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La prima di Schlein

Dopo la sua elezione a segretaria del Partito democratico Elly Schlein mercoledì ha tenuto la sua prima conferenza stampa. Un’ora e mezza di fronte ai giornalisti con la consapevolezza che la stragrande maggioranza di loro avesse già il titolo del proprio pezzo in testa ancora prima di sentirla. Così stamattina a occhi chiusi potremmo indovinare, senza nemmeno bisogno di leggere le prime pagine, quali quotidiani l’abbiano marchiata come esempio di “vuoto giovanilismo”, chi stia strillando la sua radicalità pericolosa per la Patria, chi la accusa di veltronismo, chi di draghismo e chi di comunismo.

La segretaria risponde a tutti, provando a districarsi tra le pieghe di un PD che ha tra i suoi talenti quello di riuscire a fiaccare i segretari un secondo dopo la loro elezione. Prova a puntellare le sue posizioni spesso appiattite dalle agenzie: ripete di essere a favore del sostegno all’Ucraina ma contesta l’uso strumentale della guerra per la rincorsa agli armamenti («sarebbe meglio avere una difesa comune europea, il che non significa che, finché non c’è una condivisone vera, possiamo vedere un aumento della spesa militare in ogni paese Ue»); annuncia un “probabile” no alla mozione di M5S e Alleanza Verdi-Sinistra sul termovalorizzatore di Gualtieri specificando che è «una scelta che era già stata presa dall’amministrazione di Roma. Ereditiamo scelte già fatte» ma lasciando intendere che quella potrebbe non essere la strada per il futuro; si dichiara “personalmente” a favore della gravidanza per altri ma riconosce che la proposta di legge del PD non la prevede; anche sull’orsa JJ4 espone una posizione intermedia.

La sceneggiatura costruita dietro alla sua prima conferenza stampa è chiara: parlare delle mancanze del governo, puntellare i punti comuni dell’opposizione, sottolineare un atteggiamento da parte della maggioranza che non è una sequela di scivoloni ma un preciso “schema”. Ha ragione la segretaria del PD a sottolineare come questo governo che qualcuno a tutti i costi vorrebbe potabilizzare sia in realtà uno dei peggiori governi di sempre. È comprensibile anche che Schlein rivendichi la responsabilità di tenere insieme le diverse anime del partito.

Ma il sentiero stretto in cui la segretaria dem si è infilata vincendo le primarie oltre a essere scomodo è anche veloce. La distanza tra la sua radicalità e il pachidermismo del partito non potrà essere condonata a lungo. La conferenza stampa di ieri è stata la radiocronaca di Schlein sul partito che non era il suo. Non le sarà concesso di fare “solo” opposizione. Che questo governo faccia schifo i suoi elettori (reali e potenziali) lo sanno già. Come si potrebbe fare è la vera domanda.

Buon giovedì.

A lezione di… immaginazione con Shakespeare

«Il cervello può imaginare leggi per il sangue, ma un temperamento ardente varca d’un salto ogni statuto più gelido. La folle giovinezza si avventa come il lepre al disopra delle reti dell’impotente ragione». Porzia, ricca ereditiera, parla con Nerissa, la sua cameriera. È la scena II dell’atto I de Il mercante di Venezia, di Shakespeare. La storia di un prestito e di un corteggiamento. Soprattutto, un’opera teatrale. Immortale. Per questo motivo l’abbiamo letta in classe. Tutta. Ai ragazzi ho raccontato di Antonio, il “mercante di Venezia” e di Bassano e Graziano, amici del mercante. Di Porzia e Shylok, usuraio ebreo. E poi abbiamo provato a rappresentarne alcune parti. Dopo aver studiato cosa fossero il “soggetto” e la “sceneggiatura”. Gli “atti” e le “scene”. Le “battute” e le “didascalie”. Insomma, aver capito la struttura del testo teatrale. Che è molto altro. Moltissimo, altro. Innanzitutto un regalo a sé stessi. A prescindere. Contemporaneamente, un propellente per scatenare l’immaginazione. Per dare sostanza al rigore. Per sorvolare placidamente sull’Umanità, scendendo in picchiata sui suoi sentimenti. Attraversandoli fino a raggiungere la profondità. Che danna oppure salva.

Niente è come il teatro, secondo me. Anche se si è “solo” spettatori. Oppure lettori.
«Una volta la gente era considerata, Howard. C’era il rispetto, c’era la solidarietà, c’era la gratitudine. Al giorno d’oggi, tutto arido, senz’anima. L’amicizia non ha più nessun valore, la considerazione… Capisci perché ti dico questo, Howard? Non ci si ricorda più di me». Abbiamo visto in classe Morte di un commesso viaggiatore, di Miller, nella versione del 1968, con la regia di Sandro Bolchi, soffermandoci sul monologo di Willy Loman, interpretato da Paolo Stoppa. Le riprese “storiche” non hanno distratto i ragazzi. Invece, quasi tutti, presi dall’ossessione di Willy per il successo, unica strada per il raggiungimento della felicità materiale, per lui (e la società americana che rappresenta). Abbiamo letto, tanto. L’Enrico IV, di Pirandello, quando il protagonista chiede a Lolo, Franco, Momo e Fino, « … trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma!». E poi lo sfogo che Graciela fa al marito, seduto in poltrona a leggere con indifferenza il giornale, in Diatriba d’amore contro un uomo seduto, di Marquez. «Non fosse per via delle albe, rimarremmo giovani tutta la vita. È proprio vero: invecchiamo all’alba. I tramonti sono deprimenti, ma ti preparano all’avventura di ogni notte. Le albe no», ha recitato Viola nelle parti di Graciela.

Abbiamo incontrato Trofimov che confessa ad Anja il suo amore ne Il giardino dei ciliegi di Cechov. «Superare quel che di meschino e illusorio impedisce di essere liberi e felici, ecco lo scopo e il senso della nostra vita. Avanti! Avanziamo inarrestabili verso una stella luminosa, che splende là, in lontananza! Avanti!», ha imparato a memoria e recitato Mattia.
Ai ragazzi ho parlato di Vladimiro ed Estragone, i due protagonisti di Aspettando Godot di Beckett. E poi del Padre e della Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Ancora, del Cyrano de Bergerac, di Rostand. Insomma, di Cyrano, di brutto aspetto ma di cuore nobile, che aiuta il rivale in amore Cristiano, bellissimo ma incapace di articolare il suo sentimento in parole degne dell’amata, a conquistare Rossana. Abbiamo attraversato i secoli, spostandoci da un Paese all’altro. Senza fermarci. Curiosi. Mossi da una volontà incrollabile. Lo confesso, inaspettata.

In ogni lezione c’è stato spazio per qualche personaggio di una delle opere teatrali che conosco. Glielo dovevo, ai ragazzi. Che hanno bisogno di sapere quel che sperimentano gli attori sul palcoscenico. Le battute possono essere anche uguali. Ma ogni rappresentazione è unica. Straordinaria. A renderla tale sono i sentimenti. Insomma, il fluire delle vite. La commistione tra finzione e realtà. Ogni volta irripetibile.

L’autore: Manlio Lilli è archeologo e insegnante

Come i nazisti

“La teoria della sostituzione è un mito neonazista secondo il quale i bianchi vengono sostituiti dai non bianchi. Spesso, come tante teorie cospirative, in ultima analisi gli ebrei vengono indicati come i veri colpevoli. Oggi la grande sostituzione è un mito della cospirazione di estrema destra, diffuso in Europa negli ultimi anni, composto da due fattori. Il primo sostiene che l’identità occidentale sia sotto assedio da parte di massicce ondate d’immigrazione da paesi non europei, portando ad una sostituzione degli europei bianchi sul piano demografico. Il secondo afferma che questa sostituzione sia stata orchestrata da un misterioso gruppo come parte di un loro grande piano per dominare il mondo – cosa che faranno creando una società totalmente omogenea sul piano razziale. Questo gruppo viene spesso identificato con gli ebrei/sionisti”. Lo scrive il sito del governo di cui il ministro Lollobrigida fa parte. Al ministro sarebbe bastata una ricerca su Google per accorgersi della cretineria a cui crede.

Ma non è una novità. La sostituzione etnica è narrazione centrale negli ultimi dieci anni per Meloni e Salvini come aveva notato su L’Espresso Jacopo De Miceli, autore de L’ideologia della paura (People), curatore anche dell’Osservatorio del complottismo in Italia: «È stato dato poco peso al fatto che Giorgia Meloni sia la prima presidente del Consiglio in Occidente che ha sposato la teoria della grande sostituzione mentre il Times di Londra non l’ha fatto passare inosservato». Per questo la enorme cretinata di Lollobrigida nella maggioranza non ha fatto nessun effetto. Qualche esempio? M. Salvini, il 3 maggio 2017 «È in corso un tentativo di sostituzione etnica» G. Meloni 20 giugno 2017 «Penso ci sia un disegno di sostituzione etnica». M. Salvini 7 marzo 2017 «Ennesimo tentativo di sostituzione etnica» G. Meloni 28, gennaio, 2017 «Un’invasione pianificata. Si chiama sostituzione etnica».

La vera sostituzione è quella di giornalisti, con molti che raccontano questo governo come centrodestra senza vedere che è la peggiore destra di sempre. Con richiami che evocano il razzismo dei tempi più bui, come certifica il sito del governo.

Buon mercoledì.

Della serie parliamo di qualità dell’immagine

Fine serie mai è un nutrito e stimolante testo a più mani che delle serie non solo ne ripercorre storia, esordi e maggiori successi, ma che invita a riflettere sulla portata di questo nuovo modo di raccontare per immagini. Come scrive Piero Spila, uno degli autori: «Se la serialità televisiva è l’ultima espressione della contemporaneità, ciò non rappresenta rottura ma continuità». E aggiunge il regista Massimo D’orzi: «La questione non è serialità o cinema, ma fra immagine e immagine. Dare un senso a questa parola resta tuttora la grande sfida che attende i cineasti del nuovo millennio».

Pubblicato da L’Asino d’oro edizioni è un libro sulle serie televisive a cura di Giusi De Santis, studiosa, critica cinematografica e teatrale con i contributi di Natascia Di Vito, montatrice, Guido Silei, sceneggiatore, Piero Spila, critico cinematografico e sceneggiatore, e con la postfazione del regista Massimo D’orzi. Li abbiamo intervistati per Left.
Al centro del volume c’è una interessante riflessione sulla senso della parola immagine, attingendo al pensiero di Massimo Fagioli, sviluppata dalla psichiatra Alice Dell’Erba. Perché, scrive De Santis, che ha studiato a lungo l’opera di Buñuel: «La migliore proposizione di una serie sta nella capacità di produrre idee, di veicolare e sostenere quell’imprescindibile nesso tra immagine e pensiero. Proprio di questo parlava Fagioli in una intervista “Addormentarsi e sognare” del 2013 di Francesco Gatti di Rai News 24, in occasione dell’uscita del libro Left 2009».

Il libro nasce dopo l’incontro a Roma, promosso da L’Asino d’oro nel giugno 2021, dal titolo “Di che serie sei? La serie TV e i nuovi confini dell’audiovisivo”. Così con Di Vito, Silei e Spila, Giusi De Santis ha cominciato ad approfondire l’argomento. Che cosa vi interessava raccontare? Le chiediamo. «Inizialmente, ci premeva sottolineare la distanza tra cinema e serie tv. Aspetto che poi è scivolato in secondo piano, perché siamo stati presi dalla curiosità nei confronti di un’immagine che, in termini di evoluzione e sperimentazione, ci chiamava a rispondere a una grande sfida contemporanea. Da un punto di vista teorico, ma anche storico-sociale». Il libro dunque va oltre la “diatriba” cinema e serialità. Ma cosa ha in più una serie rispetto ad un’opera per il cinema e cosa in meno? «Affidandosi alla possibilità di declinare una storia in più stagioni, sicuramente una serie può accogliere, al suo interno, una dilatazione maggiore del racconto, sia contenutistica che temporale – risponde la curatrice del volume -. Quando poi, accanto alla sperimentazione stilistica, si fa ricorso a una ricerca sull’immagine, in termini di movimento e di contenuto, allora il confine tra i due prodotti audiovisivi si assottiglia sempre di più. Nel caso però dell’opera cinematografica, resta pur sempre la straordinaria esperienza della visione in sala».

Sulla stessa linea si è mossa Natascia Di Vito che spiega le differenze nel montaggio: «L’impianto produttivo di serie e serial comporta un’ottimizzazione delle tempistiche lavorative molto più serrata rispetto al cinema. Dal punto di vista della creatività, c’è una grande differenza tra la maggior parte dei prodotti seriali della tv generalista e quelli delle piattaforme. Nel primo caso si ricorre a una narrazione classica, con un montaggio lineare scandito da tempi di racconto che rispettano la struttura descrittiva della grammatica della drammaturgia tradizionale. Tutto cambia con le emittenti OTT e Pay tv, il montaggio diventa veloce, discontinuo, fatto di scavalcamenti di campo, stravolgimento di sguardo sui personaggi: espedienti che mantengono alto il livello di adrenalina nello spettatore». Nel suo intervento in questo volume Di Vito approfondisce anche il ruolo dell’eroe e dell’antieroe. Perché, le chiediamo, spesso il pubblico si rispecchia in quest’ultimo? «Si parla dei “rough heroes”, caratterizzati da un’immoralità che nasconde una profonda umanità: la loro “cattiveria” è giustificata da vissuti familiari o sociali che li portano a ribellarsi, anche a costo di commettere azioni efferate. Hanno capacità intellettive, uno spiccato senso dell’umorismo, oppure celano fragilità e insicurezze. Nel libro faccio l’esempio della serie You in cui gli autori riescono a far vedere agli spettatori chi è davvero il  personaggio Joe. È uno stalker, violento certamente, ma ci appare anche in tutta la sua fragilità. Gli sceneggiatori riescono a comunicare anche l’invisibile agli spettatori. Ma c’è di più, la serie ci parla di un’idea culturale di fondo in cui si propone l’ideologia di un mondo fluido, senza identità precise, che scatena probabilmente un paradossale processo di identificazione e di rassicurazione in un pubblico, soprattutto adolescente, che fatica a trovare e ritrovare una propria identità».

Quali sono gli elementi fondamentali in una serie televisiva? Chiediamo a Spila. «Nel racconto cinematografico bisogna andare presto al punto, badare al ritmo e temere le cosiddette zone morte. La serie televisiva punta invece su archi temporali sovradimensionati, sulle digressioni, su un rapporto con lo spettatore più libero e inesauribile». Sempre in tema di sceneggiatura, Silei, qual è dunque la differenza sostanziale tra la scrittura per il cinema e per la serie? «Al più alto grado il cinema è poesia, mentre la serialità è prosa. Ma una cosa non esclude l’altra: esistono poeti che scrivono romanzi, e romanzieri che scrivono poesie. Come sostengono i due autori intervistati nel volume, Stefano Sardo e Emanuele Scaringi, in fondo si tratta sempre di raccontare storie e di emozionare il pubblico». In questo momento, qual è il pensiero della critica in generale sulle serie e su quelle italiane? «La mia impressione è che manchi un vero pensiero critico, perché la critica “ufficiale” è iper-polarizzata, ma soprattutto perché nell’epoca del “mi piace/non mi piace” tutti si considerano competenti e la critica ha perso la sua funzione sociale».

Seguendo i “mi piace”, il pensiero corre a Mare fuori. A che cosa si deve il successo di questa serie, considerato che è in dialetto e che tratta argomenti così lontani dall’ordinario della maggior parte degli adolescenti? «Mare fuori dà l’opportunità a tanti ragazzi di guardare una fiction tradizionale su medium a loro familiari. L’avvento delle piattaforme digitali, offrendo nuovi metodi di fruizione, ha allargato il bacino di utenza di molti prodotti audiovisivi, soprattutto tra gli adolescenti, che fino a qualche anno fa erano esclusi dalla classica visione seduti sul divano davanti al televisore». Quindi, è un momento davvero florido anche per l’Italia, così domandiamo a D’orzi se anche per le serie vale l’idea del tempo: «Il cinema è l’arte che ha potuto sviluppare per prima l’idea di un tempo legato all’immagine, che non è un tempo cronologico e nemmeno storico. È un tempo umano. Le serie Tv hanno apportato un concetto nuovo: quello del superamento dell’idea di un luogo, di uno spazio, di un tempo preciso in cui assistere alla visione».

Una rivoluzione dell’uso del tempo, come scrive lo stesso Spila: «Il non dover chiudere necessariamente il discorso, ma viceversa lasciarlo aperto, vivo, ovvero il Fine serie mai che dà il titolo al libro». La serie, però, non come anestetico, ma come accompagnatrice di un viaggio sostiene D’orzi e ancora gli chiediamo: di che cosa dovrebbe parlare una serie per descrivere il presente? «Sono interessato a quel che accade alle nuove generazioni. Ho la sensazione che vi sia qualcosa di nuovo. Quelli trascorsi sono stati anni di sospensione, di attesa, che se da una parte hanno alimentato conflitti, paure, dall’altra hanno fatto emergere la volontà di prendere la vita nelle loro mani; rivendicano il diritto alla salute fisica e mentale». Le serie tv sono in grado di percepire questo sentimento che giunge dalle nuove generazioni? O vogliono solo imporre modelli? «Ecco di questo dovrebbe parlare con maggior coraggio una serie tv. E anche il cinema. Il libro supera il discorso sulle differenze, permettendo di conoscere un genere e tutte le sue potenzialità». Il contemporaneo come ha sottolineato De Santis, cui per concludere chiediamo: qual è il futuro delle serie? Il futuro della serie? «Scopriamolo, perché no?, in una seconda stagione di Fine serie mai».

Pensiero umano e intelligenza artificiale, una ricerca apre nuovi orizzonti

Dopo un 2022 che ha visto il crollo in borsa dei principali titoli tecnologici, e successivamente decine di migliaia di licenziamenti da parte delle big tech, nel marzo del 2023 il mondo economico ha tremato per il fallimento della Silicon Valley Bank, banca specializzata nel fornire credito a start-up e imprese del web e dell’intelligenza artificiale. Questo settore è stato sempre contraddistinto da enormi profitti e da improvvisi rovesci. Già alla fine degli anni 90 esso attraversò una profondissima crisi, superata con un cambiamento del modello di business delle sue principali imprese. Cosa sta succedendo oggi? La prospettiva che queste tecnologie siano in grado di aprire una nuova fase di crescita va tramontando, oppure siamo di fronte ad una battuta d’arresto fisiologica dopo anni di travolgenti sviluppi? Difficile rispondere. Indubbiamente i cambiamenti avvenuti nelle nostre società non sono reversibili: ormai non vi è settore della vita economica e sociale che non faccia ampio uso di queste tecnologie. Eppure le conseguenze di lungo periodo sono ancora tutte da definire. Rimane aperta, in particolare, la questione decisiva se prevarrà la logica del controllo sociale e del profitto, o se queste tecniche saranno indirizzate al benessere di tutti.

Di qui l’interesse del volume dell’Asino d’oro (Pensiero umano e intelligenza artificiale. Rischi, opportunità e trasformazioni sociali, a cura di A. Ventura, ndr) che arriva nelle librerie ad aprile. Nel testo psichiatri, artisti, giornalisti, studiosi di discipline scientifiche e sociali si interrogano sui cambiamenti avvenuti nei loro campi di attività e sulle potenzialità, i limiti e i rischi dei programmi di intelligenza artificiale. Nel mettere a confronto quest’ultima con il pensiero umano, si mostra quanto sia illusoria l’idea secondo la quale non vi siano limiti alla possibilità delle macchine di svolgere le funzioni concettuali tipiche degli esseri umani. Gli autori riconducono l’impossibilità delle macchine di riprodurre il pensiero all’inscindibile legame tra l’esperienza del corpo e il pensiero stesso.

Questa esperienza inizia alla nascita e ha il suo sviluppo non grazie ai sensi fisici ma nelle immagini, negli affetti e nei rapporti sociali. Nella sostanza, l’idea che le macchine possano imitare il funzionamento del pensiero umano è fondata su di un errore concettuale: la differenziazione tra hardware e software non è applicabile alla vita umana – e neanche a quella animale – in quanto non vi è uno “spirito” che entra nel corpo e gli fornisce vita e movimento. Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale offrono così l’occasione per discutere degli esseri umani, delle loro esigenze, della loro creatività artistica e, al fondo, di ciò che distingue il pensiero umano da altre forme di “intelligenza”, sia essa quella animale o quella generata dalle macchine. La tesi del volume è che la conoscenza della realtà mentale umana nei suoi aspetti più profondi costituisca la premessa per una società a misura d’uomo.

La presentazione

Il nuovo libro edito dall’Asino d’oro edizioni, Pensiero umano e intelligenza artificiale, contiene saggi di Andrea Ventura (che ne è anche il curatore), Alessio Ancillai, Federico Fiori Nastro, Luca Guiducci, Caterina Medici, Dori Montanaro, Matteo Tortoli, Federico Tulli e Carlo Zaghi. Sarà presentato il 21 aprile alla libreria Feltrinelli Appia di Roma, con gli interventi di Elisabetta Amalfitano, Andrea Filippi, Emanuela Fontana, Dario Piagno, modera il collaboratore di Left Lorenzo Fargnoli.

In apertura, l’illustrazione della copertina di Zoe Brandizzi

“Il frutto della tarda estate”, ritratto di giovani donne che in Tunisia aspirano a una vita diversa

Il frutto della tarda estate è il primo lungometraggio narrativo della regista franco-tunisina Erige Sehiri, già autrice del documentario Railway men (2018) con il quale denunciava – intrecciando con acume i volti, le voci e le testimonianze di cinque lavoratori resilienti – le precarie condizioni lavorative e manutentive in cui versava la compagnia ferroviaria nazionale tunisina all’indomani della Rivoluzione dei gelsomini.
Presentato in anteprima mondiale nella sezione Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes, e premiato al workshop Final cut in Venice durante il Festival di Venezia nel 2022, Il frutto della tarda estate racconta, con vividezza di immagini, le aspirazioni, gli amori e il desiderio di cambiamento delle giovani protagoniste, impegnate nella raccolta stagionale dei fichi in un frutteto a nord-ovest della Tunisia.

Nato dall’incontro fortuito di Erige Sehiri con la protagonista, Fidé Fdhili, durante la ricerca del cast per la realizzazione di un film su una stazione radio locale, Il frutto della tarda estate diviene invece l’occasione per esplorare e affrontare tematiche come il patriarcato, il rapporto con gli uomini e le condizioni lavorative delle giovani lavoratrici agricole, e Sehiri lo fa affidandosi all’autenticità di attori e attrici non professionisti, abitanti di quei luoghi e conoscitori del dialetto berbero.

L’estate sta volgendo al termine e la luce tiepida filtra tra le foglie, forti e resistenti: «Offrono riparo e tregua dal caldo» afferma la regista, «ti avvolgono, ma possono anche essere un po’ soffocanti». L’intento è quello di comporre, mediante immagini, una coralità di personaggi e storie, rimarcandone la necessità di rivendicare quella libertà inevitabilmente negata, soprattutto dalla mancanza di opportunità e da contesti familiari conservatori. È il frutto, invece, ad essere delicato e, come i rapporti interumani, ad esigere conoscenza e gesti sapienti: bisogna fare attenzione, non scuotere i rami, ma muoversi tra di essi come in una danza. Di corpi, foglie e braccia. A fare da contraltare la presenza delle donne più anziane, maggiormente ancorate alle tradizioni, ma capaci di lasciarsi andare ai ricordi, alle confidenze, fino a sciogliere nel canto, e poi nel pianto, i momenti di tensione emotiva e drammaturgica. È l’amore il fulcro tematico che stempera i conflitti e abbrevia le distanze generazionali: «Leila, perché l’amore è così difficile? così complicato?», domanda una ragazza all’anziana che si occupa del frutteto.

Come suggerito dal titolo originale (Under the fig trees) il frutteto è l’unico scenario ad ospitare il racconto, ad accoglierne le corde più intime e private, lasciando nel fuoricampo, e quindi solamente evocati, ambienti e storie legati al contesto ordinario di ognuno dei personaggi.
Tutto si svolge nell’arco temporale di una giornata, al termine della quale le donne più giovani «si fanno belle perché non vogliono sembrare sempre braccianti. È il loro modo di affrancarsi dalla loro condizione sociale. Il loro stato di lavoratrici scompare e tornano ad essere donne. Fuori dalle convenzioni che le imprigionano».

Non hanno nemmeno il coraggio di fare i razzisti

Ci siamo. Il cosiddetto decreto Cutro, quell’abominio giuridico che il governo Meloni ha partorito con i cadaveri ancora caldi a pochi metri che la presidente del Consiglio e i suoi ministri non hanno avuto il tempo di onorare per correre a cantare al karaoke della festa a sorpresa per il compleanno di Matteo Salvini. Il disegno è chiaro: costruire un Cpr (centri di permanenza che in realtà sono centri illegali di detenzione) in ogni Regione per “normalizzare” l’illegalità; velocizzare i rimpatri per fottersene ancora di più dei diritti calpestati sulle domande d’asilo; cancellare fieramente la “protezione speciale”.

Poiché Giorgia Meloni vorrebbe apparire una xenofoba di “buon senso” (è il trucco per fingersi non razzisti) ci ha spiegato che «la protezione speciale è una protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa» durante la sua visita in Etiopia. Falsissimo. La protezione speciale può essere assegnata (art. 19) a un migrante se ci sono «fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare». Questa parte della legge è stata eliminata con il decreto Cutro.

Come spiega il sito Pagella Politica “Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, raccoglie periodicamente i dati sugli esiti delle richieste d’asilo nei 27 Stati membri. Secondo i dati più aggiornati, nel 2022 almeno 11 Paesi europei, tra cui Germania e Spagna, avevano riconosciuto una forma di protezione per «motivi umanitari», in aggiunta allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. È in questa categoria che rientrano i dati delle protezioni speciali assegnate dall’Italia, che fino al 2018 concedeva la protezione umanitaria (poi sostituita da quella speciale), eliminata dal primo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle. Curiosità: anche all’epoca vari esponenti del governo avevano difeso l’eliminazione della protezione umanitaria dicendo che esisteva solo in Italia. Come avevamo spiegato, non era vero. Meloni, all’epoca all’opposizione, aveva fatto dichiarazioni simili.  Nel 2022, per esempio, la Germania ha concesso oltre 30 mila protezioni per ragioni umanitarie e la Spagna quasi 21 mila. L’Italia ha invece riconosciuto quasi 11 mila forme di protezione speciale. Nel 2018 la Camera dei deputati ha pubblicato un dossier dove ha confrontato i vari permessi di soggiorno concessi dai Paesi europei per motivi umanitari. Ognuno di questi permessi ha le sue caratteristiche e va ad aggiungersi, come detto, ai permessi di soggiorno concessi ai rifugiati o a chi è stata concessa la protezione sussidiaria”.

Le organizzazioni hanno criticato profondamente la nuova norma e gli emendamenti presentati in parlamento. Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e membro dell’Asgi, ha commentato: “Gli emendamenti al disegno di legge Cutro proposti dal governo in sede di conversione del decreto stesso al senato sono scellerati non solo per ciò che riguarda l’abrogazione della protezione speciale ma anche per la demolizione del sistema di asilo vigente (sia per ciò che riguarda la accoglienza che le procedure)”.

Scrive Asgi: “Rifiutiamo la contrapposizione tra migranti regolari e irregolari che emerge dalla scelta di inserire in questo testo provvedimenti inerenti al Decreto flussi, senza rafforzare il sistema di asilo: se da tempo chiediamo a gran voce l’allargamento dei canali legali di ingresso, sappiamo bene che non possono essere queste misure a rispondere al bisogno di protezione internazionale. E chi in questi venti anni ha provato ad assumere in regola dei lavoratori stranieri sa che le misure previste sono del tutto insufficienti, perché l’unica possibilità per favorire incontro tra domanda e offerta di lavoro regolare sta nel scardinare del tutto il meccanismo previsto dalla Bossi Fini. E’ fondamentale invertire velocemente la rotta e promuovere politiche eque ed efficaci sull’immigrazione e sul diritto di asilo. Partendo dall’opposizione a queste norme, in un percorso che chiede ingressi legali, corridoi umanitari, garanzia dell’accesso alla procedura di asilo e all’accoglienza, abbandono delle politiche di esternalizzazione e dei loro scellerati risultati, come l’accordo con la Libia, salvaguardia delle vite in mare”.

Buon martedì.

Simonetta Sciandivasci: Do voce alle donne che decidono di non fare figli

Difficile non farsi contagiare dalla vitalità straripante di Simonetta Sciandivasci, anni 37, giornalista delle pagine culturali di uno dei quotidiani di nobile tradizione come La Stampa. E soprattutto autrice di un libro-antologia dal titolo I figli che non voglio pubblicato da Mondadori.

Intanto, perché questo titolo perentorio? Simonetta Sciandivasci risponde sorridendo: «Sì, in effetti lo sembra, perché ho questo modo un po’ sbruffone di porre le cose, ma invece sia il libro che il titolo sono il frutto di molti esami di coscienza e di confronto con colleghi e amici. E con centinaia, forse migliaia di donne che hanno scritto al giornale per quattro mesi sul tema, quando l’ho proposto».
Dalla rubrica “Caro Istat”, Simonetta ha tratto alcune lettere, inserite nel libro a testimoniare la varietà di opinioni e di motivazioni che conducono tutte allo stesso punto: non vogliamo figli. Una conclusione che contraddice una cultura “maternale”, il peso del cattolicesimo, concetti ricorrenti come “la benedizione di un figlio”, “un figlio come espressione di sé…”.

«A questo punto della mia vita – continua l’autrice – mi sono posta il problema ed ho risposto che no, la mia esistenza non si completa con quella di un figlio, così ho posto la domanda ai lettori in un dibattito durato mesi. Come si legge, alcune donne si dicono felici di entrare nella minoranza senza figli, calcolata del 5%, della popolazione italiana, i famosi sessanta milioni». Dagli ultimi dati Istat in Italia, nel 2022 risulta che il 33,2% della popolazione vive da solo, mentre si è creato una famiglia il 31,2%; il 45,4% di donne è senza figli, di cui il 17,4% child free, cioè ha scelto decisamente la non maternità, mentre per le altre, determinanti possono essere problemi sociali, mancanza di lavoro, di strutture per l’infanzia o altro.

I figli che non voglio è un libro corale: a cominciare dalla impaginazione, dalla partecipata prefazione del vicedirettore de La Stampa Andrea Malaguti, alla descrizione della pre-riunione redazionale in cui “Sciandi”, come dicono i colleghi, enuncia la propria decisione di non avere figli, frase buttata lì, che, in quanto estranea al momento, diventa improvviso oggetto di interesse comune, segno del grado di coinvolgimento che può suscitare nel pubblico.
Chiediamo: è libro che si rivolge a un pubblico solo di donne? «Macchè! Anche di uomini, alcuni anche grandi di età. Questo l’ho verificato però nelle presentazioni in libreria, sui social ho sperimentato l’odio e la violenza verso la mia persona, accusata di tradire il mio stesso sesso. Nelle librerie è stato diverso: ricordo una coppia di anziani che non avevano avuto o voluto figli, che invece chiedevano perché non potersi occupare dei figli degli altri: “Voglio essere “generativo”, diceva lui, e questo mi è sembrato molto bello».

E qui emerge il grande tema delle adozioni, delle difficoltà che si incontrano, di quanti, magari aiutati dallo Stato, sarebbero in grado di crescere i molti bambini che riempiono orfanotrofi e istituti. Secondo i dati dell’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie i bambini dichiarati adottabili si attestano stabilmente a circa mille ogni anno mentre le famiglie che hanno presentato domanda di adozione nazionale sono ovviamente molte di più: nel 2021 sono state oltre ottomila (Italiaindati). Come un fiume in piena tutto quanto ruota intorno alla nascita, alla vita di un bambino, alle sue possibilità determinate dalla provenienza, entrano nel discorso, perfino la sorte del piccolo Enea, lasciato nella culla per la vita della clinica Mangiagalli. «In fondo – dice Sciandivasci – con un gesto di fiducia, di chi è convinto che sia possibile l’umana solidarietà: quella madre lascia in un luogo sicuro, caldo, un bambino che pensava di non riuscire a crescere», come ha lasciato scritto.

E tornando al libro: «Il mondo non è pronto ad accogliere la pluralità del concetto di maternità, perché lo legge solo come processo individuale» così sottolinea Carlotta Vagnoli, trentacinque anni, fiorentina, attivista e scrittrice, una delle donne sollecitate a scrivere sul tema. A lei fa eco Flavia Gasperetti, ricercatrice, traduttrice, autrice (Madri e no. Ragioni e percorsi di una non maternità, Marsilio), la prima in Italia a dire che esistono donne felici di non aver mai pensato alla maternità. Donne non impensierite dalla solitudine, dall’anzianità, dalle spese da non condividere… Oppure, come si legge nel libro, donne che rifiutano luoghi comuni sul fatto di fare figli “per farsi aiutare da anziani, per veder continuare la specie…”.

Nel libro parlano venti donne e sei uomini, le donne sono quasi tutte scrittrici, autrici, cineaste. La domanda è: sono donne che rivolgono al proprio lavoro il senso materno? La “creatura” da proteggere è quel tipo di realizzazione personale? «Non mi pare che nessuna di loro viva la scrittura o l’arte in questo modo. Per quel che mi riguarda non credo assolutamente in una sostituzione di questo tipo, sarebbe folle. Il lavoro realizza o impensierisce o tormenta, ma è altro», risponde Sciandivasci.
Tra le testimonianze, c’è anche quella struggente, di una giovanissima persona transgender. «Sì, Alec Trenta, ventitrè anni, autore di una graphic novel Barba. Storia di come sono nato due volte (Laterza) dove ha messo su carta il problema “figli”. In realtà Alec era Lisa e prima di accedere alla transizione completa la endocrinologa gli ha proposto di congelare i suoi ovuli per pensare, un giorno di potere essere padre».
E comunque Alec è l’unico a parlare del corpo. Nelle pagine scritte dagli uomini, scrittori, giornalisti, autori (Daniele Mencarelli, Raffaele Notaro, Francesco di Taranto, Gianluca Nicoletti) la paternità non viene nominata come esito di un rapporto d’amore, ma quasi come di un fatto razionale, come raccontare una vita d’altri. Unica eccezione, lo scrittore cinquantasettenne Marco Franzoso (“Il bambino indaco”) rimasto solo con il figlio di otto mesi, che ha cresciuto lasciando il lavoro. Lì la vicinanza anche fisica con il piccolo si sente.

Infine, il libro è come se rappresentasse un volo ad ali spiegate sui grandi temi di cinquant’anni di femminismo, da Luisa Muraro a Betty Friedan, da Barbara Duden ad Adrienne Rich, Elisabeth Badinter…. È così?
«Sì» dice sorridendo Simonetta Sciandivasci e non teme il confronto con quella pesantissima, conflittuale, e un po’ astratta discussione frutto dei tempi in cui forse per avere ascolto bisognava ”essere contro”. «Non mi interessa teorizzare – continua -, ho usato volutamente un tono leggero, ma non superficiale per affrontare un argomento così delicato per noi, per dire che non siamo “donne sbagliate”. Recentemente Ferdinando Camon sul quotidiano Avvenire ha lamentato il fatto che nessuno più vuole fare figli perché siamo tutti infelici, ma la felicità non si misura dai figli, io sono fiduciosa nel futuro, desidero il contributo degli altri, io voglio solo essere me stessa».

Nella foto l’immagine della copertina dell’antologia “I figli che non voglio” a cura di Simonetta Sciandivasci

“Il verbo degli uccelli”, la magia del poema sufi (e del teatro collettivo) al Ravenna festival

«Potrei avere un microfono ad archetto? È da sempre il mio sogno!», dice Noemi, di professione parrucchiera, una volta salita sulle spalle di Nicolò Kurshumi in arte DonKoro, elettricista e bravo rapper a tempo perso, per fare la parte del pavone.
«No. Non abbiamo molti soldi per quel tipo di microfono, siamo un teatro comunitario, abbastanza squattrinato, direi», risponde il regista Luigi Dadina.
E quando il nostro giovane e promettente artista Nicola Montalbini, armato di pennarelli, comincia a “tatuare” sui volti e sulle braccia dei nostri attori dei segni in caratteri arabi per identificare i vari uccelli, Hamza, un richiedente asilo somalo, si avvicina a me e comincia a bisbigliare bismillahi errahman errahim (in nome di dio clemente e misericordioso), formula che usano i musulmani per scacciare pericoli o un assalto di presunti diavoli, allora gli chiedo «cosa succede Hamza?» e lui ribatte «cosa è questa magia che state praticando?». «No, Hamza, non è magia. È che non vogliamo ricorrere a delle maschere, allora abbiamo optato per leggeri segni…». «Ah, pure le maschere! Audu billahi! dio ce ne scampi!». Arriva alla riscossa Wajih, un richiedente asilo tunisino: «Ma che dici Hamza, questo si chiama teatro, non magia! Mi sa che non sai niente di teatro!».
Semiha, la nostra narratrice, si avvicina e mi dice: «Io non so pronunciare bene l’italiano, non avrò mai una dizione perfetta. Poi c’è “lui” che mi guarda sempre male, sicuramente perché non ho una buona pronuncia». Chiamo il “lui”: Lanfranco Vicari, in arte Moder, l’anima del centro culturale Cisim e aiuto regista malgrado lui. Gli riferisco le parole di Semiha, risponde con una fragorosa risata dicendo: «Io guardo male tutti!».
Noemi, DonKoro, Hamza, Wajih, Semiha e altri adulti, universitari, lavoratori, donne immigrate, disoccupati, bambini, bambine adolescenti e giovani artisti fanno parte degli oltre 100 attori non professionisti che saranno in scena per lo spettacolo teatrale Mantiq at-Tayr, Il verbo degli uccelli, un poema masnavi sufi persiano del 1200, di Farid ad-Din Attar, prima tappa di un progetto comunitario pluriennale chiamato Grande teatro di Lido Adriano (Gtla), che origina dal centro culturale Cisim gestito e diretto dal Lato oscuro della costa, dal 28 maggio al 2 giugno in apertura del Ravenna Festival 2023.

Il verbo degli uccelli è un lungo poema sapienziale articolato e complesso, ma anche facilmente riassumibile per l’estrema efficacia del nucleo della favola che racconta. Un gruppo di uccelli sentendo la necessità di organizzarsi meglio, decide di andare alla ricerca del proprio Re. Il Re degli uccelli, Simorgh. Dopo molte peripezie, dopo aver varcato le sette valli, dopo che molti uccelli si ritireranno durante il percorso, solo trenta tra loro arriveranno alla meta. Trenta uccelli su centomila riescono ad arrivare alla soglia della settima valle e si accorgono che Simorgh è uno specchio in cui si riflette la loro immagine. Il fine del viaggio è la ricerca di sé stessi.

Lido Adriano, il cui nome è tratto dal XXI canto Paradiso della Divina Commedia, «Nostra Donna in su lito Adriano», località di circa 7mila abitanti essenzialmente immigrati, sia stranieri che italiani, situata a circa 9 km da Ravenna, è forse l’unica banlieue sul mare con oltre 60 nazionalità. D’estate diventa la località balneare più frequentata dei lidi ravennati. Come ha detto una ragazzina: «Per vivere a Lido Adriano bisogna farsi stranieri tra gli stranieri».

Nel 2010 il Lato oscuro della costa e Ravenna Teatro hanno ridato vita a una ex scuola di mosaico, Il Cisim, facendone un centro culturale polivalente e un importante luogo di aggregazione per i giovani e meno giovani di Lido Adriano. «Il lato oscuro della costa – si presenta così – è un collettivo di giovani rapper che vanta già una notevole produzione. Da anni hanno eletto Lido Adriano a proprio territorio d’appartenenza e ispirazione, per la sua universalità di periferia globale, mosaico di etnie che mantiene il concetto circoscritto di quartiere. Infatti l’hip hop, per la sua capacità di raccontare le storie delle periferie di tutto il mondo, è il linguaggio artistico più diffuso tra le seconde generazioni di immigrati»: attività musicali, residenze artistiche, laboratori artistici, attività formative, spettacoli di teatro, incontri pubblici e convegni, mostre. Tutto l’anno.

«In Argentina, nel quartiere della Boca a Buenos Aires, assistemmo a uno spettacolo di Catalina Sur. L’esempio emblematico del teatro comunitario che tutt’ora riveste una grande importanza nel teatro argentino. Fu un’esperienza indelebile che ha continuato a nutrirmi. Musica, canzoni, grandi cori, recitazione, danza. E anche l’orgoglio di raccontare una nazione, una città, un quartiere, La Boca. E per raccontare la nascita di quei luoghi non si poteva che raccontare delle infinite vicende umane di immigrazione. La partenza da una terra lontana, il viaggio, le difficoltà dei primi anni, la nuova patria. Ci colpì in particolare l’evidente e fattiva collaborazione di molti abitanti del quartiere, che fungevano da guide, c’era chi vendeva cibo di strada all’esterno del teatro, le maschere e la biglietteria erano gestite da persone del quartiere. Quel teatro era oramai così importante e conosciuto da attirare molti taxi dal centro della città. Un lavoro di base in un quartiere difficile aveva prodotto un’identità e un evento che era diventato noto e desiderabile per gli argentini come per gli stranieri in visita a Buenos Aires», così Luigi Dadina, attore e regista di lungo corso e cofondatore della compagnia teatrale Le Albe, da cui partì l’idea del Grande teatro di Lido Adriano. «Era come se lo stormo degli uccelli de La Boca si fosse alzato in volo alla ricerca di un senso e avendo incontrato il teatro avesse trovato il Simorgh, che si era mostrato in forma di specchio, aiutandoli a ritrovare sé stessi e la comunità. Il progetto del Grande teatro nasce dalla lettura della straordinaria ricchezza e complessità di situazioni e artisti che il Cisim ha generato e ri-generato», aggiunge. «Non so spiegare come sia successo che cento, centocinquanta, duecento persone si siano ritrovate con serietà a dare vita, a vivere insieme questo viaggio. Bambini, giovani di Lido, di Ravenna, ravennati con origini non italiane, rifugiati arrivati dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Nigeria, dal Gambia, immigrati arrivati a Ravenna dalla Calabria, studenti universitari, pensionati milanesi che hanno deciso di vivere a Lido, una koinè cosmopolita. Più ci inoltriamo nel lavoro più mi è evidente perché la scelta sia caduta su questo testo mistico, sapienziale, sacro», conclude.

Il Gtla non pensa allo spettacolo come prodotto finale, pronto da esibire a un pubblico giudicante, ma si nutre del processo che conduce a quel prodotto, vive del lavoro di gruppo, quotidiano, che coinvolge una molteplicità di persone che, legate da rapporti inediti, si valorizzano a vicenda e, con la collaborazione costante, ricevono e danno significato. Bambini e anziani, uomini e donne, persone di diversa estrazione sociale, cittadini che hanno diversi abitudini, mestieri e capacità, contribuiscono ognuno con il proprio bagaglio di cultura, creatività, esperienza di vita alla realizzazione di uno spettacolo, la cui essenza risiede nel fare teatro. L’idea è quella di un laboratorio, dove non esistono protagonisti, ma si vive e si agisce in comunità, per la comunità.

Da dicembre 2022 sono attivi, presso il Cisim, sette laboratori, tutti gratuiti, tre di teatro, uno per bambini, uno per ragazzi e adolescenti e uno serale per adulti; un laboratorio di rap; un laboratorio di musica; un laboratorio di sartoria e un laboratorio di scenografia.

Il Gtla parte dall’assunto che l’arte è un diritto di tutti i cittadini e vuole ripensare Lido Adriano come uno spazio vitale, uno spazio di partecipazione e non di paura, un luogo dove incontrarsi, e non un dormitorio da cui fuggire, favorendo la socializzazione, il lavoro di gruppo e la pratica comunitaria dove è di fondamentale importanza il rapporto tra cittadino-attore e cittadino-spettatore.

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L’appuntamento
Sarà lo spettacolo sull’antico poema persiano Mantiq At-Tayr – Il verbo degli uccelli di Farid Ad Din Attar dal 28 maggio al 2 giugno ad introdurre in anteprima la 34esima edizione del Ravenna Festival, la cui programmazione si dipana dal 7 giugno al 23 luglio. La regia è di Luigi Dadina e la drammaturgia di Tahar Lamri. È il primo progetto del Grande teatro di Lido Adriano (Gtla), nato dal dialogo fra artisti e operatori di Ravenna e attorno all’attività del centro culturale Cisim.

L’autore Tahar Lamri è scrittore traduttore e laureato in legge con la specializzazione in Rapporti internazionali.

Le foto sono di Nicola Baldazzi.

 

Stessa spesa ma più poveri

Un capolavoro: riuscire a fare spendere gli stessi soldi allo Stato ma stringere le platee di beneficiari. Il Messaggero e Il Sole 24 Ore scrivono alcune anticipazioni sulla riforma del Reddito di cittadinanza e il quadro che ne esce è l’esatta fotografia di un governo che odia i poveri.

L’importante è, ovviamente, abolire il Reddito di cittadinanza per riempire gli stomaci di chi per mesi ha dipinto i poveri come un’orda di fannulloni nemici della patria. Così nelle bozze del nuovo Decreto lavoro il sussidio si sdoppierà nella Garanzia per l’Inclusione (in sigla Gil), con valore massimo uguale al Rdc attuale, per chi vive in un nucleo familiare con minori, over 60 o disabili e dunque è ritenuto “non occupabile”, e nella Garanzia per l’attivazione lavorativa (Gal) per chi è in grado di lavorare.

Il costo degli interventi, il primo anno, sarà praticamente identico alla spesa sostenuta per il Rdc fino a prima dell’esplosione della povertà con la pandemia: 7,3 miliardi di cui 5,3 per la Gil e 2 per la Gal. Nel 2020 il Rdc ha assorbito 7,1 miliardi, saliti poi a 8,7 nel 2021 e assestati a 7,9 nel 2022. L’Italia ha dovuto aumentare la platea dei beneficiari perché le regole internazionali contano e alla fine il governo ha dovuto dimezzare gli anni di residenza in Italia richiesti agli stranieri, dopo una procedura d’infrazione dell’Unione europea.

La Gil potranno chiederla le famiglie con minori, un disabile, un over 60 o una persona con assegno per invalidità civile anche temporaneo e spetterà solo a chi ha Isee non superiore a 7.200 euro contro la soglia attuale di 9.360. La Gal, Garanzia per l’attivazione lavorativa, scatterà a gennaio 2024 e sarà di 350 euro al mese.  La stessa cifra è nella soluzione ponte (la Pal, Prestazione di accompagnamento al lavoro) riservata ai beneficiari del Rdc che al momento della scadenza dei 7 mesi di sussidio previsti per quest’anno abbiano sottoscritto un patto per il lavoro e siano inseriti in misure di politica attiva.

Ciò che conta sarà il risultato: costringere più persone ad accettare di fare gli schiavi trovandosi uno di quei bei lavori italiani che non riesce a fare galleggiare le persone sopra la soglia della povertà nonostante risultino “occupate”.

Buon lunedì.