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La sicurezza sul lavoro è una scelta politica

La funzione delicatissima svolta dai presidenti della Repubblica è oggetto, in questo momento, di un insidioso disegno di depotenziamento da parte della maggioranza di destra. Il progetto di “premierato forte”, che prevede l’elezione diretta del capo del governo, voluto da Giorgia Meloni e fatto oggetto di un annuncio dal ministro per le Riforme istituzionali e la semplificazione normativa, Maria Elisabetta Alberti Casellati, porta con sé un evidente ridimensionamento del ruolo del capo dello Stato e del Parlamento.
In particolare, per quanto riguarda il presidente, si tratta di un ruolo fondamentale di arbitro costituzionale e istituzionale. E anche, non meno rilevante, di perno morale della Repubblica. Indebolire questa figura, insieme al Parlamento, metterebbe in discussione la nostra stessa architettura costituzionale. Ma per venire all’oggetto di questo articolo, chi, se non una figura dotata di grande esperienza e sensibilità politica, ma collocata super partes, come quella del Capo dello Stato, potrebbe richiamare le Istituzioni stesse alle urgenze, da un lato più sentite dall’opinione pubblica e, dall’altro, concretamente più rilevanti per l’interesse del Paese?

La fine dei diritti umani, un affare per la destra

Le risposte che il governo Meloni sta attuando, per rispondere all’incapacità di gestire l’aumento annunciato degli arrivi di migranti e richiedenti asilo, soprattutto da Libia e Tunisia, rimandano ad una sorta di fallimentare coazione a ripetere che, sotto diversi governi, si pratica da decenni. Dal Memorandum Ue / Tunisia, al vertice di Lussemburgo, alla conferenza di Roma su “immigrazione e sviluppo” – che ha visto la partecipazione dei Paesi del Golfo ma l’assenza – se si eccettua la presidente Ursula von der Leyen – dei leader europei, sono arrivati solo annunci. Gli stessi provvedimenti di legge, dal cosiddetto decreto Cutro (Legge 50) alla dichiarazione dello stato di emergenza di aprile, fino agli emendamenti proposti in Consiglio dei ministri il 18 settembre, nel “decreto Sud”, sono un tentativo di dimostrare che la destra agisce, ma per fare cosa? Le risposte non cambiano: facilitazione (come?) dei rimpatri e aumento dei Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr). Soffermandoci su questi ultimi, sbandierati ancora come soluzione di tutti i mali, ma la cui “efficacia” è messa in dubbio da mezza Europa, è utile sottolineare alcuni elementi. Queste strutture, finalizzate a rendere effettivi i rimpatri forzati, nel periodo di massimo “splendore” hanno trattenuto e poi rimandato a casa meno del 50% di chi vi è incappato.

Dieci anni dopo, l’isola non dimentica

Lampedusa – A Cala Pisana i vacanzieri parcheggiano sgangherati motorini presi a nolo incollandoli al muro di cinta dello stradone. Ma è solo per raggiungere il mare, affittare ombrelloni e lettini, adagiarsi sul costone roccioso, fare un bagno. Quanti sapranno delle tombe di migranti senza nome, simbolo orrendo di questo nuovo Olocausto proprio lì accanto, al cimitero di Lampedusa, tra dedali deserti sotto la canicola e qualche vaso di fiori gettato a terra dallo scirocco? Forse nessuno, ed è uno specchio del mondo questa incoscienza, riflettiamo entrando. Chi per esempio ricorda (ma l’interrogativo è per tutti, in un Paese senza più memoria) del piccolo Yusuf Ali Kanneh, che annegò al largo di questo mare cobalto l’11 novembre del 2020 mentre sua madre gridava “Where is my baby, I loose my baby!”? “Dov’è mio figlio, ho perso mio figlio?”. Eccolo, suo figlio, sepolto in una piccola area a lui riservata. Aveva soltanto sei mesi e Adya, all’epoca diciottenne, guineana, certo non pensava di perderlo così quando si imbarcò disperata dalla Libia con una storia amarissima alle spalle seppure così giovane. «Uno su mille, se lo ricorda», accenna con poca voce Vito Fiorino. Falegname, pescatore, nato a Bari ma residente da tempo a Sesto San Giovanni e che a Lampedusa, nella sua nuova vita, fa il gelataio sei mesi all’anno, ci guida tra gli stretti e irregolari sentieri del cimitero desolato, dove la maggior parte dei naufraghi non ha una identità.

A.A.A Cercasi pediatri

La Fondazione Gimbe ha lanciato un allarme: mancano pediatri, le famiglie sono in difficoltà. I pediatri sono sempre di meno, afferma il presidente della fondazione Gimbe, Cartabellotta: «Per ogni pediatra in media ci sono quasi 100 bambini in più rispetto al tetto massimo di 800». La carenza, secondo Cartabellotta, «deriva da errori di programmazione del fabbisogno, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e borse di studio per la scuola di specializzazione».
Il pediatra di libera scelta è una figura importantissima di riferimento per le famiglie e tale carenza può determinare una mancanza di prevenzione e cura di qualità. Molti di noi stanno andando in pensione. Presto ci sarà un cambio di guardia ed è importante una trasmissione del sapere per creare una pediatria di famiglia di qualità che risponda alle esigenze dei bambini e dei genitori.
La conoscenza, la prevenzione e la cura sono le fondamenta di una pediatria che deve essere alla portata di tutti. Ricordiamo alcuni passaggi storici importanti.

Filippi Fp Cgil Medici: Meloni, sa che la salute mentale è un diritto?

Andrea Filippi, l’inaccettabile uccisione della psichiatra Barbara Capovani, è stata uno choc cinque mesi fa. È cambiato qualcosa nella tutela degli psichiatri in prima linea e per il rafforzamento degli organici?
Di fatto non è cambiato nulla né da un punto di vista organizzativo, né degli investimenti, né delle assunzioni di personale. Al contrario questo governo, stando alle dichiarazioni di Meloni, per la quale «la sanità non è una priorità», va nella direzione opposta. Quella del definanziamento del fondo sanitario nazionale.
Fiaccolate, tanta commozione e rabbia da parte di cittadini e sembrava anche da parte di amministratori e politici ma poi le istituzioni sono rimaste immobili?
In verità è stato uno choc sentito profondamente soprattutto dagli psichiatri dei servizi pubblici che si sono mobilitati purtroppo da soli. Se da una parte l’omicidio che, ricordiamo, è avvenuto sul lavoro nell’esercizio della professione, ha sensibilizzato l’opinione pubblica, dall’altra non ha generato una vera mobilitazione di tutti gli operatori sanitari né dei cittadini.

Quando si è costretti a rinunciare alle cure

«Sto rimandando da tre mesi le mie visite mediche. Da quando mi hanno diagnosticato l’endometriosi ho già speso 400 euro di visite e analisi e adesso non riesco proprio a permettermele. Nel pubblico mi hanno detto che avrei dovuto aspettare quasi un anno per un’ecografia. Non è possibile». Francesca, finito di pronunciare queste parole, scuote la testa agitando la confezione di medicine che deve assumere ogni giorno. È una giovane donna a cui è stata diagnosticata una malattia cronica e attualmente percepisce un assegno di disoccupazione. Da mesi rimanda le visite di controllo, poiché con gli ottocento euro di Naspi, l’assegno di indennità di disoccupazione, deve per forza operare una scelta fra salute e sussistenza, mettendo a rischio la sua salute fisica.

Nel corso del 2020, secondo i dati Istat, il 7% della popolazione italiana ha dovuto rinunciare a cure mediche essenziali a causa dei costi elevati o delle lunghe liste d’attesa, coinvolgendo così ben quattro milioni di cittadini. Secondo quanto riportato nel Rapporto 2022 di Cittadinanzattiva, i tempi d’attesa nel sistema sanitario pubblico sono i seguenti: 720 giorni per una mammografia, 375 giorni per un’ecografia, un anno per una Tac e 6 mesi per una risonanza magnetica.

E la Lombardia si inventa anche il pronto soccorso a pagamento

In provincia di Bergamo, a Zingonia, è stato istituito il cosiddetto Pronto soccorso a pagamento, naturalmente non riguardante i codici rossi, aperto dal Policlinico San Marco del gruppo privato San Donato di cui è dirigente Fabrizio Pregliasco che il Pd aveva candidato alle regionali in Lombardia per contrastare il presidente Fontana.
Quello del Policlinico San Marco non sarà purtroppo l’unico pronto soccorso a pagamento, ne stanno aprendo altri a Brescia e Milano. È l’ultimo dei segnali di privatizzazione della sanità che ormai è diventata una triste realtà. Se sei ricco quindi paghi e ti curi, gli altri poveri mortali invece passeranno ore e ore nei pronto soccorso degli ospedali pubblici. Il pacchetto di visite costa 149 euro non comprensivi di ulteriori indagini eventualmente necessarie (esami ematici e strumentali).
La Lombardia devastata dai tagli alla sanità pubblica ormai da 30 anni, con la sanità territoriale distrutta, colpita in pieno dalla pandemia da Covid, continua imperterrita la sua politica sanitaria, purtroppo con la maggioranza della popolazione che ha dato ancora fiducia alla classe politica di destra e che oggi si accorge delle lunghe liste di attesa, della carenza dei medici di base, della perenne carenza del personale infermieristico non adeguatamente retribuito. Mentre il personale medico lascia gli ospedali pubblici per fare il “gettonista” con cooperative private guadagnando molto di più.

Furto con destrezza, ai danni della sanità pubblica e del diritto alla salute

Con progressiva irruenza, sta recentemente emergendo la questione “carenza di medici di medicina generale”, punta di quell’iceberg che è il programma – ormai non più occultabile – di dismissione della medicina territoriale. A sua volta organico al progetto di feroce ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale pubblico.
Mettiamo subito sul tavolo due numeri: nel nostro Paese sono previsti poco più di 51mila medici di medicina generale (mmg), uno ogni mille persone sopra i 14 anni. Fino a pochi anni fa, nonostante un lieve calo, il sistema ha tenuto. Come prevedibile e previsto, il calo si è trasformato negli ultimi anni in un tracollo, passando per i 40.250 mmg in servizio al primo gennaio 2021 fino ai circa 35mila di oggi. Tre quarti dei quali alle soglie della pensione, a fronte di poche centinaia di nuovi ingressi. Più che un’ipotesi è ormai una triste constatazione il fatto che resteremo con grossomodo 15mila medici di base nell’arco di un numero di anni che può essere contato sulle dita di una mano.
Eccoci quindi, a 20 anni dall’avvio del piano di disfacimento della medicina generale, a raccogliere il frutto avvelenato non di un errore di programmazione ma di un pianificato “non-ricambio” dei medici in servizio, come appare evidente dalla tabella pubblicata qui a fianco.

Se un governo se la prende con dei bambini

Partiamo da un dato di realtà: prima della pandemia si è assistito ad una progressiva e significativa diminuzione dei reati commessi dagli adolescenti, a livello internazionale. La diminuzione è arrivata al 50% in alcuni Paesi tra gli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 15 anni e al 65% tra i preadolescenti di 12-13 anni. Di converso, è oramai noto che stiamo assistendo ad una anticipazione della pubertà. Basti pensare che verso la metà dell’Ottocento le ragazze entravano in età puberale mediamente a 15 anni, mentre ora il primo menarca compare verso i 12 anni, seguite dai maschi con un distacco di circa due anni. Gli studi di neuropsichiatria infantile e gli studi sullo sviluppo in età adolescenziale hanno dimostrato una “immaturità fisiologica” negli adolescenti, tanto che, proprio per questo, dato l’approccio strettamente organicista ivi vigente, anche la Suprema corte degli Stati Uniti, nel 2005 (caso Roper vs Simmons) ha abolito la pena di morte per i minorenni. Un altro dato significativo risiede, inoltre, nel fatto che gli attuali adolescenti tendono più al ritiro sociale (vedi in proposito libro Hikikomori di Dell’Erba, Padrevecchi, Zulli, L’Asino d’oro) che alla trasgressione ed entrano nel mondo adulto con maggiore ritardo rispetto a prima.

La psichiatra Francesca Fagioli: «Nessuno è violento per natura»

Docente della scuola Bios Psychè, la psichiatra e psicoterapeuta Francesca Fagioli ha dedicato molti anni alla ricerca e al lavoro in una struttura pubblica per casi di acuzie nell’età adolescenziale. Ci siamo rivolti a lei per capire cosa sta accadendo nel mondo dell’adolescenza, quali sono le forme in cui si esprime il disagio e la patologia oggi e se la prospettiva del carcere prospettata dal governo Meloni per i minorenni che delinquono non sia una soluzione peggiore del male. Ecco cosa ci ha risposto.
Alla luce della sua lunga esperienza, professoressa Fagioli come è cambiato il panorama negli ultimi anni, c’è una maggiore incidenza di casi di autolesionismo e di tentativi di suicidio come si legge sui giornali in particolare dopo la pandemia?
Con la pandemia molti adolescenti sono rimasti intrappolati in un lockdown emotivo oltre che fisico, di chiusura tra le mura domestiche che progressivamente ha portato a una chiusura in se stessi. La perdita di quelle relazioni fondamentali per la strutturazione di un processo identitario e cioè la scuola, lo sport, le feste tra amici, i concerti etc ha messo a dura prova il benessere dei ragazzi. Il mondo è diventato sempre più virtuale e chiedere aiuto è diventato sempre più complicato. Vari studi sulla popolazione adolescenziale hanno evidenziato un aumento dei sintomi ansioso-depressivi, autolesionismo e tentativi di suicidio con un incremento degli accessi in pronto soccorso e ricoveri nei reparti psichiatrici. Dopo un’iniziale calma apparente, i servizi di salute mentale per i giovani, hanno vissuto un’esplosione con la necessità di fornire risposte non solo al giovane bisognoso ma anche alla sua famiglia e alla scuola che frequenta.