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L’inaccettabile assassinio della psichiatra Barbara Capovani ci interroga profondamente

Barbara Capovani, psichiatra, è morta dopo essere stata aggredita a sprangate da un ex paziente mentre stava rientrando a casa dopo il lavoro nell’ospedale Santa Chiara di Pisa. È stato arrestato e, da quel che si legge, il suo profilo pare corrispondere a quello che all’inizio del secolo scorso si sarebbe definito “folle reo”, tipologia per la quale nel codice penale Rocco del 1930, ad oggi in vigore, si idearono le misure di sicurezza che fanno sì che un malato di mente grave sia riconosciuto colpevole ma non imputabile della commissione del reato. E dunque, in base alla valutazione continua della sua pericolosità, venga internato per la tutela sociale.

Di certo, ancora nei giorni nostri dobbiamo fare i conti con questo matrimonio sofferto, dal divorzio irraggiungibile tra psichiatria e diritto. E di quel ha prodotto: manicomio criminale, Opg, e poi dal 2014, Rems, piccoli istituti regionali per l’attuazione delle misure di sicurezza dei malati di mente autori di reato. Avendo a che fare con pazienti autori di reati gravi, l’operare degli psichiatri non è solo quello dovuto dal clinico medico al paziente, chiunque egli sia. Ma era e rimane un impegno anche verso la società. Oggi ci sono varie denunce sulle condizioni precarie in cui versano i servizi per la salute mentale, tante Rems comprese, purtroppo, portate avanti solo dagli operatori del settore, dalle famiglie dei pazienti e dalle associazioni che si sono create per fare rappresentanza civile. Nei vari interventi diffusi sulla stampa, in radio e sui social per commentare la tragica vicenda della psichiatra Barbara Capovani – pur con accenti e contenuti assai diversi-  la vecchia guardia basagliana e le correnti più disparate della psichiatria odierna denunciano la nefasta scarsità di considerazione e investimenti da parte della politica rispetto alla salute mentale. Tutti parlano molto della psichiatria come di una vera e propria Cenerentola, abbandonata e ignorata. Se ne denunciano le gravi carenze di risorse da destinare alla formazione del personale sanitario e alle strutture necessarie per i percorsi clinici di cura.

Ma c’è punto dolente ancor più importante: risiede nella visione della malattia mentale. Con l’intento di provocare una riflessione, partiamo dal fatto che forse potremmo noi medici psichiatri affermare con forza che non esiste il peccato originale. Concetto che genera in psichiatria una confusione teorica che la pone in ritardo rispetto al resto della medicina. Per meglio dire, nessuno pensa che tutti gli esseri umani avranno nella loro vita un carcinoma renale o l’epatite, mentre si vuole sostenere che la malattia mentale sia parte integrante di ogni singolo appartenente alla specie umana. Questa strana congettura di certa matrice religiosa, è stata avallata infine dai capitali delle case farmaceutiche, per essere poi declinata in una utile visione biologica che fa della malattia mentale una patologia del patrimonio genetico. Niente si può fare contro questo peccato originale razional-biologico. Se non consolare, sostenere, sedare farmacologicamente, accettare il nostro essere stati gettati nel mondo con il male dentro. Lo diceva pure Lombroso che si era per questo inventato i manicomi criminali, politicamente sostenuti anche dalla sinistra storica, per proteggere sia i malati, folli rei innocenti e vittime della loro colpa biologica, che la società.

Dunque pieno accordo tra religione/peccato originale e ragione/corredo genetico. Ne viene che tutto il sistema della Salute mentale ruota intorno alla patologia cronica, che di certo ne è derivata e che continuerà a crescere. Perché non si fa prevenzione, in questo caso considerata inutile. Colpisce poi l’immagine dell’omicida di Pisa diffusa dai media: ben vestito, accomodato tra i relatori di un convegno di psichiatria, pronto ad intervenire con le sue argomentazioni da sciamano, come ama definirsi. Niente a che vedere con la vecchia fotografia del malato estrapolata dai ritratti di popolazione manicomiale residua, che contribuisce a rafforzare il concetto di incurabilità e lo stigma. Oltre che confondere e illuminare falsamente quei malati di mente gravi e pericolosi che , con la loro totale anaffettività, riescono a mantenere una apparenza rispettabile ed un comportamento lucido che gli vale una sciagurata patente di normalità.

Fino a quando, mossi dalle loro devastate immagini interne, vengono fuori con la loro violenza omicida, secondo il loro insano modo di intendere e volere premeditato e distruttivo. Che fare? Iniziamo con un dibattito scientifico che vada oltre il modello del neuro-sviluppo; che si impegni nel confronto con quella parte considerevole di clinici psichiatri che ogni giorno si imbattono e lavorano con le dinamiche pulsionali non coscienti delle relazioni che fanno la storia dei pazienti. Quelle si trovano sempre. In Psichiatria c’è necessità urgentissima di fare formazione di personale da impegnare nei punti di ascolto e incontri nelle scuole, cura nei servizi del Territorio e in luoghi adeguati per la gestione delle fasi acute di malattia. Per Prevenzione e Diagnosi precoce, concetti fondamentali in questa branca medica. Questo potrebbe davvero fare la sorte diversa della cronaca dei nostri giorni.

Ecco, non si può proprio continuare a pensare di risolvere questi problemi così seri mettendo qua e là delle toppe peggiori dei buchi. Ad esempio, ricacciare la malattia mentale in famiglia, come se fosse una colpa da espiare a vita. Oppure rifugiarsi in una medicina difensiva fallimentare che riporterebbe la malattia mentale nella vecchia dimensione custodialistica. Chiudere e gettare la chiave senza più speranza di cura possibile. Le Istituzioni democratiche dovrebbero proprio discutere alcuni punti salienti della legge 180, facendo tesoro dell’esperienza accumulata dal 1978, anno in cui la legge entrò in vigore.

Ernesto de Martino ci avrebbe invitato a lavorare per il passaggio dalla catastrofe all’anastrofe. Perché lo Stato con le sue istituzioni deve farsi capace di rispettare il patto fondativo che enumera tra i suoi doveri la tutela della salute psico-fisica dei cittadini, attraverso un potenziamento e non uno smantellamento del Servizio sanitario nazionale. Si realizza così quella umanità che lo rende riconoscibile e lo legittima. Il coraggio di Barbara Capovani così drammaticamente offeso, va onorato con un fare ed un saper fare collettivo a cui non possiamo più rinunciare.

*L’autrice: Maria Rosaria Bianchi è psichiatra e psicoterapeuta ed è presidente di Carminella APS

Resistete come la banda di Ceccano

Per il 25 aprile a Ceccano è accaduto un episodio minimo, come in molti altri comuni d’Italia, di una storia che contiene un insegnamento. Il sindaco della città, Roberto Caligiore di Fratelli d’Italia, decide che la banda cittadina non può suonare “Bella ciao” durante la cerimonia.

“Bella ciao” è divisiva, dicono da quelle parti. In effetti “Bella ciao” non piace a chi la guerra di Liberazione l’ha persa. Solo a loro. Solo a loro provoca imbarazzo (non è nemmeno imbarazzo, è solo la memoria della sconfitta) e solo loro credono che si possa sabotare il 25 aprile impedendo di suonarla. È uno dei tanti modi vigliacchi di svuotare il 25 aprile per renderlo il più possibile un rito stanco, sperando che diventi il prima possibile una commemorazione senza intenti e senza slanci per il futuro. Non si fa fatica a capire il perché: c’è nella lezione della Resistenza un foglietto delle istruzioni per capire chi già o meno vigliaccamente decide di rifarsi al fascismo, chi si rifiuta di rinnegarlo, chi vede negli antifascisti dei nemici.

La banda di Ceccano ha seguito in modo impeccabile il cerimoniale deciso dal sindaco. Lui impettito non ha provato nemmeno un pizzico di vergogna mentre “Bella ciao” veniva suonata al cospetto del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Quello stesso Mattarella che per questo 25 aprile ha deciso di usare parole chiare, nette: vincitori e vinti del 25 aprile non sono uguali.

Alla fine della cerimonia, quando la piazza ancora non si svuota, la banda di Ceccano ha deciso di suonare ciò che le era stato impedito. Formalmente non ha contravvenuto a nessuna regola dettata dal sindaco. Simbolicamente ha dimostrato il dovere di rispondere colpo su colpo alla provocazione. Così il sindaco che voleva ammorbidire la Resistenza s’è ritrovato la resistenza in piazza, musicale, con fiati e tamburi. Non arretrare di un centimetro, ora e sempre. Grazie, banda.

Buon mercoledì.

Nella foto: frame del video (da facebook) dell’esecuzione di “Bella ciao”

Libertà e liberazione. Il fondamento antico della memoria

E la direttrice editoriale disse: Venticinque motivi per una liberazione. 25 aprile: un numero, una parola diventarono, immediatamente, un fascio di luce intensa che cancellarono tutte le cose che erano intorno a me. Nella mente c’erano soltanto immagini. L’una disegnava un bimbo in mezzo ai grandi che udiva la dichiarazione di guerra di Mussolini. L’altra disegnava la piazza medievale di Fabriano in cui un ragazzino, in mezzo ad una folla ascoltava la voce che urlava: Liberazione. Aveva lasciato la vita libera che lo vedeva correre per i campi e le colline, carezzare i cavalli e le mucche, nascondendo la forza dell’opposizione e del rifiuto cosciente.
Nessuno lo guardava ed egli faceva il solitario strano che, irresponsabile, non stava mai a casa e voleva non essere visto. Andava, in verità, a sussurrare e gridare ai giovani contadini, che avevano un grosso giocattolo che si chiamava mitra, “Scappa scappa”. Arrivarono poi i soldati inglesi, americani e polacchi e tornò con la famiglia, in città. Usciva di casa e vedeva, davanti a sé, la strada dritta che percorreva con calma. Non incontrava, “casualmente”, più Gianna, la ragazzina dalla treccia nera con cui aveva giocato prima della guerra. Andava nella piazza centrale per rivedere quel 25 luglio 1943 quando liberazione fu gettare la grossa testa di gesso di Mussolini dall’alto degli spalti del bianco castello rinascimentale. Il 25 aprile 1945 era tornato da pochi giorni dopo essere stato operato all’occhio ferito da un gesto strano, incomprensibile, di un compagno di scuola. Ed il ragazzino che, solo usciva di casa, non aveva più la solitudine di quando correva per campi e colline e, nascosto da siepi ed alberi, gridava agli imboscati che non si vedevano e sembravano nessuno, “Stanno arrivando, stanno arrivando”. Me lo aveva detto mio padre che sentiva le voci quando curava i malati e operava i feriti.
Ora, tornato alla normalità di una vita senza avventura e il rischio di morire, pensava ed osservava in silenzio il movimento degli esseri umani simile a se stesso. Ma sono certo che la memoria dei campi e colline, degli armenti e bovini, della vita semplice dei contadini non era perduta. Ora dimenticata, la vita “altra” che, dopo i 6-7-8 anni si era ricreata a 12-13 simile e, forse, diversa. E rimemoravo guardando dal loggiato di S. Francesco il passeggiare degli altri, le squadre nazifasciste che piombavano in casa, di giorno, con gran fracasso. Rimemoravo le squadre partigiane che piombavano, di notte, in silenzio, in casa. E, quando dissero: le donne e bambini a sinistra, gli uomini a destra, domandai: io dove vado? Sorrise. Ed, a quel tempo, era simpatia che aveva in sé il pensiero che rifiutava il nazifascismo, nonostante che tutta l’infanzia si fosse svolta sotto il regime e la cosiddetta cultura fascista. Ora pensavo e cercavo di comprendere la differenza tra le due squadre dai vestiti diversi, dall’assenza del sorriso nei nazifascisti con cui non ho mai parlato. Quando sparavano sembravano uguali ma il mio corpo aveva una repulsione da antipatia per i nazifascisti, simpatia e gioia nello stare con i partigiani. Mi chiedevo, seduto sotto gli archi del loggiato S. Francesco, qual era la diversità. E, forse, prima di giungere a comprendere il pensiero e le ideologie che guidavano il comportamento degli uni e degli altri, tentai di “vedere” la realtà non manifesta della mente. Pensai agli affetti, all’odio ed alla rabbia, e, non ho il coraggio di dirlo, forse vidi che nei fascisti c’era l’odio freddo, nei partigiani era rabbia…e lotta per la libertà.
Nei nazisti c’era un comportamento lucido, determinato da una razionalità fredda. Forse l’ho verbalizzato dopo anche se, sono certo, che nei nazifascisti non esisteva il rapporto interumano. L’altro, non uguale a se stesso, non era realtà umana. Non era diverso era un “non” come può essere la “diversità” tra animato ed inanimato. Sapevo che nei partigiani c’era l’idea dell’uguaglianza. È necessario, ora, chiedere perdono se scrivere questi avvenimenti, non è dovuto a ricordi esatti. Sono memorie ed esse ricreano i pensieri ed i fatti, non li riproducono uguali a come sono stati percepiti. La registrazione di essi passa attraverso una dimenticanza che è una sparizione di essi.
Ma non è “come se non fossero mai esistiti”. Spariscono e riappaiono. C’è, nel pensiero che non è coscienza, una intelligenza che è fantasia. Ed ora la memoria mi riporta alla mente le parole “combattenti per la libertà”. Saltando nel 1945, venne la festa della Liberazione. E mi chiedo, e forse mi chiesi, libertà e liberazione sono sinonimi? Vedo il No che, esplicitamente, compare. Liberazione fu un fatto politico, una guerra per la libertà dall’oppressione e dalla violenza nazifascista. La libertà è un movimento ed un processo dell’essere che ricerca la verità di se stesso.
E forse, mi sento ormai lontano, ebbi un’intuizione che elaborai poi, per tutta la vita. Compresi, presto, che la liberazione ottenuta non era libertà dell’essere umano. E pensai al “conosci te stesso” delle parole scritte nel tempio di Delfi. E sapevo già che, per ottenere la libertà, non bastava la conoscenza. Era necessaria l’elaborazione di ciò che si era visto di se stessi. Era necessaria una prassi dell’essere…nato. Mi domandai, ad un certo momento della vita: ma si conosce il pensiero umano che non è coscienza? La risposta venne ricordando il termine che avevo sempre legato al fascismo: stupidità. Poi vidi che il termine razionalità con cui si era costituita l’identità umana, era associato all’impossibilità di comprendere il pensiero che non era ricordo cosciente e linguaggio articolato. Poi lasciai Fabriano e… fu una liberazione, lasciai Venezia e fu una liberazione, lasciai Padova e fu una liberazione, lasciai la società di psicoanalisi e fu una liberazione. Lasciai Villa Massimo, Istituto di psichiatria, e fu una liberazione. Ma, certamente,
avevo dentro di me, e non soltanto nella mente ma nella fantasia, la parola libertà. Penso a quando, a sei anni, mi portarono via dal paesello natìo.

Chissà che ne direbbe oggi Calamandrei

Giornata di discorsi oggi. Alcuni saranno importanti, da tenere in tasca per gli anni venire, alcuni stanchi, altri tristi per la scomparsa di chi non c’è più a testimoniare. Il discorso che ogni anno risuona con sempre più vigore è quello di Piero Calamandrei a Milano il 26 gennaio al 1955. Era un ciclo di conferenze sulla Costituzione per gli studenti delle scuole medie e universitari.

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé.
La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.
Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo”.
«La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?».
Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante.
Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!».
Questo è l’indifferentismo alla politica.

È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà.
C’è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa.
Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…
Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi.

In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…
E quando io leggo nell’art. 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell’art. 11: «L’Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie… ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini! O quando io leggo nell’art. 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell’art. 5: «La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo!
O quando nell’art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell’art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani… Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti.

Buon 25 aprile.

Mauro Biani: «Essere antifascisti significa anche ripudiare la guerra»

vignette di Mauro Biani per gentile concessione dell'autore

Vignettista e autore di numerosi libri, Mauro Biani è fra i protagonisti all’EireneFest il Festival del libro per la pace e la nonviolenza, con il suo nuovo lavoro dal titolo Afascisti, pubblicato da People. Lo abbiamo incontrato in vista del 25 aprile, festa della Liberazione

Mauro Biani come si possono definire gli “afascisti”?
Gli Afascisti sono tutte quelle persone che non si schierano in maniera netta, non da oggi, e che quindi non stanno né col fascismo né con l’antifascismo. In questo modo, dal mio punto di vista, hanno alimentato un modo di vedere le cose, dove l’antifascismo era riservato a pochi individui, per cui si dice no al fascismo ma anche all’antifascismo che ormai a detta di alcuni avrebbe rotto le scatole.
La premier Giorgia Meloni e il presidente del Senato Ignazio La Russa hanno condannato le leggi razziali, ma hanno elogiato la nascita del Movimento sociale italiano (Msi) erede della Repubblica sociale italiana di Mussolini (Rsi) che dette la caccia fisicamente agli ebrei per farli deportare nei campi di concentramento. Che idea si è fatto?
È evidente una contraddizione continua, che prima era pre-elettorale mentre adesso ha un significato diverso, quindi siamo ben aldilà dell’afascimo. Il problema non è “solo” la politica di questo governo di destra ma il fatto che non sono riusciti ad emanciparsi dalle loro origini politiche, né a rinnegarle, manifestando spesso delle nostalgie. Detto con il massimo rispetto è più facile condannare le leggi razziali, il rastrellamento degli ebrei e della Shoah. Nessuno può pensare e dire che siano stati giusti o che non si siano verificati. Solo i pazzi e i negazionisti lo farebbero. Tuttavia nonostante le affermazioni nette di Meloni sulle leggi razziste del 1938 continuano a tenere la fiamma tricolore nel simbolo del loro partito, nonostante fosse il contrassegno del Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, che prese parte convintamente alla Repubblica sociale italiana di Benito Mussolini.


Alcuni giorni fa Giorgia Meloni, si è recata in Etiopia senza scusarsi minimamente dei crimini del colonialismo fascista, e rispondendo ad una domanda de La Repubblica ha detto che l’argomento non era stato trattato visto che tale giornale lì non era presente. Questa vicenda mi ha fatto subito pensare ad una sua vignetta del 2021, presente nel libro, dedicata alla scomparsa di Angelo Del Boca, giornalista e storico, che fece emergere i crimini del colonialismo italiano mettendo in discussione il classico stereotipo di “Italiani brava gente”…
Purtroppo questo fa parte di una tendenza, assolutamente voluta, che è quella di evitare di parlare dei crimini del fascismo. In questo modo, nonostante la Costituzione antifascista, molti arrivano a dire né col fascismo né con l’antifascismo. Tentano di ascrivere l’antifascismo a progetti di dittatura comunista, mentre più semplicemente l’antifascismo è la democrazia. Ben rappresentata da coloro che hanno scritto la Carta ed erano per la democrazia, poiché il contrario della dittatura fascista non è la dittatura comunista bensì la democrazia. Invece il contrario dell’antifascismo è la dittatura fascista perché noi, in Italia, questa abbiamo subito, e di conseguenza ci dovremmo fare i conti. Ma questi conti sono stati fatti in maniera superficiale, per questo ci troviamo una destra estremista al governo e non un centro-destra. Sono quasi ridicoli quelli che continuano a chiamarli così.


Qualche giorno fa il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, in merito alla denatalità ha spiegato che non bisogna arrendersi alla «sostituzione etnica». Nel suo libro c’è una vignetta molto esplicativa riguardo a questo tema. La dichiarazione del ministro ci dice che la nostra società si porta ancora dietro delle “scorie” delle pagine più buie della nostra storia?
Quella frase, l’espressione “sostituzione etnica”, non è casuale è propria della destra più retrograda, più nazionalista e più sovranista. Richiama chiaramente certe radici culturali dell’estrema destra. Cosa significa sostituzione etnica? Che in Italia ci saranno persone più persone dalla pelle nera che dalla pelle bianca? Dietro a certi discorsi c’è un razzismo che non è casuale, addirittura potrebbe sembrare studiato e scientifico.
Lei presenterà questo suo libro all’EireneFest a Roma nel mese di maggio. Quanto è importante parlare di pace in un momento in cui da più parti iene detto che le armi e la guerra sono l’unica soluzione?
Già pronunciare la parola pace significa esprimere un programma politico, perché chi nomina tale parola viene considerato soprattutto in questo momento un sovversivo. Sembra di essere tornati purtroppo in un periodo storico in cui non vi è nessuna alternativa alla guerra, e dove quest’ultima viene intesa come risoluzione delle controversie internazionali. La nostra costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra e questo perché la guerra fa schifo, e i nostri padri e le nostre madri costituenti l’avevano vissuta, perciò la ripudiavano come mezzo per risolvere le controversie internazionali. Essere antifascisti vuol dire anche questo, essere contro la guerra e per la nonviolenza. Io personalmente, pur rendendomi conto dei problemi della società umana anche a livello internazionale, sono convinto che sia molto importante ribadire certi concetti anche se in molti saranno in disaccordo. Quindi parlare di pace in questo momento è oltremodo rivoluzionario, io tra l’altro sono stato obiettore di coscienza e da sempre sono vicino ai movimenti nonviolenti. Perciò sono molto contento di partecipare all’EireneFest il Festival del libro per la pace e la nonviolenza, poiché abbiamo davvero bisogno di un festival come questo.
Come non cadere nella trappola di essere afascisti?
Non essere Afascisti e quindi essere Antifascisti penso sia una pratica quotidiana. Tutto si basa sulla nostra Costituzione, che spesso viene definita la più bella del mondo anche se non viene applicata, di conseguenza se ognuno di noi nel suo ruolo e quando si confronta con gli altri decide di rispettare pienamente la Costituzione allora non è un Afascista. Ovviamente, ci tengo a sottolineare, come la nostra costituzione sia tutto meno che indifferente. Infatti se ci sono persone che vivono situazioni di violenza e differenti dai valori della nostra Costituzione l’Italia dovrebbe essere pronta ad accoglierle. Quindi anche da queste cose si vede la differenza tra gli Afascisti e chi non lo è perché non rimane indifferente alle cose. Chiaramente è giusto parlare di questi argomenti anche in maniera più scientifica con i documenti alla mano, però io credo molto nei comportamenti e nella pratica quotidiana. Voglio mandare anche un messaggio di speranza, perché credo che molti di tali comportamenti siano entrati, nonostante tutto, nel corpo degli italiani, quindi credo che sia molto complicato o difficile tornare indietro o avere una visione futura come quella di alcuni gruppi più estremisti di destra. Tuttavia non è impossibile perciò bisogna stare molto attenti e vigilare sempre, quindi per questo diventa fondamentale la pratica quotidiana.

L’autore: Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left

Pubblichiamo queste vignette di Mauro Biani per gentile concessione dell’autore

Il situazionismo della Lega antifascista per logorare Meloni

No, non abbiamo visto ancora tutto quello che c’è da vedere di questo governo che ogni giorno scivola qualche centimetro più giù, sondando gli inferi che proprio nel giorno del 25 aprile si ricordano. L’ultima puntata della farsa inizia con le dichiarazioni del presidente della Camera, il leghista Lorenzo Fontana, in un’intervista per il Corriere della Sera. «Sono pienamente antifascista. – dice Fontana – Il 25 Aprile? La Resistenza è patrimonio nazionale».

Lorenzo Fontana, nonostante ultimamente abbia scelto di sommergersi per salvarsi, è lo stesso che nel 2016 su Twitter così diceva «Porto volentieri il mio saluto agli amici di Alba Dorata per il loro congresso. (…) è un momento difficile, so che bisogna combattere, so che voi siete dei combattenti e assieme a noi sono convinto che riusciremo a rilanciare questa Europa».  Alba Dorata, partito neonazista greco è stato giudicato dalla Corte di Atene nel 2020 come una “associazione criminale” e sciolto. A maggio del 2017 in un video sulla sua pagina YouTube (poi rimosso) diceva: «Vogliamo un’Europa dove il matrimonio sia tra una mamma e un papà e i bambini vengano dati a una mamma e un papà! Le altre schifezze non le vogliamo neanche sentir nominare. Quando vi dicono che siete razzisti…fascisti…brutti e cattivi…ricordatevi che lo fanno perché i mass media sono in mano alle grosse potenze economiche, perché i mass media hanno paura di voi».

Aprile 2018, intervista al sito Rossoporpora, il leghista Fontana disse frasi così: «La sostituzione etnica è una scelta del tutto sbagliata, perché porta a un annacquamento devastante dell’identità del Paese che accoglie. Sono stato a Bruxelles per quasi nove anni. È una città fatta in larga parte da immigrati, con una presenza islamica del 30%… I quartieri ‘islamici’ sono popolati tra l’altro da seconde generazioni definite ‘europee’, ma che in realtà non condividono nulla di quanto attiene alla nostra civiltà». «Penso che l’accoglienza massiccia dei migranti sia anch’essa parte del progetto di una società fluida, debole dunque al suo interno, destinata a essere manipolata e guidata dall’esterno». «Sono stato favorevolmente impressionato da tante dichiarazioni di Putin». «Le sanzioni contro la Russia sono parte dello scontro in atto in tutto il mondo tra globalisti e identitari». «Credo che le élites che governano l’Unione europea abbiano un mandato preciso, quello di distruggere la famiglia, che è la cellula della comunità e dei popoli. Vogliono creare un’Europa con cosiddette famiglie di altro genere, diverse da quella naturale».

A molti non è sfuggito che l’endorsement di Fontana per il 25 aprile arrivi poco dopo la mossa di Matteo Salvini che ha dichiarato: «il 25 aprile celebrerò la Liberazione del nostro Paese». Che è successo? Un improvviso rinsavimento? No, no, nulla di tutto questo. Semplicemente la Lega ha deciso di approfittare delle parole di Ignazio La Russa per martellare gli alleati di Fratelli d’Italia. Logoramento politico interno, uno dei vizi intramontabili di Salvini: occupare ogni spazio lasciato scoperto da Giorgia Meloni per coprire una nuova area e inseguire nuovi voti. Non è nemmeno politica, è politicismo che se ne frega dei temi e dei valori sul tavolo. Salvini l’ha fatto su Draghi, sul Ddl concorrenza, sul decreto Cutro, sul Ponte che prima era una schifezza e ora è una priorità, sui meridionali che prima erano peste e poi oro.

Il 25 aprile, per questi, è solo un altro scalpo da portarsi a casa. Tanto per avere un’idea del valore che gli danno.

Buon lunedì.

Il metodo Meloni: chiagni e fotti (anche per una vignetta)

Ieri è stata una vignetta di Natangelo, oggi magari sarà un tweet di un utente qualsiasi, domani i deliri di qualche spostato. Sono passati mesi dall’insediamento del governo più vittimista di sempre e molti sembrano non avere capito come funziona. Giorgia Meloni e i suoi compagni di governo spendono gran parte delle loro energie quotidiane per individuare un appiglio per spostare il focus. È la loro attività preferita, è la loro salvezza.

Che ieri il dibattito politico si sia concentrato su una vignetta satirica mentre ci sarebbe ancora da dire e da scrivere sul rilancio delle teorie suprematiste da parte di un ministro (cognato della premier) e di altri esponenti della maggioranza dimostra che il vittimismo in Italia paga, eccome. Lo spazio di dibattito e di stampa che avremmo potuto dedicare a quella schifezza che è il decreto Cutro (fin dalla scelta del nome, con una tragedia di stranieri usata per concimare la violenza sugli stranieri) è stato assorbito dalla vasta solidarietà bipartisan alla sorella della presidente del Consiglio. Roba di un provincialismo e di una miopia politica che fa sorridere i commentatori internazionali che ci guardano basiti (fonte: colleghi della stampa estera incrociati ieri al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia).

Questa destra che ogni giorno bullizza gli avversari politici non con la satira (magari, saremmo almeno un Paese divertente) ma a cannonate sui social dei suoi leader politici e sulle prime pagine dei giornali amici. C’è più violenza ogni giorno negli editoriali di Libero e de Il Giornale (solo pescandone due a caso) di qualsiasi vignetta. Su quelli tutto tace, non vola nemmeno una mosca. Non ci si rende nemmeno conto della differenza tra la violenza di un “carico residuale” riferito a delle persone usato da un ministro rispetto alla satira, qualsiasi satira.

Così anche ieri questi se la sono cavata. Nel frattempo Bankitalia ci ha fatto sapere che l’ideona di Giorgetti di “tagliare il cuneo fiscale per rilanciare il Paese” è una mancetta da 16 euro al mese. Ci siamo persi l’Ufficio di Bilancio che ci avvisa dell’impossibilità di controllare come vengano spesi i soldi del Pnrr. Continuiamo a perderci una crisi idrica storica che sta stringendo la gola all’Italia (e al mondo). Ci siamo persi la Corte Ue che boccia l’Italia sulla proroga ai balneari. Ci siamo persi Italia, Polonia e Ungheria “condannate” dal Parlamento europeo per la retorica “anti-diritti, anti-gender e anti-Lgbtiq”. Ci stiamo perdendo la demolizione del Reddito di cittadinanza pezzo per pezzo mentre non esiste ancora uno strumento alternativo.

Chiagni e fotti. Chissà oggi cosa troveranno in giro per il quotidiano vittimismo.

Buon venerdì.

 

La storica Ponzani: “Cresce una pericolosa zona grigia di sottovalutazione del fascismo”

frame da un video Rai

Processo alla Resistenza, con questo titolo fortemente rievocativo, quasi epico, del suo libro pubblicato da Einaudi, Michela Ponzani, giovane docente di storia contemporanea all’Università degli studi di Roma Tor Vergata, denuncia una “rimozione dalla memoria collettiva”, la dimenticanza di un valore, e ancora di più, il tentativo ripetuto di omologare la parte fondamentale della guerra al nazifascismo. Il  processo del titolo è quello dibattuto nelle aule giudiziarie dopo il 1945, sulla presenza di atti violenti e omicidi nel processo storico che ha portato alla Liberazione. Una discussione che, in tutti gli anni a seguire, fino ad oggi, ha infiammato il mondo mediatico, creando distorsioni, manipolazioni e luoghi comuni anti resistenziali.
Un lavoro ponderoso, otto capitoli ricchi di ricerche, fonti storiche, citazioni, fatti narrati con la versatilità dell’esperienza di docente e di conduttrice e autrice per Rai Storia.

Il libro termina con un capitolo conclusivo dal provocatorio titolo “Ma che dobbiamo festeggiare?” Da qui comincia la nostra intervista realizzata in occasione della presentazione del volume a Roma il 20 aprile al Teatro Manzoni: “In realtà è una citazione di un titolo giornalistico scritto da Almirante nel 1955,in occasione del primo discorso pronunciato dal presidente Gronchi per il decennale della Liberazione”, risponde Ponzani. “Come a dire che non c’erano vincitori e vinti, non c’era chi stava dalla parte giusta, né c’era stato chi ci aveva liberato, tanto gli americani sarebbero arrivati lo stesso…. Quella era un’Italia alla ricerca di radici identitarie, impegnata a rincorrere una falsa “pacificazione”. Attraverso gli anni, solo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sentito il compito di rimettere al centro del discorso pubblico il carattere antifascista della Resistenza. Oggi forse festeggiamo questa presa di posizione”.
Nel 2018 Simonetta Fiori su Repubblica scriveva: ”Da come celebriamo la nostra festa civile capiamo lo stato di salute del nostro Paese.”, lei è d’accordo?
E’ un po’ quel che stavamo dicendo, nel tempo la narrazione “bonaria” del fascismo che in fondo avrebbe, secondo alcuni, fatto anche cose giuste, al pari del nazionalsocialismo tedesco, ha creato quella che a me appare come una “zona grigia”, nel Paese, nella stampa. Basti pensare ai tanti articoli di Indro Montanelli in proposito, a giornalisti revisionisti come Gianpaolo Pansa…negli anni la vulgata neofascista accreditava gli uomini della Repubblica sociale come “salvatori”, riabilitando ex fascisti e collaborazionisti della Rsi, autori di stragi e crimini contro civili perché “costretti ad obbedire ad ordini superiori”. Pensiamo a Priebke, tenuto in salvo in un appartamento, reo confesso, mai pentito. Alla fine i partigiani venivano dipinti come pericolosi fuorilegge, espressione della violenza della guerra. Pensiamo venendo ai giorni nostri alle sortite del presidente del Senato Ignazio Benito La Russa sulle rappresaglie di partigiani a via Rasella che, a suo dire, sarebbero state perpetrare contro un “gruppo di musicisti in pensione….
Negazione pervicace della realtà storica ed umana che l’Anpi ha stigmatizzato nella manifestazione  a Roma con lo striscione ”Non erano musicisti-23 Marzo 1944 a via Rasella”, alla quale ora seguiranno cerimonie in onore delle donne partigiane, a via Urbana, al Foro Traiano e a via Tasso. Per lei cosa vuol dire oggi essere antifascisti ?
Vuol dire avere una memoria collettiva della Storia e non una memoria “condivisa”, altrimenti, come è sempre successo fino ad ora, ogni anno, in prossimità del 25 aprile, si risveglia una polemica da “derby” di calcio, una non appartenenza, in fondo indifferenza di fronte ai principi della nostra democrazia.
Forse l’antifascismo è stato “appannato” da una massiccia presenza del Pci, alle sue origini ? Potrebbe essere stata questa una ragione di esclusione?
C’è stato un momento in cui le cose collimavano, ed è vero che la sinistra di allora (che non era tanto nell’apparato quanto tra operai e contadini) ha pagato il prezzo più alto. Ma era appunto il periodo in cui c’era solo il Pci a difendere le classi più deboli. Poi è stato diverso”
Qualche storico ha rimproverato alla sinistra di non aver tenuto in vita la tradizione antifascista, è d’accordo ?
Il centrosinistra postcomunista ha rinnegato i propri valori, facendo una politica di retroguardia (ricordiamoci le parole di Luciano Violante che nel suo discorso di insediamento da presidente della Camera equiparò partigiani e ragazzi di Salò, pensiamo al tentativo di riscrivere la Costituzione con le forze di centro-destra. E più in generale al tentativo di riscrivere la storia del Novecento…
Il sottotitolo del suo libro recita: “l’eredità della guerra partigiana nella repubblica” qual è l’eredità?
Saper guardare agli errori, a chi è rimasto fermo, senza mai agire con gli altri. Saper vedere anche la vicenda umana di quel gruppo di uomini e donne, il cui rapporto con il popolo ha avuto anche conflitti, ma che da questo è sempre stato aiutato, ha avuto rifugio e armi. Ereditare quei valori vuol dire non cristallizzare questa parte di Storia, come un monumento, la lezione profonda è politica, è la condanna dell’individualismo, del proprio tornaconto, in favore di una partecipazione democratica.

Rovelli:«La scienza cresce provando e riprovando. Se i buchi bianchi non esistessero? La prenderei benissimo»

Studioso e saggista di fama internazionale il fisico teorico Carlo Rovelli è da poco tornato in libreria con  Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, edito da Adelphi Edizioni. Diversamente dalla maggior parte dei libri di divulgazione scientifica, in questo libro ci racconta e rende spettatori di una ricerca in corso, del processo di scoperta stessa. Per saperne di più gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Carlo Rovelli, da ricercatrici sappiamo bene che, più che trovare le risposte, è importante porsi le domande giuste. Vorremmo quindi chiederle: da quale domanda nasce la ricerca che racconta nel suo libro?

Nasce dal desiderio di cercare, nell’universo, qualche indizio che possa confermare il lavoro teorico che ho svolto nel corso della mia vita. Ho cercato per tutta la vita di comprendere le proprietà quantistiche dello spazio e del tempo. L’universo si è mostrato essere pieno di buchi neri, negli ultimi anni. I buchi neri, il modo in cui evolvono, può essere la chiave per accedere con le nostre osservazioni alle proprietà quantistiche dello spazio tempo.

In cosa i buchi bianchi si differenziano dai buchi neri? Quali le “tracce” che lasciano nell’universo? È possibile immaginare tra qualche anno una loro “fotografia”?

Un buco nero è come uno stretto pozzo in cui possono cadere molte cose. Un buco bianco è come una piccola sorgente da cui possono uscire molte cose. Le tracce che lasciano nell’universo potrebbero essere molte, ma non le conosciamo ancora bene: potrebbero emettere radiazione, o potrebbero addirittura essere una parte di quella misteriosa sostanza che riempie l’universo e ci confonde, e che ora chiamiamo “materia oscura”. Una loro foto… chi lo sa? Se mi avesse chiesto dieci anni fa se una foto di un buco nero fosse possibile, avrei risposto “no, non credo proprio”… e invece… ora le abbiamo.

Quali nuove altre domande apre questa ricerca? Nel libro accenna molto brevemente al Big Bang e alla materia oscura, ci può spiegare meglio?

I buchi bianchi potrebbero originare dalla trasformazione di buchi neri generati nell’universo primordiale, poco dopo il Big Bang. O addirittura potrebbero essere stati generati prima del Big Bang, e avere attraversato il “grande rimbalzo” che potrebbe avere dato origine al Big Bang. Sappiamo ancora poco di quella fase dell’universo, e i buchi bianchi potrebbero aver rappresentato un ingrediente importante di quanto accadde allora.

Nel libro scrive, con grande onestà, che la sua teoria sui buchi bianchi, per quanto bella, potrebbe rivelarsi in disaccordo con eventuali future evidenze sperimentali. Come la vivrebbe? Come si supera il dubbio paralizzante di essere in errore pur accettando l’incertezza che ogni teoria porta con sé?

La scienza cresce “provando e riprovando”. Se l’idea che i buchi bianchi esistono fosse sbagliata, comunque non sarebbe stato inutile studiarla e comprendere perché non esistono. In fondo sono delle soluzioni della teoria di Einstein, previsti dalla teoria, quindi se non esistono dobbiamo capire perché. Se poi non esistono… “la vivrei” benissimo comunque! Se davvero ogni dubbio o incertezza dovesse essere “paralizzante”, non usciremmo mai di casa, non crederemmo a nulla e nessuno, e vivremmo paralizzati dalla paura! È chi pensa di avere certezze che si illude…

Albrecht Dürer, Melencolia_I

In un passaggio del libro molto suggestivo, in cui spiega cosa succede sull’orizzonte di un buco nero, ci mostra la bellissima incisione di Dürer, “Melancolia I”. Nell’interpretazione di Finkelstein la sorgente della nostra malinconia è «l’impossibilità di accedere all’assoluto», la caduta quindi in un ineluttabile relativismo in cui non può esistere alcuna “verità” condivisa. La relatività speciale di Einstein deriva dall’idea della costanza della velocità della luce in ogni sistema di riferimento e la relatività generale deriva in fondo dal principio di equivalenza tra massa inerziale e gravitazionale. Quindi delle realtà universali (l’assoluto di Finkelstein?) da cui si derivano realtà “relative”, che dipendono dalla prospettiva dell’osservatore. Non pensa allora che Einstein (e non solo lui) ci suggerisca in qualche modo di superare il principio di non contraddizione per mettere insieme universalismo e relativismo, uguaglianza e diversità?

Penso che non ci sia contraddizione fra universalismo e relativismo, uguaglianza e diversità. La vita è fatta di equilibri, non di assiomi intangibili. Non esiste solo l’Assoluto da una parte e il relativismo completo dall’altra. Questi sono due estremi sciocchi. In mezzo, fra i due, c’è la realtà della nostra vita, dove abbiamo convinzioni senza per questo rinunciare al dubbio. Riteniamo la nostra conoscenza sia affidabile, anche se sappiamo che è incompleta, e probabilmente contiene errori, che però possiamo correggere. L’ansia di assoluto è solo paura di accettare la vita. Il relativismo completo è solo non rendersi conto che abbiamo conoscenza affidabile e valori morali ed estetici che fanno parte di noi. Il fatto che negoziamo tutto ciò in continuazione non toglie loro valore.

Un altro tema molto affascinante, di cui ha scritto estesamente anche in un precedente volume (L’ordine del tempo), è lo scorrere del tempo. Nel libro spiega bene come la freccia del tempo appaia a livello macroscopico a partire da un disequilibrio iniziale e si manifesta con un aumento di entropia. Una volta appianato il disequilibrio e raggiunto l’equilibrio, il tempo non ha più una direzione privilegiata. Nella vita degli esseri viventi questo “equilibrio finale” equivale alla morte. Possiamo però dire che tra gli esseri viventi, l’uomo è l’unica realtà che si oppone a questo inesorabile aumento dell’entropia attraverso la creatività? Per esempio, quando inventa l’ombrello, le scarpe, i vestiti, o la medicina…

Non credo che in questo senso ci sia nulla di unico in quello che fa l’uomo (e neanche in quello che fa la donna). Facciamo quello che fanno gli altri esseri viventi: non ci opponiamo alla crescita dell’entropia, anzi, la nostra vita stessa, compresi gli ombrelli, sono forme in cui l’entropia cresce. La crescita dell’entropia non è ciò che ci fa morire. È ciò che ci fa vivere. Se trovassimo un modo per non invecchiare, aumenteremo la crescita dell’entropia, non la diminuiremo. La “bassa entropia” cioè l’energia libera che alimenta la vita, ci piove addosso abbondantissima e per noi inesauribile dal sole. Non la stiamo combattendo… Stiamo aiutandola a dissiparsi… Noi siamo forme del suo dissiparsi…

 Sappiamo bene che la creatività umana si manifesta non solo in invenzioni “utili” (le scarpe, l’ombrello, la medicina), ma anche e soprattutto in invenzioni “inutili” alla nostra sopravvivenza materiale: dall’arte, alla musica, alla stessa fisica di base. Questa capacità di immaginare, che ci permette di pensarci a cavallo di un fotone o sull’orlo di un buco nero, e che ci permette di “vedere sempre un po’ più in là” è per lo psichiatra Massimo Fagioli, penna storica del settimanale Left, la specificità stessa della specie umana, una capacità di intuire ciò che non si vede senza averlo percepito prima. Forse anche Newton la riteneva una capacità connaturata e non “imparata” quando scriveva di essere stato come «un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva insondato davanti a me». Lei come la vede?

È difficile dire cosa caratterizzi esattamente la nostra specie. Non lo so, credo che gli antropologi ne discutano. Ogni specie ha tante caratteristiche che la differenziano dalle altre. La nostra è certo curiosa, flessibile, loquace, capace .di pensare al futuro, vedere lontano, organizzare tutto questo in informazione collettiva, che cresce con apporti di molti individui e si accumula nella cultura…. Direi che non siamo i soli a fare cose che non hanno una ovvia utilità immediata… anche perché cosa sia utile, cosa non lo sia dipende da come si guardano le cose… Forse direi che non abbiamo bisogno di volerci pensare diversi dal resto della biosfera, per stare bene nella nostra pelle e fare quello che facciamo, con passione, con gioia e con dolori, come, almeno, tutti gli altri mammiferi.

I Quaderni in inglese, il traduttore Buttigieg e il pensiero di Gramsci nel mondo intero

La diffusione planetaria dell’interesse per Antonio Gramsci ha posto da tempo il problema della disponibilità di traduzioni corrette e integrali dell’opera gramsciana, la cui mancanza è stata non di rado, e in diverse parti del mondo, una delle cause (o delle scusanti) di tanti usi impropri e di fraintendimenti di categorie, passaggi, concetti dei Quaderni del carcere. Non mancano traduzioni parziali in diverse lingue, e non c’è dubbio che col tempo si siano moltiplicati gli sforzi per completarle in alcune importanti macroaree linguistiche, come quella portoghese-brasiliana per esempio, nella consapevolezza, sempre più alta man mano che Gramsci andava diventando un autore globale, che una conoscenza diretta dei testi dell’autore sardo fosse una condizione necessaria per comprenderlo pienamente e utilizzarlo politicamente nel modo giusto.

È chiaro quindi che tradurre Gramsci in inglese sia un’operazione che va ben al di là della meritoria opera di diffusione di Gramsci nel mondo anglofono, e significa in un certo senso garantire all’autore dei Quaderni del carcere un passaporto per il mondo intero, permettergli di arrivare davvero ovunque. Il corposo volume a cura di Salvatore Cingari ed Enrico Terrinoni Gramsci in inglese. Joseph A. Buttigieg e la traduzione del prigioniero (Mimesis, 2022) è al tempo stesso un omaggio allo studioso e traduttore scomparso e una ricognizione di alcuni momenti e passaggi della penetrazione del pensiero gramsciano nel mondo di lingua inglese.

Joseph A. Buttigieg era nato a Malta nel 1947 ma era statunitense di adozione. Anglista e comparatista di formazione, ha insegnato nell’Università di Notre Dame, Indiana, dove non ha mai disgiunto l’attività accademica da una fondamentale tensione militante, esercitata anche nell’ambito degli studi letterari. Proprio in questo contesto di interessi ha incontrato Gramsci, iniziando a occuparsene, grazie anche alla sua conoscenza della lingua italiana, e avviando da subito una frequentazione in senso politico e culturale del suo pensiero e della sua opera.

Buttigieg ha pubblicato in vita la traduzione dei primi otto Quaderni di Gramsci, (Prison Notebooks) fra il 1992 e il 2007, introducendo nel mondo degli studi gramsciani un formidabile strumento di mediazione internazionale. Altri Quaderni erano pronti per la pubblicazione quando Buttigieg è morto nel 2019, proprio durante la campagna elettorale per le primarie della Presidenza degli Stati Uniti nelle quali suo figlio Pete, attuale Segretario ai trasporti, perse la contesa per la nomination contro Joe Biden. Il lavoro va certamente continuato, prima di tutto a partire dal contributo di Marcus E. Green che ha già pubblicato la traduzione del Quaderno 25 sui subalterni e che ha lavorato a lungo con Buttigieg ai precedenti Quaderni. Vi è del resto una differenza fra i Quaderni miscellanei e quelli speciali che potrebbe rendere molto più agevole la prosecuzione del lavoro. Nei primi, infatti, Gramsci stende i testi per la prima volta (testi A) e quindi il lavoro di traduzione ha richiesto un intervento di base, fondativo; negli altri, invece, è prevalente la seconda stesura degli stessi testi (testi C), organizzati in modo diverso e solo in alcuni casi riscritti sostanzialmente. I testi B, infine, sono quelli che hanno avuto un’unica stesura. Ma vi è anche un’altra differenza importante fra i due gruppi in termini di lavoro da completare: Buttigieg ha lavorato sull’edizione critica dei Quaderni del carcere curata da Valentino Gerratana e uscita nel 1975 ma, per il pubblico non italiano a cui si rivolgeva, ha esteso enormemente l’apparato delle note rispetto all’edizione di partenza. La grande mole di note che è stata necessaria per il gruppo dei Quaderni già usciti copre quindi in buona misura anche le necessità di quelli ancora inediti.

Gramsci in inglese offre nella prima parte due studi su Buttigieg: il primo, di Guido Liguori, è una ricostruzione del profilo biografico e politico dello studioso, soprattutto in riferimento alla sua presenza nella cultura italiana, ma con importanti incursioni nell’impegno di Buttigieg nel dibattito nord americano; il secondo, di Enrico Terrinoni, sull’interesse di Buttigieg per James Joyce e sul suo lavoro teso a sottrarre l’autore di Dublino alla morsa del New criticism che ancora negli anni Ottanta imprigionava l’opera joyciana in un estetismo iperletterario che per Buttigieg ne sminuiva la dimensione storica e politica. In questo approccio, che era di fatto un attacco alla critica culturalista così egemonica negli Stati Uniti, sono già presenti tutto il modo di Buttigieg di rapportarsi ai fatti letterari e il suo gramscismo teorico e militante.

Joe Buttigieg fu infatti tra i fondatori, e a lungo presidente, della International Gramsci Society, la rete nata per mettere in contatto tutti gli studiosi e le studiose di Gramsci nel mondo. Da levantino quale era, visse questo incarico in modo pragmatico: fotocopiava personalmente le pagine del Bollettino dell’associazione che lui stesso produceva, e che era lo strumento di collegamento fra Italia, Giappone, Brasile e tanti altri Paesi prima della rivoluzione digitale, e poi lo spediva in busta a mezzo mondo dalla sua università. Studiare e organizzare erano una cosa sola per lui, proprio secondo l’insegnamento gramsciano.

Molto importante è la seconda sezione del libro, che presenta diversi saggi dello studioso scomparso finora inediti in italiano, e che coprono un arco di tempo compreso fra gli anni Ottanta e la sua morte: decenni nei quali gli studi e gli usi gramsciani si sono enormemente ampliati e in parte trasformati, volgendo verso una ricerca storica e testuale più rigorosa, per correggere qualche eccesso interpretativo degli anni precedenti. Da buon traduttore, Buttigieg aveva sempre vigilato sull’attenzione al testo, ma prestando la massima cura a non perdere mai la dimensione militante della ricerca gramsciana, il suo carattere intrinsecamente interdisciplinare, la sua profonda natura politica. Amico e sodale culturale dell’intellettuale palestinese padre dei Post colonial studies Edward Said (che per primo sollecitò la Columbia University Press a occuparsi di Gramsci, come racconta Guido Liguori nel suo contributo), Buttigieg ha anche contribuito a far conoscere in Italia alcune figure centrali del gramscismo anglo americano, come Stuart Hall e Cornel West, oltre che lo stesso Said. A questi intellettuali e al loro uso creativo di alcune categorie gramsciane, come quella di subalterno, Buttigieg riconosceva di aver sottratto Gramsci all’accademismo culturalista cui era relegato negli Stati Uniti, e di aver dialogato proficuamente con il suo pensiero per conoscere la società del presente allo scopo di trasformarla. Questi saggi e articoli, scritti per contesti diversi, rivelano, pur con accenti differenti dovuti ai diversi momenti e alle diverse fasi, la costante attenzione di Buttigieg al tema della spoliticizzazione del dibattito culturale in America. Da questo punto di vista, Gramsci e le letture che ne venivano proposte erano una vera e propria cartina al sole, soprattutto in riferimento a certe categorie, come quella di società civile, troppo spesso posta in opposizione strumentale a quella di Stato, come soggetto autonomo dell’azione pubblica: una versione che ha avuto una certa fortuna ma che evidenzia un fraintendimento significativo del pensiero di Gramsci. Questa sezione, con le traduzioni di Renato Tomei, Enrico Terrinoni, Salvatore Cingari, Antonella De Nicola e Francesca Antonini, si presenta anche come un prezioso contributo alla bibliografia di Buttigieg disponibile in italiano e quindi un servizio utilissimo anche alla ricerca futura. In questo senso si colloca anche l’attenta e preziosa bibliografia delle pubblicazioni gramsciane di Buttigieg curata da Maria Luisa Righi.

La terza sezione del libro propone un ampio sguardo transdisciplinare sulla fortuna di Gramsci nei paesi anglofoni. Alfredo Ferrara firma un saggio su quel capitolo esemplare rappresentato dalla lettura che Stuart Hall fa della stagione del thatcherismo come risposta organica alla crisi, utilizzando non solo le categorie gramsciane (rivoluzione passiva in primo luogo) ma anche una certa analogia fra il cruciale passaggio di fase degli anni Trenta vissuto da Gramsci e quello degli anni Ottanta. Il contributo di Salvatore Cingari, autore anche del saggio introduttivo al volume, cerca di evidenziare alcuni limiti interpretativi della critica “crociana” di Richard Bellamy a Gramsci, ricostruendo il percorso dello studioso inglese dagli anni Ottanta a quelli della Terza via blaireana. Non meno interessante è il contributo di Giovanni Pizza, che dimostra la perdurante influenza di Gramsci sull’antropologia anglofona contemporanea, e propone un costante confronto con la più generale evoluzione di questo campo di studi in Italia e in Europa.

Anna Rita Gabellone propone un argomento certamente poco frequentato e di particolare interesse: le considerazioni critiche di Sylvia Pankhurst sul tema dei Consigli di fabbrica, consegnate al suo quaderno privato ad oggi inedito. Il tema riapre la questione del rapporto del Partito italiano delle origini con l’emancipazione femminile a livello internazionale e potrebbe certamente aprire nuovi scenari d’indagine. L’interesse di Pankhurst per Gramsci, inoltre, mostra che la conoscenza di Gramsci in Gran Bretagna precede di molto la più nota e studiata stagione del secondo dopoguerra.

La cornice generale dell’intero lavoro è offerta dal contributo di Derek Boothman, e riguarda la natura stessa della traduzione come ponte fra culture. In Gramsci la “traducibilità dei linguaggi” è un caposaldo teorico ineludibile, una vera e propria “concezione del mondo”. «Il vero traduttore – scrive Boothman – è la comunità di arrivo di un discorso, che deve decidere essa stessa se e come vuole incorporare un concetto nella propria cultura». La lingua, insomma, non basta a far passare le idee: è necessaria anche una disponibilità, un ambiente, un contesto: specialmente nel caso di un pensiero complesso e a tratti eterodosso come quello gramsciano.

Non è un caso che fra le più recenti pubblicazioni di ambito gramsciano molte si concentrino proprio sulla traduzione, sul passaggio fra culture, sulla traducibilità, e vedo certamente un filo rosso che lega questo libro a Gramsci in Brasile. Un esempio riuscito di traducibilità filosofica, a cura di Gianni Fresu, Luciana Aliaga e Marcos Del Roio (Meltemi 2022), e L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, a cura di Lelio Laporta e Francesco Marola (Bordeaux 2022). E, per andare leggermente più indietro, alla collana Studi gramsciani nel mondo (Il Mulino, Fondazione Gramsci) e alla valorizzazione che delle traduzioni gramsciane è stata fatta dall’Edizione nazionale delle Opere di Antonio Gramsci a cura della Fondazione Gramsci (Treccani).
Manca Buttigieg, ma il solco è segnato.