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La forza della nonviolenza

Quest’ultimo anno la cultura della guerra e della violenza sembra che abbiano preso spazio, almeno in certi media. Come l’editoria e i giornali nonviolenti sono riusciti a affrontare questa situazione? Quali sono state le cose più significative? Lo abbiamo chiesto a Mao Valpiana presidente del movimento nonviolento e coordinatore dell’omonima casa editrice che sarà fra i protagonisti dell’Eirenefest di Roma anche quest’anno.

«La guerra, e tutto ciò che la prepara e ne consegue, è pervasiva. Gli interessi economici che vi stanno dietro (quindi legati soprattutto all’industria bellica, prima, e alla “ricostruzione”, poi) sono gli stessi che finanziano il generale sistema dei media. I capitali che sostengono la produzione di armi, sono gli stessi che finanziano gli editori della comunicazione “bellicista”. La guerra ha bisogno di consenso, e se lo compera come una merce qualsiasi. È sempre stato così, e funziona. Basta vedere storicamente il ruolo della stampa e della propaganda nel corso della prima guerra mondiale», risponde Valpiana. «Non c’è quindi da stupirsi, purtroppo, se lo stesso meccanismo viene applicato alla guerra moderna»

Anche in Italia molti giornali generalisti si sono “messi l’elemetto”?

Sì alcuni per convinzione, altri per interesse, altri ancora si sono semplicemente venduti a chi paga bene. Contrastare questa tendenza, per chi come noi è ricco solo di ideali ma ha il portafoglio vuoto, è difficile. Difficile, ma non impossibile. E infatti, nonostante il fiume di denaro che i “padroni della guerra” hanno messo anche nell’informazione (meglio sarebbe chiamarla “disinformazione”), l’opinione pubblica italiana non si è fatta abbindolare, se è vero – come è vero – che i sondaggi registrano che la maggioranza del paese è negativa rispetto alle posizioni e alle scelte del governo di partecipazione alla guerra. I nostri giornali (parlo per la nostra rivista “Azione nonviolenta”) hanno affrontato il tema con approfondimenti specifici. In particolare noi abbiamo fatto la scelta di dare la parola alle vittime delle guerra e di amplificare nel nostro Paese le posizioni e le attività dei movimenti pacifisti dei paesi coinvolti nel conflitto, Russia, Ucraina e Bielorussia.

Se vuoi la pace prepara la pace: come possiamo, individualmente e collettivamente lavorare per quest’obiettivo?

La nonviolenza è prima di tutto prevenzione. Il conflitto va trasformato e gestito prima che esploda la violenza degeneratrice. Fermare una guerra prima che avvenga è molto più efficace che farlo quando la parola è passata alle armi. Poi tutto si complica maledettamente, e a quel punto ci si può impegnare per limitare i danni, per aiutare o soccorrere, ma diventa quasi impossibile fermare le bombe con la nonviolenza. Per questo la strategia nonviolenta è quella preventiva, lavorare oggi per preparare la pace di domani. Maria Montessori diceva: “facciamo la pace, un bambino alla volta”. C’è un grande investimento nel futuro, una fiducia nel lavoro educativo, in questo suo importante insegnamento. Dunque il lavoro per la “educazione alla pace” è fondamentale. L’editoria, la comunicazione, l’informazione giovano un ruolo decisivo in questo senso.

Ho la sensazione che la nonviolenza come tematica e pratica stia prendendo peso nelle società, che il tema -alla violenza si risponde con nonviolenza – abbia più spazio: come la vedi tu?

Certamente in questi ultimi decenni si sono fatti molti progressi. Quando da ragazzino (ormai più di mezzo secolo fa…) ho iniziato ad interessarmi e frequentare la nonviolenza, venivamo totalmente ignorati, o peggio derisi, e poi repressi. Gli obiettori di coscienza venivano messi in carcere. Avevamo tutti contro, partiti, istituzioni. Le voci che si levavano a favore della nonviolenza, dell’obiezione di coscienza, contro la scelta militare e contro la violenza politica, erano isolatissime. Oggi, dopo cinquant’anni di iniziative, mobilitazioni, organizzazione, finalmente la nonviolenza è divenuta “discutibile”, cioè degna di essere discussa. Anzi, molte ideologie che sembravano solidissime, sono tramontate nel nulla. La storia del Novecento ha condannato figure che impersonificano imperi che sembravano invicibili: Hitler e Stalin sono stati condannati dalla storia, e solo la figura di Gandhi è rimasta a portare luce anche alle generazioni di oggi. Il messaggio della nonviolenza è l’unico del Novecento che resta valido anche per il nuovo secolo, l’unico esente dal fallimento. Certo, la guerra vuole ancora farsi spazio, ma le nuove generazioni hanno capito che come diceva Gandhi “occhio per occhio e tutto il mondo diventa cieco”. La nonviolenza è l’unica alternativa possibile. L’unica che funziona davvero.

Il movimento nonviolento ha lavorato in questi tempi molto sul tema della obiezione di coscienza e presenterà anche a Eirenefest la sua proposta: ce la puoi raccontare?

L’obiezione di coscienza è il fondamento della nonviolenza. Per fermare la guerra bisogna non farla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare. La forza della nonviolenza sta in queste semplici verità. Per questo dentro alle parti in conflitto, sia tra gli aggrediti che tra gli aggressori, abbiamo scelto coloro che comunque vogliono sottrarsi alla logica della violenza  e decidono di praticare già oggi le vie della pace. I movimenti nonviolenti sono presenti (anche se minoritari) sia in Russia, Bielorussia e in Ucraina. Sono i nostri interlocutori e con loro sosteniamo gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva che non vogliono combattere con le armi, che spezzano i loro fucili. La campagna di “Obiezione alla guerra”, che presenteremo anche ad Eirenefest, consiste nell’aiuto concreto ai giovani che rifiutano l’arruolamento, fornire la difesa legale, il sostegno anche economico, l’aiuto per l’espatrio. Anche se la stampa ufficiale non ne parla, e se in Russia e in Ucraina il fenomeno viene negato, nascosto, censurato, sono migliaia e migliaia i giovani che hanno scelto questa strada. Vengono dipinti come “traditori”, nemici della patria, vigliacchi, ma sono in realtà gli unici che amano la propria patria, senza odiare quella altrui, gli unici delle due parti che già si parlano, che lavorano insieme, che mettono in atto progetti di pace. La richiesta che facciamo ai governi dell’Europa, è quella di aprire le porte, di accogliere come fratelli gli obiettori di coscienza russi e ucraini, di riconoscere loro lo status di “rifugiati politici” e di offrire loro asilo e protezione. Anziché dare armi per alimentare il fuoco della guerra, accogliamo chi il fuoco lo vuole spegnere. La pace futura passa da qui.

L’intervista a Mao Valpiana è stata realizzata da Olivier Turquet coordinatore italiano di Pressenza e ideatore dell’Eirenefest, che si tiene a Roma

Le mani insanguinate di Haftar

Per comprendere quali siano i programmi del governo italiano per aiutarli “a casa loro” basta ripercorrere la giornata di ieri, quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni s’è intrattenuta per stringere le mani lordate di sangue di Khalifa Haftar, fresco di condanna come criminale di guerra l’anno scorso in un tribunale della Virginia.

È lo stesso Haftar che fu braccio armato di Gheddafi nel Ciad. Fatto prigioniero dai ciadiani prima di essere liberato dagli Usa dove si trattene giusto il tempo di aspettare la caduta del “dittatore libico” (qui da noi si diventa dittatori solo quando si diventa inutili) per tornare in Libia a tentare golpe a ripetizione.

Il curriculum sanguinario non ha impedito a Haftar di varcare le soglie di Palazzo Chigi. Per il governo italiano “l’uomo forte della Cirenaica” è un “tappo”. Chiedono a lui di bloccare le partenze dalla regione (10mila su 17mila nel 2023 secondo i dati ufficiali del governo). Non è troppo difficile immaginare quali siano i metodi che Haftar sia disposto a utilizzare. Ma questo non conta. Ci si affida alla memoria molle degli italiani che dal 2017 digeriscono il memorandum libico firmato dall’ex ministro del’Interno Minniti. Non sarà difficile firmarne un altro anche con lui.

Non è nemmeno difficile immaginare quali potrebbero essere i dettagli dell’accordo. Al ras libico interessano i soldi e i mesi per “contenere le partenze”, che è la formula diplomatica per condonare le illegittime detenzioni e le violenze. Giorgia Meloni penserà di avere trovato un alleato fedele – lo pensano da anni della cosiddetta Guardia costiera libica – e invece sta semplicemente legittimando l’ennesimo signorotto di una Libia che è una polveriera di autocrati locali che cercano un equilibrio nazionale.

Haftar però non ha nessun interesse nel bloccare le partenze. Haftar, come tutti gli autocrati a cui l’Europa prova ad appaltare il controllo delle frontiere, esiste ed è potente proprio grazie alle partenze. I migranti sono la leva con cui ha potuto fregiarsi di un incontro ufficiale con la presidente del Consiglio italiana e con il ministro degli Esteri italiano.

Può bastare un particolare. Ieri Giorgia Meloni ha stretto le mani insanguinate di Haftar per chiedergli di bloccare le partenze dalla Cirenaica che secondo diverse fonti locali è gestita da Saddam Haftar, figlio del generale. Eccoci qui.

Buon venerdì.

Dai roghi delle streghe ai femminicidi di oggi. Il libro di Maria Mantello

un frame del film su Giordano Bruno interpretato da Volonté

Sesso Chiesa Streghe, una storia vecchia e nuova di femminicidi di Maria Mantello è un libro denso, frutto di un accurato lavoro di ricerca, informato alla grande passione civile che l’autrice  mette in tutte le sue numerose attività. Pubblicato da Fefé edizioni è un libro ricco di informazioni precise, scritto in un linguaggio accessibile a tutti (parlar oscuro lo san fare molti, ma chiaro pochissimi, diceva Galileo) e intriso di… sacrosanta indignazione. Un libro in cui le opinioni sono fondate su fatti storici, documentati, fatti che hanno plasmato l’immagine della donna nel corso dei millenni, fino all’oggi della liberazione sessuale, che autentica liberazione non è se non accompagnata da studio e consapevolezza. Con lucidità, stile asciutto e abbondanza di esempi, Maria Mantello, dimostra come si sia creato nel tempo, ad opera essenzialmente della Chiesa, quel modello femminile di subalternità che ha attraversato i secoli e non è ancora scomparso. Comincerò trasgredendo a una precisa ingiunzione di Paolo di Tarso: «Le donne nelle riunioni devono tacere, se vogliono essere istruite in qualcosa interroghino i loro mariti a casa, perché è indecoroso che una donna parli in pubblico». E ancora: «Non permetto alla donna di insegnare, né d’usare autorità sul marito, ma stia in silenzio».
Toccherò qui di necessità solo alcuni dei temi trattati nel libro, che spiega egregiamente come si sia andato formando nei secoli il modello sociale per il controllo della donna, a partire dal racconto biblico della cacciata di Eva e Adamo dal paradiso terrestre. Ma quello che nel primo libro della Genesi è una metafora dell’inizio della vita biologica e storica, nel 67 d.C. diviene, con Paolo di Tarso e la sua caduta da cavallo, il peccato originale, che fa di ogni essere umano a seguire, e quindi anche di tutti noi oggi, un peccatore, un dannato ancor prima di compiere qualsiasi azione.
I padri della Chiesa, accentuando il ruolo di Eva, giungono a identificare il peccato originale con la sessualità e fanno a gara nel descrivere la donna come un essere immondo. Il modello per la donna costruito dalla Chiesa è quello della madre di dio, sempre vergine, che sa della propria gravidanza a evento già in corso, e vergine è il suo sposo Giuseppe, e  vergine è anche sua madre Anna… e forse persino i nonni!
In un denso, documentato excursus storico, che non è possibile riassumere, si giunge all’ancor vivo maschilismo attuale, e agli inaccettabili casi di femminicidio. Lascio ai lettori le amene – o per meglio dire terrificanti – pagine riguardanti, fin dai primi secoli dell’era cristiana, la considerazione in cui sono tenute le donne.
La verginità di Maria, dogma col Concilio Lateranense del 649, viene ribadita da Paolo IV nel 1555, anno in cui istituisce i ghetti per gli ebrei. Il matrimonio diviene sacramento nel 1439, ma anche in esso, tuttavia, il rapporto sessuale rimane al centro di un interesse morboso, la donna è considerata un essere lussurioso, occorre star lontani da lei, non cedere al “piacere”. E non mancano in proposito da parte della Chiesa i consigli sul come comportarsi nell’atto sessuale (sul cosiddetto abbraccio riservato, come mero atto fisico e mirante a evitare il piacere, si è continuato a discorrere fin oltre la metà del secolo scorso).
Nel 1854 Pio IX proclama il dogma dell’immacolata concezione di Maria. Quattro anni dopo, 1858, a Lourdes, a una giovinetta di 14 anni appare una signora biancovestita la quale alla sedicesima apparizione si decide a parlare, affermando di essere l’immacolata Concezione. Non basta, nel 1917 una donna, sempre biancovestita, con in mano un rosario appare a tre pastorelli a Fatima. Chi sarà mai? Infine nel 1950 Pio XII proclama l’assunzione in cielo della Vergine, anima e corpo, in carne e ossa.
Seguono ricche pagine circa la vocazione delle donne e il loro inserimento nella società di oggi, che dimostrano come per la Chiesa la donna ideale sia ancora quella votata alla procreazione e all’accudimento.
Quanto ai papi che seguono, Woytila, Ratzinger e Bergoglio, parlano tutti di uno speciale statuto di “dignità della donna”, coincidente con il binomio verginità-maternità. Ancora una volta la castità a garanzia di spiritualità, la realizzazione della donna in quel fiat voluntas tua da lei pronunciato all’annuncio del famoso angelo. Madre e sposa per vocazione, e che stia al suo posto. Quanto lontano da quel sapere aude che perfino Immanuel Kant
Molto interessanti le pagine riguardanti il persistere del culto di dee pagane in epoca cristiana. In particolare quello di Diana, che dopo il Mille sarà associata alle streghe e ai loro sabba. Si istituiscono i Tribunali dell’Inquisizione, si accendono i roghi degli eretici, gli ebrei sono costretti a indossare un segno distintivo. Chi collabora alla caccia dei sospetti – vale la testimonianza di chiunque, infami, delinquenti, spergiuri – gode di indulgenze e privilegi vari, quali la spartizione dei beni del condannato. Eresia e stregoneria vengono a confondersi.
Eliminati valdesi, albigesi, catari, falcidiati gli ebrei al tempo della peste nera, rimangono le streghe. Che sono donne e pertanto più pericolose. Per Tommaso d’Aquino, sec. XIII, la donna è un essere umano incompleto (aliquid deficiens). All’ideale di sottomissione del tempo si sottraggono le streghe, levatrici, medichesse, guaritrici, maghe, donne che hanno una loro indipendenza e perciò streghe. L’accusa: il patto stipulato col demonio attraverso l’unione carnale. La tortura è lo strumento per la confessione.
Si diffonde la paura che le pratiche erboristiche nascondano rituali diabolici, le streghe sono accusate di infanticidio e cannibalismo. Accusa questa utilizzata dalla Chiesa nei secoli a seguire, anche contro gli ebrei. Ricordo che nell’oggi civilissima Trento, fino al 1965 (!) a Pasqua si portava in processione il corpo di san Simonino, un bambino che nel 1475 sarebbe stato rapito dagli ebrei al fine di usarne il sangue per un dolce tradizionale.
In questo delirio collettivo non mancano voci di dissenso. Giordano Bruno, in piena caccia alle streghe, ribalta addirittura il modello sessista pronunciando una potentissima invettiva contro i persecutori, affermando che chiunque, sotto tortura, confesserebbe.
Non esito a definire sconvolgente il cap. IX che contiene documenti e atti dei processi reali a tre donne accusate di stregonerie. Il processo consiste nella reiterazione delle domande, fino a che esse, sottoposte a visita per trovare sul loro corpo il marchio di Satana, minacciate, torturate, le ossa spezzate, fanno una confessione che si conforma allo stereotipo della strega. A carico delle donne, i cui beni sono sequestrati, vanno le spese del processo, il costo dei pasti, dei carcerieri, della tortura e anche del rogo!
In età giacobina, di fronte all’avanzare delle truppe napoleoniche, e delle idee rivoluzionarie, si assiste in Italia a un dilagare di Madonne piangenti o almeno che muovono gli occhi, in atteggiamento inequivocabilmente…. anti progressista! A Roma, in via delle Botteghe Oscure, una lapide ricorda quel movimento d’occhi del 1796.
Tante sono le donne ricordate nel libro che si distinguono nel Risorgimento, che si battono per il suffragio universale, mazziniane, garibaldine, che si sottraggono agli schemi sessisti della gerarchia dei ruoli. Molte di esse pagano duramente la loro libertà d’azione, con le torture, la morte, il carcere.
I primi movimenti femministi sorgono nell’Ottocento in Inghilterra e Usa. Viene coniato il termine femminicidio, del quale si riconosce la specificità, non si tratta di un comune assassinio… Nella prima metà dell’Ottocento il filosofo liberale inglese John Stuart Mill, sotto l’influenza della moglie Harriet, ne La servitù delle donne lancia un atto d’accusa contro il ruolo di servizio della donna, considerato vocazione. La prima definizione soddisfacente di femminicidio in Italia compare per la prima volta con l’edizione 2009 nel dizionario Devoto-Oli.
Maria Mantello traccia anche una breve storia dell’emancipazione femminile, che senza il femminismo e le conquiste giuridiche ottenute non ci sarebbe mai stata. Oggi non sentiamo più parlare di verginità, di delitto d’onore, di matrimonio riparatore. Ma occorre vigilare, se si pensa che la violenza sessuale è all’ordine del giorno, e che la Chiesa continua a proporre lo stesso modello di soggezione della donna all’uomo (anche al suo interno, le donne non sono ammesse al sacerdozio, le suore hanno solo ruoli subordinati).
Nella mia ormai lunga vita ho assistito a grandi conquiste da parte delle donne, il modello patriarcale è stato infranto, molte di noi occupano posizioni di prestigio, sono stati scardinati tanti cliché e pregiudizi che ci riguardano, e tuttavia occorre vigilare, non dare nulla per scontato, e soprattutto occorre studiare. E ricordare che la cosa più importante che è stata sottratta alla donna nel tempo è l’istruzione. Privata dell’istruzione, essa è stata indotta a credere che la sua missione fosse la cura della casa e della famiglia. Ancora al tempo in cui frequentavo le medie inferiori nella scuola pubblica, esisteva, accanto all’insegnamento obbligatorio della religione, quello dell’economia domestica – cucina, ricamo – riservato e imposto alle sole bambine.
A conclusione del suo lavoro, Maria Mantello aggiunge delle note positive parlando della convenzione Onu del 1977 contro ogni forma di discriminazione; Il nascente associazionismo degli uomini contro il maschilismo e alcune campagne istituzionali con testimoni maschili che si sono fatte strada anche in Itala.
E tuttavia occorre stare in guardia. Nulla di quanto acquisito può essere dato per scontato.
Da qui, la raccomandazione: stiamo vigili, stiamo in guardia, leggiamo e diffondiamo libri come questo, soprattutto tra le nuove generazioni, spesso inconsapevoli delle difficoltà incontrate sul cammino di chi ha permesso a tante donne di oggi di affermarsi.

Le malintese emergenze

C’è un’emergenza climatica, che ormai dovrebbe toglierci il sonno (v. alluvioni e disastri in Emilia-Romagna in queste ore) e impegnare la politica, nazionale, regionale e locale a prendere decisioni sagge e non più rinviabili per un’uscita veloce dalle fonti fossili e da un modello di sviluppo energivoro, inquinante e causa di disastri sociali e ambientali.
E tuttavia l’emergenza climatica è sottovalutata e quando c’è da guardare alla luna, ci si ostina a soffermarsi sul dito.

Non c’è, invece, un’emergenza immigrazione perché si tratta di un fenomeno strutturale e tuttavia la politica si ostina a non trattarla come tale e a trasformarla, invece, in materia incandescente, motivo di scontro ideologico, arma di consenso e di distrazione di massa.
Mentre straripano i fiumi, si costruiscono nuovi argini per gli esseri umani.
Si inaspriscono le sanzioni contro gli scafisti ma si riempie il serbatoio delle mafie che gestiscono il traffico di esseri umani, dalla Libia per esempio, con la quale persistono accordi vergognosi dai tempi del governo Gentiloni (ministro dell’interno Minniti, ora presidente della fondazione Med Or di Leonardo spa) per trattenere le persone migranti nei campi di detenzione libici o riportarcele una volta intercettate in mare dalla guardia costiera tripolitana, che ci ostiniamo ad armare e finanziare.

Il decreto Cutro, ormai definitivamente convertito in legge, per esempio, è una risposta sbagliata, inefficace ma anche disumana alla crisi dei diritti fondamentali determinata dal modello – mai seriamente messo in discussione né da destra né da sinistra, negli anni di governo – della Bossi-Fini. Una legge che, non prevedendo seri, sicuri e praticabili canali di ingresso per le persone migranti, le consegna alla sempre più fiorente economia dell’irregolarità.

Clandestino è il governo, che appunto si nasconde dietro la narrazione emergenziale dei flussi migratori per guadagnare consensi, senza tuttavia affrontare i problemi, anzi aggravandoli.

La mortificazione della “protezione speciale” (il permesso di soggiorno durerà di meno, non sarà convertibile nemmeno per chi un lavoro ce l’ha già, diventerà una patente di temporaneità) aggraverà la condizione giuridica, materiale ed esistenziale di chi già viveva in un limbo (involontario) tra regolarità e irregolarità del soggiorno, favorendo lavoro nero, caporalato, sfruttamento, ricatto, economia sommersa e criminale. A margine del decreto Cutro, la macedonia di misure per dichiarare sulla carta sicuri Paesi che non lo sono affatto (Nigeria per esempio) trascinerà fuori dal perimetro della tutela che viene dal riconoscimento della protezione internazionale migliaia di persone che comunque non possono tornare indietro (i percorsi migratori quando nascono in Paesi dove i diritti umani sono calpestati, sono spesso irreversibili), costringendole a divenire invisibili.

Colpisce poi quello che, a dispetto del nome con cui è stato battezzato, il decreto Cutro non contiene: un meccanismo efficace di salvataggio delle vite in mare, com’era Mare nostrum. Anzi, a margine di tale decreto imperano prassi illegittime (rispetto alla Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati e al diritto internazionale del mare) come quella di allontanare le navi delle ong dal Mediterraneo, impedire i salvataggi plurimi, ritardare l’approdo nel porto sicuro più vicino.

Occorre rispondere con una batteria di progetti di legge capaci di leggere e governare il fenomeno con intelligenza e umanità, additando all’opinione pubblica un modello alternativo e credibile di gestione del fenomeno migratorio: riforma della legge sulla cittadinanza, abrogazione della Bossi-Fini e approvazione di una legge organica sull’immigrazione, che preveda l’ingresso per ricerca di lavoro, la libera convertibilità dei titoli di soggiorno, l’accesso senza discriminazioni dei lavoratori stranieri ai servizi pubblici, abrogazione dei “decreti-sicurezza” Minniti Orlando e Salvini, ripristino della protezione umanitaria, solo per indicarne alcuni.

L’autore: Andrea Maestri è ex deputato, avvocato immigrazionista

La Fondazione Gimbe lancia l’allarme: mancano pediatri, le famiglie sono in difficoltà

Secondo quanto riportato sul sito del ministero della Salute, il pediatra di libera scelta (Pls) – cd. pediatra di famiglia – è il medico preposto alla tutela della salute di bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni. Ad ogni bambino, sin dalla nascita, deve essere assegnato un Pls per accedere a servizi e prestazioni inclusi nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale (Ssn). «L’allarme sulla carenza dei Pls – afferma Nino Cartabellotta Presidente della Fondazione Gimbe – oggi è lanciato da genitori di tutte le Regioni, da Nord a Sud con narrative dove s’intrecciano questioni burocratiche, mancanza di risposte da parte delle Asl, pediatri con numeri esorbitanti di assistiti, sino all’impossibilità di esercitare il diritto d’iscrivere i propri figli al pediatra di famiglia con potenziali rischi per la salute, in particolare dei più piccoli e dei più fragili».

Al fine di comprendere meglio le cause e le dimensioni del fenomeno, la Fondazione Gimbe ha analizzato le criticità insite nelle norme che regolano l’inserimento dei Pls nel Ssn e stimato l’entità della carenza di Pls nelle diverse Regioni italiane. «È bene precisare – spiega Cartabellotta – tre aspetti fondamentali. Innanzitutto le regole sulle fasce di età di assistenza esclusiva dei minori, quelle per definire il “massimale” degli assistiti e quelle per identificare le aree carenti di pediatri sono frutto di compromessi con i medici di medicina generale (Mmg), oltre che delle politiche sindacali degli stessi Pls. In secondo luogo, su carenze e fabbisogno è possibile solo fare stime a livello regionale, perché la reale necessità di Pls viene stimata dalle singole Aziende sanitarie locali (Asl). Infine, sui numeri relativi ai nuovi specialisti in pediatria che intraprendono la carriera di Pls e su quelli che vanno in pensione possono solo essere fatte delle stime». 

CRITICITÀ ATTUALI 

Fasce di età. Sino al compimento del 6° anno di età i bambini devono essere assistiti per legge da un Pls, mentre tra i 6 e 14 anni i genitori possono scegliere tra Pls e Mmg. Al compimento dei 14 anni la revoca del Pls è automatica, tranne per pazienti con documentate patologie croniche o disabilità per i quali può essere richiesta una proroga fino al compimento del 16° anno. «Queste regole – spiega Cartabellotta – se da un lato contrastano con la definizione di Pls come medico preposto alla tutela della salute di bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni, dall’altro rappresentano un enorme ostacolo per un’accurata programmazione del fabbisogno di Pls». Infatti, secondo i dati Istat al 1° gennaio 2022 la fascia 0-5 anni (iscrizione obbligatoria al Pls) include più di 2,6 milioni di bambini e quella 6-13 (iscrizione facoltativa al Pls) quasi 4,3 milioni: ovvero oltre il 62% della fascia 0-13 anni potrebbe iscriversi ad un Mmg in base alle preferenze dei genitori. 

Massimale di assisiti. Secondo quanto previsto dal ministero della Salute, il numero massimo di assistiti di un Pls è fissato a 800, ma esistono varie deroghe nazionali, regionali e locali che portano spesso a superare i 1.000 iscritti: indisponibilità di altri pediatri del territorio, fratelli di bambini già in carico ad un Pls, scelte temporanee (es. extracomunitari senza permesso di soggiorno, non residenti). «In tal senso – commenta il presidente – le politiche sindacali locali hanno sempre mirato ad innalzare il massimale (e i compensi) dei Pls già in attività, piuttosto che favorire l’inserimento di nuovi colleghi».

Zone carenti. I nuovi Pls vengono inseriti nel Ssn previa identificazione da parte della Regione – o soggetto da questa individuato – delle cosiddette “zone carenti”, ovvero gli ambiti territoriali in cui occorre colmare un fabbisogno assistenziale e garantire una diffusione capillare degli studi dei Pls. Attualmente, tuttavia, la necessità della zona carente viene calcolata solo sulla fascia di età 0-6 anni tenendo conto di un rapporto ottimale di 1 Pls ogni 600 bambini. «È del tutto evidente – chiosa il Presidente – che questo metodo di calcolo sottostima il fabbisogno di Pls: paradossalmente, facendo riferimento alle regole vigenti, i Pls sarebbero addirittura in esubero perché il loro fabbisogno viene stimato solo per i piccoli sino al compimento dei 6 anni. Mentre di fatto assistono oltre l’80% di quelli della fascia 6-13 anni». Va segnalato che la bozza del nuovo Accordo collettivo nazionale propone di rivedere il calcolo del rapporto ottimale tenendo conto degli assistibili di età 0-14 anni, decurtati dagli assistiti di età maggiore ai 6 anni in carico ai Mmg e di innalzare il massimale da 800 a 1.000 assistiti.

Pensionamenti. Secondo le stime dell’Enpam al 31 dicembre 2021 più del 50% dei Pls aveva oltre 60 anni di età ed è, quindi, atteso un pensionamento massivo nei prossimi anni: ovvero, considerando una età di pensionamento di 70 anni, entro il 2031 dovrebbero andare in pensione circa 3.500 Pls.

Nuovi pediatri. Il numero di borse di studio ministeriali per la scuola di specializzazione in pediatria, dopo un decennio di sostanziale stabilità, è nettamente aumentato negli ultimi 5 anni: dai 440 nell’anno accademico 2016-2017 a 841 nel 2021-2022, con un picco di 973 nell’anno accademico 2020-2021 (figura 1). «Tuttavia – spiega Cartabellotta – se da un lato è impossibile sapere quanti specializzandi in pediatria sceglieranno la carriera di PLS e quanti quella ospedaliera, dall’altro è certo che i nuovi pediatri non saranno comunque sufficienti per colmare il ricambio generazionale». In particolare, l’Enpam stima che il numero dei giovani formati o avviati alla formazione specialistica coprirebbe solo il 50% dei posti di Pls necessari. 

CARENZE E FABBISOGNO DI PEDIATRI

Trend 2019-2021. Secondo l’ultimo aggiornamento del report Agenas Il personale del Servizio Sanitario Nazionale nel 2021 in Italia i Pls in attività erano 7.022, ovvero 386 in meno rispetto al 2019 (-5,5%). Inoltre, secondo quanto riportato dall’Annuario Statistico del SSN 2021, i PLS con oltre 23 anni di specializzazione sono passati dal 39% nel 2009 all’80% nel 2021 (figura 2). «Un dato – commenta Cartabellotta – che aggiunge alla carenza di PLS il mancato ricambio generazionale che con i pensionamenti dei prossimi anni rischia di creare un vero e proprio “baratro” dell’assistenza pediatrica».

Numero di assistiti per Pls. Secondo le rilevazioni della Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC), al 1° gennaio 2022, 6.921 PLS avevano in carico quasi 6,2 milioni di iscritti, di cui il 42,3% (2,62 milioni) della fascia 0-5 anni e il 57,7% (3,58 milioni) della fascia 6-13 anni, pari all’83,3% della popolazione Istat al 1° gennaio 2022 di età 6-13 anni. In termini assoluti, la media nazionale è di 896 assistiti per PLS e a livello regionale solo Umbria (784), Sardegna (788), Sicilia (792) e Molise (798) rimangono al di sotto del massimale senza deroghe; 17 Regioni superano invece la media di 800 assistiti per PLS di cui Piemonte (1.092), Provincia Autonoma di Bolzano (1.060) e Toscana (1.057) vanno oltre la media di 1.000 assistiti per Pls (figura 3). «Lo scenario – spiega Cartabellotta – è molto più critico di quanto lasciano trasparire i numeri: infatti, con un tale livello di saturazione non solo viene meno il principio della libera scelta, ma in alcune Regioni diventa impossibile trovare disponibilità di Pls, in particolare nelle aree interne o disagiate dove i bandi per le zone carenti vanno spesso deserti».

Fabbisogno di Pls. «Tutte le criticità sopra rilevate – spiega Cartabellotta – permettono solo di stimare il fabbisogno di Pls in base al numero di assistiti attuali a livello regionale, in quanto la necessità di ciascuna zona carente viene identificata dalle Asl in relazione a numerose variabili locali, previa consultazione con i sindacati». Utilizzando i dati della Sisac al 1° gennaio 2022 e ipotizzando una media di 800 assistiti a Pls (pari all’attuale tetto massimo) si stima a livello nazionale una carenza di 840 Pls, con notevoli differenze regionali (figura 4). Ma con una media di 700 assistiti per Pls, che garantirebbe l’esercizio della libera scelta, ne mancherebbero addirittura 1.935.

«La carenza di Pls – conclude Cartabellotta – deriva da errori di programmazione del fabbisogno, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e borse di studio per la scuola di specializzazione. Ma rimane fortemente condizionata sia da miopi politiche sindacali, sia da variabili locali non sempre prevedibili che rendono difficile calcolarne il fabbisogno. Innalzare l’età pensionabile a 72 anni e aumentare il massimale a 1.000 servono solo a mettere “la polvere sotto il tappeto” e non a risolvere il grave problema della carenza dei Pls. In tal senso servono un’adeguata programmazione, modelli organizzativi che puntino sul lavoro di team, grazie anche alle Case di comunità e alla telemedicina, oltre che accordi sindacali in linea con i reali bisogni della popolazione. Perché guardando ai numeri di pensionamenti attesi e dei nuovi pediatri è ragionevolmente certo che nei prossimi anni la carenza non potrà che acuirsi ulteriormente».

Buon giovedì. 

Mai più Cutro, Trame festival nel segno di una società solidale

Dal 21 al 25 giugno prossimi torna a Lamezia Terme, per la sua dodicesima edizione, Trame-Festival dei libri sulle mafie. Il tema di quest’anno, e non poteva essere altrimenti avendo ancora negli occhi la tragedia di Cutro dello scorso febbraio sulla costa ionica calabrese, sarà “Mediterraneo. Crocevia di mafie, migrazioni, sogni”. Ma non mancherà la riflessione sui trenta anni che ci separano dall’esportazione della strategia stragista da parte delle mafie dalla Sicilia al resto del Paese (il 1993 delle bombe a Milano, Firenze e Roma con l’obiettivo di colpire il nostro patrimonio artistico e che drammaticamente causarono la morte di dieci vittime innocenti).

Avendo inoltre finalmente catturato uno dei principali protagonisti e responsabili di quella terribile stagione, Matteo Messina Denaro, il festival dedicherà grande parte degli eventi anche a quegli anni e a quei temi nonché al tentativo di capire cosa saranno le mafie dopo la sua cattura. Su questi temi, per cinque giorni, il festival tornerà a far riempire le piazze e i siti del centro storico di Lamezia e gli incontri, gli spettacoli, le testimonianze si susseguiranno a ritmo serrato. I protagonisti, come ogni anno, saranno i principali studiosi italiani e stranieri del fenomeno della criminalità organizzata e quest’anno anche dei fenomeni migratori, giornalisti, magistrati e esponenti delle diverse forze di polizia, personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che si sono misurate con questi temi, esponenti della politica e delle istituzioni, familiari delle vittime e associazioni nazionali e locali impegnate sui territori nell’azione di contrasto alle mafie o nel soccorso e accoglienza agli migranti che fuggono dagli orrori dei loro Paesi, e anche le centinaia di giovani volontari e volontarie che animano e rendono possibile il festival grazie al loro impegno ed al loro entusiasmo.

A organizzare il principale evento italiano su questo tema è l’omonima fondazione Trame che insieme all’Ala, l’associazione lametina antiracket, sono protagoniste entrambe di un prezioso lavoro culturale, oltre che di informazione e tutela, portato avanti nel corso degli anni con continuità nelle scuole, nei centri di aggregazione sociale a cominciare dal Civico Trame, tra imprenditori, commercianti, professionisti e tutti i cittadini. Lamezia Terme, quarta città della Calabria per numero di abitanti e snodo infrastrutturale fondamentale della regione, non è un luogo neutro, asettico, rispetto ai temi affrontati dal festival, tutt’altro. Il suo consiglio comunale è stato purtroppo sciolto tre volte per infiltrazione mafiosa e sono cadute nel corso degli anni tante vittime innocenti tra cui il giudice Ferlaino ucciso il 3 luglio del 1975, i due netturbini Tramonte e Cristiano uccisi il 24 maggio del 1991, il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e sua moglie Lucia Precenzano uccisi il 4 gennaio del 1992, l’anno delle stragi. Nell’aula bunker della città è in corso dal 2021 il maxi processo alla ‘ndrangheta con oltre 400 capi di imputazione e quasi 500 indagati, ma al tempo stesso Lamezia Terme è la città che in più occasioni ha saputo reagire, denunciare, mobilitarsi con la sua società civile.

Il festival dunque non è un paradosso, ma il suo esatto contrario, la concreta dimostrazione che anche in realtà difficili, territori di frontiera, è possibile svolgere un ruolo positivo non solo per il proprio territorio ma anche oltre. Giovanni Tizian, giornalista e scrittore, da tre anni è il direttore artistico del festival e annunciando l’edizione di quest’anno ha ricordato proprio che: «Il sud Italia, e in generale i paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo, sono luoghi che vivono in bilico tra l’oppressione dei poteri criminali e una forte voglia di riscatto. L’edizione di Trame di quest’anno è per questo motivo dedicata al nostro mare, alle sue mille contraddizioni e alla volontà di riscattarsi che è parte del tessuto dei luoghi spesso abbandonati dalle istituzioni. Proveremo a squarciare il velo di indifferenza che ha coperto eventi tragici come le bombe che hanno insanguinato l’Italia nel 1993, ma anche naufragi come quello di Lampedusa nel 2013».

Si parlerà quindi non solo di Italia, ma anche di Malta, Libia e molto altro ancora, ci sarà la realtà e la fiction, la musica e il teatro, i documentari e il cinema, le attività seminariali e formative e i momenti alla scoperta dei beni culturali e naturali del territorio. Non ci resta che dare a tutti gli interessati appuntamento a Lamezia, e chi proprio fosse impossibilitato a partecipare sappia che potrà seguire gli eventi del Festival sui siti www.tramefestival.it (dove è possibile trovare anche tutte le edizioni precedenti) e www.civicotrame.it, nonché sui rispettivi profili social Facebook, Instagram e Twitter oltre che sul canale YouTube Trame Festival.

L’autore: Nuccio Iovene è presidente Fondazione Trame

Dai decreti Salvini al decreto Cutro, la cancellazione dei diritti umani

Malgrado la spettacolarizzazione dei cosiddetti “sbarchi”, ormai da molti anni si verifica una sparizione delle persone migranti che cercano di attraversare i confini esterni europei con una totale impunità delle autorità responsabili di prassi di respingimento e di abbandono in mare, che sono state, e rimangono, al centro delle politiche migratorie di diversi governi italiani. Dal 2014 ad oggi, oltre 26mila esseri umani, bambini, donne e uomini sono annegati nel Mediterraneo (Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim) e, in solo sei anni dalla firma del Memorandum Italia-Libia nel 2017, oltre 100mila civili sopravvissuti sono stati intercettati a mare e forzatamente respinti in Libia. Ogni anno, migliaia di persone vengono riportate indietro.

La maggior parte di loro è rinchiusa di nuovo nei lager libici, condannata a torture ed abusi sistematici documentati da anni dalle Nazioni Unite, se è sfuggita alla morte per annegamento. Il numero di coloro che sono state vittime di respingimento o di naufragio si può solo stimare; l’entità effettiva e i loro nomi non si conosceranno probabilmente mai (anche per via dei numerosi naufragi invisibili). Persone, non numeri o merci da scaricare, ma corpi, vite, memorie, che sempre più spesso si perdono in mare nell’indifferenza generale.

Nelle persone disperse, scomparse, fuggitive, o respinte con procedure che non rispettano i diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali, ma sono frutto di discrezionalità di polizia alla frontiera, o di scelte politiche non sindacabili davanti ad un giudice, si può configurare una particolare categoria di “popolo migrante” titolare di diritti che vengono sistematicamente lesi, incluso il diritto alla vita, dalle autorità di Paesi che cercano di impedire l’attraversamento della frontiera, sia quando si tratta di uno spazio marino, che di un filo spinato o di un muro di confine.

L’estensione geografica e la strutturalità dei crimini contro le persone migranti riguarda ormai tutti i confini europei esternalizzati, e alcuni confini interni dell’Unione europea, dove non vi è più traccia del principio di libera circolazione. Su un “arco della barbarie”, che va dai Balcani alle coste dell’Africa occidentale, assistiamo ad una mostruosa accelerazione del crimine istituzionale per effetto del concatenarsi letale di politiche di abbandono a mare e di omissioni di soccorso, di respingimenti e di detenzione di massa, mentre si assiste ad una continua militarizzazione dei confini. A seconda delle aree geografiche e del livello di delega da parte dell’Unione europea agli Stati a cui si trasferisce il compito degli arresti e dei respingimenti, le violazioni dei diritti delle persone in movimento hanno sfaccettature diverse, che sollevano questioni di responsabilità specifiche in base alla ricostruzione della catena di comando.

Eppure, i crimini odierni hanno una caratteristica unitaria, sacrificare la vita delle persone migranti in nome della “difesa dei confini europei”. Sacrificare quella parte di umanità in movimento, deumanizzata, identificata con la generica categoria dei “migranti” e diventata “bersaglio”; tanto da rendere ormai questa eliminazione dei migranti che vorrebbero arrivare in Europa, uno strumento di “gestione dei flussi migratori”, diffusamente accettato dalla maggioranza dell’opinione pubblica europea. Si assiste così alla negazione sostanziale del diritto di asilo, in quanto si impedisce persino di raggiungere le frontiere di Paesi sicuri nei quali presentare una qualsiasi domanda di protezione, mentre si intensificano gli accordi con i Paesi di transito che considerano indistintamente tutti i migranti come “illegali” ed operano respingimenti collettivi a rimbalzo e tortura per delega.

Gli anni della svolta letale e militare delle politiche migratorie in Europa si collocano tra il 2016 ed il 2019, dopo le intese tra gli Stati membri dell’Unione europea con la Turchia ed il Memorandum Italia-Libia del 2017, e corrispondono all’affermazione elettorale di partiti nazionalisti e populisti, prima a livello nazionale, poi a livello europeo. Dopo gli accordi conclusi dall’Italia con la Libia nel 2017, votati dal Parlamento italiano ed il Codice di condotta Minniti e la serie di azioni penali contro le Ong, allora impegnate nei soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale, il governo Conte-Salvini, trasponeva in disposizioni di legge gli indirizzi politici amministrativi che determinavano una diffusa criminalizzazione degli interventi umanitari nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Queste politiche nazionali vengono proseguite e “legittimate” da vari Piani europei adottati dal Consiglio e dalla Commissione europea nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2015, e poi con la proposta del Patto europeo su migrazioni e asilo del settembre 2020. L’Unione europea si è limitata a sostenere economicamente e politicamente le prassi repressive affidate a Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che tradisce persino i doveri di soccorso stabiliti dal Regolamento n. 656 del 2014 e collabora attivamente nei respingimenti collettivi. Nei vertici europei più recenti, i governi dei Paesi a vocazione sovranista e nazionalista, ormai orientati verso politiche di guerra e di morte con il motto del “rafforzamento delle frontiere esterne”, chiedono all’Unione europea di finanziare muri, torri di guardia e sorveglianza elettronica – contro profughi disarmati -, attingendo direttamente al bilancio Ue, cioè ai soldi dei cittadini europei. Un ulteriore inasprimento della politica e della diffusa cultura anti-migrante, che evidenzia il carattere organico, e strutturale, alle istituzioni europee, delle violazioni in corso. Le responsabilità più gravi si continuano però a riscontrare a livello delle autorità politiche e militari dei singoli Stati.

Dal 2016 con il rafforzamento – e il diretto coordinamento europeo e italiano – della sedicente Guardia costiera libica sono infatti aumentati in modo esponenziale il numero di intercettazioni in acque internazionali e le operazioni di pull-backs verso la Libia.
I respingimenti, che sono stati nascosti all’opinione pubblica con una martellante campagna anti Ong hanno dimostrato e continuano a dimostrare una grave complicità negli abusi inflitti ai migranti ripresi dalla autorità libiche. Le sparizioni forzate, le torture e gli altri trattamenti inumani e degradanti delle persone in fuga, di fatto sono utilizzati come strumenti di controllo e disincentivazione delle migrazioni…

(Estratto dall’introduzione di Flore Murard-Yovanovitch al libro di Left di aprile Rari nantes. Il naufragio dell’umanità scritto con Fulvio Vassallo Paleologo)

Il libro è disponibile qui

 

 

Sanità pubblica, caso Forlanini: I tentacoli del Vaticano sull’ospedale romano dismesso e deprezzato

Negli anni venti del secolo scorso, a Roma, iniziò la costruzione di un ospedale monumentale, il Forlanini, che avrebbe dovuto curare tubercolosi e malattie polmonari. 

Il Forlanini era una struttura enorme, fu ultimato nel 1934 e aveva una estensione di 280.000 metri quadrati.

Senza ombra di dubbio era il più grande ospedale al mondo, un’opera pubblica straordinaria, destinata a curare in via esclusiva le malattie polmonari, ma che comprendeva una farmacia, 14 padiglioni, un teatro e un museo di anatomia.

Il Forlanini registrava, tra le altre cose, anche il primato di un reparto di eccellenza guidato dal prof. Massimo Martelli. E volendo dare un parametro numerico ad una eccezionale capacità medica, si può ricordare che solamente nel 2010, a fronte dei 1500 interventi complessivi al torace in tutte le strutture ospedaliere nella città di Roma, Martelli ne aveva effettuati 840. 

È sempre stato un ospedale di gran pregio fino a quando su questa struttura è calata la scure selvaggia delle decisioni della Regione Lazio e del suo commissario alla Sanità Nicola Zingaretti, il quale nel 2015 ne ha decretato l’immotivata e ingiustificata chiusura.

Occorre precisare che prima di Zingaretti fu il Presidente Piero Marrazzo, nel 2006, a prendere la decisione di chiudere entro il 2010 sia il Forlanini che il San Giacomo, preventivando quindi quattro anni per le fasi della dismissione.

Il San Giacomo fu chiuso da Marrazzo, definitivamente, nel 2008 in un corto circuito di illogicità cieca. Basti dire che pochi mesi prima della chiusura erano stati spesi circa 4 milioni per ristrutturare un reparto e per acquistare macchinari ultramoderni.

Dopo Marrazzo, dal 2010 al 2013, la presidenza della Regione fu ricoperta da Renata Polverini, segretaria generale dell’Ugl, la quale a luglio 2010 nominò proprio Martelli quale Commissario straordinario per il Forlanini.

Martelli in poco tempo predispose un progetto di ristrutturazione che aveva un quid particolare, perché era stato concepito da chi conosceva quella struttura anche dal punto di vista delle potenzialità cliniche e amministrative, e aveva una visione concreta della sua riqualificazione. Questi erano i punti salienti del piano di Martelli: Realizzazione di 320 posti di RSA nei padiglioni H ed I (nella Regione Lazio ne mancavano migliaia); Trasferimento di 6 poliambulatori della Asl RM D nei padiglioni O e P con un risparmio di 3 milioni di euro di affitto; Creazione della Stazione di Monteverde dei Carabinieri (realizzata dalla Regione in 12 anni…)

A dicembre dello stesso anno Martelli si dimise dall’incarico di Commissario, sia per aver scoperto (e denunciato) alcune presunte attività illecite, sia perché Polverini aveva tradito la parola data, ovvero che mai avrebbe chiuso il Forlanini.

Dopo le sue dimissioni il nuovo Commissario cominciò a trasferire i reparti del Forlanini presso l’Ospedale San Camillo, tranne quello di Martelli che non venne trasferito. Avevano timore che una sua reazione avrebbe potuto creare clamore, per cui conveniva aspettare il suo pensionamento?

Dopo Polverini alla presidenza della Regione Lazio arrivò Zingaretti. E fu lui a decretare la chiusura del Forlanini nel 2015. Da allora la struttura ha iniziato a versare in stato di abbandono.

In questi casi dopo un po’ di tempo la privatizzazione diventa la cura auspicata da tutti.

Pur di non far “morire” una struttura pubblica, si accetta di metterla nelle mani dei privati i quali non solo acquistano a buon mercato ma passano addirittura per benefattori, come coloro che salvano il pubblico dal disastro determinato dalla “incapacità” degli amministratori pubblici di gestire qualsiasi cosa.

Questo schema si ripete ovunque, sempre con lo stesso canovaccio e il Forlanini non è sfuggito alla regola. A pensar male si potrebbe dire che certe cose siano pianificate, ma non lo faremo.

Fatto sta che nel 2014 venne acquisita una valutazione catastale dell’intero complesso che fu stimato in 278 milioni di euro; un anno dopo la dismissione il valore dell’intero complesso era sceso a 70 milioni di euro. 

Comprare a 278 milioni nel 2014 non sarebbe stato possibile, ma nel 2016 a 70 milioni diventava appetibile. E in quello stesso anno con la delibera n.766 del 2016 Zingaretti, mentre dichiarava di voler valorizzare il Forlanini, nello stesso tempo ne decretava il passaggio al patrimonio disponibile della Regione autorizzandone di fatto la vendita.

La delibera fu impugnata dal Comitato Beni Comuni davanti al Tar Lazio che il 18 aprile 2023, nel silenzio dei media, ha accolto il ricorso contro la decisione con cui la Regione Lazio prevedeva la vendita dell’ospedale Forlanini. In buona sostanza è passato il principio in base al quale essendo il Forlanini un bene della Regione Lazio è al contempo indisponibile alla vendita e alla rendita. Già il 31 marzo 2017 il Tar Lazio si era espresso mettendo un argine alle intenzioni della Giunta, confermando con la prima ordinanza interlocutoria che andava salvaguardata e mantenuta la vocazione pubblica e sociosanitaria del complesso.

Il TAR in quella occasione non concesse alle associazioni di cittadini ricorrenti la sospensiva per l’annullamento della delibera 766/16, ma si concentrò sulla finalità asseritamente dichiarata da Zingaretti che ebbe l’effetto di neutralizzare la volontà di vendere, consentendo al Tar di far leva sulla dichiarata volontà di valorizzare.

I Giudici amministrativi sostennero che se avessero concesso la sospensiva, avrebbero determinato una “situazione di stallo e l’inaccettabile protrarsi dello stato di abbandono e inutilizzabilità assoluta del compendio”, ma ciò che sconvolse i piani regionali, fu un inciso della ordinanza: “fermo il vincolo di destinazione pubblicistico del complesso immobiliare”, coerente con la normativa di valorizzazione dei beni immobili pubblici.

In piena pandemia da covid 19, da più parti si è poi chiesto alla Regione Lazio di riattivare il Forlanini, e una petizione sulla riattivazione della struttura ospedaliera ha raccolto in pochissimo tempo oltre 120mila firme; chi conosceva le potenzialità di quella struttura, senza tema di smentita, ha sostenuto con cognizione di causa che sarebbe stato possibile, con una spesa limitata, riattivando solamente pochi padiglioni in via d’urgenza, garantire almeno 50 posti di terapia intensiva.

Zingaretti invece ha preferito non riattivare il Forlanini che, se ristrutturato, sarebbe comunque rimasto nel patrimonio della Regione, e peraltro avrebbe ottemperato alle indicazioni di valorizzazione ricevute dai Giudici amministrativi.

Alle sollecitazioni per la riapertura del Forlanini, la Regione Lazio rispose con una nota del 16 marzo 2020 negando che il Forlanini potesse essere riattivato perché – si legge nel comunicato – l’ospedale «era deserto già negli anni ’90 e da allora è senza alcuna forma di manutenzione». In realtà, come detto, il Forlanini era stato chiuso proprio da Zingaretti nel 2015 e fino a quella data i reparti erano attivi.

Addirittura alcuni padiglioni del Forlanini erano rimasti attivi anche dopo il 2015 e lo sono ancora oggi (la Farmacia, il Museo anatomico, il Parco con le essenze rare, il Teatro), cui si aggiungono la Caserma dei Carabinieri, e di recente anche la nuova sede della Dia.

Come se tutto questo non bastasse si sta ora avvinghiando sul complesso ospedaliero un tentacolo della piovra vaticana.

La dirigenza del Bambino Gesù, un ospedale con extraterritorialità della Santa sede che pertanto elude la tassazione italiana pur essendo finanziato con soldi pubblici italiani, ha dichiarato di volersi trasferire presso il Forlanini perché ha bisogno di spazi più ampi.

Su Left ci siamo già occupati delle contraddizioni che al Bambino Gesù sono la normalità. Pur non facendo parte dei trenta Enti centrali dello Stato del Vaticano che possono ritenersi esentati dalle tasse nei confronti dello Stato italiano, questo ospedale dal 1973 si è autoproclamato in extraterritorialità e in base agli articoli 16 e 17 dei Patti Lateranensi tutte le attività che si svolgono all’interno della struttura sanitaria, comprese le attività lavorative, non scontano nessuna tassazione.

Il Bambino Gesù non paga l’Iva sulle merci acquistate, non paga Imu sull’immobile, il personale medico e paramedico non è soggetto Irpef. In compenso il Bambino Gesù riceve dallo Stato italiano una montagna di finanziamenti, superiore a quelli degli altri ospedali laziali, e riceve anche finanziamenti diretti dall’Erario statale.

Il Bambino Gesù ha avuto la direzione di Mariella Enoc dal 2015 e l’incarico era stato riconfermato fino al gennaio 2024.

Improvvisamente il 4 febbraio 2023 Enoc ha presentato le dimissioni ed è stata sostituita, con una nomina lampo, da Tiziano Onesti il quale ha già dichiarato che il suo compito sarà quello di trasferire l’ospedale pediatrico Bambino Gesù presso il Forlanini perché “loro” hanno bisogno di spazio e la struttura del Gianicolo è diventata insufficiente.

Quando in un’intervista al Corriere dell’8 aprile scorso gli è stato chiesto se avessero già un contratto che gli consentiva di affermare con tanta sicumera la “conquista” del Forlanini, Onesti ha dato per certo lo spostamento perché “sono tutti d’accordo che sia questa la sede” poiché c’è già stata “una interlocuzione importante”.

Dunque in questa ottica si può ipotizzare che le elezioni di febbraio per la presidenza della Regione Lazio non abbiano “solo” premiato il candidato Francesco Rocca ma anche punito il candidato D’Amato? I risultati elettorali possono anche dare una chiave di lettura sulle improvvise dimissioni di Enoc che con D’Amato aveva mantenuto una interlocuzione preferenziale.

Se il ragionamento è corretto, di fronte al cambio di assessore alla sanità il Vaticano doveva assicurarsi “interlocuzioni importanti” con i nuovi inquilini e ha “dimissionato” Enoc.

Dando un’occhiata al tempismo dell’intervista rilasciata da Onesti al Corriere si può notare che le sue dichiarazioni sulle intenzioni di accaparrarsi il Forlanini siano giunte alla vigilia del pronunciamento del Tar Lazio sul ricorso promosso dal Comitato Beni Comuni per restituire il Forlanini al servizio pubblico, dopo il tentativo di metterlo in vendita da parte di Zingaretti.

Se c’è stato un tentativo di “interferire” e fare pressione mediatica sui giudici, questo al momento non è andato a buon fine. Secondo il Tar, come detto, il Forlanini deve rimanere nel patrimonio indisponibile della Regione e dunque non può essere adibito né alla vendita ma nemmeno alla rendita.

La capacità predatoria del Vaticano non conosce limiti ma questa sentenza crea un intralcio che potrebbe far slittare il tutto per un tempo indeterminato.

Tiziano Onesti nel corso della sua “interlocuzione importante” ha anche quantificato in 450 milioni di euro il finanziamento che occorre per ristrutturare il Forlanini in favore del Bambino Gesù. Chi pagherà?

I cittadini romani dal 2015 chiedono che la Regione trovi i soldi per far ripartire il Forlanini per restituirlo alla città e le risposte sono sempre state negative. Ora invece par di capire che di fronte a una richiesta arrivata dalle stanze vaticane i 450 milioni necessari alla riattivazione del nosocomio siano diventati certezza. 

Resta il dubbio su cosa “inventeranno” in Vaticano e in Regione per conciliare l’autoproclamata extraterritorialità del Bambino Gesù con la sentenza del Tar Lazio.

La sanità laziale, e non solo, paga un altissimo prezzo della privatizzazione selvaggia, e la sanità pubblica, universale e gratuita ha ceduto alla sanità privata, che non è per tutti ed è a pagamento.

Alla pubblica e alla privata si aggiunge una terza categoria ibrida, quella che mantiene la qualifica di privata, che entra in convenzione pubblica, che è garantita dalla extraterritorialità nella quale i flussi di denaro sono a direzione unica, in sola entrata, in esenzione fiscale e nella impossibilità che possano rispondere alla Corte dei Conti. (Per farsi un’idea di quanto incassa il Bambino Gesù grazie alla convenzione pubblica, ecco cosa ha detto Onesti al Corriere: “Il finanziamento viene soprattutto dallo Stato attraverso il riconoscimento delle prestazioni erogate, per circa 300 milioni all’anno..”).

Come potranno estendere tutto questo abominio anche al Forlanini è ancora da vedere, ma non ci coglieranno di sorpresa, vigileremo e sapremo contestare.

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*L’autrice: L’avvocata Carla Corsetti è segretaria nazionale di Democrazia Atea

 

Cosa ha detto Saviano

Che non passi sotto traccia la vittoria in tribunale dello scrittore Roberto Saviano contro il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Nel 2018 lo scrittore aveva scritto su Twitter: «Sangiuliano direttore del Tg2! Peggio non si poteva. Vicedirettore del Tg1 con Berlusconi, galoppino di Mario Landolfi, Italo Bocchino, Nicola Cosentino, Amedeo Laboccetta. E ora la promozione: con il governo del cambiamento (ovvero giallo-verde, ndr), al sud, la società incivile non perde posizioni, anzi». Poi aveva rilanciato sul suo account Facebook: «Tutto questo è ammissibile solo in un’ottica di spartizione, non certo di alleanza, né di applicazione del contratto di governo. Solo in una spartizione si può giungere a un tale livello di cinismo. E adesso Sangiuliano diventa addirittura direttore del Tg2, direttore in quota Lega. E a chi dice che la Lega non è più antimeridionale rispondo: ma non vedete come, con l’avallo del M5S, continua la triste tradizione di valorizzare il peggio della cultura, della politica?».

Sangiuliano ha deciso di querelare. E ha perso. Ha perso perché in effetti l’attuale ministro della Cultura è politicamente vicino all’ex sottosegretario del governo Berlusconi da poco condannato in via definitiva per essere stato il punto di riferimento politico del clan del Casalesi. Sangiuliano ha perso perché da direttore del Tg2 ha querelato uno scrittore lamentando danni alla sua carriera e nel frattempo la sua carriera l’ha portato a capo di un ministero. Ha perso perché in questo Paese – per fortuna – ci si può ancora permettere di collegare le persone, i fatti, le provenienze culturali e politiche. Sangiuliano ha perso perché spesso tocca agli scrittori, agli intellettuali o agli attivisti svolgere il ruolo che dovrebbe essere dei giornalisti.

Per un gioco di tempi e ricorrenze Sangiuliano ora deve fare i conti con una vicenda che risale a cinque anni fa e cinque anni dopo ci ricorda le provenienze dei membri di questo governo. Mentre la commissione Antimafia rimane in stallo le sentenze parlano. Come dice giustamente Saviano «Giorgia Meloni – non è un dettaglio, anche se oggi passa sotto silenzio – è stata ministra della Gioventù nel 2008, nello stesso governo e nella stessa coalizione di Nicola Cosentino, condannato in via definitiva a 10 anni di carcere». L’ex sottosegretario che adesso è nel carcere di Rebibbia. «Giorgia Meloni non ha nulla da dire al riguardo?»

Giorgia Meloni non risponderà. E non querelerà nemmeno.

Buon mercoledì.

Il ritratto di Saviano è tratta dal sito del festival Trame, contro le mafie. Tutti gli eventi del Festival si possono seguire sui www.tramefestival.it (dove è possibile trovare anche tutte le edizioni precedenti

Nazione Unite, per la prima volta Cina, Brasile e India accettano di nominare l’aggressione russa all’Ucraina

Cina, Brasile e India hanno votato a favore della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, legata ai rapporti Onu e Consiglio d’Europa, in cui si parla di “aggressione della Federazione Russa dell’Ucraina”. Il voto di Cina e India rappresenta un segnale diplomatico molto importante, e una novità nella crisi del conflitto russo-ucraino.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione con 122 voti, inclusi partner chiave del G20 come Cina, Brasile, India e Indonesia. “Accogliamo con favore questa risoluzione, che qualifica chiaramente la guerra contro l’Ucraina come ‘aggressione da parte della Federazione Russa’”, ha scritto l’Alto Rappresentante per la Politica estera della Ue, Josep Borrell.

Aggiornamento del 3 maggio

Fonti Onu precisano che Cina e India hanno votato sì nel complesso alla risoluzione dal titolo “Cooperazione tra le Nazioni Unite e regionali e altre organizzazioni: cooperazione tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa” ma si sono astenute sul passaggio più delicato in cui si fa riferimento all'”aggressione da parte della Federazione contro l’Ucraina”.

Ecco il passaggio del documento numero 9, a pagina 2, dove si afferma “riconoscendo anche che le sfide senza precedenti che l’Europa si trova ad affrontare a seguito dell’aggressione da parte della Federazione Russa contro l’Ucraina, e contro la Georgia prima di quella, e la cessazione come membro della Federazione Russa nel Consiglo d’Europa, chiede un rafforzamento della cooperazione tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, in particolare in modo da ripristinare prontamente e mantenere pace e sicurezza basate su rispetto della sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni Stato, assicura il rispetto dei diritti umani e della legge internazionale umanitaria durante le ostilità, provvede risarcimenti alle vittime e consegna alla giustizia tutti coloro responsabili di violazione alla legge internazionale”.