men che meno le lacrime di coccodrillo di politici e personaggi pubblici.

A mancare, in Italia, non è la cultura della sicurezza.
La verità è che quando si rivendica più sicurezza l’imprenditore di turno passa subito alla minaccia di metterti alla porta.
E se sei un lavoratore precario o, peggio ancora, in nero, la forza del loro ricatto (“zitto o a casa”) è maggiore.

Per questo la prima misura contro gli omicidi sul lavoro, prima ancora dell’introduzione del reato di omicidio sul lavoro e del rafforzamento dell’Ispettorato del Lavoro, è l’abolizione della precarietà e la battaglia contro la logica del profitto.

Nella foto: frame di un video sul crollo al cantiere Esselunga a Firenze