Alla continua ricerca di un Paese disponibile a fare da “parcheggio” per un’umanità che sporca l’immagine e le propagande del suo governo, ieri Giorgia Meloni ha firmato un accordo con l’Albania per parcheggiare i migranti salvati dalle navi italiane nel Mediterraneo, che siano quelle della Marina o della Guardia di finanza.
Al porto di Shengjin, l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening. A Gjader, nel nord ovest dell’Albania, realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. Il protocollo è stato chiuso nel Ferragosto scorso, quando la premier Giorgia Meloni si era recata nel Paese delle Aquile.
Per avere un’idea dell’empietà dell’accordo basta scorgere alcuni indizi lasciati in giro nella giornata di ieri, ovviamente rivenduta come “trionfale” come accade ogni volta che questo governo prova – fallendo – a risolvere superficialmente un tema complesso.
Il premier albanese Edi Rama ha detto che non spetta a lui «giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo» definendo «maledetta» la geografia per l’Italia. La geografia quindi è l’ennesimo potere forte contro il governo. La presidente del Consiglio per l’ennesima volta dimostra di avere così poca autorevolezza in Ue da dover comprare intese fuori dall’Unione, cianciando come sempre di “contrasto al traffico degli essere umani” che non ha niente a che vedere con la trasformazione dell’Albania in sacco dell’umido dell’Italia.
Ma soprattutto il fatto che dall’intesa siano esclusi minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili restituisce la cifra umanitaria del patto.
L’agricoltura di tipo intensivo funziona solo nel 30% delle aree agricole del pianeta, in Italia solo nel 25% del territorio, soprattutto in pianura. Il risultato della incapacità di adattarsi a modelli intensivi e ad un mercato globale gestito da pochi players internazionali, è una delle cause dello spopolamento delle campagne che dalla Cina al sud America, dall’Europa all’Africa: interessa il mondo, incluso il nostro Paese, dove abbiamo abbandonato nove milioni di ettari di aree agricole, circa la metà dallo scorso secolo. E’ anche una concausa delle emigrazioni dalle campagne alla città e dal sud al nord del mondo di cui scontiamo le conseguenze.
Questo tipo di agricoltura non è riuscita a risolvere il problema della fame del mondo, con 800 milioni di persone che ne soffrono e una crescente incapacità di accedere a diete sane, che solo una decina di Paesi del mondo possono permettersi. Puntare su produzioni limitate, ma di qualità, legate all’ambiente, alla cultura e al paesaggio locale, creando un valore aggiunto non riproducibile, come insegna la Fao, è una strada da perseguire, anche perché non vi sono alternative per molte aree rurali se non l’abbandono.
Esempi di terramenti, Valtellina
Per questo motivo l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo con la Scuola di Agraria dell’Università di Firenze ha sviluppato un progetto internazionale collegato al programma Fao Giahs. In quattro anni di progetto sono stati formati 60 esperti provenienti da 25 Paesi, Asia, Africa, Centro e Sud America, in grado di gestire questo tipo di agricoltura. I risultati saranno presentati a Firenze l’8 novembre nella giornata dal titolo “Tradizione per la Transizione: l’Agricoltura della Resilienza” (Auditorium Sant’Apollonia, via San Gallo 25). Attorno al tavolo i rappresentanti di Fao, Unesco, Ministero dell’Agricoltura, delle foreste e della sovranità alimentare, Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Università di Firenze e territori da tutta Italia e dal mondo.
Konso, villaggio su un lato di una montagna, Etiopia Southern-central Ethiopia.ph Josep Maria Barres
Qualche esempio di ciò che stiamo cercando di salvare? I contadini della zona del lago Inle in Birmania, caratterizzata da scarsità di terre coltivabili ma molte superfici coperte dall’acqua, hanno ideato delle isole galleggianti fatte di fango e paglia per coltivare ortaggi ed altri prodotti, che trasportano e scambiano sul lago con altri contadini. All’altro capo del mondo, nel deserto del Sahara, sistemi di irrigazione per sommersione che usano limitatissime quantità di acqua hanno consentito la creazione di oasi dove si coltiva di tutto, dagli olivi alla frutta, dai datteri all’uva. Allo stesso modo nel nostro Paese, per il 75% montuoso e collinare, migliaia di km di terrazzamenti hanno permesso e in parte consentono ancora, di coltivare terreni in forte pendenza, senza irrigazione, mantenendo la fertilità e limitare il dissesto idrogeologico, con una crescente attività di ripristino di questi sistemi, oggi patrimonio Unesco. Questi sono i sistemi agricoli di cui si occupa il programma mondiale Fao Giahs, iniziativa sintomatica di una riflessione in corso a livello mondiale sull’agricoltura che si discute nelle varie Cop sul clima e che interessa anche l’Europa.
Piante di vite in un terreno vulcanico La Geria, Lanzarote, Canarie, Spagna
Il commissario europeo all’agricoltura Janusz Wojciechowski durante il meeting sullo Stato dell’Unione, tenuto a Firenze il 5 maggio scorso ha affermato che oggi innovazione in agricoltura significa spesso il ritorno a pratiche tradizionali, forse meno produttive, ma più resilienti e meno dipendenti da variazioni climatiche e da crisi politiche. L’agricoltura di tipo intensivo, generalmente basata su un più limitato impiego di manodopera, bassi costi di produzione e alti rendimenti per ettaro, ha senz’altro contribuito a ridurre la fame nel mondo, con incrementi produttivi più che doppi rispetto al passato. E’ però una agricoltura che ha necessità di notevoli input energetici esterni (irrigazione, macchine, chimica), è estremamente dipendente dal commercio internazionale e molto fragile agli estremi climatici. Crisi politiche come quella fra Ucraina e Russia, senza scordare gli effetti della pandemia legata al Covid 19, hanno mandato in tilt il commercio dei cereali per l’aumento vertiginoso dei prezzi e la riduzione della disponibilità sul mercato a cui Paesi come il nostro possono in parte adeguarsi, pagando un caro prezzo, ma a cui molti Paesi del sud del mondo non riescono ad adeguarsi se non indebitandosi ulteriormente.
Cuba, ph Martina Venturi
La vocazione alla “qualità” è l’unico ambito di competitività per l’Italia agricola: l’esperienza del Registro nazionale dei paesaggi storici e delle pratiche agricole tradizionali istituito presso il Masaf – di cui si cominciano a vedere i risultati – ci pone in una posizione di vantaggio. E’ un caso unico in Europa, adottato anche da Cina e Giappone. Un approccio che ci pone in prima linea e che ci permette di indicare una direzione al resto del mondo.
L’autore: Mauro Agnoletti, è titolare della Cattedra Unesco Paesaggi del patrimonio agricolo presso l’Università di Firenze
In apertura: coltivazioni nella zona del lago Inle in Birmania
Il convegno a Firenze, 8 novembre
mercoledì 8 novembre a Firenze, nell’ambito del convegno “Tradizione per la Transizione: l’agricoltura della resilienza” (Auditorium di Sant’Apollonia, via San Gallo, 25) saranno presentati i risultati di quattro anni del progetto GIAHS Building Capacity sui sistemi agricoli di importanza globale, co-finanziato da AICS, che ha portato all’individuazione di oltre 40 siti da salvaguardare e alla formazione di più di 60 manager del territorio rurale provenienti da Asia, America del Sud, Africa, Europa. Con interventi Fao, Unesco, Università di Firenze, rappresentanti di territori d’Italia e del mondo. Info e iscrizioni: www.agriculturalheritage.com/it/
Mancano due giorni all’uscita del libro di Giorgia Meloni che per confezionare l’orpello elettorale natalizio ha trovato la fedele collaborazione del giornalista Bruno Vespa. Il titolo (Il rancore e la speranza) cela al lettore l’ingrediente principale del composto che si può facilmente ritrovare in ogni parole, azione e omissione della presidente del Consiglio: il vittimismo.
L’ultima opera di Meloni infatti raggiunge un livello superiore di vittimismo sfidando i record battuti finora invadendo stavolta il campo della misogina. Scrive Meloni: “Quando leggo pezzi di rassegna stampa con Matteo e con Antonio Tajani, restiamo basiti. Capisco che alcuni giornali vogliono mandarci a casa: legittimo, ci mancherebbe. Quello che non è accettabile ed è estraneo a qualunque deontologia è mettere tra virgolette cose mai dette né pensate. Sa qual è la verità? Sono degli inguaribili misogini. Tentano di accreditare la tesi che la testa di una donna non può reggere di fronte alla pressione. Come quei legislatori che, fino a qualche decennio fa, ritenevano che le donne non potessero fare il magistrato perché, quando hanno il ciclo, non ragionano bene”.
La presidente del Consiglio al solito è ossessionata dal fatto che “legittimamente” (cara grazia) esista un’opposizione non disposta a incensarla di fronte alle sue mosse ma soprattutto utilizza la misoginia (elemento fondamentale della propaganda della sua maggioranza) come clava. Il governo che sogna le madri a casa a rassettare la cucina e sfornare figli denuncia la misoginia degli altri. Fantastico e prevedibile: è uno dei risultati scontati di confondere una leadership femminile con una leadership femminista.
Foto Fontana di Avetrana ideata da Massimo Fagioli, foto di Alessandro Righetti
Arte negli spazi pubblici è un tema che sempre di più attraversa il dibattito pubblico. Può un segno di arte contemporanea aiutare la rigenerazione urbana? O addirittura essere un nuovo innesco di socialità? A questo tema abbiamo dedicato il numero di Left dello scorso agosto “La bellezza che spiazza”.
Il 18 novembre se ne discute ad Avetrana, in Puglia, in occasione di un incontro tra architetti e popolazione sul destino dell’opera ideata da Massimo Fagioli, demolita a fine giugno. Una iniziativa di dibattito e di confronto nata “dal basso”, grazie al lavoro del comitato cittadino che ha promosso l’iniziativa. La fontana di Avetrana ideata da Massimo Fagioli (e progettata dagli architetti Anna Guerzoni e Isa Giovanna Ciampelletti e dallo scultore Alessandro Carlevaro) è stata definita dalla Soprintendenza di Taranto come “elemento contemporaneo che si integra nell’architettura urbana storica e aggiunge valore di fruibilità alla piazza”. Un’opera d’arte che, come ha scritto la docente di architettura Giulia Ceriani Sebregondi su Left di agosto, aveva contribuito a creare un’armonia tra “antico e nuovo”. Abbiamo chiesto a Lorenzo Olivieri, presidente del comitato piazza Vittorio Veneto, un suo punto di vista.
“La piazza Vittorio Veneto riqualificata con il progetto che prevedeva anche la fontana è sempre stato un grande punto di ritrovo e socializzazione, utilizzato per ogni tipo di manifestazione – dice il presidente del comitato -. Per la sua peculiare posizione poi, la fontana è stata un simbolo sempre presente negli eventi popolari, che si distingueva per la sua particolarità e la sua imponenza. Il rapporto che personalmente avevo nei confronti dell’opera era ed è tutt’ora di rispetto e riconoscenza per quanto ha prodotto nel corso della sua esistenza, specie per aver portato il nome di Avetrana all’estero e in tutta Italia”.
Ci può raccontare come la fontana è stata accolta dai cittadini, fin dall’inizio?
Inizialmente la fontana fu apprezzata quale monumento innovativo che sposava il vecchio con il nuovo, nel tempo l’incuria amministrativa la squalificò e i cittadini non vennero più attratti dalla novità perché non venne più messa in funzione e la gente non la considerò più come monumento ma come un elemento di fastidio e degrado. Ciò nonostante, l’intera piazza, fontana inclusa, è sempre stata considerata una delle piazze più belle da parte degli innumerevoli visitatori che a partire dagli anni 2000 hanno trascorso qualche giornata in Avetrana. Sul vecchio sito del Comune, ad esempio, erano presenti molte centinaia di commenti sul guestbook da parte dei turisti e visitatori che esprimevano ottimi giudizi e apprezzamenti nei confronti di piazza Vittorio Veneto.
Quali sono state le reazioni della popolazione prima e dopo l’intervento di demolizione dell’opera? Sappiamo che una parte dei cittadini era nettamente contraria e ha protestato.
Dopo l’abbattimento della fontana ci furono e ci sono divisioni di pensiero tra contrari e favorevoli sull’abbattimento e il comitato che si è costituito ha come fine ultimo quello di informare i cittadini dell’importanza dell’opera, sconosciuta a molti. Molta parte della cittadinanza invece si è astenuta dal commentare, anche perché e come si legge dalle statistiche, è sempre più difficile portare il cittadino nel dibattito pubblico perché, semplicemente, se ne disinteressa. Poi c’è una parte silenziosa ma che magari in conversazioni private ti dice che non ha condiviso quanto accaduto con l’abbattimento del monumento.
Visto che la realizzazione della piazza, ed in particolare la scultura della fontana, hanno avuto nel tempo risonanza nazionale e internazionale, attraverso mostre, pubblicazioni e blog, voi cittadini di Avetrana avete avuto la percezione di poter disporre di un patrimonio che ha raccolto questi riconoscimenti?
Sì, ora a seguito della sensibilizzazione mediatica sulla demolizione, si è più consapevoli dell’importanza dell’opera e di ciò che rappresentava e certamente il dispiacere per quanto accaduto c’è ed è presente. Abbiamo perso l’ennesima occasione anche di promozione del territorio e di tutto ciò che poteva essere costruito attorno al monumento ideato da Massimo Fagioli. La risonanza nazionale e internazionale però negli anni trascorsi non ha sfiorato minimamente Avetrana e la cittadinanza. Probabilmente l’opera era più conosciuta fuori che dentro Avetrana. Per molta parte della cittadinanza rimarrà sempre un’opera incompresa che nessuna amministrazione ha voluto promuovere e far conoscere. Poi vi è anche una presa di posizione ideologica derivante dal fatto che magari si è a favore dell’abbattimento perché si appoggia per un motivo o per un altro l’amministrazione comunale.
Con l’incontro tra il Comitato e i cittadini di Avetrana del 18 novembre che si propone come un dialogo anche sull’importanza della riqualificazione delle piazze come spazio in cui arte, verde urbano e dialogo con la storia favoriscono la socializzazione dei cittadini, cosa vi proponete di conseguire?
Come comitato abbiamo proposto un primo incontro con la cittadinanza per sensibilizzare i cittadini sul tema dello spazio pubblico, del fondamentale problema riguardante la condivisione delle scelte amministrative su ciò che è spazio pubblico. Farci raccontare la storia da chi ha voluto e progettato l’opera, anche per comprendere fino in fondo gli accadimenti a partire dalla prima progettazione e fino ad arrivare all’abbattimento, capire infine ciò che l’ideatore Massimo Fagioli voleva trasmettere con le Vele. E’ ovvio che proponiamo una possibile ricostruzione; indicata come possibile anche dal sindaco in un recente comizio pubblico in piazza. Non sappiamo perché il sindaco abbia proposto la ricostruzione ma speriamo sia una presa di posizione seria.
E quindi quali prospettive ci sono di potere in futuro ripristinare la scultura-fontana?
Il ripristino per ora è molto lontano, però sensibilizzare i cittadini, far capire l’importanza dell’opera è un primo passo molto importante che potrà portare all’ approvazione ed alla ricostruzione.
Oggi si parla molto di Albania, ma “dimenticando” quello che fu il drammatico esodo del 1991 verso l’Italia, seguito al crollo del regime totalitario di Enver Hoxha, una delle più feroci dittature dell’Est Europa intrisa di intolleranza ideologica. Se nel nostro Paese, in questi 30 anni e più, ci si è ritrovati a parlare di albanesi lo si è spesso fatto privilegiando soprattutto una narrazione negativa, senza percepire davvero la loro reale presenza. Gli stereotipi, si sa, fermano la crescita e l’arricchimento interculturale di un Paese. Come vediamo sempre più in questi giorni sono appannaggio di chi, incline ad un nazionalismo di passata memoria, ne rivendica nostalgia e valore. Muovendoci allora in un terreno del tutto diverso, fertile di idee e trasformazioni culturali, proponiamo ai lettori di Left il volume Donne d’Albania in Italia. Riflessioni, testimonianze, emozioni, a cura di Rando Devole e Claudio Paravati (ComNuovi tempi, 2023) articolato in 40 saggi e testimonianze di donne albanesi che oggi vivono in Italia. Sarà presentato il 10 novembre negli spazi della Biblioteca antirazzista Carminella di Roma. Parliamo di un libro nato da viaggi pieni di incontri e che suggerisce una ricerca poetica e antropologica. Che siano poi due curatori, all’ascolto di un poliedrico collettivo di voci di donna, ci sorprende e fa ben sperare. “Abbiamo avuto la fortuna di conoscere un mondo femminile pieno di energie, talenti, intelligenze, professionalità, protagonismi, ma anche di generosità, sensibilità, umiltà” racconta Devole. “Un mondo per molti versi sconosciuto che ha bisogno di ascolto, perché ha davvero qualcosa da dire alla società. Offrire spazio alle loro riflessioni e accendere un microfono per le voci non è stato solo un momento di crescita per noi, ma anche una urgenza”. Una delle maggiori sfide in cui l’Italia e l’Europa da tempo si trovano dunque di fronte, è di certo anche la recente storia dell’immigrazione albanese, con la sua “forma emblematica e i suoi sviluppi, inclusa la sua componente femminile”. Una sorta di “bussola per orientarsi nei mari agitati dell’attualità e fornire un glossario per capire la realtà migratoria di oggi, e per costruire il domani”. Se infatti, in una prima fase migratoria riconducibile agli anni Novanta la componente maschile è stata preponderante, dagli anni Duemila in poi quella femminile ha preso a crescere costantemente, determinando “quel fenomeno che gli studiosi chiamano femminilizzazione dei flussi migratori”. Volendo però superare quella sorta di sistematico utilitarismo economico che viene costantemente attribuito alla realtà dei flussi migratori, diventa fondamentale riconoscere le persone, la complessità delle vite degli individui e delle comunità, tutti aspetti che nel libro emergono attraverso profonde riflessioni narrate con estrema delicatezza anche quando le autrici tornano a ricordare la triste condizione di sudditanza nei confronti di padri, fratelli e mariti, data dall’antica norma consuetudinaria del Kanun. Un codice medievale tramandato oralmente che, sebbene abolito da tempo, continua ad essere presente in alcune zone del Paese, “regolando” rapporti sociali e familiari, dove è ancora forte la memoria di “padri che davano alle figlie assieme alla dote, anche un proiettile, legittimando così il diritto del marito a uccidere la moglie nel caso lei non fosse stata abbastanza ubbidiente”.
È lecito forse pensare che, nel protrarsi di una delle più complesse realtà culturali, le donne albanesi abbiano sviluppato una forte “logica di resistenza” preservando una propria “silenziosa” identità che, unita ad uno sguardo colmo di fiducia e speranza, hanno saputo trasmettere nel tempo anche attraverso l’arte. Da Marsida Koni – pianista albanese di successo – alle scrittrici femminili in lingua italiana come Anilda Ibrahimi o Elvira Dones, che hanno determinato ed influito contesti artistici culturali importanti, dialogando e trasmettendo – in misura diversa – tracce della loro realtà di partenza.
“Passano gli anni e arrivano i cambiamenti”, scrive Eridan Këlliçi, oggi psicologa e psicoterapeuta. “Qualcosa si muove. L’arrivo della democrazia ha creato un terremoto nella società. Se fino a ieri eravamo una società fortemente patriarcale, ora per fortuna qualcosa si è trasformato. Vedo però una donna smarrita, alla ricerca di punti di riferimento che non ha più. Ha delle possibilità: uscire dalle vecchie strutture sociali, andare via dal Paese, lasciare tutto e scappare via verso orizzonti sognati, Paesi con luci più brillanti. Vedo questa meravigliosa donna che si sente smarrita, ma continua a cercare e nella ricerca, per la prima volta nella sua vita, può rivolgere lo sguardo dentro di sé e trovarsi, riconoscersi nelle nuove dimensioni più intime e nascoste”.
In una coraggiosa sfilata di profili femminili, tra un prima e un poi, tra nostalgie e ritorni, identità, tabù e complessi, il libro si compone di percorsi che, intrecciandosi l’un l’altro, restituiscono ai lettori una unica voce di donna. “L’Aquila e il mascara. Riconoscimento, identità, cittadinanza”, ultimo saggio a cura di Amarilda Dhrami, chiude questo magistrale lavoro collettivo-femminile sostituendo al concetto di cittadinanza quello di identità umana. “Nascere, crescere, studiare in Italia, non basta per ottenere la cittadinanza se si hanno origini straniere. Questo lo sanno bene i cittadini albanesi, così come lo sa anche quel milione e mezzo di ragazzi e ragazze che vivono nel limbo di essere italiani senza cittadinanza. (…) Allora, se non basta nascere, crescere, studiare, parlare nel dialetto della città in cui si è cresciuti, essere attivi politicamente e socialmente in una Paese, cosa serve? (…) Gli esseri umani sono tali perché immaginano, per la fantasia e quindi uomo, donna e bambino seppur diversi sul piano fisico, sono allo stesso tempo uguali sul piano della realtà umana profonda legata al pensiero senza coscienza per immagini. Donne d’Albania, donne d’Egitto, donne d’Eritrea, non importa, sono tutte donne, donne del mondo e quello che conta è che ognuna realizzi a proprio modo la sua identità”.
Un pensiero che, andando oltre il principio dello ius sanguinis, del riconoscimento o meno da parte di uno Stato, supera quel razzismo latente proponendo un nuovo umanesimo.
È allora forse da qui che dovremmo tutti ripartire?
Oggi in Consiglio dei ministri arriva il premierato che vuole la presidente del Consiglio Giorgia Meloni insieme ai suoi alleati. Lo chiamano “premieratino” perché non è un presidenzialismo e non è un semi presidenzialismo. Così la riforma nasce con il nomignolo diminutivo che ne certifica la portata e le aspirazioni.
L’aspirazione – una, solo una – è semplicemente l’auto preservazione, come sempre. Si vorrebbe vincolare il voto degli elettori sulla scheda elettorale ancora meno al programma della coalizione, ancora meno a una reale alleanza politica e sempre di più al marketing di un nome: il “nome forte”, il sogno di tutti i politici che vivono la sensazione della cresta dell’onda. Il testo vuole inserire in Costituzione anche la formula per l’elezione di candidati e liste di partiti, assicurando un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi alla coalizione vincente.
Il “nome forte” non corre più il rischio di vedersi revocato qualche ministro del suo governo dal presidente della Repubblica, il “nome forte” si garantisce di fatto cinque anni di governo e il “nome forte” pensa con questa riforma di non correre più il rischio di essere travolto da un rimpasto di governo, ancor di più da un governo tecnico.
Il mito della “governabilità” ottenuta da grimaldelli costituzionali e non dal radicamento dei partiti, dall’autorevolezza degli eletti e dal faticoso lavoro di mediazione che richiede governare è un ulteriore colpo al Parlamento (nella sua funzione di “cuore” di un governo) e degli elettori che sarebbero chiamati a esprimere un governo indifferente alla volatilità del consenso.
La potrebbe chiamare la riforma del “posto fisso”, per il premier, nell’epoca precarietà per tutti gli altri.
Buon venerdì.
Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni al Senato, 25 ottobre 2023 (governo.it)
Cosa pensano, che realtà vivono i giovani di Gaza sotto le bombe di Netanyahu e sotto il giogo di Hamas? Cosa pensano e che realtà vivono i giovani israeliani presi in ostaggio dai terroristi di Hamas, dopo aver visto uccidere loro coetanei con i quali ballavano pacificamente in un rave? Riusciranno a sopravvivere e a conservare una speranza di un futuro diverso, come era nei loro sogni? Sembra quasi impossibile. Anche perché i rispettivi governi, quello israeliano e quello di Gaza, sono contro di loro. Come abbiamo visto dolorosamente in questo mese di ripresa del conflitto israelo palestinese a nessuna delle due opposte fazioni interessano davvero i diritti umani dei civili palestinesi e degli ostaggi israeliani. Hamas e Netanyahu, incarnando opposti e speculari fondamentalismi religiosi, si tengono per mano e si fanno guerra sulla loro pelle. Hamas e altri gruppi jihadisti vogliono distruggere ogni alternativa di governo laico e socialista in Palestina, complici anche le ben note e ingiustificabili debolezze dell’Autorità palestinese, che non indice elezioni in Cisgiordania da molti anni.
Nello Stato di Israele ebraizzato nel 2018, il governo di ultra destra di Bibi Netanyahu che vuole esautorare la magistratura con una contestata riforma, ha favorito e incoraggiato l’illegale espansione delle colonie, quando non azioni di vera e propria pulizia etnica contro i Palestinesi come è accaduto a Gerusalemme Est. Nonostante la sua grave ed evidente défaillance riguardo alla sicurezza interna, Netanyahu vorrebbe mettere a tacere l’opposizione israeliana che nei mesi scorsi e anche in queste ultime settimane si è riversata massicciamente per le strade di Tel Aviv, chiedendo le sue dimissioni. Intanto a Gaza, mentre scriviamo, sta deliberatamente mettendo in atto uno sterminio, senza che fin qui né le Nazioni Unite né l’Europa, né l’America abbiano mosso un dito per fermarlo, al di dà di tanti discorsi e delle coraggiose parole di Guterres.
Due milioni di civili palestinesi sono stati assediati, ridotti alla fame, sono stati privati di luce, acqua e medicinali, come documenta su questo numero il reportage di Tina Marinari di Amnesty international. L’organizzazione apartitica per i diritti umani che già nel 2022 documentava l’apartheid praticato da Israele ai danni dei palestinesi di Gaza, che subiscono l’occupazione militare dal lontano 1967.
Negli anni su Left abbiamo scritto molto sulla Palestina, lanciando l’allarme riguardo a queste inaccettabili violazioni dei diritti umani e dei trattati internazionali, dando voce proprio alle nuove generazioni di Gaza che non si riconoscono né nel fondamentalismo retrivo di Hamas, né nella corrotta Anp. Una generazione che prova a non perdere la speranza ma non ha rappresentanza, che – prima di questa distruzione totale – affidava la propria voce ai social, esprimendosi artisticamente con mezzi di fortuna, come documenta da anni il festival Nazra, anche in Italia, e che ora mette a disposizione i suoi film (fra quali anche il docufilm Gaza di Keane e McConnell che ha ispirato la copertina di questo Left). Nella cover story a cui hanno lavorato giornalisti, storici, esperti di diritto internazionale e psichiatri proponiamo nuove inchieste, interviste, approfondimenti su quel che sta accadendo in Palestina e in Israele, dove – sfuggendo alla logica tribale del dente per dente brandita da Netanyahu – cresce l’onda dei giovani obiettori di coscienza, di cui nessuno parla sui media mainstream. Ma il nostro compito va oltre la cronaca e la denuncia per quanto urgentissime. Così proviamo a sollevare domande radicali: davvero la guerra è l’unica soluzione? Oppure come diceva Gino Strada, e come noi pensiamo, è disumana, è un cancro che va eradicato dalla storia? Come far uscire l’umanità dalla trappola della guerra? si domandava già Einstein, intuendo che per trovare la risposta non ci si potesse affidare solo alla fredda ragione calcolatrice, ma bisognasse indagare più a fondo. Lo studio della storia e dell’antropologia un po’ ci conforta, se diamo uno sguardo al passato possiamo scoprire che sono stati tanti i momenti in cui l’umanità ha saputo trovare alternative alle guerre per risolvere i conflitti: Mandela, Gandhi, ma anche Federico II andando più indietro nel tempo ne sono stati testimoni, come scrive Raffaele Crocco, curatore de L’Atlante delle guerre. Se guardiamo all’antropologia e alla moderna psichiatria potremmo scoprire che la violenza non è innata, che la distruttività è malattia che può essere affrontata e curata. Gino Strada diceva che la guerra non è umanizzabile, che va abolita, non esiste codice di guerra che possa renderla più accettabile. Lo diceva alla luce di una concreta esperienza di medico di guerra, lontanissimo dagli astratti discorsi dei guerrafondai da divano e da salotto tv che bloccano la riflessione pubblica, fin dallo sciagurata invasione dell’Ucraina perpetrata da Putin e continuano ora accusando di antisemitismo e di filo terrorismo chiunque osi criticare le politiche di ultra destra di questo governo israeliano che finge di non sapere che il popolo palestinese non coincide con Hamas e con questa scusa mette in atto una disumana punizione collettiva facendo una immane strage di civili, donne e bambini. Di fronte a tutto questo non possiamo voltarci dall’altra parte. Molte migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro questa carneficina nel Medio Oriente e in tante città occidentali, compresi gli Usa e quella Parigi dove le manifestazioni pro Palestina sono state vietate da Macron. «Non mi appassiona la discussione uno Stato due Stati ma l’affermazione del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, alla libertà» ha detto in un’intervista Luisa Morgantini profonda conoscitrice dell’area e già vice presidente del Parlamento europeo. «Giovani palestinesi e israeliani sempre più dichiarano di volere uguaglianza di diritti. La vergogna è della comunità internazionale che ha permesso ad Israele di essere impunita per una occupazione e colonizzazione che dura da decine e decine di anni».
Un nuovo viaggio musicale quello di Emma Marrone, per tutti Emma. È l’album Souvenir, il settimo in studio, preludio di un tour che la vedrà esibirsi nei prossimi mesi nei club in tutta Italia. Nell’occasione dell’uscita del nuovo lavoro, l’artista ha organizzato nella libreria Mondadori a Milano uno spazio d’incontro e confronto con il suo pubblico, soprattutto con i più giovani, per i quali, ha detto la cantautrice, lei «c’è sempre». E il tour, dice, «è un bel momento per stare vicini, cuore a cuore, finalmente».
Emma dalle mille risorse: dalla tv, vincitrice di Amici al cinema, artista impegnata, attenta ai temi sociali e al rispetto dell’identità e immagine della donna, come ha dimostrato reagendo al body shaming subìto a Sanremo. Per niente “sbagliata”, dal titolo di un docufilm che la riguarda, ma sempre in prima linea con estrema sincerità. «Voglio raccontare tutto – dice – come ho sempre fatto, ma con una consapevolezza maggiore». Souvenir, continua, «è frutto di un viaggio fisico, perché non mi sono mai fermata, ma anche di una grande introspezione: mi consegno al pubblico completamente disarmata».
Souvenir: nove brani, come dici, “senza armatura”. Sempre diversa, anche nelle sonorità, nelle sfumature vocali. Affronti temi come l’amore, in “Sentimentale”, i ricordi più personali di “Intervallo” o “Capelli corti”. Che cosa ti stava più a cuore raccontare questa volta?
In questo album ho abbassato le armi, mi sono tolta l’elmetto e la corazza; non ho più paura di consegnarmi alle persone, al mio pubblico senza filtri. Volevo raccontare tutto. In questo album c’è tutta me stessa.
Kyjiv – Malgrado una guerra ancora in corso, Kyjiv, dal punto di vista culturale (e non solo), è una città piena di vita. I teatri sono pieni e i cartelloni propongono una vasta gamma di spettacoli, dai classici europei e ucraini fino agli autori contemporanei. Seppure la minaccia di un attacco aereo sia sempre incombente, gli abitanti della città cercano di condurre una vita “normale” e, in questo senso gli eventi culturali sono sempre stati un momento importante di aggregazione e catarsi, anche quando, per motivi di sicurezza, si sono dovuti svolgere in improvvisati spazi ricavati nei cunicoli della metropolitana. Oggi per fortuna la somministrazione della corrente elettrica è regolare e stabile (almeno per ora) e gli allarmi antiaerei sono meno frequenti di qualche mese fa. Ciò ha reso possibile una riapertura di spazi espositivi e gallerie d’arte (dotate di rifugi antiaerei), mentre i musei sono ancora inagibili (le opere d’arte più preziose sono state imballate e messe in sicurezza in caveau sotterranei).
Chi si trovasse a passare per Kyjiv non si dovrebbe perdere la mostra Spazi, limiti, confini presso la centralissima Ukrajins’kyj Dim, all’inizio del celeberrimo viale della capitale ucraina, il Kreshchatyk (esattamente al civico 2). Si tratta di una mostra collettiva alla quale hanno partecipato 40 artisti chiamati a offrire una loro personale riflessione sui temi che danno il titolo alla mostra, messi in relazione alla realtà della guerra in corso, all’interno di uno spazio fortemente connotato. Infatti l’edificio monumentale in stile moderno che ospita la mostra, inaugurato nel 1982, rappresenta l’ultimo intervento urbanistico di grande rilievo realizzato nel periodo sovietico a Kyjiv. Ospitò fino al 1993 un museo dedicato a Lenin e, a suo tempo, vi lavorarono i migliori architetti e artisti attivi in Ucraina in quegli anni (il cantiere venne inaugurato nel 1978). Successivamente, dal 1993, lo spazio è stato riconvertito e oggi ospita concerti, conferenze e mostre. Malgrado siano stati rimossi i simboli legati alla precedente destinazione, la concezione celebrativa e retorica dell’edificio è ancora visibile (la monumentale sala rotonda centrale sovrastata da una cupola era destinata a ospitare una gigantesca statua di Lenin).
Rutilio Namaziano, poeta latino del V secolo, scriveva che anche le città possono morire. Davanti ai suoi occhi c’era la decadenza dell’impero romano, resa tangibile dall’abbandono delle città e dalla rovina dei monumenti. Ma parlava di morte della città perché sapeva che la città era prima di tutto un organismo vivente. Se muore, quasi sempre è venuta meno quella comunità che trasforma in città qualunque mucchio di abitazioni, e senza la quale non esiste civiltà urbana. Relazioni inestricabili, di cui chi governa non può non avere coscienza. Ma una città può morire anche per bulimia architettonica e abitativa, specie se ad alimentare la patologia è il profitto. Credo che pochi monumenti nell’Italia contemporanea possano rappresentare la perdita di una coscienza storica e civile come lo Student Hotel che si sta costruendo a Firenze su viale Belfiore, gigantesco accrocchio cementizio fitto di finestre oblunghe e sfalsate che pare incredibile sia stato partorito, nel 2023, nella città di Arnolfo, Brunelleschi e Michelangelo. E dire che la lunga e travagliata storia del recupero di quest’area dismessa era iniziata con un progetto, abortito, di Jean Nouvel. Ma ad accelerare la morte della città è anche, e forse soprattutto, la funzione del nuovo edificio: uno studentato di lusso che tuttavia, come quello già attivo in viale Lavagnini e realizzato dalla stessa società (ma restaurando un immobile già esistente, che apparteneva alle Ferrovie), svolgerà una parallela attività alberghiera, soprattutto nei mesi estivi. Non proprio case dello studente, ma strutture ricettive polifunzionali ricche di servizi che si rivolgono a una clientela facoltosa, studenti compresi. I loro clienti ideali non sono dunque gli iscritti all’Università di Firenze, ma chi frequenta prevalentemente università straniere (non meno di una trentina). Non si tratta di eccezioni: alberghi travestiti da studentati e studentati puri, ma non alla portata dei meno abbienti, stanno sorgendo letteralmente come funghi.