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Rubens, il messaggero dell’arte italiana in Europa. Le mostre a Mantova e Roma

La storia dell’arte è ricca di artisti che, con la loro ricerca, hanno influenzato intere generazioni venute dopo di loro. Uno tra questi è stato Pieter Paul Rubens (1577-1640), la cui attività è stata essenziale per portare l’arte italiana nelle Fiandre, come dimostra il progetto espositivo Rubens! La nascita di una pittura europea, a cura di Raffaella Morselli, in collaborazione con Cecilia Paolini, che si dipana tra Mantova e Roma, in tre poli museali: Palazzo Te e Palazzo Ducale (fino al 7 gennaio 2024) e Galleria Borghese (dal 14 novembre fino al 18 febbraio 2024).
Un armonioso dialogo tra capolavori di epoche diverse, con 52 opere esposte a Mantova, di cui 17 di Rubens, provenienti da 22 collezioni, museali e private.

In Europa le opere dell’arte classica greca e romana e rinascimentale già godevano di ampia fama. Tuttavia, mentre la prima era conosciuta attraverso numerose riproduzioni – alcune delle quali presenti in mostra – che circolavano sotto forma di stampe, incisioni e disegni – intese, non solo come oggetti di pregio, ma anche come veri e propri strumenti di studio, l’arte rinascimentale, caratterizzata anche dal ricercato uso del colore, era difficilmente recepibile a distanza: la fama dei maestri, da Leonardo a Raffaello, da Michelangelo a Giulio Romano, precedeva di fatto la loro effettiva conoscenza. Il viaggio in Italia era dunque essenziale per carpirne i segreti, ma non tutti gli artisti potevano permetterselo. Rubens, giunto in Italia nel 1600, grazie alle sue doti diplomatiche, riuscì ad entrare nella corte di Vincenzo I Gonzaga, dove si affermò come ambasciatore oltre che come pittore, ruolo che gli permise di viaggiare, farsi conoscere e lavorare, lungo la penisola e oltre.

L’artista, che ambiva ad uno status sociale elevato, coniugò l’interesse per l’antico e il Rinascimento a quello economico. Dal punto di vista artistico, Rubens, pur mantenendo e affinando uno stile pittorico prettamente legato ad un’iconografia cortigiana e ispirata al culto religioso, rappresentata nella figura della donna, inevitabilmente concepita come moglie e madre, dalle linee opulente e sensuali, in Italia, oltre ad osservare, studiare e copiare i maestri classici e rinascimentali, ne assimilò la luce, il colore e il calore.
In effetti, come emerge dal progetto Rubens! La nascita di una pittura europea il cui allestimento a Mantova è stato curato da Paolo Bertoncini Sabatini, la pittura di Rubens in Italia subì una metamorfosi, tanto stilistica, quanto concettuale. A livello tecnico, la conoscenza dell’arte rinascimentale si tradusse in un progressivo gigantismo delle figure e in una leggera schiaritura della tavolozza. Mentre, da un punto di vista concettuale, l’artista, per assecondare i committenti, elaborò in chiave religiosa la pittura mitologica di Giulio Romano, filtrandola attraverso l’interpretazione neo-stoica di Giusto Lipsio, il più grande esegeta di Seneca, nonché maestro del fratello Philip. A tal proposito, esemplificativo è il San Michele espelle Lucifero e gli angeli ribelli, 1622, che deriva esplicitamente, per impostazione, dinamicità e possanza, da La caduta di Fetonte nella cui sala delle Aquile è esposto. E, dal punto di vista filologico, le Tre Grazie interpretate, secondo la rilettura senecana del mito, come la personificazione di tre virtù civiche ed universali: la capacità di offrire, di ricevere e di ringraziare.

Tornato ad Anversa, Rubens nel 1609 venne nominato pittore della corte di Bruxelles e si circondò di allievi e collaboratori per far fronte alle numerose committenze. Così, attraverso la pratica artistica trasmise l’eredità italiana ad artisti che non la conobbero mai direttamente. Tra questi emblematico è il caso di Jacob Jordaens che in opere come Satiro suona il flauto, 1639, o la decorazione realizzata per la sua casa di Anversa nel 1652, eccezionalmente presentata in mostra nella sua interezza, manifesta una grande dimestichezza con l’arte italiana. E se ogni artista assorbì la lezione del maestro secondo le proprie velleità, è evidente che alcuni elementi stilistici ed iconografici si affermarono come temi ricorrenti nel lessico pittorico fiammingo; come la Venere marina, serpentinata e mistilinea, affrescata da Giulio Romano nella sala dei Cavalli a Palazzo Te che, ripresa da Rubens in diverse figure femminili, come quella al centro delle Tre Grazie e nella Dejanira, ritorna poi in Le nozze di Teti del 1610 in Brueghel il Vecchio e in molti altri pittori dopo di lui. In più, Rubens, oltre alle conoscenze pittoriche riuscì a trasmettere l’interesse per la cultura e l’architettura italiane che lo accompagnò tutta la vita, come mostra il quadro di Sebastiaen Vrancx Giardino italiano con galleria e figure, che riprende l’architettura italiana della villa di Rubens ad Anversa e Alessandro ed Efestione con la famiglia di Dario di Jan Ykens, che riprende il loggiato di Palazzo Te.

A Mantova, la mostra prosegue a Palazzo Ducale, nell’appartamento di Vincenzo I Gonzaga, che ospita quanto rimane del grandioso trittico destinato alla chiesa della Santissima Trinità. La storia di quest’opera, la più grande ed impegnativa del soggiorno mantovano di Rubens, è una preziosa testimonianza della fortuna critica e artistica del maestro. L’opera, originariamente composta da tre tele con al centro La Famiglia Gonzaga in adorazione della Santissima Trinità, a sinistra Il Battesimo di Cristo e a destra la Trasfigurazione fu dapprima divisa e poi, nella parte centrale, frazionata e rivenduta in frammenti.
Il percorso espositivo, costruito con la massima cura, mette in risalto le citazioni e rimandi tra le opere italiane e quelle fiamminghe, evidenziando non solo l’eco che l’opera di Rubens ebbe sulla pittura europea ma anche come «l’arte operi per risonanze che, quando diventano estremamente profonde, come in questo caso, generano una linfa vitale in grado di creare forme nuove» per usare le parole di Stefano Baia Curioni, direttore di Palazzo Te. A riguardo, emblematico è il parallelismo, nella sala delle Aquile, tra il bozzetto del Ratto d’Europa, del 1636 e la lunetta con Dejanira e Nesso che mostra la fedeltà del maestro fiammingo alla lezione italiana anche molti anni dopo il suo soggiorno nella Penisola.

La passione per la cultura italiana di Rubens era genuina, come svela (dal 14 novembre) anche la mostra a Galleria Borghese, seconda tappa del progetto: Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato. L’artista era considerato uno dei massimi conoscitori di antichità romane del periodo e la mostra a Roma è una testimonianza del suo rapporto con la scultura classica. Alla Galleria Borghese si possono vedere 50 opere provenienti dai più importanti musei al mondo – tra cui il British Museum, il Louvre, il Met, la Morgan Library, la National Gallery di Londra, la National Gallery di Washington, il Prado, il Rijksmusem di Amsterdam. Divisa in 8 sezioni la mostra evidenzia il contributo di Rubens nella rilettura dell’antico.

Per concludere, va riconosciuto il contributo di Rubens alla conoscenza dell’arte italiana nel nord Europa, per la sua capacità di fondere in un unico stile il disegno romano e il colorismo veneto. Anche se non si può parlare di uno stile unico europeo. Dal momento che, in un’Europa in pieno fermento, attraversata da numerosi conflitti, intellettuali, religiosi, politici e militari, tra scoperte scientifiche e visioni del mondo in evoluzione, c’era sicuramente più di un maestro a cui fare riferimento. Del resto, in quello stesso spicchio di secolo, operavano artisti come Caravaggio e i Carracci, nascevano Bernini, Borromini e Velázquez, Giordano Bruno veniva arso sul rogo, il barocco si preparava ad esplodere in tutta la sua potenza. Insomma, il fervore artistico e culturale era al massimo. E Rubens ne fu un protagonista.

Nella foto: Rubens, Ratto d’Europa

Il balletto sullo sciopero non fa ridere

Qualche settimana fa incautamente sono rimasto coinvolto in una discussione sugli scioperi. Ero all’interno di un bar, di mattina, quando gli avventori sono particolarmente inclini a vergare ognuno il proprio editoriale verbale sui fatti del giorno. Tra i presenti, manco a dirlo, andava molto forte l teoria che «questi scioperano sempre il venerdì così hanno il week end lungo». La strampalata teoria (cresciuta con cura del fu ministro Brunetta) è talmente stupida che non poteva non diventare immediatamente popolare. 

Ho spiegato, per quel poco che so per il lavoro che faccio, che la scelta del venerdì come giorno di sciopero è funzionale alla sua partecipazione. «Ma crea disagi», dice uno di loro. Lo sciopero che non crea disagio è un altro mito di questa epoca che in nome della “normalizzazione” vuole eliminare il diritto al conflitto. Lo sciopero omeopatico senza disagi è l’invenzione di chi vorrebbe i lavoratori buoni, i sindacati a cuccia, il popolo silente e concentrato a non piangere perché le sue lacrime fanno male al Re. 

Sullo sciopero da qualche tempo il ministro Matteo Salvini ha deciso di allenarsi a fare l’uomo forte, parte che lo rende spesso ridicolo e fuori dalle regole. Così mentre aspetta di posare la prima pietra del Ponte che vorrebbe come suo mausoleo ha deciso di intestarsi la guerra agli scioperi e ai sindacati. Anzi, lui indica loro due come obiettivi ma non ci vuole troppo a capire che i suoi veri nemici siano i lavoratori non addomesticati. 

Per la prima volta nella storia repubblicana uno sciopero generale confederale viene considerato illegittimo. Detto così può fare sorridere ma in questa storia c’è un germe nerissimo.

Buon martedì. 

Cosa è successo al Nord Stream e le scuse che mancano

Com’era prevedibile ha trovato poco spazio nei giornali, nei telegiornali e nel dibattito pubblico il fatto che il Washington Post abbia scritto un articolo che individua il nome e il cognome dell’ufficiale delle forze speciali di Kiev che attaccarono i gasdotti Nord Stream 1 e 2, che corrono dalla Russia alla Germania sotto il Mar Baltico. A coordinare la missione fu dunque Roman Chervinsky, 48 anni, un colonnello pluridecorato delle forze armate ucraine per le operazioni speciali sotto la guida diretta del generale Valery Zaluzhny, il comandante in capo delle forze armate di Kiev. In particolare, scrive il Washington Post, il militare ha gestito la logistica e il supporto ad un team di circa sei persone che, affittando una barca a vela e utilizzando attrezzature per sub, ha piazzato l’esplosivo sotto al gasdotto.

Che l’Ucraina in piena guerra utilizzi metodi di sabotaggio non sposta di una virgola le responsabilità di una guerra che è paludata e rischia di essere dimenticata dai ferventi bellicisti che l’hanno usata come clava. Quella notizia però dice molto dei giornalisti, degli intellettuali e dei politici nostrani che su Nord Stream hanno sparato cannonate su chi esponeva dei legali dubbi. Esattamente come per le bombe su Gaza i conflitti saliti all’onore delle cronache in questo ultimo anno (scordandosi tutti gli altri) ogni giorno smutandano schiere di bellicisti incarogniti che vengono regolarmente smentiti nelle loro affermazioni ma non rallentano nella loro foga.

Avremmo dovuto leggere decine di editoriali di scuse, invece loro perserverano nel collezionare le prossime figure barbine. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame di un video da Euronews dopo il sabotaggio al Nord Stream 2 del 26 settembre 2022

Latinoamerica, cresce il sostegno alla causa palestinese

Se il conflitto in Ucraina ci ha mostrato quanto l’Occidente avesse difficoltà ad esercitare influenza sul posizionamento dei Paesi latinoamericani nelle vicende internazionali, l’atroce guerra che imperversa da un mese nel quadrante mediorientale, ne è un’ulteriore conferma. Lo avevamo visto con la scelta di non aderire alle sanzioni degli Usa e della Unione europea contro la Russia.

E lo abbiamo visto recentemente all’Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso 27 ottobre, in cui la maggioranza dei rappresentanti della regione ha votato a favore della risoluzione giordana per il “cessate il fuoco”. Solo Guatemala e Paraguay hanno votato contro, mentre Uruguay, Panama e Haiti si sono astenuti.

Anche su questo fronte, l’America Latina è sempre più parte attiva del cosiddetto Sud Globale che sui temi caldi di politica internazionale non si allinea con l’occidente, ma si muove come uno spazio geopolitico dal perimetro ben definito.

Ma andiamo con ordine. Storicamente i Paesi dell’Emisfero Sud Americano hanno sempre sostenuto la causa palestinese. Il forte sentimento anti-imperialista (in realtà mai sopito) di quelle nazioni nate proprio dalle guerre contro un’occupazione secolare che ha prodotto, in molti casi, una vera e propria pulizia etnica, è stato il collante principale della solidarietà latinoamericana verso il popolo palestinese.
Da quando lo scontro si è riacceso, le reazioni sia all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, che gli incessanti bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, hanno provocato reazioni con diverse sfumature nelle cancellerie latinoamericane, rispondendo, oltre al dichiarato posizionamento geopolitico, anche delle esigenze interne, che siano di legittimazione ideologica o per via della presenza di grandi comunità ebraiche e palestinesi in alcuni Paesi.

Bukele: un palestinese tra Hamas e las maras

Tra le posizioni più interessanti da porre sotto i riflettori vi è senza alcun dubbio quella del presidente salvadoregno, Nayib Bukele. Di origine palestinese, il giovane e ricco sceriffo del piccolo Paese centroamericano è conosciuto in tutto il mondo per la sua guerra contro le bande criminali del piccolo paese centroamericano, ma anche per le denunce di Amnesty International di gravi violazioni di diritti umani per detenzioni arbitrarie, torture e maltrattamenti. A seguito degli attacchi terroristici del 7 ottobre ha dichiarato che «la cosa migliore che potrebbe accadere al popolo palestinese è che Hamas scompaia completamente. Quelle bestie selvagge non rappresentano i palestinesi». Carlos Malamud, uno dei più importanti politologi latinoamericanisti, vede in queste dichiarazioni «un parallelo tra il terrorismo di Hamas e quello delle bande che combatte duramente nel suo Paese». Un aspetto reso ancor più esplicito quando Bukele, a proposito della causa palestinese, ha definito come «grave errore» sostenere Hamas, perché equivalrebbe a schierarsi con la «Mara Salvatrucha», una delle più pericolose gang salvadoregne.

Argentina: una posizione difficile

L’Argentina ospita la più cospicua comunità ebraica in America Latina (450mila persone) e gli attacchi del 7 ottobre in terra israeliana hanno riportato alla mente degli argentini i tragici attentati antisemiti degli anni Novanta che provocarono la morte di oltre cento persone. Non è un caso che il presidente argentino, Alberto Fernández, abbia subito espresso la sua «forte condanna e ripudio del brutale attacco terroristico perpetrato da Hamas dalla Striscia di Gaza contro lo Stato di Israele». Contestualmente ha attivato tutti i canali per far fare ritorno in patria ai connazionali rimasti in Israele. Tuttavia, la scorsa settimana, la Casa Rosada, in un comunicato, dopo aver ribadito di riconoscere «il diritto di Israele all’autodifesa» ha affermato, riferendosi al bombardamento di un campo profughi nella Striscia, che «nulla giustifica la violazione del diritto umanitario internazionale e l’obbligo di proteggere i civili nei conflitti armati, senza distinzioni di alcun tipo». Una posizione che ha provocato prontamente la reazione della comunità ebraica locale che ha chiesto di differenziarsi dalle «posizioni pusillanimi di alcuni Paesi della regione».

Boric, Petro e Castro richiamano gli ambasciatori

Il Cile, la Colombia e l’Honduras, a seguito della feroce e indiscriminata controffensiva nella Striscia di Gaza, hanno richiamato i propri ambasciatori a Tel Aviv. Partendo dal Paese centroamericano, il 3 novembre il governo di Tegucigalpa ha preso questa decisione «a causa della grave situazione umanitaria in cui versa la popolazione civile palestinese nella Striscia di Gaza».

Pochi giorni prima era stata la volta del Cile, che ospita la più grande comunità palestinese fuori dai confini mediorientali. Il presidente Boric di fronte «alle inaccettabili violazioni del diritto internazionale umanitario», ha richiamato il proprio rappresentante diplomatico perché «le operazioni militari israeliane sono diventate una punizione collettiva della popolazione civile palestinese a Gaza». Per sgomberare il campo da ogni dubbio, il leader cileno ha preferito sottolineare la sua condanna, «senza esitare», nei confronti di Hamas, ma niente, però «giustifica questa barbarie» nella Striscia.
Diverso il discorso per Bogotà e Santiago. Petro, sin dall’inizio del conflitto si è distinto per le sue posizioni in difesa del popolo palestinese, diventando uno dei Presidenti più critici dell’azione militare israeliana e creando malumore all’interno del Paese per questo uso smodato di dichiarazioni via social, su temi di politica estera che dovrebbe seguire un iter istituzionale. Tra le sue uscite su X, vi è quella in cui ha rilanciato un’indagine di Amnesty International che accusa l’esercito israeliano di aver fatto un uso indiscriminato di fosforo bianco in un attacco nel sud del Libano il 16 ottobre. Pochi giorni dopo, sempre sulla stessa piattaforma, ha fatto sapere di aver richiamato l’ambasciatore spiegando che «se Israele non ferma il massacro del popolo palestinese, non possiamo essere presenti lì».

Messico e Brasile: un’equidistanza difficile

Le due potenze regionali, Messico e Brasile, guidate rispettivamente da López Obrador e Lula, in questi giorni hanno virato verso la moderazione, ma con qualche attrito tra i diversi livelli istituzionali. Ad esempio, se la segreteria del dipartimento degli esteri messicano ha condannato gli attacchi di Hamas e invitato palestinesi e israeliani a ricercare «una soluzione globale e definitiva del conflitto», il presidente da Ciudad de México ha preferito fare leva sul suo mantra pacifista «non vogliamo la guerra» e condannare «l’uso della forza contro i civili».
Dal canto suo, il Brasile ha assunto una posizione più moderata perché, al momento dell’escalation, aveva la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dopo aver condannato gli attacchi terroristici di Hamas, ha più volte chiesto il cessate il fuoco e l’intervento della comunità internazionale. Per questo il presidente Lula sta lavorando affinché si trovi un consenso all’interno delle Nazioni Unite su una risoluzione per «sbloccare la situazione in Medio Oriente» e «porre fine alle sofferenze umane da entrambe le parti».

L’Asse bolivariano

Il blocco bolivariano, formato da Cuba, Venezuela, Nicaragua è stato quello più coerente. I tre regimi sono gli unici a non aver condannato gli attacchi del 7 ottobre. Al contrario, hanno giustificato le incursioni di Hamas. Il presidente nicaraguense, Daniel Ortega, si è dichiarato «sempre solidale con la causa palestinese, sempre fraterno, sempre vicino» e si è opposto all’«aggravamento» del “terribile» conflitto israelo-palestinese. Sulla falsariga, Maduro in Venezuela e Diaz-Canel a Cuba hanno ricordato che il conflitto non è iniziato il 7 ottobre, ma che l’offensiva dei miliziani è stata la conseguenza, come ricorda il presidente cubano, di «75 anni di violazione permanente dei diritti inalienabili del popolo palestinese e della politica aggressiva ed espansionistica di Israele». Per questo, da Caracas si chiede la fine dei «bombardamenti indiscriminati» e lo stop al «genocidio». All’asse bolivariano si è aggiunta la Bolivia, che non ha mai condannato apertamente gli attacchi di Hamas. Inoltre, il governo di La Paz ha recentemente deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv «nel ripudio e nella condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, che minaccia la pace e la sicurezza internazionale», richiamando, contestualmente, a un cessate il fuoco.

Foto di Palácio do Planalto – https://www.flickr.com/photos/51178866@N04/52622340520/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=128789472

Come va la guerra? Male, come tutte le guerre

Gaza, foto by @azaizamotaz9

Com’è andata la conferenza di Parigi sugli aiuti a Gaza che si è tenuta ieri? Male, non è riuscita, ad oltre 1 mese dall’inizio del conflitto, a centrare quello che era l’unico vero obiettivo: chiedere un immediato cessate il fuoco.

Lo spiega bene Oxfam: “Sebbene gli sforzi diplomatici del presidente francese Macron per aiutare i civili palestinesi siano da apprezzare, i risultati della conferenza sono deludenti. La mancanza di un forte appello per un immediato cessate il fuoco, mina lo scopo stesso di questo incontro, riducendolo a un mero gesto simbolico. – sottolinea Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia –. Bisogna salvare la vita dei civili e intervenire con gli aiuti quanto prima possibile. Aiuti che al momento è pressoché impossibile distribuire per via degli intensi bombardamenti e delle vie di comunicazione interrotte”.

La situazione a Gaza in queste ore è catastrofica. Milioni di civili sono allo stremo e stanno subendo una punizione collettiva: in media un bambino rimane ucciso ogni 10 minuti e interi quartieri sono ridotti in macerie. Tre quarti della popolazione è stata costretta a fuggire dalle proprie case, circa 1,5 milioni di persone. Sono oltre 10.569 le vittime, tra cui 7.081 donne e bambini; 2.450 persone, di cui 1.350 bambini, risultano disperse e potrebbero essere ancora intrappolate o morte sotto le macerie. 

Oxfam è chiara: Israele come “potenza occupante”, secondo il diritto umanitario internazionale, ha l’obbligo legale di garantire il benessere della popolazione di Gaza, compresa la fornitura di aiuti.

Buon venerdì. 

foto del giornalista Motaz Azaiza che da più di un mese sta coraggiosamente documentando quel che accade a Gaza follow @azaizamotaz9

Il nuovo album di Lorenzo Disegni, dove la musica “parla” per immagini

Lorenzo Disegni è un giovane cantautore romano che ha percorso tutta la consueta gavetta di esibizioni nei locali e di lungo lavoro in studio di registrazione, sfociata poi in un’importante partecipazione a Musicultura Festival nel 2021 e nel 2022. Dopo la pubblicazione di due singoli, raggiunge ora l’obiettivo più importante con l’uscita del suo primo album Guerra dei mondi che contiene otto canzoni.
Lorenzo è anche un grande appassionato di cinema, ma ascoltando il disco è facile indovinare che la “Guerra dei mondi” cui si riferisce il titolo ha poco a vedere con l’omonimo film di fantascienza e molto a che fare con le storie complicate e spesso conflittuali che nascono all’interno dell’ineffabile rapporto uomo – donna.
Sulla base di un rock energetico ma mai aggressivo, i testi di Lorenzo, spesso surreali e a volte spiazzanti, colpiscono l’ascoltatore in una sequenza di segnali subliminali che piuttosto che “raccontare una storia” puntano a creare immagini, quasi dei frammenti di sogno, che vanno poi a ricomporre il senso compiuto della canzone.
Abbiamo incontrato Lorenzo per uno scambio di idee sul suo lavoro.

Spesso hai dichiarato che, pur accettando la definizione di cantautore, le tue composizioni non sono riconducibili alle consuete categorie musicali.

Questo è un problema che riguarda essenzialmente il modo in cui si è costretti a presentarsi sul mercato, che impone la necessità di voler applicare per forza un’etichetta sul prodotto. Ritengo che quello che faccio, pur ricadendo naturalmente nell’ambito Pop-Rock, si debba contraddistinguere, spero, per una sua originalità soprattutto per una ricerca lirica a livello dei testi. D’altro canto, questo è l’unico modo che conosco per fare musica e soprattutto è l’unico modo che mi faccia stare bene e andare avanti.

I tuoi testi qualcuno li ha definiti “psichedelici” oppure “ermetici”, a volte quasi inafferrabili.

Io non mi metto mai a tavolino pensando a quello che racconterò in una canzone, non è proprio nelle mie corde, cerco invece di far fluire i testi nella maniera più libera possibile, in una sorta di “libere associazioni” cercando di creare immagini che possano evocare un ricordo, suscitare un’emozione.

Compaiono all’improvviso citazioni di nomi o di luoghi che evocano immediatamente un ricordo o una “memoria” – Piazza San Cosimato, Cinema America Occupato a Roma, L’Avana, Picasso o Schiele – che risuonano nel “sentire” dell’ascoltatore senza che questi che debba averli realmente vissuti o sfiorati.

A ben guardare si tratta di un procedimento non del tutto inedito, che rimanda a maestri assoluti di scrittura creativa come Bob Dylan o Francesco De Gregori, i cui testi ai loro esordi apparvero visionari, ermetici e intraducibili. A metà degli anni Sessanta lo stesso Dylan si faceva beffe dei giornalisti che lo intervistavano con la pretesa di scavare il significato più profondo e recondito dei suoi testi che lui stesso si divertiva ad inventare con lo spirito del giocoliere. Vorrei che le persone ascoltando le canzoni evocassero il ricordo di qualcosa di impercettibile ma reale, un ricordo indefinito ma molto forte, qualcosa che non sanno quando è accaduto o con chi, ma che sanno che è successo.

Il rapporto uomo-donna è al centro di tutte le canzoni, ma spesso compare nei testi una sottile ironia, o anche autoironia, anche quando tocca argomenti scottanti, come abbandoni o separazioni, porgendo col sorriso sulle labbra anche i versi più crudi, come «affondare il coltello nella sua pigrizia».

In verità non riesco mai a piangermi addosso, e, forse, ad accettare il dolore fino in fondo, e quindi in un certo senso sono costretto ad esorcizzarlo in maniera autoironica. Mi sembra tutto sommato un modo più carino di rapportarmi al mondo esterno, forse una forma di richiesta di aiuto formulata in maniera volutamente leggera.

Dal punto di vista musicale tutto il disco è pervaso da un suono di chitarre compatto e brillante, che coniuga sapientemente antico e moderno, con qualche riferimento al suono “guitar oriented” degli anni Novanta.

Il riferimento ad un suono rock decisamente chitarristico è evidente come pure i riferimenti agli anni Novanta al suono di gruppi come i Rem, i Blur o gli Oasis, fino ad arrivare anche al Grunge. Ma a ben guardare questa musica rimanda ulteriormente anche alla psichedelia, alla scena “indie” e al rock “classico” degli anni Sessanta e Settanta. Nella creazione del nostro “sound” è stato decisivo l’apporto di Giacomo Turani, chitarrista e co-produttore del disco, assieme a Igor Pardini, due carissimi amici che assieme a me hanno curato tutta la produzione. Inoltre, come spesso amo ricordare, sin dalla più tenera età io sono cresciuto a “pane e Beatles”, quindi innegabilmente almeno un paio di brani del disco – “Ancora” e “Faremo Finta (Spesso)” – rimandano ad atmosfere tipicamente psichedeliche dei “fab four”.

Parlaci anche dei musicisti che ti hanno affiancato nella produzione del disco e nelle esibizioni dal vivo.

Oltre a Giacomo Turani – chitarrista elettrico e colonna portante di tutto il processo creativo – ci sono Agnese Rizzari alle tastiere e synth, anche lei responsabile della co-produzione, Gianluca Frapposi (Fraz) al basso e Davide Fabrizio alla batteria, tutti accomunati da fraterna amicizia e forte spirito di squadra.

Quali sono le difficoltà che incontra un giovane cantautore come te per arrivare a farsi conoscere nella complessità della scena musicale di oggi?

Si tratta di un percorso estremamente difficile in questo periodo storico ed in questo “nuovo mondo” in cui il mare magnum delle nuove tecnologie e dei social, piuttosto che un’opportunità di rischia di diventare un oceano in cui è più facile perdersi che restare a galla. Inoltre anche il supporto e l’affiancamento da parte degli “addetti ai lavori” – o presunti tali – finisce per fornirti quei pochi strumenti pubblicitari e divulgativi che alla fin fine puoi mettere in campo anche da solo. Quindi l’unica soluzione è stringere i denti, credere profondamente in quello che fai e andare avanti a testa bassa, sfruttando tutte le opportunità possibili e fidando sul fatto che alla fine qualcuno ti riconosca e possa investire seriamente sul tuo progetto.

E nel frattempo?

Abbiamo messo in campo tutte le sinergie possibili creando una sorta di rete insieme a due o tre gruppi indipendenti ed “amici”, con i quali condividere gli obbiettivi e rafforzare il passaparola tra il pubblico di ciascuna band. In questo senso resta importantissimo il momento dei concerti ed il riscontro positivo ottenuto suonando dal vivo: la gente che ci ascolta pare divertirsi e quindi vogliamo divertirci anche noi!

«Che vergogna la Rai che spettacolarizza uno stupro»: un appello contro Avanti Popolo di Nunzia De Girolamo

Nella trasmissione “Avanti popolo” condotta da Nunzia De Girolamo non c’è solo un problema di ascolti. Per la credibilità dell’azienda pubblica e per il rispetto del suo ruolo nel Paese esiste un tema che intellettuali, giornalisti, scrittori, operatori dell’informazione e dello spettacolo, rappresentanti di associazioni, attivisti stanno provando a sollevare: la pornografia del dolore che di solito era recintata in alcune televisioni private che ne hanno fatto una missione. 

«Nel corso dell’intervista alla vittima dello stupro di Palermo, la conduttrice Nunzia De Girolamo non le risparmia di rivivere nei minimi dettagli il trauma subito. La trasmissione contrasta con le policy di genere approvate dal Cda», hanno scritto giovedì 2 novembre 2023 le Commissioni Pari Opportunità di Rai ed Usigrai commentando la puntata di Avanti Popolo andata in onda il 31 ottobre su Rai 3.

Si parla della violenta intervista alla ragazza vittima di uno stupro di gruppo a Palermo. «Riteniamo che la modalità di intervista incalzante nei confronti della sopravvissuta e la conduzione adottate da De Girolamo rappresentino un esempio inaccettabile di pornografia del dolore», si legge nell’appello che circola da qualche giorno in rete. L’intervista di De Girolamo in effetti aveva le tipiche caratteristiche di un interrogatorio, come spesso accade nelle dinamiche di rivittimizzazione che ancora troppo spesso viene rilevata alle donne. 

«Chiediamo pertanto – si legge nella conclusione della lettera – che i vertici dell’azienda,  in vista del 25 Novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, prendano posizione sull’accaduto e si assumano la responsabilità di una gestione dell’informazione e del servizio pubblico adeguata al ruolo informativo, culturale e sociale della Rai». Attendiamo.

Buon giovedì. 

Con uno zaino pieno di poesie. La nuova raccolta di Marcello Montibeller

Marcello Montibeller è medico d’urgenza, storico della filosofia e poeta, vite parallele che, a differenza delle rette, si incontrano. È da poco uscito per Edizioni Ensemble la sua prima raccolta poetica Lo zaino in spalla, ricca di immagini di vita, quella vissuta tra partenze, metaforiche e non, incontri, reali e non e tra le corsie del suo ospedale. Una visuale privilegiata su un ventaglio di umanità ampissimo, del quale ad un certo punto è stato impossibile non scrivere. In attesa della presentazione della raccolta che si terrà il 19 novembre alla Libreria Libraccio di Firenze, alle 11,30 ne parliamo direttamente con lui.

Medico di Medicina d’Urgenza, storico della filosofia e ora anche poeta: come confluiscono questi aspetti nella sua vita?

La domanda mi conferisce un’aria talmente seria che mi verrebbe da sdrammatizzare: sono uno sfogo ad un problema di grafomania! Battute a parte, è molto difficile riportare un’esperienza umana a una sola chiave di lettura. Tra le molte possibili potrei sceglierne una: che in qualche modo trovo un punto di unità nell’interesse verso questa dimensione peculiare che è la dimensione degli esseri umani. Sono partito dalla filosofia sperando di addentrarmi nel pensiero umano. La medicina è stata la ‘messa a terra’ delle riflessioni precedenti, l’essere umano concreto contrapposto all’essere umano come categoria. Questa concretezza ha avuto un riverbero anche sulle riflessioni teoriche modificandole. Si è creata una dialettica personale tra concettuale e materiale. La poesia raccoglie tutto ciò che di questa dialettica non capisco o non so dire, ma che pure preme per essere espresso. Per questo è una necessità vitale.

Ci sono stati dei momenti in particolari, diciamo pure di svolta, per i quali ha sentito la necessità di scrivere?

Le poesie sono organizzate in ordine cronologico secondo un piano narrativo che è costituito dal racconto di un viaggio: il viaggio della vita adulta di cui sono rievocati, a partire dall’adolescenza, i momenti salienti. Il fatto biografico posto dietro alle composizioni è scandito da tre eventi salienti: la morte di mia madre, la separazione da quella che era stata fino a quel momento la mia compagna di vita, la mia attività come medico di medicina d’urgenza durante la pandemia. L’esperienza che ne è derivata è stata quella del contatto costante, quotidiano, con la rottura, la separazione, la morte. Difronte al continuo dissolversi delle cose e delle persone la necessità di scrivere è diventata di colpo anche necessità di comunicare. Il piano dell’opera non è altro che un viaggio che finisce per chiudersi in un cerchio: dalla partenza adolescenziale, timorosa e fiduciosa a un tempo, e forse anche ingenua, della mia adolescenza nella prima composizione, fino alla partenza (o ri-partenza) adulta, e perciò meno retorica, nell’ultima. In mezzo, come in un flusso di immagini e di coscienza, compaiono le figure che hanno segnato la mia vita e che, ora nel loro slancio vitale autentico, ora nel loro doloroso inganno, ne hanno delineato il percorso; alcune di esse hanno sembianze di incontri reali, altre sono incontri intuiti, sperati, temuti o immaginati; in ogni caso tutte, nel ‘visitarmi’ mi hanno riportato a un’unità dell’esperienza, a qualcosa che, infine, era pur capace di rimanere, nonostante l’apparente impermanenza di ogni cosa. 

La raccolta  ha un titolo  molto evocativo. Vuole raccontarci perché lo ha scelto?

Il titolo contiene contemporaneamente il richiamo a un elemento autobiografico e a un elemento testuale. L’elemento autobiografico è presto detto: avendo lasciato la casa dei miei genitori in giovanissima età ho il ricordo netto del momento in cui preparai e misi in spalla lo zaino che per me significava il viatico del non ritorno. La partenza. La necessità di essere pronto a non tornare. Ritrovai poi, con grande commozione, questa immagine nel romanzo Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki in cui il protagonista adolescente lascia la casa paterna e, proprio nella preparazione del suo zaino, realizza di dover improvvisamente maturare, appena adolescente, la forza necessaria ad affrontare il mondo.

Che cosa significa scrivere poesia? 

Edoardo Sanguineti ha definito la poesia «uno sguardo vergine sulla realtà». Si tratta di una definizione che mi piace molto. Riuscire ad avere, per un istante, uno sguardo vergine sulla realtà, in qualche modo trovarsi a contemplare l’andamento del torrente degli eventi dalla giusta distanza, e insieme con la giusta dose di meraviglia e di curiosità, può essere uno degli elementi che trasforma la scrittura in scrittura poetica, credo. Ma in cosa consiste questa verginità dello sguardo? Credo che essa si ponga sul versante opposto dell’ingenuità. Sono convinto che scrivere poesia sia possibile solo quando lo sguardo di chi scrive si sia astratto per un momento dal fluire disordinato delle percezioni e abbia potuto cogliere gli elementi dissonanti della realtà, se ne sia lasciato pervadere e abbia espresso il prodotto di tale dissonanza interiorizzata in una forma linguistica differente: quella della musicalità, dell’orecchio, per così dire, e quella della raffiguratività, cioè delle immagini mentali che è capace di evocare. 

E dal punto di vista della prassi cosa vuol dire scrivere?

Dal punto di vista della prassi scrivere poesia significa compiere un lavoro: si segue l’orecchio, si seguono le immagini, finché non si ha la sensazione che qualcosa si sia espresso o, meglio, che si sia giunti vicini all’espressione. Più ci si avvicina all’espressione e più la poesia perde soggettività, diventa universale. I migliori scritti che si possono produrre sono forse quelli che più intensamente si sente di aver perduto, quelli sui quali si sente di poter esercitare meno possesso.

Ha detto di aver cominciato a scrivere sin dall’infanzia

Si, scrivo poesie dall’età di sette anni. Lo stimolo a scrivere credo sia nato dall’invaghimento per una mia compagna di classe, a cui dedicai la prima composizione. Cominciai allora a scrivere poesie su tutti i miei affetti finché non ne riempii il quaderno. Oggi ritengo che il mio primo tentativo di scrivere versi fu il tentativo di trovare un modo per toccare quella parte di cose che, pur sentite con tanta forza, non potevano essere dette. Da allora non ho più smesso di provare a far versi. Nacque proprio allora in me il desiderio di diventare medico: continuo a chiedermi se occuparmi degli altri esseri umani non fosse un altro, parallelo, tentativo di colmare quella distanza.

Chi è un poeta oggi? Lei si definisce poeta? 

Non credo che esista una differenza essenziale, se non sociale, e in particolar modo legata alla perdita di funzione sociale, tra l’essere poeta “oggi” ed essere poeta in generale . Per quanto riguarda me, più che definirmi poeta, preferisco definirmi un individuo in dialogo continuo con il tentativo di esprimere in forma in qualche modo essenziale la realtà che riesce a percepire

Sibilla Barbieri e la tortura di Stato

“Per anni Sibilla si è battuta per vivere, poi ha scelto l’aiuto del figlio Vittorio, accettando la sua richiesta di accompagnarla, con coraggio, anche rispetto alle conseguenze che potrebbero esserci per lui. Non è possibile interpretare in modo diverso la sentenza della Consulta: Sibilla era dipendente da trattamenti di sostegno vitale, quindi negarle quel diritto ad autodeterminarsi è stata una violenza di Stato”: sono le parole di Marco Cappato che ieri si è autodenunciato per l’assistenza al suicidio offerto a Sibilla Barbieri, paziente oncologica terminale costretta ad andare in Svizzera perché in Italia le era stato negato il diritto al suicidio assistito. Ad autodenunciarsi è stato anche il figlio di Sibilla Barbieri, Vittorio Parpaglioni, insieme a Marco Perduca dell’Associazione Coscioni. 

Durante la conferenza stampa hanno ricordato come Barbieri avesse i requisiti per l’aiuto medico alla morte volontaria previsti dalla sentenza Cappato – Antoniani (ovvero, che la persona sia capace di autodeterminarsi, sia affetta da patologia irreversibile, che tale malattia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputi intollerabili e che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale). Proprio per questo hanno deciso di presentare due esposti contro l’Asl della regione Lazio, per chiedere di verificare se nei protocolli e nelle procedure possano ravvisarsi reati. “Per noi si configura anche il reato di tortura“, ha spiegato Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni.

Uno Stato che decide di non decidere, sulla pelle dei malati.

Buon mercoledì. 

Nella foto: Sibilla Barbieri, frame del video-appello dalla pagina fb Liberi fino alla fine

Il conflitto in Palestina è anche lotta di classe

Leggere i conflitti sotto un paradigma di osservazione socio-economico è diventato ormai desueto con il tramontare del pensiero marxiano, così come leggere le conflittualità in corso sotto il paradigma della lotta di classe. Il potere economico, tuttavia, è determinante come quello politico e militare. Nell’analisi del conflitto israelo-palestinese, tuttavia, le questioni prettamente economiche sono largamente ignorate rispetto a quelle più scenografiche e brutali dell’azione politica e specialmente militare.

Tornando a Marx ed Engels, il conflitto tra le nazioni padronali e proletarie è un modo per intendere il conflitto di classe su scala transnazionale. Come ricorda Domenico Losurdo, la lotta di classe si struttura in più livelli, ovvero si definisce nell’interazione e nell’intersezione tra diversi piani di scontro e conflitto: uno interno, uno tra nazioni e uno di genere. Cercheremo di spiegare il conflitto in atto attraverso queste tre prospettive.

Incominciamo con il ricordare che lo Stato di Israele è un’economia avanzata, con un Pil pro-capite, stime del Fondo monetario internazionale, che si aggira intorno ai 41mila dollari (per intenderci, l’Italia si trova in una posizione più bassa, ovvero con un Pil pro-capite sopra i 35 mila). Israele è dunque uno Stato ricco. Da dove deriva questa ricchezza? Il Paese è all’avanguardia per ricerca e sviluppo nei settori delle nuove tecnologie e vanta un alto livello di produttività: quattro volte superiore la media dei Paesi Ocse. Tuttavia, le potenzialità dell’industria sono limitate dalla mancanza di materie prime, energia a basso costo, ristrettezza del mercato nazionale e disponibilità di manodopera, specialmente qualificata. Israele, tuttavia, può contare su un “esercito di riserva” di lavoratori consistente che si estende potenzialmente su tutta la popolazione attiva in Cisgiordania – principalmente – e potenzialmente anche a Gaza. Lasciamo parlare i numeri.

Su una forza lavoro che conta più di 400mila unità (su una popolazione totale di poco più di nove milioni di abitanti), i palestinesi impiegati in Israele sono circa 100mila su oltre quattro milioni di abitanti distribuiti tra la Cisgiordania e Gaza. Un numero più che consistente della forza lavoro palestinese lavora dunque in Israele. Secondo fonti Reuters, Tev Aviv già dal 2022 ha iniziato non solo a concedere visti di lavoro per il settore agricolo ed edilizio, ma anche per quello manifatturiero ed informatico: c’è disperato bisogno anche di forza lavoro qualificata che Israele è disposta a reclutare tra i palestinesi – oggi sono presenti in Palestina molte università che garantiscono più che buoni livelli di istruzione e qualificazione -. Secondo una ricerca del Palestine economic policy research institute (Mas), Israele sfrutta la dipendenza economica della Cisgiordania per attingere quanto serve alla propria economia ottenendo in cambio un implicito riconoscimento e sostegno alla propria occupazione militare.

Di fatto Israele sfrutta l’indotto sottosviluppo palestinese per attingere manodopera a basso costo e recentemente anche manodopera specializzata senza evidenti contropartite, anzi beneficiando di una forza lavoro meno incline alla lotta sindacale, alla richiesta di diritti e salari adeguati. Sembra di tornare alle condizioni imposte dalle leggi sui poveri nell’Inghilterra dei primi dell’ottocento, quelle descritte così bene da Dickens nel suo romanzo Oliver Twist.

Più il lavoro è pagato poco, più i profitti salgono verso l’alto. I diritti sul lavoro non sono pienamente garantiti per i lavoratori palestinesi, neanche per i minori. Secondo Human rights watch nel 2015 centinaia di bambini palestinesi lavoravano in condizioni ritenute “pericolose” negli insediamenti israeliani. Anche il lavoro femminile è fortemente sfruttato, specialmente nei settori classici dell’agricoltura e della piccola manifattura con orari di lavoro che rasentano le 10 e le 12 ore al giorno (basti ricordare che in Italia gli operai reclamarono la riduzione dell’orario di lavoro dalle 12 alle 10 ore nel lontano 1913). Inoltre, circa il 45% della forza lavoro palestinese viene occupata grazie all’intermediazione di agenti che trattengono però 1/3 del salario, anche dopo la riforma del 2020.

Israele ha sempre beneficiato “dell’esercito di riserva” fornito dalle maestranze palestinesi. Come ricorda la politologa Leila Farsakh dell’Università del Massachusetts di Boston, i territori palestinesi vengono usati come bacino per il reclutamento di manodopera a basso costo. Se le due economie rimangono formalmente distinte fino al 1993, con l’unione doganale lo Stato più forte, ovvero Israele, impone il suo dominio economico sulla debole entità palestinese. Sia la prima che la seconda intifada, che bloccano il flusso di lavoratori dai territori, hanno mostrato quanto fosse necessaria e fondamentale la disponibilità di forza lavoro palestinese nel mandare avanti l’economia israeliana. Secondo il Fondo monetario internazionale, l’arresto della crescita israeliana tra il 2000 ed il 2005 – per via della II intifada – è stata causata anche dall’arresto del flusso di manodopera.

La recente apertura delle ostilità rischia di causare molti più danni all’economia israeliana rispetto a quanto si pensi. Secondo l’Economist infatti, non ci sono abbastanza lavoratori per la guerra e per sostenere al contempo l’economia, considerando anche il blocco dei lavoratori palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. L’arresto dell’industria del turismo, il settore più importante dell’economia israeliana dopo il settore tecnologico, rischia di inaridire il flusso di moneta forte in entrata per sostenere il corso della moneta nazionale (lo Shekel, anche se Israele ha molte riserve di valuta pregiata) e il valore dei titoli del debito pubblico (al 60% sul Pil). L’economia israeliana non era in piena salute prima della guerra e un prolungarsi del conflitto potrebbe causare pensati contraccolpi interni.

Emerge così come lo scontro politico e militare in atto si può traslare anche nella dimensione economico-conflittuale tra le forze del capitale (rappresentate da Israele) e le forze del lavoro (rappresentate dalla Palestina) dove il dominio delle prime sulle seconde vuol dire garantirsi nel tempo il continuo della disponibilità di manodopera “docile” e a “buon mercato” essenziale alla crescita economica israeliana. Le diseguaglianze di trattamento tra lavoratori israeliani e palestinesi a parità di mansione, e quelle a sua volta di genere all’interno della forza lavoro impiegata, mostrano come l’evidente conflitto politico-militare si possa altresì identificare come l’estensione di uno scontro socio-economico più silente, ma non meno coercitivo, riguardante il tentativo delle forze del capitale di garantirsi nel tempo il controllo e l’accesso alla forza lavoro di cui hanno bisogno. Le timide aperture ai permessi di lavoro anche alla popolazione di Gaza, potrebbero crescere esponenzialmente se nella regione ci fosse un’entità politica più collaborativa di Hamas, come ad esempio quella presente in Cisgiordania. Controllare Gaza vorrebbe dire avere accesso ad una vasta quota di manodopera giovane, docile e a basso costo per sostenere la crescita israeliana nei prossimi anni. Oltre alla dimensione politico-militare-strategica, a Gaza si sta combattendo anche una delle innumerevoli battaglie a livello transnazionale e nazionale tra le forze del capitale e quelle del lavoro.

L’autore: Giampaolo Conte, PhD Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo Università Roma 3, Research Associate ISEM-CNR, editorial assistant The Journal of European Economic History

Nella foto: frame di un video di Human right watch sul lavoro minorile palestinese nelle colonie in Cisgiordania, 2015