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Se larga parte del mondo inizia a pensare di poter far a meno dell’Occidente

Quattordici mesi dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca, il cosiddetto ordine internazionale appare quanto mai fluido, pur in presenza dei nuovi “blocchi” che vanno configurandosi. Una nuova “cortina di ferro” è apparsa e si allunga lungo il confine occidentale della Russia, ora che la Nato ha trovato il modo di allargarsi e ricompattarsi. La fortezza dell’Occidente, tuttavia, sembra più isolata, a “difesa della democrazia” contro il resto del mondo che non pare più guardare ad essa come al faro del progresso. Da più parti, si direbbe, si comincia a pensare che forse si può anche fare a meno dell’Occidente e della magna pars in esso, gli Stati Uniti.

Si era partiti con l’idea di infliggere alla Russia sanzioni economiche durissime, dichiarandole una vera e propria guerra economica, per «metterla in ginocchio». Come affermava nel giugno 2022 uno dei generali di quella guerra, Mario Draghi: «Le sanzioni funzionano. Il Fondo monetario internazionale prevede che quest’anno il costo inflitto all’economia russa sarà pari a 8.5 punti del Pil. Il tempo ha rivelato e sta rivelando che queste misure sono sempre più efficaci». Quelle previsioni, però, sono state smentite e l’economia russa non è crollata. Perché? Questa domanda è stata espunta dal dibattito pubblico in Italia. Si voleva fare credere che la Russia non fosse che «una stazione di rifornimento di gas con armi nucleari» ma era propaganda, animata per lo più da una distorta informazione sullo stato attuale dell’economia russa e mondiale.

Già da anni, peraltro, nei nostri rapporti con colleghi russi avevamo avvertito lo scarto tra la narrazione prevalente in Occidente sulle cose russe e ciò che vi accade in realtà. Gli anni Novanta erano stati durissimi per i russi, travolti da una crisi economica pari a quella da noi vissuta dopo il 1929. Il crollo dell’Urss, l’apertura al “mercato”, la transizione verso un’economia capitalistica avevano provocato sconvolgimenti. Nel passaggio dal sistema socialista a quello capitalistico era stata adottata quella che è stata poi nota come “terapia d’urto”: selvaggi tagli alla spesa pubblica, riduzione delle dimensioni e dei salari dell’esercito e della polizia, taglio di quasi tutti i sussidi all’industria, privatizzazione delle aziende (per lo più pubbliche), con eventuali chiusure o ristrutturazioni, per rendere così più efficiente il sistema produttivo per poter competere sui mercati. Per liberalizzare l’economia, il governo aveva eliminato le barriere al commercio internazionale, legalizzato la creazione di imprese private e il loro commercio e smantellato i controlli sui prezzi su circa il 90% dei beni di consumo. In teoria, tutte queste rapide riforme avrebbero inflitto al popolo un dolore necessario ma temporaneo e, si sperava, avrebbe generato un’economia più efficiente.

In pratica, l’onere per i cittadini era stato catastrofico. Penuria di beni, disoccupazione, chiusura di grandi e piccole aziende, un rodato sistema di sicurezza sociale smantellato. L’ingente riduzione dell’apparato di sicurezza militare e di polizia aveva poi dato origine a un’ondata di criminalità e violenza, tale da portare la Russia ad avere un tasso di omicidi simile al Messico e alla Colombia. Industrie gigantesche, che non ricevevano più sussidi, iniziarono a licenziare in massa o a non pagare le tasse. La disoccupazione, un tempo vicina allo zero per cento, anche se a causa di inefficienti mandati governativi, salì a oltre il 15%, senza considerare coloro che non venivano pagati o costretti a lavorare a tempo parziale. Passare da un’economia centralizzata, con prezzi amministrati, privatizzazioni farlocche aggiudicate ai dignitari del precedente regime, il mercato dei beni di largo consumo gettato in mano alla giungla competitiva, senza protezioni, significò, per molti, indigenza, mancanza di beni primari, abbandono. La gente comune, come sempre si arrangiò: dal coltivare patate sul balcone di casa a prestarsi come tassista, per arrotondare lo stipendio. Crollarono i servizi pubblici, aumentò la mortalità. Ma ciò che ha veramente spaventato le prospettive economiche a lungo termine della Russia è stato il completo fallimento delle privatizzazioni di beni di proprietà dello Stato con la nascita degli “oligarchi”.

L’assestamento durò un decennio almeno e, una volta imbarcata la via capitalistica, il recupero fu relativamente veloce. Stili di vita “occidentali” si accompagnarono alla crescita dei ceti medi e del reddito. Rispetto a quella situazione ci sono stati miglioramenti enormi e una nuova stabilità economica e sociale è alla base del successo politico di Putin. Tuttavia, l’economia russa non è cambiata granché: grande produttrice di materie prime energetiche e agricole, tale è rimasta. Un’economia che esporta commodities e un po’ di manifattura e importa tecnologie e beni di consumo. Con l’Europa, certo, ma anche con il resto del mondo. Nel grande gioco della globalizzazione la Russia aveva guadagnato un suo posto, rimanendo però un’economia di dimensioni modeste.

Poi, è arrivata la guerra in Ucraina, con il “voltafaccia” risentito degli europei, spinti dagli americani. Dopo anni in cui si era intessuta la rete dell’interscambio – gasdotti, importazione di petrolio e grano e fertilizzanti in cambio di venture capital, tecnologie e prodotti del Made in Europe – gli europei hanno voluto tagliare i ponti, pensando, sì, di soffrire un po’ (il gas era molto economico) ma anche di fare un bel dispetto alla Russia. La banca centrale russa ha subito il congelamento di oltre il 60% delle sue riserve; la Russia è stata tagliata fuori dal sistema Swift (che veicola le transazioni internazionali). Questo doveva essere un colpo mortale diretto al cuore dell’economia russa.

Il consenso generale espresso dagli esperti, dagli economisti e dai media, preannunciava l’imminente catastrofe economica della Russia. Le previsioni andavano dal completo collasso del sistema finanziario russo all’iperinflazione, a una catastrofica contrazione del 15% del Pil entro la fine dell’anno. La previsione era che la conseguente diminuzione del credito, della domanda e dell’accesso alle importazioni critiche avrebbe costretto le industrie a chiudere la produzione, provocando ulteriore inflazione e disoccupazione. Le entrate statali si sarebbero ridotte, costringendo a una contrazione della spesa, che avrebbe portato ad un ulteriore declino dell’attività economica. Molte aziende e holding internazionali hanno lasciato il Paese (ma non tutte, come mostrano il caso dei gruppi bancari Reiffesen e Unicredit): McDonalds, la cui apertura 32 anni fa a Mosca aveva simboleggiato quanto l’ex Unione Sovietica stava cambiando, ha lasciato la Russia nel 2022 segnando una nuova era di rapidi cambiamenti per l’economia russa.

Il risultato di questa guerra economica sarebbe stato il crollo dell’economia russa, che avrebbe reso Putin incapace di finanziare di finanziare una guerra e di far fronte a disordini sociali di massa, che a loro volta avrebbero portato a una ritirata dall’Ucraina. Nella figura sotto l’effetto delle sanzioni Ue contro Mosca stilato dalla Commissione europea a 5 mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, secondo cui le misure prese da Bruxelles «stanno colpendo duramente e profondamente la Russia».

Diminuzione del Pil russo di oltre il 10%; calo del 90% della produzione automobilistica; più di mille aziende internazionali via dal territorio russo; stop all’export di tecnologie avanzate europee, settore nel quale la dipendenza di Mosca è al 45%

Eppure, un anno dopo, l’economia russa, comunque la si pensi, sembra nei fatti, al momento, aver superato fosche previsioni. Alla fine del 2022, il Pil si è ridotto di poco, l’inflazione è aumentata ma molto meno del previsto, e la disoccupazione è ai minimi storici, mentre le casseforti dello Stato si sono riempite di denaro.

La Russia ha utilizzato i guadagni delle sue vendite di gas e petrolio per finanziare la campagna militare (le vendite di gas e petrolio sono infatti proseguite, nonostante le sanzioni). Ma, soprattutto ha iniziato a diversificare pesantemente il suo export, trovando in molti Paesi emergenti e non un acquirente pronto a sostituirsi all’Occidente.

L’invasione russa dell’Ucraina rappresenta una palese e inaccettabile violazione del diritto internazionale e la maggior parte dei Paesi del mondo, oltre 143 Paesi, ha votato a favore della risoluzione Onu che condanna l’invasione. Al contempo Paesi che rappresentano l’85% della popolazione mondiale non hanno imposto sanzioni alla Russia. Né gli Stati Uniti e né gli altri Paesi Nato hanno riflettuto sul perché di questa situazione. Chi, pur condannando l’invasione, non ha sottoscritto le sanzioni ha voluto inviare un segnale che la questione non è così semplice e che la Russia potrebbe aver voluto difendersi dall’espansione della Nato. Questa situazione ha così favorito un cambiamento nei partner della Russia: ciò che ha messo in moto è, di fatto, un ridisegno delle relazioni economiche internazionali che sta portando ad un nuovo vero e proprio “blocco” dato dai Brics con altri Paesi emergenti al seguito. Certo, la Russia soffrirà nel medio periodo del mancato scambio di tecnologie ed expertise. Ma la Cina, l’India e gli altri hanno già un potenziale notevole da offrire (la Cina è il Paese al mondo con il più alto tasso di investimenti in ricerca e sviluppo sul Pil).

Gli occidentali – che denunciano l’inaccettabile invasione russa e la violazione della democrazia – si stanno ritrovando isolati come non avrebbero immaginato anche solo due anni fa. La leadership economica dell’Occidente è in discussione, come più difficili si stanno facendo le relazioni economiche e politiche con tutti i Paesi emergenti.
I leader dei Brics hanno proposto un allargamento del “club” a Paesi come Arabia Saudita, Iran, Kazakhstan, Egitto, Algeria, Nigeria, Senegal, Argentina e Messico. Già oggi il loro Pil supera quello dei G7 e si prevede che da qui al 2050 i cinque “grandi” contribuiranno a più di metà del Pil globale. Sono Paesi molto diversi tra loro, alcuni dichiaratamente e “orgogliosamente” democratici (come gli indiani, fieri di essere «la più grande democrazia del mondo»). Ma non vedono la corrente contrapposizione tra Nato e Russia sulla questione ucraina come un confronto tra “democrazia” e “autocrazia”, e sono parsi preferire l’opzione diplomatica dell’astensione a quella dello schieramento.

L’economia, per molti, sembra contare più che non la violazione di principi sui quali nessuno ha la coscienza immacolata. L’Occidente, peraltro, sta continuando a fare i conti sulle prospettive future come se la sua supremazia tecnologica e militare fosse per sempre. La globalizzazione ha reso ricco il mondo dei Paesi emergenti e ora né il “friendly shoring” (fare affare solo con i Paesi amici) ventilato dagli occidentali né le sanzioni – di cui è colpito anche chi fa affari con la Russia – sembrano spaventarli. Se gli Occidentali ora spavaldamente affermano che una nuova guerra fredda è iniziata e siamo qui per combatterla, gli emergenti paiono dirsi poco spaventati, ora convinti che, forse, il giorno è arrivato in cui potranno mettere l’Occidente all’angolo.

Gli autori: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. Francesco Sylos Labini, fisico, è dirigente di ricerca presso il Centro Ricerche E. Fermi di Roma, cofondatore e redattore di Roars

L’antimafiocromia

Mentre decine di giornali e commentatori si lambiccano su discussioni puerili si avvicina a gran falcate quel periodo dell’anno in cui Falcone e Borsellino tornano gadget da esposizione morale. Mentre l’anno scorso la memoria di Falcone e Borsellino è stata onorata con il ritorno di grancassa di Dell’Utri e Cuffaro sul palcoscenico politico siciliano. Quest’anno potremmo riuscire a fare una figura peggiore: arrivare al 23 maggio senza Commissione antimafia insediata.

Di sicuro per le prossime elezioni amministrative nessun candidato passerà al vaglio di una Commissione antimafia inesistente. Ma questo è il meno. Non avere trovato il tempo di insediare la Commissione antimafia mentre c’è stato il tempo di dedicarsi alla vernice degli attivisti e ai rave party è un pericoloso segnale culturale: le mafie sono un’emergenza che viene molto dopo nella scala delle priorità dello Stato.

Potrebbe andare peggio. Il nome che circola alla Camera e al Senato per la presidenza della Commissione antimafia (che per ora non c’è) è quello di Carolina Varchi, vicesindaca a Palermo di Roberto Lagalla fortissimamente voluto da Dell’Utri e Cuffaro. “La vicesindaca è stata eletta in una giunta che ha dietro i voti di Cuffaro e Dell’Utri, non so quanta attenzione vera si abbia alla lotta alle mafie”, ha fatto notare la senatrice Enza Rando, che di antimafia ne mastica parecchia essendo una dei pilastri di Libera oltre che responsabile antimafia del Partito democratico.

Poiché la presidenza spetterebbe al partito di Giorgia Meloni dalle parti di Fratelli d’Italia hanno frugato per trovare qualche altro nome. Si dice che abbiano pensato alla deputata Chiara Colosimo, vicinissima alla presidente del Consiglio, che di mafie e antimafie non ha nessuna esperienza. Che non ci siano parlamentari ferrati sul tema tra i parlamentari della maggioranza indica quanto l’antimafia sia declamata ma poco praticata.

Lo stallo continua. Così da fuori possiamo ammirare una legislatura con i sacchi pieni di soldi del Pnrr che ritarda la Commissione che dovrebbe tenere d’occhio l’infiltrazione mafiosa. A volte le cose sono molto più semplici di quello che sembrano.

Buon martedì.

Nella foto: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, 27 marzo 1992 Palermo (autore Giuseppe Gerbasi)

Quest’ultimo Primo maggio

illustrazione di Fabio Magnasciutti
illustrazione di Fabio Magnasciutti

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come quello in cui il governo si è schiantato contro i sindacati, mica il contrario. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che l’attacco ai sindacati come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra. Non è roba nuova. Giorgia Meloni e compagnia semplicemente ci ha aggiunto quella punta di vittimismo che è l’additivo che non manca mai del suo fare politica, caratteristica fondante dell’azione di questo governo che mostra nemici dappertutto per farsi perdonare degli errori che sa già di compiere in futuro.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come l’ennesimo in cui una fetta della stampa (anche quella che si autodefinisce progressista) si è strizzata tutto l’anno per raccogliere le lagne id imprenditori che invocano il mercato quando guadagnano e accusano la politica quando non sono capaci di stare sul mercato. Un movimento nazionale che inorridisce di fronte a gente che rivendica i diritti e rifiuta salari da fame. Ristoratori, imprenditori, bacchette televisive che scorrazzano sui media invocando il dovere alla “fatica” e allo sfruttamento almeno con i giovani. Non è roba nuova. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che il dovere alla fatica dei giovani come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata. adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio per un governo che vorrebbe spedire i giovani a lavorare nei campi in nome della difesa della Patria e non è riuscito a convincere i suoi parlamentari di maggioranza a rinunciare al ponte delle vacanze, andando sotto in Parlamento. È un contrappasso violento che squarcia l’ipocrisia di gente che non ha mai lavorato e che discetta di lavoro. Gente che lavora il Primo maggio per martellare il lavoro come ha fatto finta di essere antifascista il 25 aprile per logorare i suoi alleati. Una mendacia continua, sottopelle, che vorrebbe normalizzarsi per comparire.

Buon Primo maggio ai professionisti, invece. Coloro che professano i propri valori nel proprio mestiere.

Buon lunedì.

Susanna Camusso: Il decreto lavoro del governo Meloni nega i diritti dei lavoratori (e il Primo maggio)

Senatrice Pd e segretaria generale Cgil dal 2010 al 2019, Susanna Camusso da sempre si occupa di diritti delle donne. In vista del decreto Lavoro del governo Meloni  – che ha già sollevato molte critiche – le abbiamo chiesto di aiutarci a leggere le politiche del governo, proprio a partire da questo tema.

Susanna Camusso, cominciamo da donne e lavoro. La presidente Meloni dice che deve essere valorizzato il lavoro delle donne che, dal suo punto di vista, devono fare più figli e senza essere aiutate dal welfare e da persone e lavoratori migranti provenienti da altri Paesi. Una sua valutazione? Cosa si dovrebbe fare davvero per sostenere davvero l’occupazione femminile?
Direi che la presidente del Consiglio ha reso plastico il suo pensiero sulla questione: “Io ci sono riuscita, se voi, donne, non ce la fate è per colpa e incapacità”. Nessuna disponibilità al cambiamento, a rovesciare un’asimmetria di potere e diritti che condiziona il mercato del lavoro e la presenza femminile. Quali sono i progetti del Pnrr a cui questo governo da segno di voler rinunciare? Asili nido e Case di comunità, proprio quelli più fondamentali per le donne. Infatti si tratta di misure che intervengono sugli aspetti che condizionano più di tutto il lavoro femminile: cura dei figli e degli anziani. Per sostenere l’occupazione femminile è invece necessario promuovere la condivisione del lavoro di cura: congedi parentali, ma soprattutto paternità paritaria per durata ed obbligatoria, e poi contrasto del part-time involontario, salario minimo per intervenire sul lavoro povero che troppo spesso è femminile, orari flessibili per uomini e donne. Serve una rivoluzione culturale, che riconosca che la cura è una responsabilità che va assunta e condivisa e non può essere liquidata come una variabile secondaria. Se la presidente del Consiglio ascoltasse le donne che lavorano saprebbe anche che la loro principale richiesta è di riconoscimento, che vuol dire retribuzioni uguali certo, ma anche valorizzazione professionale, condivisione dei ruoli e delle responsabilità.

Quali politiche per l’occupazione giovanile che soffre di precariato ma anche di una narrazione politica denigrante che di volta in volta bolla i ragazzi come “choosy” come disse Fornero o  sdraiati sul divano come li descrive Meloni?
Si sono spese molte risorse per incentivare attraverso fiscalizzazione e decontribuzione il lavoro per i giovani e le donne, con ben scarsi risultati, anzi addirittura con un effetto di finanziamento della precarietà. Sono i frutti avvelenati della logica dei lavoretti, della svalutazione del lavoro e dei salari. Anche in questo caso servono altre politiche: in primo luogo il salario minimo, quindi retribuzioni dignitose, in secondo luogo ripensare la formazione professionale che non deve ridursi a via di fuga per far assolvere l’obbligo scolastico (che va invece portato ai 18 anni) ma un vero percorso formativo che dia anche la possibilità di seguire inclinazioni ed anche desideri, e contemporaneamente occorre aumentare i laureati e riconoscere il valore dell’istruzione, in Italia drammaticamente negato. È necessario ricostruire l’ascensore sociale sia per ceto sia per generazione, abolendo tirocini, stage e tutte le forme di lavoro non retribuito. I giovani sono le prime vittime della precarietà che oltre a causarne il disagio è alla base del progressivo e costante indebolimento del nostro sistema produttivo. Senza contare che, se davvero il governo è così preoccupato dal tema della natalità, sono ormai anni che è dimostrato che proprio la precarietà è uno dei fattori che la disincentivano.

Per il Primo maggio il governo Meloni annuncia provvedimenti sul lavoro. Cosa sappiamo dei contenuti? Quale politiche del lavoro andrebbero fatte?
Sono circolate più bozze, anche diverse – indizio di un conflitto interno al governo – ma da tutte traspare una gara a chi punisce di più i poveri. Continuano ad ignorare il dato drammatico della povertà minorile e invece si scatenano sulla presunta occupabilità per togliere il reddito di cittadinanza. Poi è chiaro che intendono ampliare il ricorso ai contratti a termine, forse perché non capiscono che è il lavoro stabile a favorire qualità e crescita del sistema. Non vedono né l’esperienza della Spagna, né quella della Germania. Gli annunci però si concentreranno solo su un taglietto ulteriore del cuneo per “fare bella figura”, facendo finta di non capire che la vera emergenza sono i salari, tutti, anche quelli pubblici.

Ancora una volta i sindacati vengono chiamati alla vigilia del varo di un provvedimento che riguarda il lavoro per essere informati non consultati. Continua la politica di disintermediazione. Con quali danni?
Purtroppo non possiamo dimenticarci che la politica di disintermediazione non è un’innovazione di questo governo: il primo a teorizzarla sistematicamente fu proprio il governo Renzi. Da allora la voce del lavoro è stata svalorizzata, con gli evidenti effetti di sfiducia nella politica e nella rappresentanza. Il governo Meloni lucra su questo disagio, che ha probabilmente favorito il suo risultato elettorale, e proprio per questo va denunciato con forza che la convocazione il giorno prima alle 19 è un’offesa nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori! Convocare il Consiglio dei ministri in quella data, come voler dire “noi il Primo maggio lavoriamo mentre voi fate festa”, è un altro insulto alla festa dei lavoratori e alla sua storia. Tutto questo si ribalta solo se il lavoro rilancia la sua capacità di mobilitazione, di protagonismo, proponendo anche modalità e forme di risposte e rivendicazione nuove e non chiedendo solo incontri al governo.

Il 28 aprile nella giornata sulla sicurezza i giornali hanno riportato un più 17 per cento di incidenti letali sul lavoro. Il nuovo codice degli appalti che prevede sub appalti a cascata  e ad affidamento diretto rischia di aggravare questa strage?
Non nascondo una grande preoccupazione sulla sicurezza del lavoro, una strage continua e non vista. Si continua a morire come 50 anni fa: nell’era della tecnologia non si spende un minuto per pensare come progettare ed usare la tecnologia per prevenire gli infortuni e si continua a precarizzare il lavoro, pur sapendo che insicurezza e precarietà sono determinanti per la crescita degli infortuni. Il codice degli appalti è una iattura per questo tema. Polverizzare gli appalti attraverso il subappalto e gli affidamenti diretti, che sono la negazione della sicurezza, renderà impossibili i controlli: è il festival del minor costo grazie a minori tutele.

Fenomeni come quello delle grandi dimissioni che riguardano anche il nostro Paese mettono al centro la questione della qualità del lavoro, del rifiuto dello sfruttamento, della qualità della vita e delle relazioni umane. È tempo di ripensare il lavoro  in una dimensione collettiva, più giusta e più umana?
Il fenomeno delle dimissioni o del rifiuto di accettare proposte di lavoro che hanno più in comune con lo sfruttamento che con un lavoro che – come ha magistralmente ricordato il presidente Mattarella ieri – dovrebbe avere invece una funzione in primo luogo emancipatoria, conferma che oltre naturalmente alle retribuzioni, anche le condizioni e i ritmi di lavoro sono fondamentali per assicurarne la qualità. Un esempio tra tutti è quello degli orari, che vanno assolutamente ripensati. È tempo di interrogarsi sull’invasività del lavoro nella vita delle persone, sulla cancellazione del tempo per sé, sulla svalorizzazione della cura, sulle solitudini che determina questa infinita rincorsa che – come ci dicono anche le statistiche – non aumenta la produttività, e moltiplica le diseguaglianze. I Paesi a miglior performance economiche hanno orari più regolati e contenuti e ragionano di riduzione di orario. Ci diciamo che le tecnologie ridurranno il lavoro umano ma continuiamo ad allungare gli orari e a ridurre i salari perché non c’è redistribuzione dei profitti. Si è il momento di ripensare al lavoro, e basterebbe guardare al dibattito del mondo per cogliere quanto siamo sempre più periferici.

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Consigli di lettura: Susanna Camusso ha appena pubblicato il libro Facciamo pace, una guerra, tante guerre considerazioni per un mondo più giusto (Strisciarossa edizioni) con la collaborazione di Altero Frigerio e Roberta Lisi

Foto di Paolo Visone

Vivian Lamarque e il coraggio di innamorarsi, ad ogni età

Con leggerezza, la sua storia, niente affatto leggera, entra nei versi senza far rumore. È la cifra speciale di Vivian Lamarque, che abbiamo incontrato a Roma dove le è stato conferito il premio poesia Fondazione Roma, dopo aver ricevuto il premio Saba e molti altri riconoscimenti.

Vivian è una gentile signora che si muove nella vita come in un giardino, facendo attenzione al qui e ora, provvedendo agli imprevisti con la calma di chi è abituato a piantare semi e sa aspettare per la fioritura. Nata a Tesero, in provincia di Trento nel 1946 da madre valdese, ha un lungo cognome Provera Pellegrinelli Comba che ci parla della sua complessa vicenda umana: Pellegrinelli il nome della «madre di cuore», come dice lei, diversa da quella biologica che l’ha abbandonata; Provera cognome dell’amato padre adottivo Dante Provera, campione d’Italia di sollevamento pesi, morto quando lei aveva quattro anni; infine Comba, il più pesante, quello della madre che l’ha rifiutata e del nonno, pastore valdese, che per il suo ruolo ufficiale di uomo di Chiesa, non poteva accettare una nipote nata da un rapporto extraconiugale di sua figlia, precedentemente rimasta vedova.

Cresciuta in questo contesto Vivian Lamarque porta il nome del marito, il pittore Paolo Lamarque dal quale è separata, ma con cui ha mantenuto sempre un rapporto di affetto. Fu lui che, nel 1972, fece leggere al poeta Giovanni Raboni i primi versi della moglie, pubblicati subito sulla rivista letteraria Paragone, cui seguirono una lunga serie di libri e racconti, poesie, e anche favole per bambini. La vicenda umana cui abbiamo fatto cenno all’inizio, ha molti altri risvolti:a dieci anni, d’estate in colonia, la bambina venne a sapere per caso di essere stata adottata, perché qualcuno la chiama con il cognome di origine, Comba (poco tempo dopo troverà in una scatola delle lettere tra la famiglia d’origine e quella adottiva). Busserà alla porta della madre, ricevuta da una gelida e cortese accoglienza («mangiavo dormivo/facevo la brava bambina per conquistarti/“mammina”/corteggiamento vano/ a nove mesi mi hai preso per mano/ mi hai lasciata a Milano». Sono alcuni versi in cui il tono quasi ironico, fa venire in mente l’amaro senso di umorismo di certi autori e cantautori milanesi, maestri nel descrivere la sofferenza umana con la svirgolata finale tipica del clown triste. Cercherà anche il padre, preside di una scuola in trentino che si irriterà molto di esser stato “disturbato”.
Oggi dopo molti premi (Viareggio Opera prima, premio Bagutta, Morante ecc) Vivian Lamarque è poeta di fama, anche candidata alla prima edizione del premio Strega poesia.

Vivian Lamarque come è nato il libro L’amore da vecchia, uscito per oscar Mondadori? Il mainstream parla  sottovoce dei sentimenti di una persona matura?

Il desiderio di non parlare più della mia ormai preistorica infanzia è coinciso con un innamoramento di tipo adolescenziale, mille anni fa, quando lui passava io ragazzina guardavo ore un ragazzino che giocava a pallone e non si osava dire nulla. Nel 2016, quando avevo settanta anni, mi accadde lo stesso tipo di innamoramento: scrissi subito decine e decine di poesie, molte più di quelle entrate nel libro. Ero felice di scriverne uno finalmente che non parlava di infanzia. C’è anche una sezione intitolata “Come nei film”. Sono poesie in certo modo cinematografiche (e ce ne sono anche di “ferroviarie”), 14 titoli di film dagli anni Cinquanta sino ad oggi, sino a Nostalgia di Martone.

In molte interviste ha raccontato la sua vicenda: l’abbandono, poi nuovi affetti veri, in mezzo lo spaesamento che la portava a cercare suo padre naturale ovunque, magari in un volto sconosciuto…

Sì..appunto di questo non volevo più scrivere e invece, anche se in misura minore, ho scritto. Si, pedinavo chi mi pareva mi somigliasse. Ma non alla ricerca del padre, a quei tempi credevo morto anche quello naturale, dopo aver perso quello adottivo a 4 anni..Dai 10 ai 19 anni ero un segugio a caccia di madre ovunque, per strada, sui tram, a scuola, a Milano, in vacanza e sulle lapidi dei cimiteri. I diari di quel tempo, che conservo, testimoniano uno stato di confusione mentale tale da richiedere una appropriata psicoterapia, quella a cui mi rivolsi purtroppo solo a 38 anni. Sino ad allora l’unica medicina fu la poesia.

Non è mai stata arrabbiatissima con la sorte o proprio con le persone fisiche che l’hanno lasciata? E lei come ha imparato ad amare ?

È una domanda che mai nessuno, ricordo, mi abbia mai posto, forse neppure Vivian a Vivian lo ha chiesto…Non ricordo rabbie, ricordo depressioni. Tante. Da bambina poi mi sembrava di essere un personaggio da fiaba come Remì di Senza Famiglia, di Hector Malot. Da grande, quando ho conosciuto le motivazioni, ho potuto capire e giustificare.

Come ha trovato “le parole per dirlo”?

Loro hanno trovato me, a dieci anni, con le prime poesie. La terapia non mi ha dato le parole. Mi ha dato le chiavi per rileggere la mia storia e quella degli altri. E ha tracciato la linea di confine tra immaginario e realtà che avevo da decenni cancellato. Alle parole spero di rimanere fedele fino all’ultimo. Nel nuovo libro un verso dice «non mi lasciare mai alfabeto».

A sua figlia ha raccontato la sua vicenda? Cosa le ha detto? 

Mia figlia l’ha sempre saputo. In casa vedeva fotografie e se ne parlava. Forse anche troppo. Per lei però, l’unica nonna era la nonna che aveva amato me e lei. Non ha mai  manifestato il desiderio di conoscere mia madre naturale, però acconsentì a incontrarla una volta quando, verso la fine della sua vita, lei chiese di poterla vedere.

Oggi tante donne non vogliono più fare figli. Mancanza di aiuti e strutture pubbliche ma anche desiderio di crescere personalmente. Cosa ne dice?

Si  gli aiuti mancano, ci sono donne che non fanno figli o che ne fanno di meno, ma ci sono anche tutte le altre. Anche per le  maternità ci sono e ci saranno sempre basse e alte maree.

Abbiamo parlato di parole, di capacità di amare…e lei come ha imparato ad amare?

Dalla mamma adottiva e dal papà adottivo, benché subito perso, perché tutti mi raccontavano quanto mi aveva adorato. Ho foto splendide, io piccola accanto a lui che era un gigante. E in seguito ho imparato dalla maternità stessa, cioè dall’essere diventata madre, madre di Miryam cui ne L’amore da vecchia” ho dedicato una lunga poesia..(«Miryam  mia bambina, mia rima /mia infinita mattina” /su verso la tua stanza d’infanzia / papà chiamava giù dal giardino/Miryam mia assonanza mia rima/ era intatto il tempo del prima….”

                                 

Il pacchetto avvelenato sul lavoro che il governo Meloni prepara per il primo maggio

“Non dobbiamo arrenderci all’idea che possa esistere il lavoro povero”, dice il presidente della Repubblica Mattarella che a Reggio Emilia, in vista della festa del primo maggio, ha parlato di una soglia minima dignitosa, e dell’importanza “di affermare con forza il carattere del lavoro come primo, elementare, modo costruttivo di redistribuzione del reddito prodotto”. L’attenzione di tutti, ha aggiunto, si deve porre sul contrasto allo sfruttamento dei lavoratori immigrati e dei minori (che per i giovani “costituisce un grave furto di futuro”), per frenare la piaga delle morti e degli infortuni sul lavoro (causa di “costi umani inaccettabili”) e la precarietà, che “stride con le finalità di crescita e di sviluppo” che si vogliono perseguire anche con le “ opportunità offerte” dal Pnrr. E’ alle istituzioni in particolare che il Presidente si rivolge quando dice che “la base del lavoro, e la sua qualità, deve essere un assillo costante”, un impegno che deve coinvolgere anche le imprese che devono avere le opportunità per generare valore e far crescere la loro produttività ma in un eco-sistema adeguato”. La Costituzione, aggiunge ancora, deve essere il faro per raggiungere l’effettiva parità sul terreno dell’occupazione e dei salari tra uomini e donne”. E ancora sui morti sul lavoro”. Poi ha concluso il suo intervento nel distretto della meccatronica di Reggio Emilia in vista del Primo Maggio, la festa della Repubblica fondata sul lavoro, con un augurio “ai giovani al concertone di piazza San Giovanni a Roma. La musica sottolinea anche la connessione di speranza tra le parole lavoro e pace”.

Il primo maggio il governo Meloni lancia il suo ddl contro i lavoratori.

Il primo maggio dovrebbe essere le l’occasione per riaffermare il valore fondante del lavoro, l’importanza dei diritti del lavoro, in un Paese in cui il lavoro è stato svilito, impoverito, privato dei suoi diritti fondamentali. “Ma  temo che anche il governo Meloni si prepari a trasformare la festa dei lavoratori in qualcosa di molto diverso”, dice segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra. “Il pacchetto lavoro che hanno annunciato  rischia di precarizzare ancor più il lavoro, di rendere i lavoratori ancora più fragili e deboli, di umiliarli ancora una volta, in un Paese in cui avremmo bisogno di tutt’altro. In un Paese in cui ci sarebbe bisogno di far crescere stipendi e pensioni, e di rendere il lavoro più sicuro e stabile”.

Meloni dice di voler incentivare il  lavoro delle donne ma fa il contrario. Nel decreto Lavoro, che il governo Meloni vuole approvare in fretta e furia il 1 maggio, solo norme spot. “Ai redditi delle famiglie, duramente colpite dalla crisi energetica e dall’inflazione, non può certamente bastare il taglio di poche decine di euro per i redditi bassi o l’innalzamento dei fringe benefit, che riguarda soltanto una piccola platea di lavoratori. Spero che nel provvedimento, dopo le promesse mancate di questi mesi, venga almeno riproposta ‘Opzione donna’ con parametri meno stringenti. In caso contrario, sarebbe l’ennesima beffa per le lavoratrici italiane”, dice la deputata dem Simona Bonafè, vicepresidente del gruppo Pd, riguardo al decreto che verrà licenziato lunedì prossimo dall’esecutivo.

Schlein, chiamata alle armi  dei partiti di opposizione sul tema del lavoro. E’ una provocazione inaccettabile da parte del governo, proprio il primo maggio  “I temi come il lavoro di qualità, non precario, la sanità pubblica o la battaglia che stiamo facendo in Parlamento sul salario minimo, sono certa che possono vederci con le altre opposizioni, su un terreno sempre più comune sia in Parlamento che nel Paese”. Lo ha detto la segretaria Pd Elly Schlein.

“Alla sfrontatezza di questo governo non c’è limite: si riunisce il primo maggio, giornata del lavoro per tagliare brutalmente il reddito di cittadinanza, spingendo centinaia di migliaia di uomini e donne ad accettare precarietà e salari da fame -dichiara Antonello Patta, responsabile nazionale lavoro del PRC-S.E. – Il taglio demagogico al al cuneo fiscale (per 5 mesi!) è nulla rispetto ai tagli selvaggi della spesa pubblica che ridurranno pesantemente occupazione, servizi e salario indiretto”.

Domani incontro governo -sindacati, convocati ex post Un minimale aumento delle buste paga dei lavoratori con redditi medio-bassi, attraverso il taglio di un punto del cuneo fiscale fino a 35 mila euro. Mentre la povertà aumenta in Italia il governo dà l’addio al reddito di cittadinanza che sarà sostituito con tre nuovi strumenti, che restringono sensibilmente la platea: la prestazione di accompagnamento al lavoro (Pal) che entrerà in vigore in via transitoria da agosto, la garanzia per l’inclusione (Gil)  per chi non è occupabile e la garanzia per l’attivazione lavorativa (Gal) che riguarderà invece “chi è in condizione di lavorare”. Come anticipato anche dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, l’esecutivo è al lavoro anche per finanziare per il 2023 un innalzamento del limite di non imponibilità dei fringe benefit per i lavoratori dipendenti con figli.

Domani, poco prima del varo del Decreto lavoro, quando tutto è già deciso  il governo incontra i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl (Maurizio Landini, Luigi Sbarra, Pierpaolo Bombardieri e Paolo Capone). Sono stati convocati dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per domani, domenica, alle 19 a Palazzo Chigi. Al centro del confronto “i provvedimenti relativi al cuneo fiscale, al reddito di inclusione e alle misure di avviamento al lavoro che andranno il giorno dopo, 1 maggio, in Consiglio dei ministri”, si legge nella convocazione ufficiale. L’impianto del provvedimento dovrebbe basarsi su un decreto composto da oltre 40 articoli con l’obiettivo di riscrivere le regole del mondo del lavoro. “Penso che sarebbe utile se il governo non pensasse al lavoro solo il 1 maggio, ma tutti i giorni, visto che finora non lo ha fatto – ha commentato il segretario Cgil Maurizio Landini, che chiarisce: “I provvedimenti fatti in questi mesi per noi vanno nella direzione sbagliata. In Italia i salari sono tra i più bassi in Europa, il fisco pesa sul lavoro dipendente ben più che sulla rendita immobiliare, assistiamo alla fuga dei giovani perché qui non ci sono condizioni accettabili. Non penso poi che la povertà si risolva ridicendo o cancellando il reddito di cittadinanza. Il metodo che il governo ha messo in campo non è accettabile”. Per il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri il decreto Lavoro del governo è solo propaganda, “è bene che il governo parli di lavoro, mi spiace che per 6 mesi se ne sia dimenticato: ho sentito perfino qualche esponente del governo sbeffeggiare i giovani che il primo maggio saranno in piazza a festeggiare mentre loro lavorano, mi verrebbe da dire che con le loro retribuzioni è legittimo essere impegnati sempre”. “In base alle bozze che vediamo – rimarca Bombardieri – solleviamo due temi: i salari e la perdita del potere d’acquisto e poi la precarietà, se i giovani non hanno un posto di lavoro stabile è complicato possano pensare al futuro”.

Si apre una nuova stagione referendaria per il riscatto civile

L’assemblea che si è tenuta il 22 aprile presso la Casa internazionale delle donne, a Roma, per iniziativa della Rete dei numeri pari, protagonisti Gaetano Azzariti e Giuseppe de Marzo, può costituire l’avvio di una ripresa della lotta politica  unitaria della sinistra in Italia.  All’assemblea hanno preso parte, Elly Schlein, da remoto, insieme a Marta Bonafoni e Marco Furfaro per il PD, Giuseppe Conte per i 5S, Barbara Tibaldi per la Fiom, Maurizio Acerbo  per Rifondazione comunista, Luigi de Magistris per Unione popolare e tanti altri. Ricordo e sottolineo: Unione Popolare, una formazione politica della sinistra  il cui nome viene  taciuto con sistematica faziosità un po’ da tutti i giornali, perfino, in questa occasione, dal Manifesto (23 aprile). Per brevità  devo rinunciare a citare i tanti che sono intervenuti a nome  di diverse associazioni attive nei vari territori del Paese. Inizio col sottolineare che il primo e più importante merito degli organizzatori è stato esattamente quello di mettere insieme  così tante e diverse realtà culturali e politiche, di far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti di ben 700 associazioni e i maggiori leader della sinistra.  Risultato, non si fa fatica a immaginarlo, di un paziente lavoro di raccordo, di tessitura di rapporti fra esponenti politici e militanti che, di norma e da anni, continuano a battere sempre lo stesso sentiero, a occupare la propria nicchia, incomunicanti gli uni con gli altri, con iterativo e sterile conformismo. Ed è questa l’occasione per dire una sgradevole verità. Circola, nella sinistra italiana, e a volte costituisce una sua cifra dominante, una perniciosa illusione idealistica: la persuasione che sia sufficiente  elaborare discorsi politicamente ineccepibili per trasformare le parole in azioni, iniziative dotate di una qualche incisività. Come se la parole, e spesso le chiacchiere, potessero sostituire l’azione.  E l’azione in politica – specie in questa fase storica – è  soprattutto l’oscuro lavoro organizzativo, la tessitura di legami tra persone con diverse culture ed esperienze, lo sforzo paziente di coinvolgimento in un progetto comune di donne e uomini, spesso segnati da risentimenti e delusioni, sospetti  e gelosie, risultato di decenni di lacerazioni e di conflitti interni.
L’altro evidente merito degli organizzatori di quell’assemblea è di aver pensato ad essa non come ad un evento una tantum, ma come l’inizio di un percorso organizzativo, di una modalità di lavoro comune che potrebbe orientare e promuovere, nei mesi a venire, iniziative di lotte unitarie come non se ne vedono da anni nel nostro Paese. La costituzione di un tavolo permanente di consultazione, proposto il 22 aprile, potrebbe, se ben condotto, costituire un punto di svolta nel campo della sinistra, inaugurare la sperimentazione di come possono cooperare e reciprocamente arricchirsi i partiti e i movimenti, gli organismi politici variamente strutturati, e le associazioni fluide e frammentate, disperse nei territori, a cui non va chiesto  di cambiare la loro natura. Nessuno può negare che a dare un così rilevante significato all’iniziativa della Rete dei numeri pari sia stata la presenza, insieme a tante altre forze politiche a cui di solito si dà l’ostracismo (come Rifondazione comunista  e Unione Popolare), dei leader dei due maggiori partiti dell’attuale sinistra istituzionale. La presenza di  Giuseppe Conte e soprattutto di Elly Schlein, non era per niente scontata. Siamo onesti. Chi, sino alla conquista della segreteria  da parte  di questa donna, avrebbe mai potuto immaginare un segretario del Partito democratico partecipare a una assemblea come quella ospitata dalla Casa Internazionale delle donne? So bene che nel campo della sinistra radicale si guarda alla figura della nuova segretaria con sospetto e si tende a sottovalutare gli elementi  potenziali di rottura da lei introdotti nella natura e condotta di quel partito. Il mancato rifiuto di continuare a fornire armi all’Ucraina rafforza indubbiamente questa posizione. Io credo, tuttavia, che dovremmo, almeno in via preliminare, separare i giudizi nei confronti della Schlein da quelli dovuti al Partito Democratico. Consegniamo alla storia la certificazione di una verità difficilmente contestabile. È stato esattamente questo partito a determinare, rispetto ai grandi Paesi europei, lo specifico declino della politica di sinistra in Italia. il più grave arretramento della classe operaia e dei ceti popolari, la riduzione del welfare, la marginalizzazione della scuola e dell’Università, l’assalto privatistico alla sanità ai beni pubblici. Un partito che ereditava il patrimonio ideale della più influente sinistra dell’Occidente si è trasformato – dopo il “lavoro sporco” di apertura al neoliberismo da parte di Pds e Ds – nello strumento di applicazione dei dettati imposti dal capitalismo nazionale ed europeo, senza dare ai ceti popolari colpiti la possibilità di reagire, di organizzare un fronte di difesa. I colpi venivano infatti non da un nemico esterno riconoscibile, ma da un soggetto “amico”, che un tempo li aveva difesi. La condotta del Pd negli ultimi 15 anni è una chiave essenziale per comprendere  lo specifico marchio politico del caso italiano. E questo in ragione delle delusioni e dei risentimenti generati tra le grandi masse popolari, che hanno perso ogni punto di riferimento anche culturale, a causa del condizionamento del sindacato, delle leggi di governo con cui ha reso precario il lavoro, messo ai margini le nuove generazioni, abbandonato agli appetiti fondiari il territorio e gli habitat della Penisola. Il Pd che è diventato “la sinistra” nel lessico corrivo dei media e del ceto politico, non solo ha inflitto un grave danno d’immagine a una grande tradizione storica, ma ha anche reso confuso l’orizzonte, dispersa  qualunque prospettiva di lotta mirata all’emancipazione dei subalterni.
E tuttavia io credo che il tentativo di Elly Schlein di cambiare natura e condotta di tale partito vada considerato con attenzione e positivamente. Intanto, ricordo che la sua operazione di conquista della segreteria, segno di non comune capacità di manovra, rappresenta, dopo il governo Meloni. l’unica novità di rilievo nel panorama stagnante della politica italiana. E certo non usa un metodo efficace di valutazione chi giudica questa figura stendendo un’anamnesi medica del suo passato. Nel Paese di Machiavelli più proficuamente dovremmo giudicarla tenendo conto delle sue “convenienze” politiche. E quali sono le convenienze di Elly Schlein se non quelle di occupare il vasto spazio di consenso che si apre a sinistra, in competizione/alleanza con i Cinquestelle? Diversa considerazione va fatta sulle possibilità che l’aggregato di poteri  che è il Pd le concederà, e fino a che punto arriverà la sua disponibilità al compromesso. La sua posizione sulla guerra in Ucraina costituisce un grave ostacolo alla sua convincente collocazione in uno spazio di sinistra. Innanzi tutto perché è incompatibile con la Costituzione e contribuisce alla continuazione della guerra. In secondo luogo perché una forza di sinistra è obbligata ad avere uno sguardo storico sul presente: e una prospettiva più ampia ci dice che quella in corso non è una guerra di liberazione nazionale degli ucraini. Ma un conflitto lungamente perseguito dagli Usa, che utilizza un esercito non suo – un “guerra per procura”, come ormai si riconosce anche in ambienti americani –  facendo leva su due nazionalismi in urto reciproco. Fornire armi all’Ucraina, com’è ormai evidente, significa  sostenere il progetto americano di un dominio su scala planetaria, che prepara lo scenario della guerra prossima contro la Cina. Che cosa c’è più di destra, oggi, dì più devastante, per il genere umano e per l’ambiente, che la strategia bellicosa della Nato? Tuttavia, nell’attuale condizione in cui versa il Paese, avere almeno una parte del Pd impegnata in una lotta intransigente al governo più ferocemente antipopolare nella storia della Repubblica non sarebbe un acquisto da poco. A chi nel nostro campo introduce nella discussione i veleni del risentimento, umanamente comprensibili, quando si profilano alleanze con altre forze, occorre ricordare che la sinistra radicale, in tutti questi anni, ha sacrificato alla propria purezza identitaria la ricerca dell’unità tra le forze in campo. Quell’unità che forse ci avrebbe salvato dall’attuale impotenza. Perciò il “tavolo”  istituito il 22 aprile, la Casa delle donne e i movimenti della donne, potrebbero svolgere una funzione preziosa di raccordo di un vero fronte antifascista. Perché questo governo è fascista nella sua intima cultura  e nella sua prassi  al  di là delle reticenze, e malgrado gli occasionali contrappesi degli alleati della Meloni. Ma occorre aggiungere una ulteriore considerazione. Il “tavolo” potrebbe coordinare le tante forze che oggi stanno finalmente entrando sulla scena politica con iniziative dirompenti: i referendum. È la grande novità di questo momento: sta per aprirsi una nuova stagione referendaria con quesiti già pronti e per i quali si stanno già raccogliendo le firme, come quello sul disarmo e sulla sanità, promosso da Generazioni future, e quello sul disarmo proposto dal comitato Ripudia la guerra. Ma già da febbraio si raccolgono le firme per alcun proposte di legge di iniziativa popolare con la campagna “riprendiamoci il comune”, per la riforma della finanza locale e ripubblicizzazione della Cassa depositi e prestiti, promossa da Arci, Attac e vari altri gruppi. Mentre nuove proposte consimili stanno per apparire, come quello per il Salario minimo da parte di Unione popolare o quello di Felice Besostri, Enzo Paolini e altri giuristi per la riforma in senso proporzionale della legge elettorale.  Altri progetti referendari sono in corso di elaborazione, riguardanti il Jobs act, la sanità, i beni comuni, le leggi sull’immigrazione. Siamo dunque di fronte al ribollire di iniziative e di aperture di fronti di lotta, segno di una mai sopita volontà di riscatto in tanti ambiti della vita italiana, che però procedono in maniera caotica, slegati gli uni dagli altri. Una regia unitaria sarebbe oggi quanto mai necessaria. Essa renderebbe possibile lo svolgimento di una campagna politica di ampio respiro, nella quale migliaia di attivisti incontrano i cittadini nelle strade e  nelle piazze d’Italia, fuori dalla bolla di menzogne dei media, in grado di fare emergere l’idea di Paese  giusto,  solidale e democratico che vogliamo. Un punto di partenza, anche per incominciare a rovesciare, con iniziative dal basso, leggi e poteri  imposti dalla  controrivoluzione neoliberistica degli ultimi decenni.

Erano pronti, piacciono ai competenti ma sono una manica di dilettanti

Non era mai accaduto, mai. Basta già questo per descrivere le proporzioni di quello che è accaduto il 27 aprile alla Camera quando la risoluzione sullo scostamento di bilancio da 3,4 miliardi di euro nel 2023 e 4,5 miliardi nel 2024, prevista nel Def, non è passata alla Camera. Nemmeno Giorgia Meloni, abituata a rimodellare i fatti a suo piacimento, ha potuto esimersi dal definirla una «brutta figura, siamo tutti responsabili». La risoluzione aveva bisogno di 201 voti a favore ma la maggioranza è stata mancata per 6 voti. Nella compagine di governo mancavano 11 leghisti, 9 forzisti e cinque deputati di Fratelli d’Italia.

Rimarrà negli annali la scena del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli che osserva pietrificato il risultato, chiede a un commesso cosa stia succedendo, rimane disorientato sulla sedia e infine mesto dichiara la risoluzione respinta. L’esame del Def verrà ripreso «nelle modalità che saranno decise dalla conferenza di gruppo acquisite tutte le necessarie informazioni» ha detto nell’aula di Montecitorio il vicepresidente Fabio Rampelli. Durante le riunioni dei capigruppo al capogruppo di Fratelli d’Italia balena una grande idea, ripetere la votazione. Peccato che no, non si può.

Subito dopo che la Camera ha respinto la risoluzione è stato convocato un Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno il Documento di economia e finanza 2023. La riunione lampo, su proposta del ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, ha approvato una nuova relazione al Parlamento. Restano confermati i saldi di finanza pubblica già riportati dal Documento di economia e finanza 2023, mentre la nuova relazione sottolinea le finalità di sostegno al lavoro e alle famiglie oggetto degli interventi programmati per il Consiglio dei ministri già fissato per l’1 maggio. L’Aula della Camera è stata quindi convocata questa mattina alle ore 9 per la discussione generale. Le dichiarazioni di voto inizieranno alle 10 mentre il voto è atteso intorno alle 11.30, così come ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio: le Commissioni hanno esaminato il nuovo scostamento ieri sera.

«Nessun problema politico, è che i deputati o non sanno o non si rendono conto». Così il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti uscendo dall’aula della Camera, visibilmente irritato. Solo che il fatto che “i deputati non si rendono conto” è un problema politico, eccome. Un nostro problema.

Buon venerdì.

Nella foto: frame del video della votazione alla Camera, 27 aprile 2023

Si muove perfino la Cina. E l’Europa resta inerte?

La telefonata del presidente cinese Xi Jinping al premier ucraino Volodymyr Zelensky riporta in primo piano, dopo l’attivismo mostrato nei mesi scorsi dal turco Recep Erdoğan, l’assoluta incapacità di noi europei di svolgere un ruolo autonomo da Washington nel conflitto in corso sul nostro stesso continente. Eppure, appena due settimane fa, nel volo di ritorno dalla Cina, dialogando con due giornalisti dopo aver trascorso sei ore in compagnia di Xi Jinping, Emmanuel Macron aveva rilasciato dichiarazioni non ambigue sulla necessità dell’Europa di affrancarsi dalla tutela americana per raggiungere quella che ha chiamato autonomia strategica in campo economico e militare. Il presidente francese aveva espressamente usato il termine «vassalli» per indicare la condizione alla quale gli europei non dovrebbero soggiacere per divenire terzi fra la potenza attualmente egemone, gli Stati Uniti, e quella crescente della Cina. Ventiquattro ore dopo, con l’intento di non irritare troppo i funzionari imperiali a Washington, l’Eliseo aveva corretto parzialmente il tiro precisando che la Francia non è equidistante dagli Usa e dalla Cina in quanto condivide valori comuni con la prima delle due grandi potenze mondiali.

A queste dichiarazioni avevano fatto eco con immediatezza l’ex presidente americano Donald Trump, per il quale Macron è un amico ma sta letteralmente «baciando il culo» (kissing ass) alla Cina, e il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, che le ha definite infelici perché l’Europa è alleata, non vassalla degli americani. Excusatio non petita accusatio manifesta. Più esplicitamente negative le reazione di altri paesi europei, in particolare dell’Est. In prima fila il premier polacco Morawiecki che, in visita negli Usa, ha negato la necessità di autonomia evidenziando semmai il bisogno di rafforzare i rapporti esistenti con l’alleato americano. Strano alleato, invero, quello americano. Due anni fa la televisione pubblica danese DR rivelò che i servizi segreti americani avevano potuto contare sugli apparati di intelligence di quel Paese per spiare Angela Merkel, Frank-Walter Steinmeier e altri leader politici europei fra il 2012 e il 2014, sotto la presidenza Obama. Così anche i documenti resi pubblici nel 2013 da Edward Snowden hanno rivelato il controllo sistematico dei diplomatici dell’Unione europea in missione negli Usa e ancor prima, grazie a Julian Assange, sappiamo dello spionaggio politico esercitato dagli americani sui leader europei e persino di quello economico ai danni della Bce. Spiati dall’alleato come mostrano anche le recenti fughe di carte segrete dalla Nsa, l’agenzia di sicurezza americana. Ora, al di là del contesto nel quale le dichiarazioni sono state fatte e che possono renderle sospette di voler catturare la benevolenza cinese, non c’è dubbio che Macron abbia colto un aspetto tutt’altro che marginale della condizione in cui si trova l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Vittorio Emanuele Parsi su Il Foglio, cogliendo al volo l’occasione per rimbrottarlo di essere tra gli ultimi sostenitori concreti dello sforzo militare alleato in Ucraina, ha ricordato a Macron che la sicurezza dell’Unione europea di fronte «alla minaccia esistenziale avanzata dalla Russia di Putin» sta tutta nella relazione atlantica. Per molti giorni abbiamo atteso invano qualche altro commento soprattutto da parte della politica italiana. Possibile che non abbia nulla da dire? Ipotizziamo che la prima ministra la pensi con Il Foglio e non voglia esporsi a nuovi screzi con Parigi ma la sinistra, nelle sue varie articolazioni, che ne pensa? È in grado di disgiungere il giudizio che si può dare sulla politica interna di Macron da quello che, invece, andrebbe dato sulla sua aspirazione a un’Europa libera da ogni genere di vassallaggio? È consapevole che le maggiori conquiste nel secolo scorso, dal welfare ai diritti civili, sono messe in crisi e fanno passi indietro proprio grazie all’incapacità dell’Europa di assumere un ruolo unitario e autonomo sulla scena internazionale?

 

Storico e saggista Pino Ippolito Arminio ha da poco pubblicato Indagine sulla morte di un partigiano (Bollati Boringhieri)

Ddl Cutro, il 28 aprile a Roma “Non sulla nostra pelle”

Hanno deciso di parlare anche loro. Gli stranieri che da noi sono diventati carne da cannone per la propaganda elettorale avrebbero qualcosa da dire. A pensarci bene in un Paese normale dovrebbero essere interpellati per conoscere le storture e le esigenze di un sistema di accoglienza che viene sventolato ma su cui ci si interroga pochissimo.

Per questo la manifestazione di domani a Roma in piazza dell’Esquilino è un evento politico, oltre che umanitario, che andrebbe ascoltato con cura. “Siamo quelli che sono sopravvissuti al Mediterraneo e alla rottabBalcanica, che scappano da fame, guerre, catastrofi ecologiche, dal saccheggio delle nostre terre, dagli effetti delle vostre politiche neocoloniali e delle vostre multinazionali. – scrivono i portavoce delle molte associazioni che hanno lanciato la manifestazione “Non sulla nostra pelle” – Siamo i vostri braccianti, i vostri operai, i vostri badanti, i vostri facchini, i vostri negozianti. Siamo la vostra ricchezza! Siamo quelli che dormono nei ghetti dei campi, che dormono per strada, che non trovano casa, che pagano affitti stellari. Guardati dall’alto in basso, trattati in modo razzista”.

Gli organizzatori denunciano di essere spesso trattati come “come corpi da abusare, sfruttare, violentare”, senza nessuna rappresentanza politica nonostante concorrano alla crescita del Paese. Non manca, inevitabilmente, l’attacco al governo per il cosiddetto decreto Cutro: “Si prova a fermare gli sbarchi pagando criminali libici, appaltando ai campi di concentramento la gestione della frontiera, – scrivono – cercando di impedire alle Ong di salvare vite. Ma tutto questo non serve. Salvini e Meloni avevano promesso meno sbarchi, hanno preso voti sull’odio e la paura, ma gli sbarchi continuano e continueranno. Finché l’alternativa sarà fra morire e provarci, ci proveremo sempre”.

Le loro proposte sono quelle delle molte associazioni che si occupano di diritto di asilo: “No al decreto del governo Meloni; Basta accordi del governo italiano con la Libia; Basta guerra alle Ong che operano salvataggi; Vie di accesso legali e corridoi umanitari;
Per una politica di pace: stop alla vendita di armi e alla partecipazione italiana ai conflitti, sì alla cancellazione del debito per i paesi del sud del mondo; Perché i soldi dell’accoglienza non vadano in sprechi e speculazione, ma siano usati per inclusione e formazione;
Contro i tagli al reddito di cittadinanza, per una sua estensione; Vogliamo la regolarizzazione dei braccianti, dei facchini, dei rider, degli operai e di tutte le lavoratrici e lavoratori immigrati; Vogliamo controlli più rigorosi alle aziende, al fine d’impedire il caporalato e lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori tutti”.

L’appello è sottoscritto da decine di associazioni di stranieri in Italia, da Ong e da associazioni italiane che si occupano di accoglienza. Chissà se oltre a usarli qualcuno prima o poi, dalle parti del governo, avrà anche il coraggio di ascoltarli e di dargli delle spiegazioni.

Buon giovedì.