Forse a molti non è chiara la gravità della situazione. Mentre le temperature rimangono ancora relativamente basse e la primavera fatica a fare capolino, la situazione siccità rimane gravissima in tutta Italia. L’ultimo allarme arriva dal fiume Po. Secondo l’Anbi, al rilevamento finale di Pontelagoscuro la portata è scesa a toccare mc/s 338,38, cioè oltre100 metri cubi al secondo in meno del minimo storico di aprile e ben al disotto dei mc/s 450, considerati il limite sotto cui il fiume è inerme di fronte alla risalita del cuneo salino.
Non solo: nel siccitosissimo 2022 questi dati vennero registrati il 4 giugno, vale a dire che il più importante corso d’acqua italiano vive una condizione di crisi idrica estrema, da monte a valle, con ben 40 giorni di anticipo sul già drammatico anno scorso. Altro dato allarmante è quello delle riserve idriche della Lombardia: manca il 58,4% di risorsa rispetto alla media storica ed il 12,55% sul 2022. Cresce anche il deficit di neve, che si attesta a – 68,8% rispetto alla media, cioè quasi il 10% sotto il minimo storico ed il 20% in meno rispetto al già deficitario 2022. Secondo Utilitalia, poi, i Comuni al massimo livello di severità idrica sono 13, tutti concentrati in Piemonte. A soffrire particolarmente sono le aree agricole: il 35,3% negli scorsi 24 mesi, ha sofferto di siccità severa-estrema. Certo, l’arrivo dell’ultima perturbazione che ha portato pioggia ha in parte salvato le semine, sottolinea la Coldiretti, ma se insieme alle precipitazioni giungessero anche temporali e grandine si rischierebbe di “provocare danni irreparabili alle coltivazioni e ai frutteti ma anche frane e smottamenti poiché i terreni secchi non riescono ad assorbire l’acqua che cade violentemente e tende ad allontanarsi per scorrimento.
Un rischio per la produzione agricola nazionale dopo che il brusco abbassamento delle temperature notturne con gelate tardive dei giorni scorsi al centro nord ha colpito duramente le coltivazioni con danni a macchia di leopardo fino al 70% a gemme e piccoli frutti sugli alberi di susine, ciliegie, albicocche, pesche ma anche su meli, peri, kiwi e vigneti già in fase avanzata di vegetazione”. “Settimana dopo settimana si aggrava la situazione idrica nel Nord Italia con crescenti conseguenze sull’economia e l’ambiente dei territori. Se l’anno scorso, la siccità costò 13 miliardi al sistema Paese, il 2023 si preannuncia peggiore nell’attesa del via operativo a piani e provvedimenti indispensabili per incrementare la resilienza alla crisi climatica”, commenta Francesco Vincenzi, presidente dell’Anbi. E Alessandro Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del fiume Po, non vuole parlare di emergenza: la situazione preoccupa, ma va “affrontata con una strategia convinta ed incisiva che guardi ad un orizzonte di medio-lungo periodo come strategia di adattamento al cambiamento climatico più a largo spettro”.
Un altro esempio? Secondo la Fondazione Cima, Centro Internazionale per il Monitoraggio Ambientale, ad aprile in Italia il deficit di neve si stabilizza a -64% rispetto a 12 anni fa. “Siamo giunti ormai alla metà di aprile, lasciandoci alle spalle i giorni nei quali, storicamente, si segna il picco di accumulo della neve in Italia, quelli intorno alla metà di marzo – si legge nell’analisi -. In altre parole, oggi i conti che possiamo fare per quanto riguarda la neve italiana sono quelli conclusivi per la stagione 2022/23, sui quali possiamo e dobbiamo basare le nostre strategie per la gestione idrica dei mesi a venire. E, purtroppo, non fanno che ribadire un andamento osservato nel corso di tutti i mesi invernali: poche precipitazioni e temperature miti che hanno portato a un significativo deficit di neve rispetto al decennio passato. Con questa scarsità dovremo fare i conti per le nostre necessità d’acqua in primavera ed estate”.
Turist Hotel, Kyiv, sveglia poco prima dell’alba.
Ci buttiamo sotto la doccia, ci vestiamo. Ricontrolliamo minuziosamente i nostri zaini.
Non possiamo correre rischi, ogni singolo etto degli oltre 30 kg che ci porteremo dietro è fondamentale: 4 bottiglie d’acqua a testa, una ventina di snacks, 6 barattoli di fagioli, un sacco a pelo, una coperta termica, 2 rotoli di carta igienica, un pantalone, un maglione termico e una manciata di biancheria pulita.
In più l’attrezzatura: un gimbal, 2 reflex, microfoni, numerose batterie, 6 power banks carichi, due torce, un drone.
Scendiamo che inizia ad albeggiare. Il furgone ci aspetta nel parcheggio dell’hotel. I nostri tre compagni di viaggio sono già a bordo.
Da lì a due ore il nostro autista ci abbandonerà in una strada di campagna nella provincia di Ivankiv.
Era marzo 2017, e stavamo per imbarcarci in un’avventura incredibile: un viaggio illegale, a piedi, di cinque giorni, all’interno della Zona di esclusione di Chernobyl, al seguito di un gruppo di stalker.
Una spedizione da documentare, perché poi sarebbe diventata un film.
Un’esperienza unica, e nessuno avrebbe immaginato che di lì a pochi anni non sarebbe mai più stata possibile.
Perché a causa della guerra, la Zona non sarà mai più la stessa.
Nel lontano 2002 il governo ucraino aprì per la prima volta la zona di esclusione di Chernobyl al turismo. Quell’anno ci furono 870 presenze.
Fino ad allora era possibile accedere alla Zona, ottenendo permessi speciali, solo a scienziati e giornalisti, anche se già esisteva il fenomeno illegale degli “stalker”.
Gli stalker, pescano il proprio nome dalla letteratura e cinematografia sovietica, più precisamente dal romanzo Pic-nic sul ciglio della strada” dei fratelli Strugatzki e dal film Stalker, capolavoro di A. Tarkovskij, mentre i più giovani si rifanno al videogame cult “S.T.A.L.K.E.R., uscito nel 2007 e ambientato proprio nella zona di esclusione.
Scopo degli stalker è vivere la Zona nella più completa libertà, sfidare sé stessi, sopravvivere qualche giorno a Pripyat (la città abbandonata dopo il disastro ndr) e, negli ultimi anni pre-pandemia accompagnare a pagamento turisti in cerca di emozioni estreme.
Tutto questo avveniva illegalmente, con accessi non consentiti lungo l’esteso perimetro dei 2.600 Km quadrati che formano la zona di alienazione. E poi a piedi, attraverso i fitti boschi e i numerosi villaggi abbandonati, in circa tre giorni di cammino si raggiunge la città fantasma di Pripyat.
Qui, i vari gruppi di stalker, spesso in competizione, vivono per qualche giorno, o anche per settimane, avendo come base alcuni appartamenti riallestiti alla meglio, solitamente nei piani alti dei numerosi palazzoni modernisti.
Nel frattempo si moltiplicarono i tour legali e nacquero svariate agenzie, più o meno affidabili, che permettevano una gita a Chernobyl in assoluta sicurezza, a prezzi tutt’altro che contenuti, se rapportati al tenore di vita ucraino.
Solitamente si trattava di oltre 100 euro per 4 ore nella Zona, con visita alle principali “attrazioni”, come l’ex colonia per bambini chiamata “Emerald summer camp”, distrutta da un incendio nel 2020, l’enorme radio-stazione Duga, e chiaramente la città di Pripyat con i suoi hot spot radioattivi in cui era possibile provare il brivido del bip-bip del contatore Geiger e visitare i luoghi simbolo quali il parco giochi, l’asilo, la piscina, l’ospedale, e molti altri.
Il turismo nella Zona ha permesso ad una delle aree Ucraine più depresse economicamente di avere un imprevisto e massivo indotto economico, e di sviluppare tutta una serie di attività legate a questi nuovi flussi turistici, come strutture ricettive, ristoranti, società di traporto persone e guide, per l’appunto.
Allo stesso tempo sono fiorite in Europa, anche qui in Italia, numerose associazioni che hanno improvvisato i viaggi a Chernobyl, appoggiandosi (per forza di cose) ai tour operator ucraini, ma caricando enormemente sui prezzi, lucrando sull’ignoranza e sulla mancanza di informazioni, e proponendo viaggi assolutamente normali spacciandoli per unici.
I numeri sono stati sempre in continua ascesa, e nell’ultimo anno pre-covid, grazie anche al successo della mini-serie HBO “Chernobyl”, il numero di visitatori ha sfiorato le 125mila presenze.
Questo è dovuto anche al crescente interesse nei confronti del cosiddetto “dark turism”, il turismo delle disgrazie, che è sempre esistito, ed è lo stesso che ogni anno porta milioni di turisti nel campo di Auschwitz-Birkenau in Polonia, o a vedere i resti di Pompei. Negli ultimi tempi, complice anche l’esplosione del movimento Urbex si sta però orientando verso mete sempre più esotiche e pericolose, oltre che verso vere e proprie esplorazioni illegali, come la città militarizzata di Varosha a Cipro, lo shuttle abbandonato a Baikonur in Kazakisthan, o l’isolotto/fortezza di Hashima in Giappone.
La Zona di esclusione di Chernobyl rientrava pienamente in quest’onda di interesse, e la sua popolarità era destinata a crescere anno dopo anno.
Se non ci fosse stata di mezzo l’invasione da parte della Russia.
Il primo giorno di guerra, il 24 febbraio, le truppe di Putin entrarono in Ucraina dal confine bielorusso proprio nella zona di esclusione di Chernobyl, e nel giro di poche ore presero possesso dell’intera area, compresa la centrale nucleare e i 300 tecnici che ci lavoravano. L’occupazione durò poco più di un mese, fino al 29 marzo, quando i militari russi, dopo il fallimentare tentativo di prendere la capitale Kyiv, si ritirarono e cambiarono strategia concentrandosi sul Donbass e sulle regioni più a est.
Uno dei più gravi danni causati dall’incompetenza dell’esercito russo in un luogo così pericoloso e delicato, è stato l’ignorare completamente il rischio radioattivo e le ricadute su ambiente e esseri umani, loro compresi, passando con mezzi pesanti e scavando trincee all’interno della Foresta Rossa, uno dei luoghi più inquinati in assoluto nell’intera zona di esclusione.
I radionuclidi nel tempo si depositano a terra e con le precipitazioni atmosferiche scendono nel terreno, diminuendo sensibilmente la loro presenza in aria.
Gli scavi e le movimentazioni massicce di terra operate dai soldati russi hanno disseppellito e rimesso in circolo un’enorme quantità di particelle radioattive, e secondo le fonti internazionali, i valori in aria sono oggi di venti volte superiori a quelli rilevati prima della guerra, con una preoccupante media di 65 microsievert all’ora.
Sembrerebbe che gli stessi russi abbiano subito l’effetto delle radiazioni, e che numerosi soldati siano stati poi ricoverati a causa della sindrome da radiazione acuta, la stessa che colpì ed uccise i pompieri che lavorarono alla centrale subito dopo l’incidente del 1986.
Durante la loro ritirata hanno inoltre sparpagliato mine antiuomo in tutta la zona di esclusione, ed attualmente i genieri dell’esercito ucraino insieme a degli esperti internazionali stanno portando avanti una difficoltosa opera di sminamento, che difficilmente potrà essere completata, vista l’estensione e la conformazione del territorio.
Attualmente la Zona è sotto il controllo totale dei militari ucraini, ed essendo terra di confine con la Bielorussia rappresenta una delle più importanti linee di difesa di Kyiv.
Anton Yuhimenko, ex guida del tour operator “Radioactive Team” ci spiega che le possibilità che la Zona si riapra al turismo dopo la guerra sono bassissime: «Il territorio è tutto minato e i livelli di radioattività sono altissimi, e questo non permette di creare un’offerta turistica sicura. Inoltre la Zona è militarizzata e probabilmente lo rimarrà anche dopo la guerra, vista la sua importanza strategica».
L’unica possibilità è che si creino dei percorsi circoscritti e recintati in cui fare delle veloci visite, magari limitate alla sola città di Pripyat, ma di sicuro non sarà possibile fare i numeri di una volta.
Stessa sorte, se non peggiore, riguarda il fenomeno degli stalker.
Mentre una bonifica di alcune aree della città di Pripyat e una conseguente riapertura al turismo è forse possibile, le modalità illegali e casuali con cui normalmente si muovevano gli stalker li metterebbero di fronte a pericoli enormi sia per la possibilità di incappare nelle mine antiuomo, sia per il fatto che le unità di difesa ucraine potrebbero sparare a vista vedendo persone non autorizzate aggirarsi per i boschi.
Ma per gli stalker non sarà possibile restare a lungo senza la Zona, il loro movimento è romantico e nichilista e sono convinti che potranno riprendere i loro viaggi.
Uno dei tre protagonisti del mio documentario, Aleksandr Sherekh, ci dice: «Il movimento stalker è come se fosse parte integrante della Zona, e piano piano, con l’avanzare delle operazioni di sminamento, torneranno anche gli stalker».
Dello stesso parere è uno dei massimi esponenti di questo movimento, Timur Sadykov: «La Zona tornerà viva, non so quando, ma so che accadrà, ora si sta solo riposando dal turismo ufficiale, dai vandali, dagli stalker, ma tornerà, perché la Zona non può essere dimenticata, e chi c’è stato, dovrà prima o poi ritornarci».
Rimane il fatto che la Zona è tornata a prima del 2002, ed attualmente è visitabile in sicurezza solo da giornalisti accreditati e scienziati.
Realisticamente è impensabile che si potrà fare una bonifica totale di tutte le foreste presenti, e quindi resterà un’area fortemente controllata e di difficilissimo accesso per moltissimo tempo.
Forse finalmente quei luoghi troveranno la pace ed il rispetto che meritano, e non saranno più trofei da esibire nei selfie di qualche turista che vuole solo darli in pasto ai social.
Testo e foto di Alessandro Tesei
L’autore: Alessandro Tesei è regista, documentarista e fotografo. Tra i suoi lavori, il lungometraggio documentario Fukushame – Il Giappone perduto, vincitore dell’Energy Award al Festival del Cinema Verde (Usa) e dello Yellow Oscar all’Uranium Film Festival 2015 (Brasile).
Il video-doc LA FINE DI CHERNOBYL di Alessandro Tesei
Oltre alla guerra in corso in Ucraina dal 24 febbraio 2022, in Italia già da due anni prima, era cominciata una guerra mediatica che alimenta quella che Edgar Morin chiama «isteria di guerra» che «provoca l’odio di ogni conoscenza complessa e di ogni contestualizzazione». Come insegnano i filosofi del linguaggio, abitiamo la lingua che parliamo perché il linguaggio costruisce gli elementi concettuali del mondo in cui viviamo, ne crea le coordinate condivise di riferimento. Attraverso il linguaggio non solo descriviamo la realtà, ma la organizziamo quando con le parole elaboriamo un pensiero. (non a caso logos indicava nella filosofia greca sia la parola che il pensiero). Tuttavia, l’argomentare è spesso vittima di fallacie, inganni che svelano errori logici nella costruzione dei ragionamenti. Errori inconsapevoli ai quali ci affidiamo per pigrizia mentale oppure inganni consapevoli per ottenere ragione, promuovere tesi precostituite, ostacolare l’esercizio del pensiero critico. Fallacie che hanno come caratteristica comune la semplificazione della complessità.
Un’epifania massiccia di fallacie argomentative si è avuta con la narrazione della pandemia da Covid-19 in chiave bellica: non si è trattato di un mero espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che ha generato, di un vero paradigma interpretativo. Nel 2020, infatti, insieme alla pandemia ha cominciato a dilagare il linguaggio bellico per raccontare l’impegno collettivo delle comunità per salvare persone aggredite dal subdolo “nemico”, che andava necessariamente “sconfitto”. Anticipando e preparando, di fatto, il clima bellicista poi pienamente dispiegato con la narrazione del conflitto armato in Ucraina, esploso sui media italiani dal 24 febbraio 2022 in piena continuità lessicale tra la narrazione della “guerra” al virus e quella del “virus” della guerra. Ma quella modalità di racconto della pandemia era ingannevole per molte ragioni: ha forzatamente banalizzato ciò che è complesso; ha personificato in un nemico un elemento naturale indifferente, non intenzionalmente ostile; ha rappresentato questo nemico come “alieno”, non considerando che è il sistema stesso ad essere “malato”; ha favorito il depotenziamento della procedure democratiche: la guerra è “stato di eccezione” per definizione; ha diviso le persone in amici e “traditori”, tra coloro che rispettavano e coloro che trasgredivano restrizioni; ha costruito il mito degli eroi in corsia, trascurando di rispondere dei tagli alla sanità che hanno costretto ad affrontare la crisi in situazione di precarietà; ha rilanciato il mito della guerra come mobilitazione positiva; ha oscurato il tema del prendersi cura reciproco, antitesi del paradigma bellicista. Dunque questo racconto martellante della pandemia è stato funzionale – intenzionalmente o meno – alla ricostruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel ripudio costituzionale, faceva sì che veri interventi militari venissero definiti ossimoricamente “missioni di pace”, la guerra – associata, in questo caso, all’impegno di chi salva vite umane anziché ucciderle – è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore. Anche per questo è sembrato normale che dal 24 febbraio 2022 i “bollettini di guerra” serali dei morti da covid venissero rimpiazzati da bollettini di guerra dei morti di una guerra guerreggiata, senza doverne modificare la cifra narrativa.
Dall’invasione russa dell’Ucraina il linguaggio bellicista è stato dispiegato in tutta la sua potenza per convincere della “necessità” del coinvolgimento italiano non in un processo europeo di mediazione tra le parti, ma in un ingaggio armato sempre più massiccio ribadito ossessivamente nel discorso pubblico. Deformando sui principali media, ancora con uso abbondante di fallacie argomentative, le opinioni basate su analisi che, ad esempio, provavano a ricostruire la genealogia del conflitto antecedente al 24 febbraio per cercarne una via di de-esclation: una narrazione del conflitto inquadrata nel paradigma binario della “guerra giusta”, fondata sullo schierarsi militarmente dalla parte dell’aggredito – non per la pace ma per la “vittoria” – pena essere tacciato di filo-putinismo. In questa ottica, anche le iniziali manifestazioni spontanee per la pace e la solidarietà con il popolo ucraino sono state interpretate – come nella distopia orwelliana della neolingua: “guerra è pace” – come mandato al governo per entrare di fatto in guerra, sulla pelle degli ucraini.
È il dispiegamento della propaganda di guerra: un dispositivo antico quanto la guerra stessa, codificato nell’elenco delle “bugie in tempo di guerra” stilato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale, nell’omonimo libro nel quale analizza gli inganni messi in atto dalla propaganda di tutte del parti in conflitto. La storica belga Anne Morelli ha recuperato questo testo e ne ha fatto una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare Usa dell’Iraq del 2003, nelle quali mutatis mutandis tutti i “Principi elementari della propaganda di guerra” risultano confermati e adattati ai diversi contesti per convincere le opinioni pubbliche pacifiste. Le guerre hanno enormi costi umani ed economici e per esse bisogna essere disponibili a uccidere, a morire, a fare sacrifici, per questo è necessario mettere in campo gli specifici meccanismi di persuasione, che si ripropongono, guerra dopo guerra, attraverso sistemi mediatici sempre più pervasivi. Ecco l’elenco dei dieci “principi elementari di propaganda di guerra”, riproposto da Morelli: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e gli artisti sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori.
Quante volte abbiamo sentito e sentiamo nel discorso pubblico queste formule, diversamente declinate, invece di analisi e proposte responsabili e consapevoli di essere “sull’orlo dell’abisso”, come ha ricordato anche recentemente Jürgen Habermas?
Infine, la propaganda di guerra assume la più odiosa e pervasiva delle forme quando – senza dover neanche far uso dei dispositivi linguistici – raggiunge e viola le coscienze dei più vulnerabili tra i cittadini: i bambini, com’è avvenuto lo scorso 28 marzo per i cento anni dell’Aeronautica militare, quando scolaresche festanti sono state portate ad inneggiare alla presidente del consiglio Giorgia Meloni che si accomodava all’interno di un cacciabombardiere F35 collocato nel bel mezzo di piazza del Popolo a Roma. Un orribile strumento di morte, capace di trasportare testate nucleari, circondato dai bambini in tripudio nella più oscena e subdola delle parate belliciste. Una messa in scena da regime militarista. Ma in tempi di guerra, ogni governo diventa regime.
Pasquale Pugliese è filosofo e formatore fa parte del Movimento nonviolento
ELLE è il progetto di un gruppo di tre giovani artisti – Marco Calderano, batteria e chitarre, Miriam Fornari, tastiere ed elettronica e Danilo Ramon Giannini, voce e liriche – nato da un incontro avvenuto poco tempo prima della pandemia del 2020.
Abbiamo parlato con i tre musicisti in occasione della pubblicazione del loro nuovo disco – ELLE Volume II (Urtovox Records). Tutto il disco è permeato da un’atmosfera sospesa, con un approccio quasi “minimalista”, i pochi strumenti a disposizione, batteria, chitarre e tastiere, vestono con sobrietà melodie e testi permeati da una singolare malinconia, che resta però sempre agganciata ad una speranza di rinascita. I singoli brani partono di solito in maniera sommessa, con l’enunciazione delle prime strofe cantate dalla voce di Danilo, poi, quasi inaspettatamente la musica si espande, entrano le chitarre e la batteria mentre la melodia, doppiata dalla seconda voce di Miriam, si distende verso un finale aperto.
Lo sguardo si rivolge alla finestra, scrutando l’esterno giorno di un grigio pomeriggio autunnale. Prima del tramonto, un raggio di luce filtra attraverso gli strati di nuvole e fa presagire l’arrivo di un nuovo giorno. Il sole sorge ancora. “The sun also rises” come recitava il titolo di un famoso romanzo di Ernest Hemingway, che non a caso viene citato anche nelle pieghe del testo di “Sailing roads”.
Come nasce il gruppo ELLE?
«Impossibile non legare la nascita della band ELLE alla pandemia del 2020» ci racconta Marco Calderano. «Ci siamo incontrati proprio pochi mesi prima e, grazie soprattutto ad un’intuizione di Miriam, che mi ha subito incoraggiato a comporre, abbiamo iniziato a suonare assieme. Il distanziamento e il relativo lockdown invece di scoraggiarci, ha fatto emergere una voglia nuova di approfondire e scrivere delle cose proprie, a dispetto di una situazione esterna davvero poco incoraggiante. È avvenuto così che il primo disco omonimo – ELLE – ha visto la luce sul finire del 2020 quando le restrizioni sembravano potersi allentare. Nel corso del 2021, con l’alternarsi dei periodi di aperture e chiusure imprevedibili, la situazione ci ha costretto di nuovo ad un blocco delle esibizioni dal vivo. Ma, come era già accaduto in precedenza, la solitudine forzata ci ha dato l’opportunità di continuare a scrivere e comporre. Pian piano è nato così questo Volume II».
In che cosa questo album si differenzia dal primo e in che cosa invece prosegue su quella falsariga?
«Di fatto, almeno musicalmente, le analogie prevalgono sulle differenze – ribadisce Marco – anche perché sul piano compositivo, nell’intervallo tra il primo ed il secondo disco non ci siamo mai fermati, anche se a ben guardare c’è stata un’evoluzione, forse anche inconsapevole, nel modo di comporre. Ad esempio “We know”, l’ultimo pezzo inserito nell’album, ha una struttura compositiva aperta che ci apre la strada verso direzioni completamente diverse».
«La musica è legata con un filo rosso alle prime composizioni – spiega Danilo Ramon Giannini – ma il nostro vissuto durante la pandemia ha fatto sì che le canzoni del nuovo lavoro siano forse più mature. Mentre all’inizio i testi erano incentrati di più su una ricerca interiore, un guardare essenzialmente dentro se stessi, nei nuovi brani c’è una maggiore apertura verso l’esterno, un’attenzione al rapporto con l’altro e con il diverso da sé».
«Nella scrittura dei brani – prosegue Miriam Fornari – il modus operandi del gruppo è sempre stato di tipo cooperativo. Normalmente è Marco che porta in studio le bozze del brano, con la sequenza degli accordi, e poi lavoriamo insieme, anche se io mi dedico maggiormente agli arrangiamenti, mentre Danilo Ramon Giannini è responsabile dei testi, tutto il lavoro si basa su un interscambio continuo ed incessante di idee e scelte tra tutti noi».
Che cosa ne pensate della definizione di “post rock” spesso utilizzata per cercare di descrivere la vostra musica?
«Credo che ormai nel 2023 il concetto di “genere musicale” – afferma Miriam – troppo spesso utilizzato e direi “abusato” in passato non abbia più senso oggi. I musicisti delle nuove generazioni come la mia sono cresciuti in un’epoca di globalizzazione culturale e di conseguenza anche musicale. Abbiamo ascoltato di tutto ed ognuno di noi ha tanti “padri” e quindi ci portiamo dietro un po’ l’eredità “genetica” di tutto quello che c’è stato prima di noi, ma anche di tutto quello che ci circonda adesso».
«Non a caso – prosegue Marco – nel disco compare anche una rivisitazione di “Landslide” dei Fleetwood Mac (conosciuta peraltro attraverso la cover degli Smashing Pumpkins) che apparentemente potrebbe sembrare la cosa più lontana dal nostro approccio alla musica».
«Ognuno di noi inoltre viene da storie ed esperienze assai diverse che vanno a fondersi in un’unica entità artistica – aggiunge Danilo – quindi per noi l’obbiettivo più importante resta quello della ricerca di una nostra precisa identità come gruppo musicale al di là di qualsiasi etichetta di comodo».
Qual è dunque la vostra storia individuale prima di incontrarvi e formare il gruppo?
«Io sono di Perugia – racconta Miriam – e provengo da una formazione classica di conservatorio e dalla specializzazione ottenuta presso Siena Jazz, e mi è sempre piaciuto scrivere e poter dare il mio apporto nell’ambito della composizione e dell’arrangiamento ai musicisti che di volta in volta chiedevano la mia collaborazione».
«Io invece – prosegue Danilo – vengo da mondo del teatro che frequento come attore, ma ho sempre coltivato questo mio animo musicale, oltre che come cantante, anche nella scrittura di testi e monologhi sia per il teatro che nella canzone. Nei testi del disco ho voluto inserire anche dei riferimenti letterari e delle citazioni, a volte rubate a Shakespeare, oppure a Hemingway, come nell’intermezzo da “Il vecchio e il mare” inserito in “Sailing Roads”».
«La mia storia è un po’ diversa – racconta Marco – come molti ho iniziato a suonare la chitarra da ragazzo come autodidatta. Dopo il mio trasferimento a Roma, ormai diversi anni fa, ho avuto la possibilità di studiare ed approfondire seriamente chitarra e batteria».
Perché la scelta dei testi in inglese?
«Il nostro retroterra musicale ci ha condotto in modo del tutto naturale verso l’inglese – spiega Danilo – in particolare verso il suono della lingua inglese, che resta un carattere originario del rock, e che abbiamo voluto utilizzare per poter creare delle immagini e delle suggestioni, anche sonore, attingendo anche a reminiscenze letterarie e libere citazioni di scrittori e poeti, spesso senza sentirci in obbligo di seguire i dettami della grammatica o della sintassi della lingua inglese».
«Scrivere in italiano mi metterebbe in difficoltà – prosegue Marco – e sinceramente ad oggi non è ancora nelle mie corde; dovrei forse cercare di esprimermi per metafore, visto che l’idea di un racconto più vicino alla realtà finirebbe per annoiarmi un po’».
«A me invece piace sperimentare – questo è il parere di Miriam – e non escluderei di potermi cimentare con liriche in italiano, potrebbe essere uno stimolo interessante per nuove esplorazioni”.
Da dove viene questa vena malinconica soffusa che permea tutto l’album? Riflette forse in maniera più intima e personale la crisi di speranze e prospettive di cambiamento di quella generazione “di mezzo” come la vostra dei trenta-quarantenni, stretti tra i più anziani, i cosiddetti “boomers” e scavalcati dai nuovi “millenials”?
«In effetti l’arco di età che ci contraddistingue – risponde Danilo – va dai ventotto anni di Miriam ai quarantadue di Marco, e quindi ricade, con qualche distinguo, nelle generazioni di cui stiamo parlando. Personalmente sono convinto che in questo lavoro ci sia l’esigenza di un rapporto autentico con una realtà sociale esterna sospesa e sfuggente. Credo che una chiave di lettura sia quella di esplorare l’esterno con un rapporto dialettico con l’altro».
«Da parte mia – aggiunge Miriam – essendo la più giovane del gruppo sono quella che ha vissuto di più in prima persona il fenomeno della globalizzazione dei linguaggi attraverso l’immersione nel mondo dei social e dei media. Però tutto questo bombardamento di input musicali e culturali diversi, se filtrato dalla propria sensibilità, può essere considerato un’opportunità e anche una ricchezza, che però va sempre finalizzata alla ricerca di una propria identità artistica a prescindere dai generi musicali». «Credo che in questo momento – conclude Marco – per me la chiave di tutto stia nella ricerca, nella curiosità e nel rapporto anche con musicisti e con persone più giovani con cui dialogare, ascoltare e “rubare” dando attenzione e prendendo ispirazione da quello che ascoltano gli altri. Al contrario di quanto si voglia far credere, c’è tanta bella musica e tanta creatività in giro, c’è solo da avere l’apertura e la disponibilità di prenderla al volo e farla diventare qualcosa di nostro».
Un’ultima notazione: la foto della copertina del disco, realizzata da Eolo Perfido, allude volutamente a Cecità di Saramago: ritrae Marco, Danilo e Miriam in un abbraccio. Lei con gli occhi chiusi copre con le mani gli occhi dei due uomini. Nelle intenzioni della band la foto vuole essere quindi un omaggio al sentire femminile, irrazionale e “sconosciuto”.
Il trimestre gennaio-marzo 2023 è stato il più letale per i migranti che hanno attraversato il Mediterraneo centrale dal 2017: lo dichiarano le Nazioni Unite registrando 441 vite perse nel tentativo di raggiungere l’Europa. “La persistente crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale è intollerabile. Con più di 20.000 morti registrati su questa rotta dal 2014, temo che queste morti si siano normalizzate”, ha dichiarato Antonio Vitorino, capo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite (Oim).
“Durante il fine settimana di Pasqua, 3.000 migranti hanno raggiunto l’Italia, portando il numero totale di arrivi dall’inizio dell’anno a 31.192 persone”, afferma l’Organizzazione internazionale per le migrazioni dell’Onu (Oim). L’Organizzazione sostiene che i ritardi nelle operazioni di ricerca e salvataggio (Sar) sono stati un fattore determinante in almeno sei episodi dall’inizio dell’anno, causando la morte di 127 delle 441 persone. “La totale mancanza di risposta durante una settima operazione di salvataggio è costata la vita ad almeno 73 migranti” ancora inclusi nello stesso conteggio, afferma in un comunicato, aggiungendo che gli sforzi di ricerca e salvataggio da parte delle organizzazioni non governative sono diminuiti significativamente negli ultimi mesi. “Il Progetto migranti scomparsi dell’agenzia Onu sta inoltre indagando su diversi casi di imbarcazioni scomparse, dove non c’è traccia di sopravvissuti, non ci sono detriti e non sono state condotte operazioni di ricerca e salvataggio. Circa 300 persone a bordo di queste imbarcazioni sono ancora disperse”, sottolinea l’Oim. “Salvare vite in mare è un obbligo legale per gli Stati”, ha detto Vitorino. “Abbiamo bisogno di un coordinamento proattivo degli Stati negli sforzi di ricerca e salvataggio. Guidati dallo spirito di responsabilità condivisa e di solidarietà, chiediamo agli Stati di lavorare insieme e di impegnarsi per ridurre la perdita di vite umane lungo le rotte migratorie”, ha aggiunto.
Recentemente, le operazioni Sar a guida ong sono state notevolmente ridotte, ricorda l’Oim in una nota. Il 25 marzo, la Guardia costiera libica ha sparato colpi in aria mentre la nave di soccorso dell’ong Ocean Viking stava rispondendo a una segnalazione di un gommone in difficoltà. Nel contempo, domenica 26 marzo, un’altra nave, la Louise Michel, è stata posta in stato di fermo in Italia dopo aver soccorso 180 persone in mare, un caso simile a quando la Geo Barents era stata bloccata a febbraio e successivamente rilasciata. Nel weekend di Pasqua 3.000 migranti sono giunti via mare in Italia e il numero totale di arrivi è ora di 31.192. Una nave con circa 800 persone a bordo è stata soccorsa martedì 11 aprile a più di 200 chilometri a sud-est della Sicilia dalla Guardia costiera italiana con l’assistenza di una nave commerciale. Un’altra nave con circa 400 migranti è stata alla deriva tra l’Italia e Malta per due giorni prima di essere raggiunta dalla Guardia Costiera italiana, ricostruisce l’Oim. Non tutti i migranti di queste barche sono ancora sbarcati in Italia. “Salvare vite è un obbligo legale per gli Stati – ricorda Vitorino – C’è bisogno di un coordinamento, a guida statale, nelle operazioni di ricerca e soccorso. Guidati dallo spirito di condivisione delle responsabilità e della solidarietà, chiediamo agli Stati di lavorare insieme per ridurre la perdita di vite lungo le rotte migratorie”.
La preoccupante situazione nel Mediterraneo centrale rafforza la necessità di un sistema Sar a guida statale dedicato e prevedibile e di uno sistema di sbarco che ponga fine alla risposta ad hoc che ha caratterizzato le operazioni in mare dalla fine dell’Operazione Mare Nostrum nel 2014. Gli sforzi degli Stati per salvare vite devono includere un sostegno all’impegno delle ong nel fornire assistenza per salvare vite e devono poter porre fine alla criminalizzazione, agli ostacoli e ai vari tipi di deterrenza esercitati nei confronti degli sforzi di coloro che forniscono tale assistenza. Tutte le navi, comprese quelle commerciali, hanno l’obbligo legale di fornire assistenza e soccorso alle imbarcazioni in difficoltà. L’Oim, conclude la nota, chiede inoltre ulteriori azioni concertate per smantellare le reti criminali di traffico di esseri umani e per perseguire coloro che approfittano della disperazione dei migranti e dei rifugiati facilitando viaggi pericolosi.
«A Roma le macchine volano e non inquinano, i monumenti come il Colosseo sono protetti da una cupola invisibile, il rapporto con gli animali è gentile e rispettoso, gli studenti a scuola non usano più i libri ma i touch pad, schermi fluttuanti che contengono tutti i materiali scolastici». Inizia così Il sassolino apocalittico uno degli otto piccoli, preziosi volumi del progetto “Diventare libri”, un progetto-laboratorio scolastico promosso dalla Regione Lazio nel 2022 (ora arrivato a splendida conclusione e presentato a Bologna Children’s Book Fair 2023) in collaborazione con Beisler Editore in cui i ragazzi e le ragazze hanno immaginato, scritto, illustrato le loro storie. Partner di Beisler, l’Istituto comprensivo via Semeria di Roma, con due sue classi di scuola media: la 2a I e la 3a F. Motori di tutto, oltre alle studentesse e agli studenti, Chiara Belliti, editor di grande bravura ed esperienza, e le loro intraprendenti insegnanti, Maura Dianetti e Patrizia Vilardo.
Molto belle le storie raccontate da studentesse e studenti; storie che vanno da Roma a Cassino, da Sydney a New York per arrivare fino in Canada, o che partono dalla Georgia e dalla California, vere, reali, per poi giungere, attraverso misteriosi portali, in immaginari mondi sotterranei. Insomma, un trionfo della fantasia, ma con i piedi (anzi, le mani) ben ancorati per terra, nella vita vera, quella di tutti i giorni, a scuola e non solo. I racconti scritti da queste giovani scrittrici e da questi giovani scrittori in erba sono spesso divertenti e surreali, altrettanto spesso terribilmente seri, tragici. Come anche i temi che trattano: la solitudine, il bullismo, l’amicizia, le dipendenze, l’amore. Alcune assomigliano a favole, ma non sempre a lieto fine, quasi distopiche; in altre si dà spazio al sogno, visto che in molti casi i protagonisti sono adolescenti. Quanta bravura e delicatezza nella scrittura dell’incipit di Il segreto della miniera. Tanti sono i brani degli otto volumi pubblicati dalla Beisler che meriterebbero di essere citati per la loro bellezza. Come sono belli i disegni e le illustrazioni che accompagnano i racconti di queste giovani scrittrici e di questi giovani scrittori, che fanno un tutt’uno con le storie pubblicate da Beisler editore, impreziosendole. Storie che attraversano i generi della letteratura, dal giallo alla fantascienza.
Un’altra importante sfida (vinta) per Chiara Belliti. Maura Dianetti e Patrizia Vilardo sono entusiaste del lavoro e del risultato finale. In questo progetto è stato coinvolto anche Marco Dallari, docente ordinario di Pedagogia generale e sociale all’Università di Trento, e apprezzato formatore di insegnanti e operatori del settore. Dal suo punto di vista, la valenza pedagogica di questa esperienza è stata eccezionale e sono davvero dense di significato le parole che usa per parlarne, perché colgono l’essenza di un percorso educativo che ci auguriamo possa avere un seguito anche in tante altre scuole del nostro Paese.
«Il poeta ha le sue giornate contate come tutti gli uomini, ma quanto quanto variate…» scriveva Umberto Saba. ll grande poeta triestino coglieva le tante sfumature emotive di un animo umano che percepisce il mondo intorno a sé in modo non convenzionale, come succede anche a chi, dotato di forte sensibilità, vive la realtà e insieme ne percepisce altri significati, ne trascolora il senso quasi, evocando realtà invisibili, lontane, senza staccarsi da ciò che accade. Forse è un suono speciale che in molti, a giudicare dalla quantità della “produzione” («italiani popolo di navigatori e poeti»? che affolla le segreterie di case editrici minori o maggiori, nel nostro Paese, di pubblicazioni auto pagate, pensano di ascoltare. Ma la musica vera ha un tono in più. Lo sentiremo nella rassegna che ci attende il 14 aprile a Roma, con l’Auditorium di via della Conciliazione trasformato in un salone, un’agorà in cui si alterneranno poeti provenienti da tutto il mondo. Ritratti di poesia è la più importante riunione di poeti che negli ultimi sedici anni ha attraversato la capitale, forse la penisola, e ospita più di trenta poeti in un susseguirsi di letture, presentazioni, incontri. Lungo l’arco di una sola giornata nei ventiquattro incontri viene testimoniato il lavoro di lunghi anni.
Come per Tess Gallagher (Viole nere, Il ponte che attraversa la luna) che si è detta onorata dal premio che viene tribuito dal Paese di Dante a lei, americana cresciuta nei campi di taglialegna di fronte all’isola Victoria in Canada.
Ritratti di poesia premia la vita di studio e ricerca, la stessa che vibra nelle parole di Maria Grazia Calandrone, poeta amatissima (leggi l’intervista a Calandrone per Left di Barbara Pellettindr), riconosciuta da molte giurie letterarie (premio Pasolini, Dessi, Montale, Camaiore, ne citiamo solo alcuni) e attualmente nella cinquina, (che potrebbe diventare sestina) del Premio Strega, con il romanzo pubblicato da Einaudi Dove non mi hai portata. Ricerca svolta non solo all’interno della propria storia, per saperla raccontare, ma anche come nel suo caso, con i detenuti, con i quali ha svolto laboratori. Ma anche con gli studenti di liceo, come accadrà nell’incontro mattutino previsto per “Ritratti”. Per questa occasione le chiedo della sua presenza nello spazio “Caro poeta”, che vedrà un dialogo tra lei, accompagnata dal poeta marchigiano Nicola Bultrini (I fatti salienti, La forma di tutti) e le classi di tre licei romani.
Ha molti impegni, l’intervista è veloce, chiedo: Quanto èdifficile misurarsi con degli adolescenti? «Direi che è una sfida», risponde (e sappiamo dai suoi libri come sa affrontarle). «Da tempo la cultura è sotto attacco – continua – e per difendersi da chi si comincia se non da e con loro a cambiare le cose? Sono loro che rappresentano il futuro. Io sfrutto questa mia “ossessione per gli altri”». Lo dice ridendo, sa che la sua caratteristica è proprio la forza di un reale interesse che mette nei rapporti. «E metto a disposizione quel che ho», dice.Durante il lockdown per la pandemia da Covid-19 faceva lezione su You tube a studenti e detenuti, e a chi come loro cercava il calore di una voce che portasse sostanza. «Leggevo on line il “Notturno” di Alcmane», racconta (il frammento designato con il n.89 del poeta greco) e declama: «Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo: dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese….». Per un attimo la potenza antica di quei versi che arrivano da secoli di superba civiltà risuonano come il cratere di un vulcano, nell’aria, nei telefoni, finendo dentro al cuore… Un silenzio, poi Maria Grazia Calandrone riprende velocemente: «Questo testo mi ha aperto la fantasia, mi ha conquistato e fatto decidere che la mia vita sarebbe stata questa. I ragazzi sono schiacciati dalla mercificazione continua cui li sottopone il modo di studiare, il mercato, la tv, noi cerchiamo di dar loro una prospettiva diversa di sé stessi».
Sì, caro poeta. Perciò caro poeta. Lavoro importante e delicato, coadiuvato, preparato da alcuni insegnanti dei Licei Machiavelli, Vittoria Colonna, Cavour di Roma: il docente Giovan Battista Elia insegna al Cavour, ancora prima insegnava al Kant: «Se vogliamo sottrarre i nostri ragazzi al modo di pensare instillato dalle prove invalsi, che mirano a ridurre la risposta ad un quesito con una crocetta, dobbiamo trovare degli spazi nuovi, spazi mentali, mirare all’autonomia di giudizio», dice e aggiunge: «Io uso ogni cosa per metterli a contatto con una dialettica diversa, per esempio andare a leggere Giovenale ai Fori, invece che in classe». Ci racconta che con i ragazzi parla di attualità, in primis della guerra, ma anche di temi di ricerca: «Mettiamo a confronto matematica e arte, il valore di una linea per esempio, di un disegno geometrico espressione di chi disegna ma anche di chi scrive. Studiamo poesia, il senso delle parole. Ha notato – mi dice – che a molti della nuova generazione mancano le parole per esprimersi?».
La professoressa Doriana Macrì del liceo Vittoria Colonna, dopo tre anni di esperienza con “caro poeta”, ci racconta l’esperienza in questa nuova edizione con il contributo di Laura Cingolani. «A fine anno abbiamo organizzato una lezione magistrale da parte dell’anziano e noto poeta Elio Pecora», racconta. «La classe era di tredici-quattordicenni, un primo ginnasio, quindi pensavamo che non ce l’avremmo fatta a tenerli. Invece sono rimasti in silenzio assoluto per due ore, senza battere ciglio. Da non credere. A fine lezione hanno accompagnato il poeta, emozionato come loro, fino all’uscita dell’istituto. Elio Pecora era molto contento».
Ascoltando, viene alla mente che i Ritratti di poesia siano la rappresentazione di “come” si sta dentro alla poesia, di come si possa usare un linguaggio non razionale per indicare le cose, per significare la propria vita. Ognuno dei poeti presenti ha una personalità decisa, una storia, una provenienza diversa, un percorso che a volte pare segnato, a volte appare casuale, come afferma per quel che la riguarda la ottantenne deliziosa poeta Vivian Lamarque, a cui andrà il premio Fondazione Roma. Della sua vita di bambina rifiutata dalla famiglia di origine, ma adottata da affettuosi genitori, ha tratto amari insegnamenti, espressi, dopo lunga elaborazione, in uno stile piano, leggero, quasi infantile. «Scoperta per caso», così si dice, dal poeta Giovanni Raboni, che ha insistito per farla pubblicare. Racconti di libertà, ci sembra, di come sapersi separare dal dolore senza compatire sé stessi e la propria vicenda. La poesia chiede cuore saldo e sintesi, per mandare a segno la propria amorevole arma. Nella rassegna il massimo della sintesi è rappresentato dall’incontro “Ritratti di poesia.280”, poesia via Twitter, un esperimento? Forse meglio gli haiku.
Nei ritratti di “Poesia sconfinata” c’è attesa per il grande spagnolo Luis Garcia Montero, l’honkongese Mary Jean Chan e l’iraniana Mina Gorji (ancora una volta il racconto in versi sugli orrori per la guerra (Persepolis) e la nostalgia per la sua terra lasciata a quattro anni (Tehran) ma anche per la lezione del pittore-poeta Emilio Isgrò dal titolo “scrittura e cancellatura”.
Vincenzo Mascolo, instancabile curatore della rassegna fin dai suoi inizi, sottolinea il lavoro di due fotografe, Loredana Foresta e Stefania Rosielic, Scoprire la libertà. Sono foto che mostrano come si vede il mondo stando dietro un burqa. «Hanno fotografato la realtà indossandone uno», dice Mascolo, testimonianza estrema di un estremo limite cui sottoporre un umano. Il mondo di una donna, di tante donne senza diritto di parola, e neanche di sguardo. Ma anche nelle foto si vedrà il prima e il dopo, non a caso il titolo parla di scoperta. Uno dei poeti italiani contemporanei più conosciuti, Claudio Damiani, abituale ospitedei “Ritratti” ha scritto: «Se ci fosse restituito ciò che ci è stato tolto, che non è stato dato, ci hai mai pensato? se fosse che adesso soffriamo ma poi non soffriremo più, tutto ci sarà ridato e fossimo così pieni e soddisfatti da non chiedere, da non soffrire più ci hai pensato?».
Nella celebre fiaba di Andersen l’imperatore si convince a farsi confezionare un abito con un tessuto pregiatissimo che ha la caratteristica di essere invisibile agli stolti. L’imperatore vanitoso non riesce a vederlo ma per pudore tace e si lascia convincere dai suoi cortigiani a indossarlo. Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché sentendosi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità. L’incantesimo si rompe quando un bambino, sgranando gli occhi, grida con innocenza: “Ma il re è nudo!”. Ciononostante, il sovrano continua imperterrito a sfilare come se nulla fosse successo.
Il re nudo sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni che ieri ci hanno regalato un Consiglio dei ministri che può essere preso sul serio solo dagli stolti e dagli ignari. La strana coppia che in questi ultimi anni ha urlacciato da ogni vicolo televisivo e giornalistico che avrebbe risolto “in un minuto” il “problema dell’immigrazione” se fossero stati votati ieri ha scritto su carta bollata che siamo in uno “stato di emergenza”. Tradotto: per non fare troppo la figura degli inetti hanno certificato come insuperabile il fenomeno che non sanno governare.
“Abbiamo aderito volentieri alla richiesta del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ben consapevoli – ha spiegato il ministro del Mare Nello Musumeci – della gravità di un fenomeno che registra un aumento del 300%. Sia chiaro, non si risolve il problema, la cui soluzione è legata solo a un intervento consapevole e responsabile dell’Unione europea“. Ricapitolando: il ministro dell’Inferno Piantedosi è andato dai suoi compagni di governo confessando di non sapere dove sbattere la testa e proponendo un bel “stato di emergenza” che nei fatti gli permette di forzare ancora di più le regole (orribili) che lui stesso ha scritto per risolvere la questione. Quelli, come quando si porge un biscottino, hanno accettato. Ora lo stato di emergenza è l’abito invisibile di Piantedosi.
L’ultimo stato di emergenza che certificava l’incapacità di mantenere le promesse sull’immigrazione risale al 2011 quando Silvio Berlusconi (ineguagliabile ispiratore di questa destra) con il ministro Roberto Maroni si inventarono questa trovata pubblicitaria per travestire l’inettitudine nel mantenere promesse irrealizzabili, oltre che disumane. Ora Piantedosi, Salvini, Meloni, Musumuci e compagnia cantante sfilano tronfi per le vie della città.
Al prossimo giro certificheranno che il problema del surriscaldamento globale sia la vernice lavabile sui monumenti (ops, l’hanno già fatto), che gli oppositori politici siano nemici della Patria (ops, l’hanno già fatto), che i poveri siano solo dei delatori (ops, lo stanno già facendo), che la Storia sia un lungo complotto contro di loro (ops, l’hanno già fatto) e così via. E sfileranno nudi sommersi dagli applausi.
Molti e oscuri sono gli spettri che si aggirano per l’Europa, nel nostro inquieto presente. Le tragedie del conflitto bellico e i timori di una sua degenerazione, le tensioni sociali generate dalla pandemia e dalla crisi energetica, nuove (e antiche) rivendicazioni nazionaliste, alimentano rancori, sospetti e sempre più profonde divisioni. Tutt’altro che fantasmatiche, queste forze centrifughe si abbattono sui già fragili legami che uniscono il vecchio continente.
È in questo contesto che vede la luce il volume L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, opera collettiva che raccoglie molteplici interventi critici, con lo scopo di indagare il rapporto, costante e fecondo, che Gramsci ha intrattenuto con la cultura europea. Il volume, pubblicato con in sostegno di transform!europe, segna il rilancio della collana “Per Gramsci” presso l’editore Bordeaux. E non è certo un caso che per riprendere i fili di questo importante lavoro critico sia stato scelto un taglio prospettico che analizza l’opera gramsciana a partire dalle sue connessioni con il più vasto orizzonte europeo.
Per indagare un sistema teoretico tanto complesso e multiforme è certo necessario uno sforzo corale; per questo motivo i due curatori del volume, Lelio La Porta e Francesco Marola, hanno raccolto i contributi di studiose e studiosi, esperti e giovani intellettuali, che si sono avvalsi delle loro diverse competenze disciplinari per seguire le diramazioni delle riflessioni gramsciane e indagare in profondità i percorsi che da esse sono aperti e lumeggiati.
Il rapporto con l’Europa filosofica e letteraria, che segna tutto il percorso e la produzione gramsciana, dai primi interventi giovanili alle riflessioni carcerarie, profuse nelle lettere e nei Quaderni, si dimostra fondamentale in due accezioni. La cultura europea, infatti, costituisce sia una base per la costruzione del sistema teoretico gramsciano sia, al contempo, il terreno di indagine in cui tale sistema si esplica in analisi e riflessioni critiche. Il concetto fondamentale su cui si incardina l’intero processo di assimilazione e riconversione è quello di “traducibilità”, introdotto dallo stesso Gramsci e da lui utilizzato come uno dei pilastri portanti della sua metodologia critica.
Tradurre, per Gramsci, significa trasmutare un sistema di pensiero in un codice culturale e sociale differente, non è un processo di semplice e pacifica riproduzione, né un meccanico adattamento in contesti caratterizzati da differenti gradi di sviluppo. Rifiutando qualsiasi concezione deterministica, Gramsci ritiene sempre necessario analizzare le infinite modalità in cui struttura economica e sovrastruttura culturale si intersecano e si modificano vicendevolmente. Secondo questa prospettiva diventa dunque fondamentale studiare attentamente i contesti nazionali, non già perché egli consideri le nazioni come entità eterne e immutabili, ma perché vede in esse il complesso politico storicamente determinato in cui i settori sociali esplicano la loro azione materiale e culturale, in cui si confrontano per l’egemonia. Per questo motivo la traduzione, il passaggio da una tradizione nazionale a un’altra, diventa il solo modo per unire in un dialogo fecondo le tradizioni europee. E questo dialogo – che inevitabilmente è anche sollecitazione ermeneutica, forzatura interpretativa, processo di sradicamento e nuovo innesto di sistemi ideologico-culturali – non è un vacuo esercizio intellettuale, ma un metodo caratterizzato da una profonda valenza gnoseologica. Tradurre il pensiero di grandi intellettuali formatisi in diversi contesti culturali consente dunque a Gramsci di acquisire strumenti teoretici molteplici e avanzati, e di servirsene per costruire un metodo critico sempre più penetrante, un sistema di pensiero poliedrico e originale.
Il volume si apre proprio con un saggio di Derek Boothman che indaga lo studio gramsciano dell’opera di Ricardo e che ci rammenta come, secondo Gramsci, vi sia traducibilità reciproca fra l’economia classica inglese, la tradizione politica francese e la filosofia classica tedesca. Queste tre tradizioni, presentate già da Lenin come “fonti” del marxismo, appartengono a tre ambiti di studio differenti, a tre culture distinte e sono espresse in tre linguaggi diversi. Nonostante ciò esse possono essere assimilate e ricondotte a una superiore sintesi, una volta che siano sottoposte al lavoro critico e intellettuale di trasmutabilità.
Gli interventi successivi illustrano sapientemente questo processo traduttivo nel suo formarsi, focalizzandosi sullo studio gramsciano dei tre pensatori fondamentali per l’elaborazione teoretica gramsciana: Hegel, Marx e Lenin, approfonditi rispettivamente nei saggi di Fortunato M. Cacciatore, Pietro Maltese e Gianni Fresu. A questi si aggiunge un altro dittico di interventi – a cura di Giuseppe Guida e Mimmo Cangiano – in cui si analizza la traduzione critica delle correnti soggettiviste (Bergson e Sorel) e quelle pragmatiste di Mach e dell’empiriocriticismo (e della loro “traduzione” nella cultura italiana ad opera delle riviste Lacerba e La Voce). Tutte queste diverse tradizioni, sottoposte alla pressione incandescente della critica gramsciana, si fondono e si trasformano in un materiale plastico, pronto per essere utilizzato in nuove forme; tale processo di orogenesi intellettuale culmina nella formulazione di un sistema teoretico che da una parte supera l’angusta concezione meccanicistica del socialismo positivista e dall’altra riconduce l’elemento soggettivo entro una cornice storicamente determinata, di specifici rapporti di forza, evitando le derive del relativismo e del solipsismo.
A questa prima parte dell’opera, più concentrata sul percorso formativo del pensiero gramsciano, segue una seconda parte, in cui tale strumento viene studiato nelle sue applicazioni operative: appartengono a questa sezione i saggi che indagano lo studio della letteratura. Ad aprire la sezione è il saggio di Marola dedicato alle traduzioni gramsciane di Goethe. Queste riflessioni sono un’occasione per acuire lo sguardo sulla concezione gramsciana della letteratura e dell’attività mitopoietica e sul modo in cui essa influenza la metodologia stessa delle sue traduzioni. La riflessione su questi aspetti continua nel saggio di Lorenzo Mari, dedicato alle traduzioni di opere letterarie inglesi, soprattutto di Kipling e Dickens, in cui si indagano le risorse e i limiti del Gramsci traduttore, studiando attentamente i risultati dei suoi lavori, gli scopi precisi che si prefiggono e i contesti in cui si inseriscono.
I due lavori successivi, a cura di Marco Gatto e Paolo Desogus, approfondiscono lo studio gramsciano dell’evoluzione del mito superomistico dai romanzi d’appendice della letteratura francese alla rielaborazione critica realizzata da Dostoevskij; è nel contesto di questa analisi che Gramsci misura tutta la distanza tra la rielaborazione complessa del grande autore russo e le versioni degenerate che di un tale mitologema si realizzano nella cultura di massa italiana.
Il saggio di Livia Mannelli mostra invece come Gramsci, partendo dalla traduzione dell’opera di Ibsen nel contesto culturale italiano e dalla sua ricezione presso i settori della borghesia conservatrice, riesca ad aprire spiragli di analisi riguardo la condizione femminile in Italia e la gestione materiale ed economica del mondo teatrale; si dimostra così, ancora una volta, come la traduzione di linguaggi e codici differenti sia per il rivoluzionario sardo un grimaldello teoretico in grado di scardinare serrature, aprire spiragli di analisi.
Gli ultimi due contributi – scritti da Noemi Ghetti e Lelio La Porta – ci riconducono infine nell’est europeo, studiando i rapporti fra Gramsci e le pratiche organizzative, politiche e culturali del Proletkult e le distanze e le consonanze teoretiche che è possibile ravvisare fra Gramsci e Lukács, nonostante le scarse annotazioni dirette che entrambi gli intellettuali si rivolgono vicendevolmente.
Le due parti in cui si è idealmente diviso il volume per mera esigenza espositiva non si presentano così nettamente separate, anzi esse intessono fra loro un continuo scambio dialettico. Nonostante la polifonia degli interventi, la diversità degli approcci e dei metodi di studio, tutti i saggi sono ben compenetrati fra loro e in tutti vi sono rimandi, risonanze, terminologie e concetti che ritornano più volte, indagati e approfonditi da angolazioni differenti. L’insieme dei lavori restituisce quindi al lettore un arazzo complesso, stratificato ma strutturato in modo organico e completo, senza ridondanze pletoriche né lacune.
Quest’opera collettanea ha quindi tutte le potenzialità per inaugurare una nuova stagione di studi originali e inediti dell’opera gramsciana, e di mostrare concretamente la ricchezza che si cela nel dialogo costante fra tradizioni europee, quando si ha la volontà – certamente rivoluzionaria – di farle comunicare fra loro, per comprendere meglio la realtà e tentare di cambiarla.
Mettendo fine alla lunga tradizione socialdemocratica inglese (ed europea), ancor prima del crollo dell’Unione Sovietica, il premier britannico Margareth Thatcher consegnava alla storia la sua lezione: There is no alternative (Tina), non vi sono alternative al libero mercato e al capitalismo globalizzato. Non c’è, cioè, modo migliore dell’attuale per crescere, creare nuova ricchezza e distribuirla. Il paradigma, meglio l’assioma, sottinteso da Tina è tra i più longevi della storia economica; resiste da oltre quarant’anni e non mostra, a giudicare dai comportamenti messi in atto dai governi di ogni Stato in ogni continente, nessun segnale di possibile cedimento.
Già dal lontano 1972 i fondatori del Club di Roma, con il Rapporto sui limiti dello sviluppo, avevano messo in guardia l’opinione pubblica mondiale sull’insanabile antinomia fra crescita economica illimitata e limitata disponibilità di risorse naturali con il corollario di un inquinamento ambientale che avrebbe reso impossibile la vita sul pianeta. Bisognerà, tuttavia, varcare la soglia del nuovo millennio perché si consolidi un vasto interesse sulla precarietà dell’equilibrio terrestre soprattutto in seguito al manifestarsi, sempre più frequentemente e a ogni latitudine, di eventi climatici estremi come ondate anomale di caldo e di freddo, siccità, inondazioni. Soltanto nel 2018 è nato il movimento di Greta Thunberg, Fridays for future, che, a partire dalla Svezia, ha raggiunto adesioni in tutto il mondo sollecitando azioni politiche concrete per combattere il riscaldamento globale e la crisi climatica. I sacerdoti del Tina non si sono però arresi. È venuto in loro soccorso un nuovo paradigma, la Circular economy (Ce), grazie al quale i sistemi produttivi globali non dovranno intaccare nuove e sempre più scarse risorse naturali ma attraverso il recupero e il riutilizzo delle materie prime estratte dai rifiuti potranno prolungare indefinitamente la loro corsa.
Il termine “economia circolare” compare, ad esempio, 75 volte nelle 270 pagine del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Next Generation Italia) reso pubblico dal governo Draghi nel maggio 2021. Nel febbraio dello stesso anno il Parlamento europeo aveva votato un piano d’azione per la Ce, il Ceap (Circular economy action plan), con l’obiettivo, come ha scritto il suo portavoce Jaume Duch Guillot, di «raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050» (per inciso lo stesso governo Meloni dà poco credito a questo obiettivo se nelle settimane scorse ha concluso, con tanto di fanfara, un accordo in Libia per l’estrazione e l’invio di gas attraverso il Greenstream della durata di 40 anni, valido cioè sino al 2063!).
La comunicazione è stata così efficace che buona parte dello stesso movimento ambientalista ha finito per crederci e l’economia circolare figura oggi ai primi posti nel programma di qualsiasi forza politica progressista. Peccato che l’economia circolare, intesa in senso lato e non come stimolo a recuperare e rigenerare quanto più possibile dai nostri rifiuti, non sia altro che una chimera. Basta qualche dato. Ammettendo di poter tagliare il traguardo della differenziazione totale (il 100%), cosa manifestamente impossibile, per ogni tonnellata di frazione organica comunque trattata si hanno 220 Kg di rifiuti non recuperabili, un decimo dei quali è percolato; mentre il tasso di riciclaggio della plastica si attesta al 36%. Anche se l’Italia è tra i Paesi che ricicla di più, a livello globale il Circularity gap report stima che il rapporto fra i materiali recuperati e il totale delle materie prime immesse in produzione è stato appena dell’8,6% nel 2021, mentre era del 9% nel 2018.
Ma non si tratta di affinare metodologie di raccolta e tecniche di riciclo, il 100% di circolarità è, infatti, impossibile. Il limite è imposto da una delle più importanti leggi della fisica nota come Secondo principio della termodinamica. Un’economia che pretendesse di chiudersi in sé stessa, un’economia pienamente circolare, non solo varrebbe meno di un decimo di quella attuale ma decrementerebbe progressivamente sino ad azzerarsi. Ci vorrà del tempo ma è certo che i teorici dello sviluppo capitalistico, illimitato per sua necessità vitale, dovranno ammetterlo e trovare qualcosa di nuovo per confermare la validità assiomatica del Tina. Non resta, tuttavia, molto tempo. Nelle ultime tre decadi la quantità di materie prime estratte dalla Terra è più che raddoppiata e al ritmo attuale raddoppierà nuovamente entro il 2060. Il collasso dell’umanità nel corso di questo secolo, prefigurato dal Club di Roma, non è più un’ipotesi catastrofista.
A salvarci potrebbe essere un nuovo modo di produrre cibo perché, ci ricorda Piero Bevilacqua in un indispensabile saggio da poco uscito per l’editore Slow Food, Un’agricoltura per il futuro della Terra, è nell’agricoltura che l’ideologia del libero mercato ha trovato la più clamorosa delle smentite. L’idea che la libera circolazione di merci e di denaro, che in agricoltura ha preso il termine di Rivoluzione verde, fosse la condizione del benessere collettivo si è dimostrata un completo fallimento. Sotto la pressione delle grandi multinazionali dell’agroalimentare la monocoltura e la concimazione chimica hanno preso il posto della policoltura tradizionale. Milioni di contadini sono stati costretti ad abbandonare le terre dalle quali ricavavano sostentamento per affollare i miserabili sobborghi sorti nelle periferie delle megalopoli mentre milioni di braccianti immigrati, ridotti in regime di semi-schiavitù, completano nei campi il lavoro che le macchine non sono in grado di svolgere.
Ma non c’è solo quest’aspetto di profonda ingiustizia sociale, il modello dell’agricoltura capitalistica è incompatibile con gli stessi equilibri del pianeta perché l’uso di diserbanti e di pesticidi distrugge la fertilità del suolo e provoca contese tra gli stati che sfociano inevitabilmente in nuove guerre per l’acqua e per il cibo. La maggior resa produttiva del Tina applicato in agricoltura ha, poi, tra le contropartite anche la perdita di varietà e di qualità organolettica dei prodotti della terra; è esperienza comune la scarsa sapidità delle merci agricole, omologate e standardizzate, che vengono inviate al mercato attraverso la grande distribuzione. Sottrarre alla logica predatrice e dissipatrice del capitalismo la produzione di cibo prefigura, dunque, di per sé un nuovo assetto di società. Bevilacqua indica nell’agricoltura biologica, e soprattutto biodinamica, la necessaria risposta, ricordando che il 20% in meno di produttività stimata è poca cosa rispetto alle eccedenze alimentari che ogni anno si traducono in un miliardo e trecento milioni di tonnellate di rifiuti, da soli in grado di sfamare la metà attuale della popolazione mondiale.
L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. È tra gli autori del libro collettaneo a cura di Tiziana Drago e Enzo Scandurra Cambiamento o catastrofe? La specie umana al bivio(Castelvecchi 2022)