Home Blog Pagina 227

Maternità pornografica

Il giorno di Pasqua una donna (perché dovrebbe essere una donna, oltre che madre, anche se molti se ne sono dimenticati) decide di affidare il proprio figlio alla Culla per la vita del Policlinico di Milano. Affidare, non abbandonare. La cura delle parole conta, la scelta delle parole conta. Non c’è nessun abbandono. Quella moderna ruota degli esposti sta lì per offrire la possibilità di scegliere di affidare in sicurezza un bambino.

Poiché in questo Paese la molla della maternità squarcia tutte le volte una poetica di passione e di dolore (non è nemmeno troppo difficile risalire all’origine dell’essere made con dolore) quel bambino (Enea, si legge in un foglietto di accompagnamento) diventa il dibattito del giorno. Siamo un Paese così. In un giorno in cui Silvio Berlusconi non peggiora, i politici non hanno occasione di dire cazzate perché sono impegnati con le vacanze pasquali e il campionato di calcio è fermo bisogna inventarsi la storia del giorno: eccolo, Enea.

Accade così che un gesto che avrebbe dovuto essere privato (non sappiamo se gioioso, doloroso, bisognoso, disperato, allegro: sicuramente privato) diventi una sfilata di sacerdoti della maternità. Anche il governo della Patria e della Famiglia concorre all’intossicazione generale. La giornata di editoriali di passione e di dolori immaginati di una donna di cui nessuno sa si infarciscono di sciocchezze gravissime (“la ricca Milano non può permettersi di lasciare una donna sola”, dice qualcuno, come se a Catanzaro invece possiamo serenamente fottercene) che si concludono con Ezio Greggio, quello del Gabibbo.

Greggio vede l’occasione ghiottissima e si butta a registrare un video: «torna ti prego, questo bambino è fantastico. Non è giusto che sia abbandonato, ti daremo una mano», dice Greggio. Ovviamente l’uomo (per puro caso un privilegiato) dà per scontato di conoscere le motivazioni dietro la scelta di una donna e si propone di diventarne il protettore. «Merita una mamma vera», dice Greggio, dando per scontato che le madri “vere” siano coloro che hanno partorito, con buona pace di migliaia di famiglie adottive. E infine la firma: zio Ezio.

Buon martedì.

I competenti

Qualche dato interessante sull’attività dei leader politici in Parlamento (che è quello che dovrebbero fare) lo rilascia Pagella Politica. Si nota ad esempio che il leader di Azione Carlo Calenda – nonché presunto leader del cosiddetto Terzo polo del promesso partito unico che non si farà mai – tra il primo gennaio e il 7 aprile è stato ospite in televisione 26 volte, una ogni tre giorni, per spiegarci che la competenza, la serietà e l’impegno sono caratteristiche solo sue.

E come siamo messi con l’impegno? Maluccio. Il 22 marzo Openpolis, una fondazione indipendente che promuove la trasparenza nella politica, ha pubblicato i dati sulla presenza dei leader di partito in Parlamento. Nei primi sei mesi di questa legislatura il senatore Calenda, che non ricopre incarichi di governo, ha partecipato all’11,2 per cento delle votazioni in Senato, la seconda percentuale più bassa tra i leader di partito, davanti solo allo 0,5 per cento del senatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Il deputato Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde, è il leader di partito più presente in Parlamento, avendo partecipato all’83 per cento delle votazioni. Il deputato Giuseppe Conte e la deputata Elly Schlein hanno registrato finora rispettivamente il 65,2 per cento e il 53,7 per cento di partecipazione alle votazioni. Il senatore Matteo Salvini, che ricopre l’incarico di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il 14,9 per cento, mentre il senatore Matteo Renzi, leader di Italia viva, il 41,7 per cento.

Il leader di Azione ha presenziato a tutti i programmi di approfondimento politico: quattro volte a Tagadà su La7, tre volte a L’aria che tira e due volte a Piazzapulita e Dimartedì. Non si è fatto nemmeno mancare due ospitate alla trasmissione mattutina di Fiorello. Ospite di La7 (considerata dai calendiani la rete televisiva che non si dovrebbe guardare perché troppo populista, troppo poco competente) Calenda ha spiegato in diverse occasioni che “la politica è una cosa seria” e che il suo partito è “una chiamata per l’impegno per l’Italia”.

I numeri del cosiddetto Terzo polo rimangono comunque inchiodati a percentuali ritenute insoddisfacenti. I competenti.

Buon lunedì.

Nella foto: frame dell’intervista di Carlo Calenda al Tg1Mattina, 7 aprile 2023 (Youtube Azione)

Filippo La Porta: «Quello del jazzista è un mestiere pericoloso»

Firma storica di Left, Filippo La Porta è molto noto come critico letterario e saggista ma forse non tutti sanno che ha anche un’anima musicale. La sua grande passione è il jazz. Lo suona dal vivo ed ora è anche al centro del suo nuovo libro Improvvisazioni – Voci per un dizionario di Jazz e letteratura edito da Saint Louis Doc, «un libello», come lo definisce lui, «un po’ più di un libretto di sala, però anche meno di un vero e proprio saggio». Un lavoro originale e un po’ eccentrico, che suggerisce delle possibili connessioni tra il jazz e la letteratura, attraverso l’analisi di 23 parole scelte con un criterio molto soggettivo, come lui stesso tiene a sottolineare.
La Porta fa un gesto d’amore mettendo insieme per la prima volta le sue due più grandi passioni di sempre, la letteratura e la musica jazz. A partire dagli anni 80, lo scrittore e saggista ha suonato in varie formazioni di musica latina e jazz in locali, festival e rassegne («Il top musicale – racconta – fu accompagnare, al bongo, Jon Faddis al festival jazz di Villa Celimontana nel 2008») e continua a farlo fra un libro e l’altro, fra un ciclo di lezioni all’altro in istituti di cultura e università dove è invitato a tenere corsi come quello che sta svolgendo alla New York University.
Filippo La Porta, quando nasce il tuo amore per il jazz?
A dieci anni ho ascoltato una canzone di Elvis Presley grazie a mio cugino più grande di me ed ho pensato “ecco la mia musica”. A quindici ho ascoltato Jimi Hendrix dal vivo, in un concerto pomeridiano al Teatro Brancaccio a Roma, e ho pensato “ecco la mia musica”. Sentivo che la vera rivoluzione si diffondeva attraverso questa musica più che nelle assemblee delle scuole occupate. Poi negli anni 70 cominciai ad ascoltare il jazz e pensai “finalmente, ma è questa la mia musica!”. Il jazz più che il rock mi sembrava la musica del nostro tempo, in un senso più profondo.
Poi ti sei dedicato alla pratica musicale, con le percussioni, suonando musica latina, afrocubana?
Fin da piccolo cercavo di far suonare ogni oggetto che mi capitava a tiro, e miei genitori erano così esasperati che mia madre mi regalò dei “bonghetti”. In seguito, comprai le congas e iniziai a suonarle in pubblico, a vent’anni c’erano molte occasioni per suonare canzoni politiche. Ho studiato col percussionista statunitense Karl Potter e, dalla fine degli anni 70, fondando diversi gruppi musicali. In quegli anni lo chiamavamo afro-jazz. E poi ho suonato tantissima salsa.
Hai mantenuto il rapporto con il jazz anche con ascolti e frequentazioni?
È stata come una folgorazione per me. Cominciai a seguirlo anche dal vivo, “da vicino”, frequentando le jam session organizzate da Nicoletta Costantino. Lì ho conosciuto Marcello Rosa, Carlo Loffredo, Renzo Arbore e tanti altri.
Il jazz e la letteratura: qual è al fondo l’elemento comune?
Sia il jazz che la letteratura sono legati da un tratto comune, l’elemento di rischio. Nel jazz ovviamente è con l’improvvisazione che ci si espone al rischio. Nella letteratura è meno ovvio ma come diceva Roberto Bolaño quello dello scrittore è un mestiere pericoloso. Scrivere un romanzo non è un gioco, significa mettere a nudo la propria identità, può essere un atto drammatico, anche se oggi sembra che molti si cimentino in questa attività con superficialità, consumando letteratura alla stregua degli altri prodotti.
Ti sei inventato anche concerti atipici in cui brani musicali sono intervallati da brevi letture, pensieri sparsi, racconti veri e a volte fantastici, nel gruppo con il trombonista e compositore Marcello Rosa. Come è nata la vostra collaborazione?
Risale a più di dieci anni fa, ho trovato in lui un interlocutore particolarmente sensibile. L’abbinamento jazz e letteratura ci ha consentito di esibirci sia in festival letterari che in sale da concerto e jazz club.
Quale è stato il tuo rapporto con l’improvvisazione?
All’inizio non la capivo. Prendevo un disco di jazz e ne ascoltavo rapito il tema principale, apprezzando le diverse interpretazioni di uno stesso brano da parte di grandi musicisti, ma arrivati all’improvvisazione non riuscivo più a seguire. Allora ho cominciato ad ascoltare solo le improvvisazioni, fino alla nausea. La duecentesima volta sono cadute le barriere, ne è valsa la pena.
Perché?
Il jazz ha caratteristiche uniche. È l’utopia in tempo reale, parla dei sentimenti ma in un modo non sentimentale, non è mai sdolcinato; è giocoso senza mai essere goliardico; è una musica metropolitana ma senza la durezza della grande città moderna; è triste ma senza l’aspetto depressivo che può accompagnare la tristezza; è comunitario, in quanto tu senti di partecipare ad un rito con gli altri, ma con la possibilità di startene da solo; il jazz è onirico ma per farti stare di più dentro la realtà; è molto sensuale anche se all’inizio può sembrare un po’ cerebrale.
Dici che il jazz continua ad essere attuale, ma i tempi sono cambiati ed è indubbio che il pubblico si stia assottigliando e invecchiando.
Mio figlio è un rapper, non ascolta il jazz ma ne è incuriosito. Perché non lo pratica? Forse perché richiede un impegno per il quale non è motivato. Per lui non vale la pena. Oggi tutto deve essere immediato, veloce, facile e il jazz non è facile da realizzare.
Non pensi che lo stesso termine “jazz” possa essere inadeguato ad esprimere le evoluzioni e le trasformazioni che questa musica sta subendo col passare degli anni?
Bella domanda. Se il jazz è contaminazione ma a forza di ibridarsi poi diventa un’altra cosa, qual è il confine? Non c’è una risposta… è un genere un po’ meticcio, si arricchisce delle differenze ed è come se il confine si spostasse sempre un po’ più in là e questo ne fa un oggetto un po’ inafferrabile, ma è anche il suo fascino.
E del mercato del jazz cosa ne pensi?
C’è un problema che riguarda anche la letteratura, da una parte c’è un miglioramento qualitativo, più studenti di jazz nelle scuole di musica e nei conservatori e più bravi musicisti, ma dall’altra c’è più omologazione. Molti romanzi nascono dall’editing delle case editrici, sono creature perfette ma asettiche. Io sono sempre alla ricerca dell’imperfezione, del piccolo errore, di quel piccolo scarto, quasi un dissenso dalla norma.
Racconti che Marcello Rosa ti ha insegnato che il jazz è legato alla dimensione del piacere. A che tipo di “piacere” fai riferimento?
Sono un ammiratore di Adorno tranne quando parla di jazz. Parla di meccanico, dissonanza, disagio, non conciliazione. Ma la rivolta dovrebbe avere in sé anche una visione positiva, un piacere nell’atto di comunicare la ribellione a questo mondo, con un nuovo pensiero, con una nuova improvvisazione, una nuova provocazione. Per questo parlo di esperienza di piacere, proprio perché nel jazz c’è la cattiva mitologia degli artisti maledetti, il luogo comune del genio e sregolatezza, che proprio non condivido.
Applichi questo concetto anche alla letteratura, all’arte in generale?
Anche nel romanzo questo aspetto è importante, tranne rare eccezioni il romanzo è un genere che tende a connettere la società, i vari pubblici e lo scrittore non dovrebbe mai dimenticarlo, anche se sta portando avanti la sua ricerca solitaria. L’arte può essere “sovversiva” proprio perché risveglia il piacere, ci fa ricordare la felicità possibile e ci regala la dimensione del rifiuto verso la società che nega questo benessere. Troppo spesso la cultura dominante è segretamente impregnata di morte, Heidegger chiama “mortali” gli esseri umani, come già accadeva nell’antica Grecia, e Hannah Arendt gli fa l’obiezione: perché non “natali”, visto che gli esseri umani nascono oltre che morire? Ma allora, dico io, se per la Arendt l’agire umano è far nascere qualcosa di nuovo, allora il jazz è un’arte della nascita!

Sempre caro (non) mi fu quest’algoritmo

Secondo una delle citazioni più antiche e celebri di tutta la letteratura cinese, comparsa anche nello Shijing詩經 (Classico delle poesie, 1000-600 a.e.c.), prima raccolta poetica cinese, la poesia (shi 詩) è “l’intenzione” (zhi志) che dall’intimità della “mente-cuore” si esterna incarnandosi attraverso le parole (yan言). La poesia è dunque espressione creativa e profonda della realtà interna unica e irripetibile della poetessa o del poeta: l’infinito oltre la siepe. Si può quindi scrivere in versi senza una “mente-cuore”, umana per definizione? Senza un sentire? Senza uno slancio non razionale?
Microsoft sembra credere di sì. Xiao Bing (XiaoIce in inglese, in italiano “piccolo ghiacciolo” o “ghiacciolino”) è il robot AI nato e progettato come chatbot che nel 2017 ha pubblicato la prima raccolta poetica cinese “creata” integralmente da un’intelligenza artificiale, Il sole ha perso la sua finestra (Yangguang shile boli chuang 阳光失了玻璃窗). Per arrivare a scrivere i suoi componimenti, la giovane Xiao Bing ha dovuto studiare migliaia di volte più di 2mila poesie di 519 poeti cinesi moderni e contemporanei, il tutto in sole 100 ore (un umano ci impiegherebbe un secolo!). E non è tutto. Xiao Bing è infatti molto prolifica, potenzialmente all’infinito, basta andare sul sito (poem.xiaoice.com) e caricare una foto qualsiasi – noi abbiamo scelto un mare cristallino – per “ispirare” la sua penna che in circa 12 secondi produrrà ben tre poesie diverse a partire dall’input proposto, che può essere anche di tipo testuale. Ecco il componimento che ci ha “regalato”, come dice lei stessa, per stimolare la nostra vena creativa:

你如同光照亮了我 Come una luce mi illumini
欢乐的影子在流水里跳动 l’ombra della gioia saltella nell’acqua che scorre
快乐的人们比万物美丽百倍 le persone felici sono cento volte più belle dei Diecimila Esseri
他们开创了伟大的伊始 e creano un inizio grandioso.

Naturalmente il pubblico si è spaccato a metà fra chi apprezza i componimenti della robopoetessa e chi li considera una minaccia, una parodia melensa della poesia vera che in Cina, peraltro, ha un valore sociale, oltre che letterario, molto importante, come abbiamo raccontato più volte su Left.
Anche Google ha lanciato uno strumento simile, si chiama “Verse by Verse” e permette di creare poesie nello stile di alcune potesse e poeti americani, fra cui Emily Dickinson e Walt Whitman. In questo caso, bisogna scrivere di proprio pugno il primo verso per l’AI che poi invita a scegliere tre fra gli autori disponibili. A questo punto si può decidere se selezionare uno dei versi suggeriti, soltanto ispirati e non ripresi tout court dal repertorio letterario degli autori, oppure continuare a crearne di propri. La poesia finale dovrebbe essere una commistione fra le due dimensioni: quella umana e quella dell’intelligenza artificiale. Anche qui, dunque, l’intento più o meno dichiarato è quello di aiutare a ispirare la creatività di chi fruisce dello strumento e non quello di sostituire il poeta o la poetessa.
Fra le righe, però, è come se si prefigurasse un futuro in cui una creatività interamente umana non sarà più possibile, o comunque non sufficiente. È vero che la poesia si basa sulla metrica, la misura dei versi ad alcuni può sembrare simile alla matematica, ma ciò non giustifica la concezione della produzione, o creazione, poetica come mero esercizio meccanico; il “fare” insito nell’etimologia della parola “poesia” (dal greco poíēsis) è un fare tutto umano. Se fosse soltanto rigoroso meccanicismo, saremmo battuti in partenza, e in fondo non si tratterebbe nemmeno di poesia. Ma come funzionano queste macchine nello specifico? Lo abbiamo chiesto a Michele Laurelli, ideatore e creatore di PoAItry (2020), il primo “poeta artificiale” in lingua italiana. Il nostro interlocutore ci ha spiegato come per istruire questa rete neurale artificiale ci sia stato bisogno di creare tre algoritmi per insegnarle il lessico, la sintassi e le strutture testuali della lingua italiana grazie a un dataset che, per motivi di praticità e coerenza, era costituito dalle poesie di autrici e autori italiani di inizio Novecento, fra cui Antonia Pozzi, Sergio Corazzini e Giuseppe Ungaretti. Per generare effettivamente le poesie, poi, è stato fornito all’AI un seed, letteralmente un “seme”, in questo caso costituito da topoi tipici della nostra tradizione lirica. “Semi” caratteristici sono stati parole come “luce”, “buio”, “amore”, “mare”, “stelle”, e altre, sulla base delle quali il robopoeta ha costruito le sue liriche. «PoAItry ha già pubblicato la sua prima raccolta, Come un’anima di Cristo, che ha persino ricevuto una menzione speciale nell’ambito dell’edizione 2020 del Premio Gianmario Lucini. Nonostante ciò, come mi aspettavo e auspicavo, c’è stata una forte opposizione nei confronti del mio progetto da parte del mondo letterario». Laurelli ci rivela che il suo è stato «un atto violento e una provocazione – entrambi senza virgolette, specifica – voluti per suscitare un dialogo, anzi, un dibattito sul ruolo della poesia e del poeta oggi. O più in generale, quello dell’artista. Qual è il suo ruolo?». Ovviamente quello che può fare la macchina, lo ribadisce lo stesso Laurelli, è imitare uno stile poetico, essere allenata a riprodurlo, nulla di più; non ha una necessità, un’urgenza poetica – dunque umana – di raccontare una certa realtà. Questi strumenti che ormai, volenti o nolenti, fanno parte della nostra quotidianità possono, e dovrebbero, essere usati a nostro favore. «Spero che attraverso la tecnologia si possa spingere la corsa umana un po’ più in là: se ci appoggiamo a queste “stampelle”, senza fermarci del tutto, riusciremo a fare dei grandi passai avanti», dice Laurelli.
Le riflessioni al riguardo potrebbero essere molte, il discorso è ampio e si declina in varie dimensioni, non solo quelle artistiche. Forse quella dell’arte AI va davvero vista come una provocazione volta al “positivo”, un tentativo di spronare gli esseri umani a continuare a creare, cosa che, d’altronde, hanno fatto sin dagli albori -l’arte paleolitica ne è una splendida prova – e sempre faranno.
In chiusura, il nostro interlocutore rimarca: «Ci sarebbe bisogno di un maggiore dialogo con i tecnici per dare delle indicazioni per il futuro, una direzione, in qualche modo, ai rapidi avanzamenti di cui sono fautori, e non il contrario; bisognerebbe portare avanti uno sviluppo sostenibile della tecnologia, perché ormai c’è ed è un dato di fatto».
Ci lasciamo con un componimento di PoAItry, ma più che altro con un invito alla Poesia in generale, umana, intrinsecamente “inutile” e, proprio per questo, profondamente necessaria.

Ecco un esempio di poesia artificiale:

Città /un tempo/la vedemmo
dalle tre camere fumose /che l’anima dilania insana
e questa smania /per le tue ciglia d’oro
che sonnecchiano allineate/trema il cuore
delle sere/il mare
e quella notte pallida

E li chiamano musei

Sottomarini usati – compro e vendo». Recita così l’inserzione che il protagonista senza nome di Non luogo a procedere (Garzanti), il romanzo del 2015 di Claudio Magris, pubblica su Il piccolo banditore. Per il collezionista conta solo riuscire a realizzarlo un museo che, contenendo tutte le armi del mondo, renda impossibile combattere. Insomma, un museo della guerra che invoca la pace. Un progetto visionario, ma anche paradossale.
In Italia la realtà supera abbondantemente l’immaginazione letteraria, in tema di musei. Che sono moltissimi. E distribuiti capillarmente. Virtù e vizio, contemporaneamente. Già perché questa presenza così massiccia, non di rado, rischia di essere compromessa. Da non infrequenti casi di stentata sopravvivenza, prolungata nel tempo. A volte da chiusure improcrastinabili, imposte dalle spese di gestione e dall’impossibilità a provvedere perfino a interventi di ordinaria manutenzione. Da strutture inaugurate, ma mai realmente fruibili. Nonostante importanti finanziamenti. Le cronache nazionali e, più di frequente, quelle locali, testimoniano questa sofferenza. Che non sembra risparmiare nessun territorio. Per provare a capire, qualche esempio. A Pescara il museo del mare viene inaugurato a dicembre 2013. Peccato che i 2 milioni e oltre 126 mila euro spesi risultino insufficienti a completare i lavori necessari per renderlo agibile. Per questo continua a rimanere chiuso. Chissà se i 600mila euro appaltati lo scorso luglio dal Comune lo renderanno fruibile, finalmente. Invece, a Montagano, in provincia di Campobasso, c’è il museo di Faifoli. Anzi, ci sarebbe. È costato 450mila euro stanziati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica nel settembre 2004. Utilizzato eccezionalmente per qualche evento, è sostanzialmente vuoto. È stato realizzato in previsione del recupero di materiale archeologico dalla prossima area archeologica in località Santa Maria. Peccato che le indagini si siano arenate da anni, per mancanza di fondi.
A Forlì, il locale museo archeologico, è chiuso da 25 anni. Il Comune che ha scelto di non inserirlo neppure nominalmente nel suo portale tra le aree espositive della città, preferisce investire sul complesso di San Domenico, sede designata di prestigiose mostre. Stessa sorte per il museo etnografico romagnolo “Benedetto Pergoli”, il più grande museo etnografico d’Italia insieme al Pitrè di Palermo. È chiuso dai primi anni 90. A Lodi il museo civico, strutturato nella sezione archeologica, in quella ceramica e nella Pinacoteca, è chiuso ufficialmente da gennaio 2011. «In attesa della sua collocazione presso gli ambienti dell’ex Linificio», si spiega sul portale del Comune. Il museo civico “Paolo Giovio” a Como? Temporaneamente chiuso da marzo 2020 per la mancanza del Certificato di prevenzione antincendi. In realtà la gran parte degli spazi è inagibile dal 2018, per infiltrazioni al tetto. Il Comune, in assenza di fondi disponibili, aveva domandato un finanziamento da un milione e mezzo di euro al Piano nazionale di ripresa e resilienza per ristrutturare il museo. Si dovrà provvedere diversamente, la risposta è stata negativa.
Servirebbero più risorse, è certo. Ma anche uno sguardo meno focalizzato sull’utile meramente economico, forse.
Ma intanto è continuata anche nel 2022 l’apertura di nuovi spazi museali. Una autentica necessità. A quanto sembra, improcrastinabile. Mostrata più raramente dallo Stato. Così a febbraio è stato inaugurato il nuovo museo archeologico nazionale di Verona, nell’ex caserma asburgica di san Tomaso. Anzi, è stata inaugurata la sezione dedicata alla preistoria e alla protostoria. Per il resto bisognerà attendere almeno il 2025. Quel che è certo è l’impegno finanziario complessivo. Oltre tre milioni di euro tra fondi del ministero della Cultura e quelli assegnati tramite il Pnrr.
Invece a luglio sono state inaugurate le prime due sale del Mundi, il museo nazionale dell’italiano, presso l’ex monastero della Santissima Concezione, all’interno del complesso di Santa Maria Novella, a Firenze.
C’è stato anche altro. Ma in ogni caso si tratta di numeri abbastanza esigui. Proprio come quelli che riguardano gli spazi di proprietà regionale. Così in Abruzzo, a febbraio è stato inaugurato il museo storico del parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, a Pescasseroli. Mentre a maggio hanno aperto, in Sicilia, a Partanna, in provincia di Trapani, il museo di castello “Grifeo”, e nel Lazio, a Roma, il museo dei sotterranei nella cava romana dell’Appia antica alla Caffarella.
Diverso è quel che si è verificato in ambito comunale. Dove si sono raggiunti numeri più che considerevoli. Anche se distribuiti sui territori in maniera disomogenea. Con una logica che non sempre risulta rintracciabile. Al punto che in alcune circostanze si sarebbe tentati di ritenere che si tratti di operazioni di propaganda politica piuttosto che di reale interesse culturale. Quel che è certo è che le tematiche prescelte spaziano. Enormemente. A volte, verrebbe da pensare, troppo. Si va dall’archeologia alle mele. Passando per il fungo porcino. Fino ad arrivare alla “bussola”. Un po’ di tutto che rischia di tramutarsi in un nulla. Costoso.
Così a marzo 2022 inaugurato il museo archeologico degli Ipogei, nell’ex ospedaletto di via Marconi, a Trinitapoli, nella provincia di Barletta-Andria-Trani e il museo del mare e delle attività marinare, nel Palazzo Fazello, a Sciacca, nell’agrigentino. Da aprile, ecco a Palermo, il Fem – food experience museum: il primo museo virtuale e fisico dedicato alla cucina palermitana, progetto finanziato dal programma operativo nazionale “cultura e sviluppo” Fesr 2014-2020.
A giugno, poi, è stata la volta del Mu-Ch museo della chimica, all’interno dell’ex fabbrica Siva, a Settimo Torinese, finanziato dal piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane.
Invece a luglio inaugurato il nuovo allestimento del museo civico della Bussola e del Ducato Marinaro, all’interno dell’arsenale della repubblica di Amalfi. Ma anche il museo delle armi e della tradizione armiera. Raccolta d’armi “Renato Procaccini”, a Bovino, nel foggiano.
Non è finita. Non c’è mese senza almeno una (ri-)apertura. Così ad agosto, ecco il Dioli Museum, in un antico edificio, accanto alla sede comunale, a Caspoggio, in provincia di Sondrio.
A settembre inaugurazione del museo del fungo porcino di Borgotaro, presso il palazzo della Comunalia di Albareto, nel parmense e del museo dedicato a Sacco e Vanzetti, all’interno del castello Ducale, a Torremaggiore, nel foggiano, utilizzando i finanziamenti del Gal Daunia rurale 2020.
Ad ottobre, è stata la volta del museo della mela rosa, a Montedinove, nell’ascolano. La lista delle inaugurazioni, complete oppure parziali, è lunga. Al punto da rischiare di perderne il conto. «Di nuovi musei non si avverte la necessità. Già ce ne sono moltissimi. Almeno che non si tratti di spazi che prevedono la reale valorizzazione di qualcosa. Magari delle opere d’arte, scoperte da poco. Come nel caso del nuovo museo che sarà allestito a San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena, permettendo l’esposizione delle statue bronzee e degli altri materiali provenienti dalla favissa individuata presso il santuario romano indagato nella località il Bagno Grande», dice Giuseppe Cosenza, economista della cultura. Il problema è iniziale, sostiene. Insomma, «capire se il nuovo museo abbia una sua reale sostenibilità. Se esistano da parte dell’ente che procede alla sua apertura, le capacità finanziarie ed organizzative per provvedere alla sua esistenza. Così da renderlo un luogo della cultura attrattivo». Insomma sono necessari i fondi. Per provvedere all’allestimento iniziale e poi ai successivi riallestimenti. Ma anche alle spese dell’organigramma della struttura, dal direttore ai custodi. «Altrimenti si apre e subito si muore».

L’Italia non sembra poter sopportare il tanto nuovo che si continua ad aggiungere all’esistente, con una progressione preoccupante.

Nel 2020 risultavano aperti o parzialmente aperti 3.337 musei , tra pubblici e privati. Lo scrive l’Istat nel Report del 2022, “Musei ed istituzioni similari in Italia”. Nel quale si spiega che «l’offerta di strutture espositive a carattere museale ha una densità sul territorio pari a 1,4 musei o istituti similari ogni 100 kmq e a circa uno ogni 14mila abitanti in termini demografici». In sostanza, più di un Comune italiano su quattro ospita almeno un museo o un istituto similare. Con alcune Regioni nelle quali le istituzioni culturali sono diffuse in modo ancora più estesa. È il caso della Toscana in cui la quota di Comuni dotati di almeno una struttura sale al 68,1% e dell’Umbria in cui si attesta al 62%.

Un’offerta numericamente importante, quindi. Per il 67,9% proprietà di istituzioni pubbliche. Regionali nel 4,7% dei casi e statali nel 15,3%. Un’offerta alla quale contribuiscono anche gli istituti privati. Tra quelli aperti oppure parzialmente aperti nel 2020, il 33,3% fa capo ad associazioni, il 21,3% a fondazioni, il 19,2% ad enti ecclesiastici e religiosi, mentre nell’8,4% dei casi si tratta di privati cittadini.

Un’offerta estremamente diversificata. Nel 21% dei casi si tratta di musei archeologici con testimonianze delle civiltà preistoriche e antiche, soprattutto in Basilicata, Lazio, Sardegna e Puglia. Seguono, con il 17,7%, i musei che espongono collezioni e beni di arte antica, moderna e contemporanea, presenti soprattutto nelle Marche, in Umbria, Toscana e in Lombardia, e, con l’11,6%, i musei tematici e specialistici, principalmente nella provincia di Bolzano/Bozen, in Friuli-Venezia Giulia e in Liguria. I musei su usi e costumi delle comunità locali con collezioni etno-antropologiche pari al 10,8%, risultano più diffusi in Basilicata, nella provincia di Trento e in Molise, mentre quelli di arte sacra, le chiese musealizzate e i monumenti a carattere religioso, il 7,5% del totale, sono relativamente più presenti in Sicilia, Toscana, Umbria e Campania. I luoghi di interesse culturale sono quasi ovunque. Con una singolare predilezione per i centri non grandi. Il 32,2% degli istituti museali si trova in piccoli Comuni con meno di 5mila abitanti, che in alcuni casi arrivano a contare sino a 4 – 5 strutture, il 33% in Comuni tra i 5mila e i 30mila abitanti.

Insomma il punto sembra anche questo. La ricerca di un qualche equilibrio. Che assicuri la necessaria sostenibilità dei musei. Vecchi e, soprattutto, nuovi. Provvedere a mantenerli vitali, anche dopo l’inaugurazione. Per evitare che da spazi di inclusione si trasformino in relitti, sostanzialmente inutili.

«E la gente costruirà altri musei. Voglio un museo ad ogni angolo di strada … in ogni … in ogni». In Paperino e il cimiero vichingo, pubblicato in Italia a settembre 1952, il direttore del museo di Paperopoli sogna di diventare l’imperatore d’America e di trasformare tutto il mondo in un gigantesco complesso museale.

Che genio Carl Baks che ha scritto e disegnato la storia! Con ironia, ha prefigurato quel che sarebbe accaduto. Almeno, in Italia.

Artisti contro la guerra

Volterra la mostra Enduring Freedom ci parla di tutte quelle persone che riescono a mantenere la loro umanità nonostante le violenze subite durante le guerra. Ci parla della forza che ha l’arte nel trasmettere questo messaggio. Dal Vietnam all’Afghanistan all’Ucraina, 60 anni di storia ci dicono dell’incapacità della politica delle grandi potenze mondiali di occuparsi del benessere delle persone, riproponendo ogni volta quella coazione a ripetere di mandare al potere i più violenti e onnipotenti che costringono i popoli ad essere violenti nei confronti di altri popoli, annullandone l’identità umana. Nel corso del Novecento i grandi fotografi, cronisti di guerra, hanno scattato immagini che hanno fatto la storia. Da Robert Capa che ritrae il miliziano della guerra civile di Spagna mentre cade, a braccia aperte, al soldato che afferra il bambino e lo porta al di là del muro nella recente fuga dall’Afghanistan dei talebani. Oppure pensiamo a Steve McCurry che fotografa l’intenso volto della giovane afgana dagli occhi chiari realizzando l’immagine dell’artista fotografo che salva il senso umano delle cose. Coloro che lavorano alla conservazione dell’arte in un Paese devastato come l’Afghanistan e coloro che usano l’arte per denunciare la crudeltà, la disumanità della guerra possono costruisce barriere culturali che vi si oppongono.
Quello che vogliamo raccontarvi è un dialogo tra artisti: c’è l’artista che difende e recupera il patrimonio e l’artista che con le proprie immagini suscita domande. Percorre in modo valido questa strada la mostra Enduring Freedom, che ha esordito a Firenze negli spazi dell’associazione R. F. Kennedy Human Rights Italia e approda nelle Logge di Palazzo Pretorio a Volterra, dal 21 aprile al 5 maggio. L’esposizione di due giovani artisti, Gianluca Braccini e Jonathan Soliman Awadalla, è frutto di un ambizioso progetto con cui, già prima dell’invasione russa dell’Ucraina, hanno cercato di dare voce, attraverso la pittura, al dolore generato dalla violenza di tutte le guerre dovunque ed in qualunque tempo siano scatenate. Su questo tema si è svolto un incontro con l’architetto Ugo Tonietti che da 15 anni lavora in Afghanistan al recupero di architetture di valore storico e artistico (come l’antica moschea di Noh Gonbad, il quinto minareto di Herat, la fortezza di Bala Hissar). Il filo rosso è l’arte come interpretazione del reale con linguaggi e stili diversi, dall’antichità fino a oggi. Vorremo qui ripercorrerne alcuni passaggi per approfondire il senso di questa mostra. «Mi colpisce – esordisce Tonietti – che dei giovani decidano di occuparsi di qualcosa che è molto distante e che però acquisisce un chiaro significato sociale. La loro operazione culturale ha un impatto civile e l’arte al fondo ha proprio questo compito», dice l’architetto e docente dell’Università di Firenze. «Perché l’arte da sempre introduce cambiamenti radicali nel modo di pensare e vedere indicando le cose importanti». In questo caso i due artisti sono intervenuti su documenti fotografici anche molto noti. Dipingendo sopra queste testimonianze, le hanno trasformate, hanno cambiato radicalmente il significato e il senso che avevano in origine. «È come se ci chiedessero di leggerle in un’altra maniera. E l’altra maniera sono i loro occhi» prosegue Tonietti. «Pensiamo per esempio all’immagine del bimbo che viene sollevato e proteso verso un militare che sta sopra un muro dell’aeroporto di Kabul: quella è la storia di tutte le vittime delle guerre. Dietro quel bambino ci vedo la storia straziante di Astianatte, il figlio di Ettore e Andromaca, e di tutti i bambini abbandonati. C’è l’Iliade dietro queste immagini, c’è una storia drammatica che ha accompagnato il percorso dell’uomo per tantissimi anni. Ed è una domanda che immagino loro si siano fatti, quella di porre l’accento sul perché».
«Potevamo parlare di altre 400 guerre poiché sono tutte uguali», commenta Gianluca Braccini. «Un progetto del genere lo si pensa, ma fino a un certo punto. Poi si dipinge. Ma ci si costringe anche a riflettere sul perché. L’operazione militare Usa in Afghanistan dopo l’attacco alle torri gemelle del 2001 fu chiamata enduring freedom “libertà duratura” ed è un fatto sconvolgente». Jonathan Soliman Awadalla sottolinea che alla fine l’arte non fa altro che porre domande, «l’arte non dovrebbe avere la pretesa di dare risposte», ma trovare una domanda che ne raccoglie altre per arrivare al cuore di una questione. «Alla fine – dice – abbiamo evitato un racconto cronologico. È una raccolta di frammenti che sono intercambiabili con qualsiasi altra guerra o tragedia umana. Abbiamo preso in esame l’Afghanistan perché ci siamo cresciuti. Lo spettro dell’oppressione ce lo portiamo dietro da 21 anni, per questo non abbiamo cercato icone, ma immagini che all’interno ne raccontassero altre». «Se guardo il quadro di Braccini: Kabul 2021 vedo una scena di vita a cui non so quante volte ho assistito», riprende Tonietti. La madre indossa la mascherina ma potrebbe essere semplicemente un velo tradizionale «e allora viene da pensare che il velo sia una costrizione generata da una situazione malata», dice l’architetto. «Al tempo stesso però è anche un’immagine, in certo modo, serena. Ci sono molti elementi caratteristici come certe vesti e le immancabili ciabattine di plastica. Nell’insieme il quadro ci comunica eleganza. C’è la rappresentazione di una fierezza che mi colpisce ogni volta che vado in Afghanistan». A ben vedere questa è un’immagine in un periodo di guerra senza la guerra, «ma in realtà ci parla di qualcosa che questa famiglia ha sulle spalle da prima che arrivasse questo conflitto. È la guerra che tormenta gli innocenti in un Paese che da tantissimo tempo vive in un mondo tribale, patriarcale, che è nemico di donne e bambini». Non è facile farsi un’idea di cosa significhi per una donna non avere presenza/esistenza pubblica. «E questa immagine ci dice che loro portano sulle spalle quel peso. Contemporaneamente, però, si muovono con leggerezza, come se non lo sentissero quel peso che sanno di portare. E sono l’unica speranza che noi abbiamo. Perché – approfondisce Tonietti – questa donna con i bambini per strada è vera e nonostante la situazione terribile che vive e che hanno vissuto sua madre e sua nonna tutte loro si alzano la mattina camminano e muovono il mondo». Queste immagini ci ricordano quando – dopo un attentato o un terremoto – le persone trovano il coraggio di tornare in piazza, fa notare il docente di architettura. «Le popolazioni dopo i terremoti tornano nei luoghi che hanno sempre occupato, perché non se ne vogliono andare. C’è una strana, pazzesca, forza nel continuare a vivere nonostante le condizioni totalmente avverse. Questa donna mi ricorda questa “follia”. L’umanità viaggia sulle gambe di queste donne. Il loro portamento, la loro forte mitezza, la loro sofferenza ingiusta ci dice di uno sbandamento insopportabile delle nostre società. È loro il merito di ricordarcelo, di obbligarci a pensarci».

In foto un’opera della mostra Enduring Freedom

Lesley Lokko, direttrice de La Biennale: «L’architettura del futuro? Nasce in Africa»

L’attesa per i contenuti di una Biennale di Venezia è sempre direttamente proporzionale alla curiosità per il direttore scelto. Guardando alla storia personale della direttrice della Biennale architettura 2023, Lesley Lokko sembra incarnare una figura impegnata di “architetto attivista”: da anni sta combattendo per il riscatto dell’Africa dal punto di vista culturale e, nello specifico, progettuale. Tanto più perché ha una formazione iniziale da sociologa ed è anche affermata scrittrice di romanzi. L’abbiamo incontrata per conoscere più da vicino il suo percorso, la sua visione e per parlare della diciottesima Mostra internazionale di architettura che si svolgerà dal 20 maggio al 26 novembre, ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera.

Lesley Lokko, cos’è cambiato in Africa dal suo primo articolo “When a Door is Not a Door”(Nka journal, 1995) dove affrontava il dominio e la violenza degli standard di bellezza bianchi?
Ciò che è cambiato è l’interesse fuori dall’Africa nell’ascoltare una storia diversa, una differente narrazione del continente. Quanto a me, non mi sono mai pensata come una attivista orientata all’azione. Gran parte del mio pensiero si è sviluppato in tempi lunghi e in modo piuttosto solitario. Direi che il mio pensiero ha avuto uno sviluppo soprattutto interiore. La mia primissima conferenza pubblica era intitolata “Argument from silence”. In archeologia si usa questa espressione per dire che se si cerca l’evidenza che in una certa zona sia successo qualcosa e non la si trova, non significa che lì non sia successo niente. Dunque, non userei la parola riscatto perché implica il fatto che qualcosa sia andato perduto e lo si voglia recuperare, mentre per me quel qualcosa c’è sempre stato e c’è.

Penso che lei e Francis Kéré (primo architetto africano ad ottenere il Pritzker Prize) abbiate molto in comune. Burkinabé e tedesco, Kéré sta rivoluzionando canoni estetici e modalità di realizzazione dell’architettura in Africa. Lei dopo anni di permanenza all’estero, sta facendo la stessa cosa sul piano didattico con la recente fondazione ad Accra di una propria scuola di architettura, l’African Futures Institute (Afi). Pensa che tutto questo possa fare scuola? Quali sono gli ostacoli più grandi?
L’Africa è il continente più giovane del mondo e la nostra età media è sotto i vent’anni. Dunque la nostra relazione con l’istruzione è molto diversa dai contesti in cui l’età media è matura e anziana. Per la stragrande maggioranza degli africani il futuro è davanti a sé. È diverso in Europa e negli Stati Uniti. L’istruzione gioca un ruolo fondamentale nell’agevolare le ambizioni della stragrande maggioranza della popolazione; senza, non puoi letteralmente andare avanti, non puoi cambiare il tuo contesto di vita. L’istruzione è la chiave. Abbiamo anche il minor numero di scuole di architettura di qualsiasi continente. Credo che ci siano qualcosa come 75 scuole accreditate per una popolazione di quasi un miliardo di persone. Per fare un paragone, il Regno Unito ha una popolazione di 63 milioni, ci sono 57mila architetti e qualcosa come 33 scuole. Da noi c’è un enorme deficit. Se vogliamo affrontare il cambiamento climatico e la giustizia sociale, i governi, la mobilità, le infrastrutture, l’unico posto dove possiamo farlo è a scuola. Penso che l’aver lasciato l’Africa per un lungo periodo di tempo, anche per la mia formazione altrove, mi abbia permesso di vedere il mio contesto di origine in modo diverso; ed è quella capacità di guardare ciò che conosci con occhi diversi che andrebbe coltivata a scuola. Ed è quello che fanno Francis Kéré, David Adjaye, Mariam Kamara ed altri. Sono tutti partiti e sono tornati. Io vorrei tanto creare una scuola che non obblighi a lasciare il continente per progredire.

A proposito di “radici”, Wangechi Mutu, artista che vive tra Nairobi e New York, dice che essere radicati in tanti posti diversi simultaneamente potenzia moltissimo il lavoro. Per lei è stato così?
Sì, al cento per cento. Sa, penso che da bambina spostarmi tra il Ghana e la Scozia (luoghi d’origine dei miei genitori) mi abbia insegnato molto presto, quasi prima che potessi parlare, che c’è di più al mondo di ciò che hai sotto il naso. Avere due o tre contesti diversi ti mette in una posizione privilegiata perché puoi confrontarli tra loro; così comprendi a pelle che il mondo è un posto complesso. Per sentirmi davvero radicata in Europa ho impiegato molto tempo durante il quale, perlopiù, mi sono sentita una straniera. Forse solo negli ultimi dieci, quindici anni ho cominciato a sentirmi come qualcuno che ha il diritto di essere lì.

In The Well-Laid table l’architetto/educatore Alvin Boyarsky propone una scuola di architettura che tratta i temi della diversità e della divergenza “frontalmente”. Pensa che la Biennale possa rispecchiarne lo spirito?
The Well-Laid table è uno dei testi più interessanti sull’educazione in campo architettonico e, per molti versi, tutto ciò che ho fatto deriva dal modello di Boyarsky. Non posso anticipare molto sulla mostra, ma posso dire che lo stesso approccio ha guidato la selezione dei partecipanti. Mi incuriosiva scoprire se essi, provenienti da contesti molto diversi, potessero avere approcci simili al tema che proponiamo. In altre parole, non è il colore della pelle della persona, non è la sua discendenza, non è la sua etnìa, non è la sua lingua che determinano se il lavoro avrà risonanza, è il suo approccio.

Ha parlato della mostra come di una sorta di “bottega artigiana”. L’artigiano per definizione non è solo creatore di forme ma anche “riparatore” esperto di quelle che il tempo ha danneggiato. Quanto conta nel suo “laboratorio del futuro”?
Ribadisco, la mostra non ha un intento “riparativo”. Quando si presenta l’Africa fuori dall’Africa, in qualche modo ci si aspetta che si debba ricostruire qualcosa. Quello che faremo, invece, è esplorare questioni che, per molto tempo, sono state al di fuori della narrazione. E che possono essere catalizzatori per pensare al mondo in modo diverso. Vogliamo presentarci in mostra come partecipanti alla pari, non con l’onere di riparare danni altrui.

Preferisce, dunque, immaginare nuove strade e lasciarsi alle spalle il presente?
Non esattamente. Voglio rendere esplicito il motivo per cui qualcosa è andato male. Parlare di decarbonizzazione e di decolonizzazione significa anche che dobbiamo comprenderne il contesto. Ma provare a sistemare qualcosa nello stesso momento in cui si sta cercando di esplorarla spesso può far collassare il progetto, poiché è troppo oneroso. In sostanza, questa mostra è uno spazio dove si possono esplorare molti temi senza la responsabilità di dover fornire una risposta ma, allo stesso tempo, con la consapevolezza che l’esplorazione stessa è già una sorta di risposta. Il passato è super importante, ma non lo penso come l’unica chiave per pensare al futuro.

Secondo Octavio Paz assistiamo al tramonto del futuro a favore dell’oggi. La pandemia ci ha obbligati a concentrarsi sull’hic et nunc, tralasciando progetti di lungo corso. L’Africa tuttavia, con la sua attuale effervescenza creativa (vedi Left di ottobre 2022 e la mostra Africa. Big Change Big Chance alla Triennale nel 2014), sembra contraddire tutto questo. Che ne pensa?
Una decina di anni fa durante una conferenza a Monaco un architetto viennese parlò di un progetto in cui aveva messo insieme, nello stesso edificio, studenti e senzatetto. Mentre i primi sono persone che percepiscono il futuro davanti a loro, i secondi sentono che non c’è futuro. Sono due gruppi che hanno una diversa comprensione di ciò che verrà. Analogamente l’Africa è giovane in termini di età ma contemporaneamente è il continente più antico del mondo. Tutto ciò ci offre un approccio diverso al tempo. Noi pensiamo sia lungo il tempo antropologico che nell’immediato. Poiché il presente in Africa è così pieno di conflitti, il futuro è davvero pieno di speranza. Movimenti come l’Afrofuturismo nella letteratura e nel cinema sono estremamente importanti perché permettono di prendere l’energia dell’ambizione e di convogliarla da qualche parte. L’Africa riguarda il futuro diversamente da tante altre parti del mondo in cui si è persa fiducia.

In molti luoghi dell’Africa c’è l’impronta della Cina e dei suoi metodi di urbanizzazione brutale (eclatanti a Nova Cidade de Kilamba). Ma in Cina si stanno anche valorizzando i territori naturali. Come evitare tutti quegli errori che emergono guardando l’attuale sviluppo delle metropoli contemporanee?
Buona domanda. Credo di poter rispondere con una parola che è “leadership”: ciò che ci manca davvero in Africa. Alcune di queste domande di grande portata riguardo all’urbanizzazione, alle risorse, ai governi, alla mobilità, possono trovare risposta solo a livello di “leadership”. E, in un certo senso, il compito dell’educatore è quello di promuoverla. Il livello su cui operano Cina, Francia, Stati Uniti, Russia, è impossibile da gestire singolarmente.

«L’architettura inizia e finisce con Mies van der Rohe», lei ha dichiarato. È sempre dello stesso parere? Cosa pensa dell’attuale panorama architettonico internazionale, ci sono approcci che ritiene più validi di altri?
È un po’ come se qualcuno mi chiedesse quali sono i miei scrittori preferiti… C’è qualcosa di misterioso e magico che ti fa innamorare di un certo scrittore; dipende dal modo con cui usa il linguaggio, dall’argomento, dal contesto. Quando ho messo piede per la prima volta in un edificio di Mies van der Rohe mi sono innamorata del suo linguaggio, sia del suo spazio che della sua forma. Se sono ancora di questa opinione? Direi di sì, è istintivo, è misterioso. Quello che ho imparato ad amare, forse negli ultimi dieci/quindici anni, è ciò che succede quando si prende un linguaggio da cui si è attratti e lo si ricrea in un altro contesto con materiali diversi, con vincoli diversi; quell’atto di tradurre qualcosa “che ti parla” è molto eccitante. Il mio talento, più che nel creare forme nuove, sta proprio in questo: nel riuscire a dialogare con spazi e materiali che mi suscitano emozioni. Quando insegno mi piace fornire strumenti agli studenti e poi stare a guardare mentre li trasformano in autonomia. Quindi posso dire a qualcuno: “Guarda il Padiglione di Barcellona, ora immaginalo nel contesto del Kongo o Kinshasa, cosa succede lì, cosa succede a quel linguaggio?”. Non voglio dire che la storia dell’architettura sia sbagliata, c’è un’immensa bellezza nella storia ufficiale, solo che non credo sia completa.

L’Italia, purtroppo, è piena di periferie degradate dove bruttezza ed ingiustizia sociale sono la regola. Il tema delle politiche verdi nell’approccio al progetto può rischiare di eludere problematiche come quella della vita nelle periferie urbane, della mancanza di alloggi economici di qualità?
In un determinato contesto, certificare che un edificio è verde non dice nulla sulla qualità della vita o sull’accesso alle risorse del 99,99% delle persone che usano l’edificio. È solo una parte della storia. Io sono a favore di qualsiasi approccio che abbracci la complessità. L’approccio scientifico alle politiche verdi spesso cerca di semplificare, in modo da non dover pensare alle implicazioni culturali e sociali. Molti architetti oggi pensano di risolvere i problemi di inquinamento rendendo “verdi” gli edifici e tralasciando problematiche più importanti. Si crede che l’approccio tecnologico fornisca di per sé la soluzione. La formazione di un architetto dovrebbe essere volta ad insegnarti a pensare in modo molto approfondito, ciò che è importante è la relazione tra le cose.

Se pensa al futuro di Venezia, cosa le viene in mente?
Quando sono qui ho la sensazione che qualcosa stia decadendo molto velocemente ma allo stesso tempo ci si innamora di tutto questo. Essere qui significa essere avvolti da una sorta di meraviglia… Contemporaneamente però c’è la chiara consapevolezza che la popolazione si sta riducendo, c’è il livello dell’acqua che sale o scende, il contesto sembra precario. La città ha 50mila residenti ma ha trenta milioni di turisti ogni anno, anche questo rapporto tra chi vive qui e chi la visita colpisce. Venezia è una città con due estremi molto singolari: un passato che è davvero presente. Il passato è qui, è in ogni cosa, è uno stile di vita, ma allo stesso tempo la sensazione è che questo stile di vita sia piuttosto fragile. Non so cosa significhi tutto questo per il futuro.

L’autrice: Patrizia Mello è architetto e saggista. Il suo ultimo libro s’intitola Twentieth-Century Architecture and Modernity ed è pubblicato da Oro editions

__________

Una adunata di “agenti del cambiamento” in Laguna
Si apre il 20 maggio la 18. Mostra Internazionale di architettura Il laboratorio del futuro, curata dalla docente, scrittrice e architetto Lesley Lokko che fa emergere tutta la ricchezza di prospettive che provengono dall’Africa, un luogo a tutti gli effetti fuori dal canone ufficiale dell’architettura che per Lokko è dunque «incompleta».
Una mostra dove prenderanno parola soprattutto le minoranze di approcci al tema progettuale, chi lavora come può/per quello che può dietro le quinte della scena ufficiale internazionale e che proverà a portare le proprie esperienze, i propri singolari approcci (accuratamente selezionati da Lokko) per testarne una possibile efficacia in relazione a grandi tematiche della contemporaneità come la decarbonizzazione e la decolonizzazione.
In definitiva “il piccolo” che agisce “sul grande” e lo sfoltisce di domande fino a ridimensionarne la negatività (si spera). Ecco il capovolgimento attuato da Lokko che porta in scena la “diversità” facendone, a tutti gli effetti, un punto di forza su cui impegnare le nostre energie future, dove posare nuovamente lo sguardo con curiosità perché è nel senso di “autenticità” culturale e di “libertà” implicita che potranno ancora essere rinvenute tracce di “futuro”.
«Ogni autentica creazione è un dono per il futuro» (Camus) è, infatti, il punto di partenza di Lokko come ha avuto modo di dire anche durante la conferenza stampa a Venezia.
Ciascuno potrà prendere la parola in un grande laboratorio fatto di practitioners (e non semplici progettisti), tutti egualmente impegnati nel ruolo di «agenti del cambiamento»: pensatori-artigiani, architetti-poeti, artisti-progettisti, architetti-inventori, in un mix fecondo di interscambi disciplinari (che già di per sé servono a rompere pregiudizi e punti di vista acquisiti in materia di architettura) portando il proprio bagaglio di cultura extra, in grado di immaginare il futuro attraverso la lente di ingrandimento di un’analisi tanto sfaccettata quanto ricca di nuovi illuminanti filtri interpretativi. Tutto si baserà su questo, senza la pretesa di soluzioni definitive che hanno però il desiderio di presentarsi, in ultima analisi, come “L’archivio del futuro”, sintesi forse di una profondità di pensiero che vuole sforare il futuro per rimetterne in gioco sedimentazioni e valori sulla scia di una curatrice come Lokko, ricercatrice solitaria e ora prima portatrice di un vento nuovo a Venezia, con l’obiettivo di ampliare la discussione sui temi progettuali a partire dall’Africa e dalla sua attuale eccentricità di vedute come abbiamo cercato di raccontare in queste pagine e come Left ha fatto in passato anche intervistando l’architetto Kéré. (Patrizia Mello)

Una nuova antropologia per ricostruire la sinistra

Oltre i problemi urgenti e le dinamiche di breve periodo, per orientarci nell’attuale situazione politica è utile esaminare alcune tendenze di fondo che hanno caratterizzato tutto l’Occidente capitalistico. Di rilievo è un fenomeno evidenziato da Thomas Piketty in Capitale e ideologia, (pubblicato da La nave di Teseo che ora propone il suo nuovo Misurare il razzismo): negli anni 60, in tutti i Paesi industrialmente avanzati, i partiti che si collocavano a sinistra raccoglievano le preferenze della maggioranza dell’elettorato meno istruito. Quelli con i più alti livelli di scolarizzazione votavano invece perlopiù a destra. Ovunque, nei decenni, questo scarto si è ridotto, fino ad annullarsi tra gli anni 80 e 90. Oggi le parti sono invertite: l’elettorato più istruito vota perlopiù a sinistra, e quello meno istruito a destra. Va ovviamente ricordato che è diverso essere scarsamente istruiti in una società dove questa è la norma, e dove invece i livelli di scolarizzazione sono elevati: in quest’ultimo caso la bassa scolarizzazione si accompagna molto spesso alla marginalizzazione e all’esclusione sociale, generando risentimento che sfociano nel nazionalismo e nel razzismo. Infine, secondo i dati di Piketty, la ricchezza è nettamente associata alla preferenza per la destra, mentre il reddito non è una variabile così decisiva per il voto. In particolare i più poveri non sono orientati in modo preciso né a destra né a sinistra, alimentando probabilmente l’astensione. La sinistra socialdemocratica, infatti, sposando l’ideologia del libero mercato e gli interessi economici ad essa connessi, ha lasciato il suo elettorato tradizionale privo di referenti politici. La sinistra però non vince se questo campo è interamente preda della propaganda della destra.

La destra si trova dunque nella necessità di unire due elettorati che hanno poco in comune: la parte meno istruita della popolazione e i più ricchi (non in termini di redditi ma di proprietà). Da Trump, proprietario di enormi ricchezze che attira il voto della popolazione xenofoba bianca meno istruita, alla destra italiana, che unisce Berlusconi, la xenofobia di Salvini e le radici fasciste della politica di Meloni, il modello per la vittoria della destra sembra questo. Anche l’elettorato di sinistra ha due componenti: votano prevalentemente a sinistra le fasce sociali con più scolarizzazione e coloro che si sentono colpiti dall’aggressività della destra sui temi razziali. Negli Stati Uniti gli afroamericani e le altre etnie votano in grandissima parte a sinistra, e lo stesso avviene in Francia per gli immigrati di ultima generazione. L’elettorato di sinistra nella sua parte più radicale, infine, è anche sensibile ai temi tradizionali della sinistra (difesa del lavoro e dello stato sociale) e alle problematiche ambientali. Biden non avrebbe vinto senza il sostegno dell’ala sinistra di Dem (Ocasio-Cortez e Sanders), Macron nel secondo turno delle elezioni presidenziali, oltre all’elettorato conservatore – da sempre ostile all’estrema destra – ha anche attratto parte dell’elettorato della France Insoumise, mentre in Spagna Sànchez non potrebbe governare senza l’alleanza tra Partito socialista, Podemos e altre forze della sinistra. Da noi è evidente quanto, al momento, senza un’alleanza tra Pd, M5s e forze della sinistra radicale, nessuna alternativa alle destre abbia possibilità di successo.

In sintesi, alla contrapposizione tra socialdemocratici, un tempo radicati nel mondo del lavoro, e conservatori, si è ormai sostituito un elettorato molto più frantumato. Al suo interno possiamo individuare 4 tronconi: la sinistra ha il favore della popolazione più istruita e delle minoranze, a cui si aggiungono quelle forze che mantengono un riferimento ai valori tradizionali del socialismo; la destra attira i consensi dei proprietari e dei movimenti nazionalisti e xenofobi. Va osservato però che la contrapposizione tra elettorati non corrisponde per nulla ad una definita contrapposizione tra classi dirigenti. Esse, ai livelli più alti, sia a destra che a sinistra sono in gran parte compromesse con la rete di potere che si è formata attorno al modello neoliberale di società, cosicché spesso, una volta al governo, compiono scelte in contrasto col volere del proprio elettorato.

Lo schema qui proposto è approssimativo e non immediatamente sovrapponibile ai singoli Paesi, che presentano forti differenze nelle forme dell’emarginazione, nei sistemi di voto e nelle tradizioni politiche. Però è utile per proporre alcune riflessioni. Analizzando le forze in campo, appaiono evidenti le fragilità dello schieramento di destra. Infatti l’alleanza tra i proprietari delle grandi ricchezze, cioè i vincenti della globalizzazione, e le fasce più povere e meno istruite che da quest’ultima sono state particolarmente penalizzate, può avvenire solo sulla base di un inganno, cioè grazie alla possibilità di indirizzare la protesta sociale verso falsi nemici quali immigrati, minoranze, persone di colore, oppure verso false soluzioni quali quella di costruire muri o lasciar affondare barconi per difendere i confini nazionali. L’uso dei social per la propaganda è stato ovunque decisivo per le affermazioni delle destre, che vincono quando si tratta di alimentare la protesta, ma fanno difficoltà a portare avanti un coerente programma di governo. Anche per questo possono tentare di violare le regole democratiche, come si è visto negli Usa dopo la sconfitta di Trump, e in un contesto diverso con Bolsonaro in Brasile.

La sinistra sconta invece la difficoltà di costruire un’alleanza stabile tra forze, idee e strati sociali che, pur con interessi divergenti, non necessariamente sono in contrapposizione. Anche qui un crinale è costituito dalla frattura tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione. L’abbattimento dei confini, come anche la difesa degli immigrati e delle minoranze, costituiscono una declinazione dell’idea di uguaglianza, tema da sempre centrale per la sinistra. Quest’idea entra però in contrasto con la globalizzazione neoliberista, che mette al centro non le persone e le idee ma gli scambi di merci. Dunque anche a sinistra un tema divisivo è quello della globalizzazione: l’elettorato più istruito, che vota la sinistra tradizionale, ne apprezza gli aspetti positivi, mentre quello della sinistra radicale – anch’esso comunque caratterizzato da un alto livello di istruzione – ne richiama gli aspetti negativi: la penalizzazione del lavoro, l’evasione fiscale, i grandi arricchimenti, la difficoltà nel mondo globalizzato di difendere i diritti sociali. Sul piano sociale – cioè prescindendo dalla compromissione di gran parte delle classi dirigenti della sinistra col modello neoliberale – un’alleanza tra queste due componenti non dovrebbe risultare impossibile: anzitutto la soluzione ai disastri della globalizzazione neoliberista richiede ugualmente soluzioni su scala globale; inoltre quel fenomeno che ha visto lo spostamento a sinistra dell’elettorato a maggiore livello di istruzione è anche la conseguenza della maggiore scolarizzazione della popolazione generale. Insomma sono in gran parte i figli e i nipoti della vecchia classe operaia e contadina che rimangono orientati a sinistra, nonostante quella sinistra non sia più tale.

In Italia sono particolarmente evidenti le disastrose conseguenze generate dall’assenza di un pensiero politico all’altezza dei problemi. Nei Paesi occidentali il crollo del comunismo ha lasciato un vuoto più marcato che altrove. I partiti comunisti si sono sempre mossi su un assioma, peraltro smentito dall’esperienza, secondo cui la classe operaia, per la sua posizione nel processo produttivo, è oggettivamente rivoluzionaria. Questo assioma porta con sé una precisa idea di partito, di lotta politica e di trasformazione sociale. Inevitabilmente la sua perdita lascia un vuoto che è impossibile colmare senza una riflessione profonda attorno a temi quali i fondamenti dell’uguaglianza, il tipo di benessere da perseguire e la dialettica da portare avanti per la trasformazione sociale. Richiami alla pace, ai diritti, all’ambiente, alla giustizia sociale, pur assolutamente necessari, rischiano di essere inefficaci se mancano di quel collante ideale necessario per coordinare le iniziative di quei milioni di persone che aspirano a superare lo stato attuale delle cose. Infatti, affinché i singoli e i diversi soggetti politici, nella loro autonomia, possano perseguire un fine comune, è necessaria un’idea condivisa di società. Anche per questo, come guida per l’azione, serve il pensiero umano.

Ora, se nei due secoli passati le lotte di sinistra erano volte principalmente (ma mai esclusivamente) alla soddisfazione dei bisogni, oggi è necessario chiedersi in modo più articolato quali valori siano necessari per una società conforme al benessere umano. Diviene centrale, in sostanza, il confronto culturale: vogliamo una società basata sul valore economico, o una società dove contano gli esseri umani in condizioni di uguaglianza sostanziale? Muoversi in quest’ultima prospettiva richiede una ricerca che, oltre la soddisfazione dei bisogni, sia indirizzata alla realizzazione delle esigenze, cioè investa quella sfera della vita che è volta non al rapporto con gli oggetti materiali ma al rapporto interumano. La difficoltà nel realizzare le esigenze è costituita da fatto che, per esse, è necessario superare un’idea assai radicata secondo la quale il bene nell’uomo è costituito dalla ragione, e ciò che non è ragione è fonte di violenza, sopraffazione ed errore. Invece la ragione è utile per il calcolo di convenienza, non per i rapporti interumani. Le esigenze richiedono che si dia spazio ad aspetti della vita umana quali la cultura – proprio quella cultura guadagnata per le grandi masse grazie al duro lavoro e alle conquiste sociali del secolo scorso -, la scienza disinteressata, l’arte, il gioco, gli affetti, il tempo libero, la partecipazione alle scelte collettive.

Il capitalismo, che tanti disastri va procurando, ha una base antropologica assai più profonda di quella che si osserva nei rapporti di produzione. Le sue radici sono nell’uomo economico. Per una nuova fase dello sviluppo umano, l’uomo economico, volto all’arricchimento individuale, deve essere sostituito dall’uomo come essere pienamente sociale che, per sé e per gli altri, rifiuta ogni condizione di miseria, di violenza e di sfruttamento. La frontiera della trasformazione sociale, oggi, è nella realizzazione delle esigenze. In assenza di una nuova consapevolezza su questo punto, nessuna sinistra potrà mai essere ricostruita.

L’autore: Andrea Ventura, economista, è autore per l’Asino d’oro dei saggi La trappola. Radici storiche e culturali della crisi economica (2012) e Il flagello del neoliberismo (2018)

La resistenza delle donne tunisine: «Se siamo unite ce la possiamo fare»

Le lavoratrici si ritrovano all’alba alla stazione dei bus, i caporali passano in rassegna “la merce”, fanno commenti sull’aspetto fisico delle donne e le scelgono anche in base a questo. Vengono selezionate come in una moderna tratta delle schiave e devono chiedere favori già per salire sul pulmino e andare a lavorare». Così Naima racconta con lo sguardo misto di rabbia e pudore la vita delle donne lavoratrici in agricoltura in Tunisia.
Naima fa parte dell’associazione Voix d’Eve con sede a Regheb, trenta chilometri a sud di Sidi Bouzid, regione nell’entroterra tunisino. È qui che Mohamed Bouazizi si diede fuoco nel dicembre del 2010 e il suo disperato gesto segnò l’avvio della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini che portò alla destituzione del presidente Ben Ali e alle speranze di un nuovo corso per il Paese e per tutto il Nord Africa.

Oggi la Tunisia sta attraversando una fase politica drammatica e le conquiste democratiche sono a rischio. Alle elezioni legislative di dicembre e gennaio scorso solo l’11% dei cittadini è andato a votare. Il nuovo Parlamento insediato a marzo ha meno poteri rispetto al precedente, sciolto dal presidente Saied nel luglio 2021. La prima seduta si è tenuta a porte chiuse, senza la presenza dei giornalisti, tranne quelli della radio e tv di Stato e dell’agenzia stampa governativa. L’opposizione, non riconoscendo questo Parlamento, ha annunciato battaglie per nuove elezioni politiche e presidenziali. La nuova legge elettorale ha estromesso i partiti e i candidati hanno corso come indipendenti, col sistema maggioritario a due turni. L’opposizione aveva chiesto il boicottaggio del voto per rifiutare quello che è stato definito un “colpo di Stato” di Saied.

Professore di diritto costituzionale, Kais Saied è stato eletto nel 2019 presidente della Tunisia. Allora promise che avrebbe eliminato la corruzione e riportato la serenità nel Paese, realizzando le riforme necessarie per risollevare l’economia. Dopo l’accordo del 2014 e l’approvazione della nuova Costituzione che aveva ridotto i poteri del presidente e aumentato quelli di Parlamento e magistratura, sono seguiti anni di caos politico, immobilismo e corruzione dilagante. L’elezione di Kais Saied venne salutata quindi come una svolta positiva. Solo che da quel momento è cominciata una graduale e costante eliminazione dei diritti e delle libertà che erano state ottenute dopo la Primavera araba. Nel 2021 i lavori del Parlamento sono stati bloccati, l’esercito è stato inviato a presidiare i principali palazzi governativi della capitale Tunisi, è stato imposto il coprifuoco in città e sono state represse numerose proteste.

Il Fondo monetario internazionale ha recentemente bloccato il prestito di 1,9 miliardi di dollari dopo le dichiarazioni di Saied e gli attacchi ai migranti subsahariani. A ottobre aveva autorizzato lo stanziamento ma la votazione finale era stata rinviata a causa di una serie di decisioni controverse messe in atto sempre dal presidente.In tale contesto, la popolazione ha visto crollare il proprio potere d’acquisto a causa di un’inflazione superiore al 10 per cento e sta affrontando periodiche carenze di prodotti alimentari fondamentali come latte, olio o zucchero.

La situazione nelle regioni dell’entroterra e agricole è ancora più difficile e a pagarne le conseguenze più gravi sono le fasce più vulnerabili della popolazione. È il caso delle donne che sono impegnate in agricoltura e nella pesca. Sono loro al centro di una iniziativa di Cooperazione per lo sviluppo dei Paesi emergenti (Cospe) nell’ambito del progetto Femmes travaillant dans l’agriculture: inclusion, réseautage, emancipation (Faire). Ricerca e azione, i due binari dello strumento adottato dalla Ong per conoscere le donne lavoratrici, analizzare insieme a loro le condizioni di ingiustizia sociale e di sfruttamento in cui vivono e, sempre attraverso il metodo qualitativo, far emergere i loro bisogni e le loro esigenze. La ricerca, come il progetto, si è sviluppata in cinque regioni della Tunisia (Jendouba, Kasserine, Mahdia, Sidi Bouzid, Sfax), contesti diversi dove il settore agricolo è predominante. Jendouba, ad esempio, contribuisce al 26 per cento della produzione nazionale di prodotti lattiero-caseari, al 21per cento della produzione di cereali e all’11per cento delle patate, mentre Madhia è nota perché il 68 per cento della sua superficie agricola è composto da olivi e l’83 per cento della superficie è riservata all’arboricoltura. Sfax è il secondo centro economico della Tunisia e il settore ittico rappresenta una importante fonte di reddito. La regione contribuisce con il 17,5 per cento della produzione delle attività della pesca e acquacoltura in Tunisia.

Il progetto Faire, cofinanziato dall’Unione europea, è riuscito a coinvolgere centinaia di lavoratrici e a fornire loro la formazione e le conoscenze necessarie per poter rivendicare il diritto a condizioni migliori di lavoro.
Sihem Gammoudi, 32 anni, esile e avvolta in un bel vestito e copricapo nero, sorride timidamente quando le chiedo del suo tempo libero. È arrivata di mattino presto a Sidi Bouzid per partecipare all’incontro organizzato da Cospe nel centro giovanile della città insieme alle autorità locali e alla Cassa rurale. Grazie al progetto, firma la sua prima polizza assicurativa che le permetterà, in caso di necessità, di curarsi in un ospedale gratuitamente, di prendersi qualche giorno di malattia, di vedere riconosciuta un’indennità in caso di infortuni o invalidità. È un po’ frastornata dalle tante persone e dai flash delle macchine fotografiche ma non esita, e dopo la firma alza lo sguardo sicura. «Non avrei mai pensato di riuscire ad arrivare a tanto, a riuscire a reclamare una condizione migliore. Sono timida e ho sempre pensato di non poter neppure esprimere liberamente le mie difficoltà, figuratevi se sapevo di avere dei diritti», dice. Abita in una piccola cittadina chiamata Souk Jdid, letteralmente “nuova città”. È da qui che è partita la storia di riscatto della giovane Sihem. Uno dei suoi fratelli, coinvolto nell’associazione locale Yes we can, le aveva parlato di un progetto per le donne che lavorano in agricoltura e l’ha spinta a informarsi e a partecipare. Lei teme di non essere in grado di poterlo fare, ha paura di esporsi, di raccontare. Poi l’incontro con altre donne, la formazione con avvocate e sindacaliste, la conoscenza di esperienze di lavoratrici che soffrivano come lei ma che si sono battute per i propri diritti. Tutto questo le ha permesso di acquistare consapevolezza della propria capacità di reagire e agire. Ora Sihem riesce non solo a esigere condizioni di lavoro migliori ma sogna anche di lavorare in proprio insieme con alcune delle donne incontrate, magari creando una piccola cooperativa per la coltivazione e raccolta di ortaggi. «Continuerò a lavorare sia per la famiglia che per altri intermediari (caporali) ma non voglio rinunciare a sognare la mia autonomia. Non sono ancora sicura di farcela, ma ci voglio provare».

Imen invece, racconta, che è sempre stata una ribelle. Avrebbe voluto continuare gli studi, che le piacevano e in cui riusciva bene, ma il padre le disse che sarebbe dovuta andare a lavorare per far studiare i suoi fratelli. In famiglia erano sei figli, tre maschi e tre femmine. Lei, la maggiore, si sarebbe dovuta sacrificare. Ma non fu facile accettarlo e Imen, già durante il primo giorno di lavoro in officina dal padre, si mise a discutere con lui e fu severamente punita. Poi il matrimonio e l’inizio del lavoro nei campi. Imen continua la sua storia. Lei si muove da leader, è il caporale a bussare alla sua porta per chiederle di formare un gruppo di donne e lavorare per lui. Imen raccoglie attorno a sé circa 30-35 donne ma poco dopo l’inizio del lavoro a chiamata, comincia a discutere con l’intermediario. Chiede condizioni migliori per le compagne e ottiene che non vengano più portate nello stesso camion che serve per il trasporto del bestiame. Lo ottiene. Si tratta sempre di un camion fatiscente e scomodo, ma averlo ottenuto rappresenta un timido segnale di ascolto da parte dell’intermediario. Un anno e mezzo fa Imen ha iniziato a partecipare alle attività del progetto Faire e da lì è avvenuto il cambiamento. Imen segue le attività di formazione con interesse, scopre il diritto, i diritti, la possibilità di contare e di farsi valere. Durante una di queste iniziative una radio locale la intervista. Lei racconta quali sono le condizioni di lavoro e come si comporta l’intermediario. Quest’ultimo si riconosce nella descrizione fatta da Imen, la chiama urlando, dandole della ingrata. Come rappresaglia per due settimane non fa lavorare né lei né il gruppo di donne che ovviamente, si arrabbiano con Imen. Successivamente le donne vengono riprese a lavorare ma non lei, che è costretta a rimanere a casa. Dopo un po’ di tempo finalmente torna al lavoro, non prima di aver convinto l’intermediario ad accettare di aumentare il salario orario e diminuire la quota trattenuta per il trasporto. Parallelamente però Imen si organizza con le altre donne per poter avviare delle attività in proprio. «Questa esperienza mi ha insegnato la pazienza. Io sono una persona istintiva, irruenta, ma ho capito che devo sapermi muovere per ottenere ciò che voglio. Non basta ribellarsi, bisogna saperlo fare», dice. E aggiunge: «Se guardo agli anni passati a subire queste condizioni difficili di lavoro, ho un gran rimpianto. Ho perduto tempo perché non sapevo esprimermi e reclamare nel modo giusto i miei diritti. Ora sappiamo che dobbiamo essere noi a rivendicare ciò che ci spetta senza aspettarci niente dagli agricoltori o ancor meno dagli intermediari». «Nel futuro – continua – vorrei acquisire una mia autonomia lavorativa, mettermi in proprio e dimostrare alle donne che mi si sono rivoltate contro per le battaglie che ho fatto, che avevo ragione e che mi battevo anche per loro».

Casa Rayhana è il centro per le donne e delle donne della regione di Jendouba. Si tratta di una realtà nata da un percorso lungo e articolato già dieci anni fa, nel 2013, quando un gruppo di attiviste riuscì a prendere in gestione e ad adattare uno spazio riservato a incontri tra e per donne e ad inaugurare la prima palestra femminile che ora è anche uno dei poli di sviluppo dell’economia sociale e solidale della regione. È qui che si organizza anche il primo incontro di conoscenza e scambio con le donne della zona che lavorano in agricoltura. Partecipano in molte e Hayette, la coordinatrice Cospe incaricata di una parte delle interviste per il progetto, chiede a tutte: “Chi è la più timida?”. Zouhayra alza la mano, ma non lo sguardo. In silenzio, segue Hayette che all’inizio fatica ad avere da lei delle risposte. Allora Hayette comprende la situazione e inizia lei a raccontarsi. Basta poco per creare un clima di fiducia e complicità: Zouhayra si scioglie, si libera e racconta. Ha quarant’ anni, è sposata e ha tre figlie. Prima del matrimonio Zouhayra non aveva mai lavorato nei campi perché veniva da Beja, una regione non agricola. Si sposa giovanissima, a 18 anni, e subito è costretta a imparare in fretta dalle altre donne il lavoro nei campi. La sua giornata in inverno inizia alle 4: si sveglia, prepara da mangiare per la famiglia e poi esce ad aspettare il caporale che la porta nei campi. A volte occorre più di un’ora per arrivare sul luogo di lavoro e in seguito la giornata prosegue lunga e faticosa fino a quando verso le 16 non viene riportata a casa. Ha sempre vissuto così, anche durante le gravidanze. «Ci trattano come schiave: raccogliamo le patate, le laviamo e poi le dobbiamo pure caricare sul camion. Le cassette sono pesanti e il caporale non ci fa smettere di lavorare finché il camion non è pieno. Quando proviamo a protestare perché non ce la facciamo più, lui si mette a urlare». La regione di Jendouba è sempre stata un’area a vocazione fortemente agricola. Da sempre qui tutti hanno un pezzo di terra e anche un po’ di olivi che coltivano per la famiglia. Da dieci anni però si è verificato un progressivo accaparramento di appezzamenti più grandi da parte di notabili tunisini – avvocati, medici ecc – o di persone che sono migrate all’estero. Questi terreni vengono poi gestiti da persone del posto che a loro volta si affidano ai caporali per reclutare manodopera per le raccolte e altri lavori.

Sono più di cento le lavoratrici coinvolte e oggi vengono accompagnate e appoggiate nel tentativo di creare iniziative autonome di lavoro come centri di trasformazione di spezie, cereali e marmellate, allevamento di polli e montoni e piccole aziende agricole. Zouharia conclude: «Se potessi inviare un messaggio a chi ancora non sa o non ha il coraggio di provare a uscire dallo sfruttamento direi: se siamo unite ce la possiamo fare».

Testo e foto di Anna Meli, Cospe onlus

Gherardo Colombo: Il 41-bis è incostituzionale

Un’opera che rende chiaro a tutti quanta distanza ci sia tra quello che scrissero i Costituenti e la prassi odierna. È il nuovo libro del giurista ed ex magistrato Gherardo Colombo, Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Garzanti). Ne abbiamo parlato con l’autore.

Gherardo Colombo, la Costituzione è un tema fondamentale che ricorre nei suoi scritti ma sono in pochi a conoscerla davvero. Perché è così importante conoscere la Carta?
Perché è la nostra prima legge e se non la si conosce non la si può osservare. La Costituzione ci parla delle relazioni tra gli esseri umani, si riferisce – direttamente o meno – a tutto quel che facciamo. E non consente che le altre leggi la trasgrediscano, perché in caso contrario il loro destino consiste nell’essere espulse dall’ordinamento. Sarebbe necessario conoscerla, ma non avviene.

No, infatti a scuola non si studia. Non fa parte del programma di diritto.
Dovrebbe essere insegnata a cominciare dalle elementari, non si tratta solo del programma di diritto. La Costituzione può essere insegnata anche senza citarla, ma facendo riferimento al suo contenuto, in qualsiasi disciplina, soprattutto in quelle umanistiche: c’è tanto della Costituzione nei Promessi Sposi, o nella filosofia di Socrate, per dire. Un’occasione importante per dedicarsi ad essa direttamente è l’introduzione, come materia a sé, dell’educazione civica. Ma, a parte il fatto che l’oggetto della nuova disciplina è troppo vasto – comprende perfino l’educazione alla tutela delle “eccellenze territoriali e agroalimentari” -, dipende poi sempre da come il tema viene affrontato: per capire la Costituzione occorre entrare nel suo “spirito”, vederla per quel che è: un sistema di vita piuttosto che una serie di articoli dei quali non si capiscono collegamenti e interrelazioni. E se ai docenti non si dà una mano perché la facciano propria, è difficile che le cose possano cambiare.

Non ci si rende conto quindi di come quel testo sia qualcosa di estremamente concreto e che, come ha detto lei, riguarda proprio le relazioni tra gli esseri umani?
Sì, ribadisco, si riferisce alle relazioni umane, avendo come punto di partenza il riconoscimento della pari dignità di ogni persona e conseguentemente della possibilità, per ciascuno, di avere opportunità per la propria realizzazione. Uguaglianza davanti alla legge vuol dire questo: nessuna caratteristica personale deve penalizzare, nessuno può essere discriminato.

Il principio di uguaglianza, come lei dice, è il “caposaldo”, la “pietra angolare” della Costituzione, ma nella pratica non viene rispettato. Vediamo ogni giorno discriminazioni verso le donne, i migranti, verso chi ha minori possibilità economiche. Perché?
Vorrei sottolineare che il principio di uguaglianza non contraddice il fatto che siamo tutti diversi, lei per esempio è donna e io uomo, lei è giovane e io vecchio. Riguarda però le possibilità, i diritti e i doveri. L’ostacolo al riconoscimento della stessa dignità a ciascuna persona, qualunque sia la sua specificità, credo sia soprattutto culturale: fino a un attimo prima dell’entrata in vigore della Costituzione, salvo rarissime eccezioni, il principio fondamentale dell’aggregazione sociale era costituito dalla discriminazione. Pensiamo alla legge che escludeva dalle scuole i bambini ebrei: precede di soli otto anni l’elezione di chi avrebbe scritto la Costituzione. E l’elezione è stata la prima occasione in cui le donne hanno potuto votare. La discriminazione, purtroppo però è proseguita anche dopo: ci sono voluti 27 anni dall’entrata in vigore della Costituzione perché venisse riconosciuta la parità di genere in famiglia. Fino al 1975 infatti il codice civile diceva che «il marito è il capo della famiglia; la moglie … è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza» (articolo 144). Solo da allora la legge ha messo i coniugi sullo stesso piano. Perché questo ritardo? Perché il modo di pensare della gente faceva resistenza al cambiamento: hanno giocato un ruolo pesante la tradizione, il passato che ci ha educati per millenni, ma anche l’attaccamento al potere da parte di chi lo detiene.

Quindi il principio di uguaglianza non viene applicato perché a tanti non conviene?
A chi si trova in una posizione superiore sulla scala sociale non conviene distribuire equamente i diritti tra tutti. Ma solo apparentemente. Se siamo sull’orlo di una guerra nucleare è proprio per via della discriminazione, del non riconoscere i diritti degli altri. La soluzione – insisto – sta nell’educazione, nella conoscenza, nella consapevolezza: la cultura si cambia nel momento in cui si capisce che sarebbe meglio fare diversamente. Bisognerebbe partire dalle scuole anche perché per gli adulti cambiare è più difficile, dovrebbero mettere in crisi parti consistenti del proprio passato. Si può sempre cambiare ma è più facile per chi ha una storia personale breve dietro le spalle.

A proposito di difficoltà, sembra che sia diventato molto difficile per gli italiani andare a votare. Lei a proposito dell’articolo 1 scrive: «La sovranità appartiene al popolo che tende ad evitare di esercitarla per non essere chiamato a risponderne». Perché non si esercita più la sovranità? È dovuto alla perdita di un ideale?
La gente non vuole esercitare la sovranità perché è comodo, perché la responsabilità fa paura. Molto meglio lamentarsi di quel che fanno gli altri piuttosto che essere chiamati a dare le ragioni delle proprie decisioni. Pigrizia e viltà sono le ragioni per cui tanta parte dell’umanità rimarrebbe volentieri minorenne a vita, sostiene Kant in Che cos’è l’illuminismo. Se c’è la mamma che decide per me, io non devo preoccuparmi di farlo. Ma se al mio posto pensa e agisce qualcun altro, la democrazia non esiste. Per riattivare la partecipazione è necessario innanzitutto comprendere il legame che esiste tra l’impegno, la partecipazione e l’esercizio effettivo della democrazia. Abbiamo visto quanto vasto sia stato l’astensionismo alle regionali del Lazio e della Lombardia. Ci sarà stato qualcuno che non è andato a votare perché ha preferito fare altro, ma sicuramente in tanti non hanno votato perché hanno ritenuto di non essere rappresentati da nessuno dei candidati in lizza. Queste persone sono state confuse con gli indifferenti, e chi fa politica può tranquillamente non tenerne conto. Pensi che differenza se invece di astenersi milioni di persone avessero messo nell’urna una scheda bianca! La politica avrebbe dovuto tenerne conto.

Un altro articolo su cui si è concentrato nel libro e in cui ha messo in evidenza quanto la prassi oggi sia diversa da quello che aveva previsto la Costituzione è l’articolo 27.
Quello che scrivo arriva dalla mia esperienza. Se si legge la Costituzione e poi si entra in carcere, si vede subito che quello che succede nei fatti è completamente diverso da quel che sta scritto nella Carta. Se si rispettasse, ci guadagneremmo tutti perché avremmo più sicurezza e coloro che escono dal carcere sarebbero più spesso capaci di vivere positivamente con gli altri. Ma non è la sicurezza che ci interessa, vogliamo soltanto essere rassicurati, e la rassicurazione riguarda la pancia e non la testa. Se i colpevoli stanno in carcere noi siamo innocenti, e se il lupo sta in gabbia non può farmi male. Ma in gabbia deve soffrire, perché voglio vendicarmi di quello che ha fatto. Solo che però, salvo che per reati gravissimi, ad un certo punto esce, ed esce più rancoroso di quando ci è entrato (e più preparato “professionalmente”).

Sembra che ci sia un po’ una morale religiosa in questa logica punitiva. Pensa che sia anche la matrice cattolica ad alimentare questa cultura?
Spesso le religioni raffigurano Dio come colui che punisce, magari applicando la regola “occhio per occhio, dente per dente”. Nel cristianesimo c’era la cosiddetta santa Inquisizione che bruciava vivi gli eretici sulle pubbliche piazze, e chi assisteva ai roghi era generalmente contento.

Bisogna lavorare perché le persone non vengano degradate a cose, scrive nel suo libro, e questo pensiero mi sembra esprima bene l’essenza del garantismo. Può dirci di più?
Le garanzie sono la forma attraverso la quale si tutela la sostanza. La sostanza è il rispetto della persona, che deve valere sia prima che dopo la condanna.

Il garantismo spesso non viene capito, viene associato al buonismo. Perché?
La “cattiveria” ora va molto di moda, una volta a scuola ci insegnavano ad essere buoni. La parola cattiveria, «disposizione a far male al prossimo», ovvero «atto provocato da malvagità o malanimo» (cito dal dizionario Devoto-Oli online) è apprezzata al punto da sostituire altre parole: i commentatori sportivi usano “cattivo” al posto di “determinato”, per esempio. Ed allora, per dispregio, bontà diventa buonismo. Le parole sono importanti, contribuiscono a creare la cultura, ad influenzare i comportamenti. Se ci si abitua a pensare che la “cattiveria” è giusta, può essere esercitata senza limiti.

La situazione nelle carceri appare in netto contrasto con quanto disposto dalla Costituzione. Oggi si parla molto di ergastolo e di 41-bis. Cosa pensa di questi istituti e della vicenda Cospito?
Credo che tenere in prigione una persona per tutta la vita, a prescindere dalla verifica della sua attuale pericolosità, sia inumano e contrasti con l’articolo 27 della Costituzione. Credo anche che per poter parlare dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario si dovrebbe sapere in che cosa consiste, bisognerebbe almeno leggerlo. È lo stesso problema che riguarda la Costituzione: se ne parla, ma si conosce poco o per nulla. Per sintetizzare: l’articolo stabilisce che le garanzie dell’ordinamento penitenziario possono essere disapplicate per gravi motivi di ordine e sicurezza, o per impedire i collegamenti con l’associazione criminosa di cui si fa parte. Ora, credo sia giusto impedire i contatti con l’esterno quando questi potrebbero essere indirizzati a far male a qualcuno. Il boss della mafia non deve poter dare ordini ai suoi accoliti. Però mi sembrano in contrasto con la Costituzione tutte le misure che l’articolo dispone – o non impedisce che siano adottate – rendendo più afflittivo il carcere senza che esista un nesso tra tali misure e l’esigenza di impedire i contatti. Non capisco cosa c’entri con i contatti esterni il divieto di tenere più di quattro libri in cella, di appendere alle pareti più di una fotografia, per esempio. Mi pare che siano previsioni dirette soltanto a far soffrire. La riflessione, peraltro, deve riguardare il carcere nel suo complesso. A me pare che sia dimostrato scientificamente che non si educa – se non, eventualmente, a obbedire – attraverso la minaccia di una pena o la sua applicazione: quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ci ritornano per aver commesso nuovi reati. Ho smesso di fare il magistrato anche per questo motivo. Penso che si debba fare in modo che le persone osservino le regole perché le condividono, non perché hanno paura, e la strada è quella dell’educazione, dell’agire sulla cultura.