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Big tech, geopolitica e democrazia: la sfida del secolo

Dietro la “retorica della condivisione” il mondo virtuale nasconde una brutale commercializzazione della nostra vita, denuncia il filosofo Byung-Chul Han tra i più severi critici delle grandi piattaforme private che fanno business con i nostri dati sensibili. Secondo il filosofo tedesco di origini sudcoreane i social generano un insano narcisismo digitale, non producendo mai un “noi”, ma addirittura, ma dal suo punto vista, chiudendoci in una bolla, «che restringe, i nostri orizzonti, divorando le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa». Dopo libri che hanno fatto molto discutere come Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo) ora torna ad argomentare la sua visione critica del web e della società digitale improntata su un modello neoliberista nel libro Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi) analizzando come le big tech, attraverso algoritmi e intelligenza artificiale, arrivino a dominare i processi sociali, economici e politici. Basti ricordare, solo per fare un esempio, lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018.
«Decisivo per la conquista del potere – scrive Byung-Chul Han – non è il possesso dei mezzi di produzione, bensì l’accesso all’informazione che evolve in capitalismo della sorveglianza e declassa gli esseri umani a bestie da dati e consumo». Pur non condividendone la visione apocalittica tuttavia ritengo che Byung-Chul Han ponga questioni importanti su cui riflettere. Di fronte a simili scenari di strapotere degli oligopolisti digitali sulle nostre vite, quali contromisure prendere? Quali strumenti possono mettere in campo gli Stati che vedono minacciata la sicurezza? Come difendersi in quanto cittadini senza rinunciare al progresso che ha portato la rete che, pur fra luci e ombre, ha accelerato lo scambio di idee e informazioni? Come riuscire a sfruttarne i vantaggi, evitando di diventare una merce, evitando di finire nel tritacarne di un capitalismo che esercita il suo potere in maniera seduttiva e invisibile arrivando «a dissolvere l’essere umano in una misera serie di dati»? Su tutto questo ci siamo interrogati nella storia di copertina, con l’aiuto di studiosi di nuove tecnologie, di diritto alla privacy e di cybersecurity (Silvia De Conca e Marco Santarelli), di giornalisti specializzati (Simone Pieranni, Sergio Bellucci, Michele Mezza) e di psichiatri (Beniamino Gigli), per approfondire “il senso antropologico” della tecnologia per l’evoluzione culturale umana nelle relazioni. Il punto è che la tecnologia deve servire al potenziamento dell’identità umana e dei processi democratici. Ma la diffusione di pericolose fake news in rete, l’incitamento all’odio, i tentativi di sottile manipolazione che avvengono via web e attraverso chat bot inficiano questa funzione. E non parliamo di pericoli lontani nel tempo. Per fare un esempio, già il Garante della privacy è intervenuto stoppando il chat Gpt Replika che genera “un amico virtuale” per favorire il benessere, calmare l’ansia, “trovare l’amore”. Il Garante della privacy ha scritto in una nota che Replika al momento non potrà usare i dati degli utenti italiani perché ci sarebbero troppi rischi per i minori (a cui fornisce risposte inadeguate al grado di sviluppo) e per le personalità fragili. Passando da questo piano importantissimo che riguarda la tutela dei minori a quello più generale che riguarda la politica e la sicurezza degli Stati e addirittura la guerra, su questo numero Michele Mezza parla di privatizzazione della guerra ricostruendo come le big tech attraverso i social e strumenti di geolocalizzazione sono intervenute nella guerra di invasione russa in Ucraina, orientandone gli sviluppi.
Ribadiamo, lungi da noi essere apocalittici e luddisti ma appare chiaro che tutto questo chiede più che una riflessione seria: c’è di mezzo la vita delle persone. Quanto alla questione del problematico rapporto fra sicurezza degli Stati e piattaforme monopolistiche private su questo numero di Left, l’esperto di cybersecurity Marco Santarelli ci parla dell’indagine conoscitiva che il Copasir ha avviato per accertare se ci sia stata una eventuale condivisione di dati sensibili di utenti italiani con il governo cinese. La vice presidente del Garante della privacy Cerrina Feroni invece ci parla dell’indagine avviata su Facebook riguardo al trattamento dei dati “privati” dell’utenza in occasione delle politiche del 2022. Di fronte allo strapotere delle piattaforme internazionali che hanno sede soprattutto negli Usa e in Cina (dove non sono tenute a rispettare la privacy degli utenti) gli Stati spesso appaiono impotenti. Anche per questo sono particolarmente importanti gli strumenti sul piano legislativo di cui si sta dotando l’Unione europea. La Commissione Ue, in particolare, dopo oltre 20 anni ha finalmente creato nuove regole per rafforzare la tutela della privacy e dei diritti di chi “vive” sui social o naviga su siti di e-commerce. Una svolta molto ambiziosa, come ci spiega Silvia De Conca dell’Università di Amsterdam, «per far fronte a un ecosistema online cresciuto a dismisura negli ultimi anni, con problemi di complessità tecnologica, sociale ed economica senza precedenti».
In finale, segnaliamo che perfino negli Stati Uniti si potrebbe quanto meno aprire una discussione poiché è arrivato fino alla Suprema corte un caso che interroga le responsabilità delle grandi piattaforme per i contenuti e il modo in cui vengono diffusi dai loro algoritmi. Uno dei casi che ha mosso le acque è quello di una giovane, Nohemi Gonzalez, uccisa durante l’attentato del Bataclan nel 2015. La famiglia ha accusato YouTube di complicità con l’Isis per non aver censurato i contenuti video di propaganda del gruppo terroristico fondamentalista. Dubitiamo, mentre andiamo in stampa, che i giudici Usa accetteranno di mettere in discussione la Sezione 230 del Communications decency act, una legge approvata nel 1996 che garantisce alle aziende informatiche di non poter essere ritenute legalmente responsabili per i contenuti pubblicati dai loro utenti, come i post sui social. Certo, sarebbe una rivoluzione riconoscere ai colossi del web responsabilità da editori ma non ci contiamo troppo.

In apertura: illustrazione di Fabio Magnasciutti

Si potevano salvare?

Il punto sta tutto qui. Si potevano salvare le persone morte nella strage al largo di Crotone? Nello Trocchia per Domani mette in fila i fatti: alle 22:30 di sabato scorso l’agenzia europea, Frontex, segnala la presenza in mare di un’imbarcazione, la stessa che si schianterà provocando la morte di oltre 60 persone, tra queste almeno quindici bambini. Già alle cinque di mattina di sabato era stato diffuso un avviso generico sulla situazione di imbarcazioni nel mar Ionio. «Nella serata di ieri un velivolo Frontex in attività di pattugliamento ha avvistato un’imbarcazione che presumibilmente poteva essere coinvolta nel traffico di migranti, a circa 40 miglia dalle coste crotonesi», si legge in una comunicazione della Guardia di finanza che ricostruisce quei momenti. La vicenda viene rubricata come operazione di polizia di frontiera «coinvolta nel traffico di migranti» e non come salvataggio in mare. Questo è un punto decisivo. La Guardia costiera riceve la comunicazione, ma non si attiva. Lo fa, invece, la Guardia di finanza che spedisce in mare una vedetta e un pattugliatore, ma entrambe rientrano perché «avrebbero messo a repentaglio l’incolumità dell’equipaggio e anche dei migranti da salvare, non erano adatte viste le condizioni del mare a intervenire», ha raccontato a Domani una fonte investigativa.

Così viene avvertita la capitaneria di porto e sollecitata a un intervento anche congiunto, un intervento che non avverrà mai. Alle 5:40 un pescatore, Antonio Grazioso, ha raccontato al tg regionale della Rai, di aver ricevuto una telefonata dalla Guardia costiera di Crotone per segnalare una barca in avaria, ma era già tardi. C’è un ulteriore dettaglio che manca nella ricostruzione fornita dalla Guardia costiera: nessun cenno alla impossibilità delle sue motovedette di uscire con il mare in quelle condizioni. Ma come: non è stata questa la prima versione fornita dal governo? Tutto si riduce quindi alla (errata) interpretazione della comunicazione di Frontex: un solo uomo “visibile” e un natante che viaggia regolarmente.

Salvini fa il matto e annuncia querela. Beato lui che può permettersi di pensare alla querela a differenza dello squarcio che provoca il dubbio di una strage che poteva essere evitata. Il ministro Piantedosi ieri (incalzato molto bene, finalmente, da una segretaria del Pd) dice «se c’è stata un debolezza del ministero mi assumerò e mi assumo tutte le mie responsabilità». Beato lui che chiama “debolezze” le eventuali responsabilità di una strage.

Il punto è che per il bene della nostra democrazia e della credibilità della nostra Repubblica le responsabilità vanno accertate e va chiarito, fin da subito, che si tratta di responsabilità penali, solo dopo politiche. Quel “si potevano salvare?” rimbomba nella testa di chi conserva giustizia e umanità e dovrebbe rimbombare nella testa dei ministri competenti e dei loro cacicchi finché non si accerterà per bene la verità. Perché un conto è fare schifo politicamente, un conto è intralciare il salvataggio nel Mediterraneo, un altro conto è non salvare qualcuno che si doveva salvare.

Buon giovedì.

Nella foto: il ministro dell’Interno Piantedosi, frame del video dell’audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera, 1 marzo 2023

Salvini scappa

L’aveva definita “zecca tedesca“,”sbruffoncella” e “complice di scafisti e trafficanti”. La prima e la terza definizione sono passibili di condanna. Che Carola Rackete sulla quale su Left abbiamo scritto molto sia “complice di scafisti e trafficanti” appare, allo stato attuale, una diffamazione bella e buona.

Solo una tra le tante che alcuni membri di questo governo usano per soffiare sul razzismo che hanno promesso di sfamare durante la loro campagna elettorale.

Matteo Salvini ha probabilmente diffamato Carola Rackete ma dopo avere passato mesi a infamarla ieri ha deciso di farsi salvare dai suoi compagni di brigata nella Giunta per le elezioni che ha negato l’autorizzazione a procedere, dopo la denuncia per diffamazione della capitana di Sea Watch 3. A favore di Salvini hanno votato in dieci: i senatori del Carroccio, di Fdi e di Forza Italia, con tre voti contrari (due del Pd e 1 del M5s) e due astenuti, il renziano Ivan Scalfarotto e Ilaria Cucchi dell’alleanza Verdi-Sinistra.

Ilaria Cucchi ha spiegato di aver ritenuto doveroso astenersi «avendo avuto con l’onorevole Salvini, oggi ministro, numerosi procedimenti come persona offesa e/o indagata per lo stesso titolo di reato». Il gruppo Verdi-Sinistra ha comunque confermato che voterà l’autorizzazione a procedere in Aula.

Non ci sta il senatore del Pd Alfredo Bazoli: «È una vergogna. – dice -. Non è accettabile che si usi questo strumento della insindacabilità per proteggere e impedire che vada a giudizio un ministro che si è permesso per un mese e mezzo consecutivo da qualunque canale, tv o social di insultare una persona, protesta il senatore parlando di “un precedente molto pericoloso perché così si autorizza chiunque a dire qualunque cosa in un’aula parlamentare essendo autorizzato a farlo, e si fa un pessimo servizio alle nostre prerogative che vanno salvaguardate sì ma non in questo modo. Ci si scherma dietro ragioni giuridiche che sono totalmente infondate, secondo noi». Dello stesso avviso anche Ketty Damante del Movimento 5 stelle: «Per noi – spiega – Salvini dovrebbe difendersi nel processo, e non dal processo esattamente come ogni altro cittadino. Nel merito, le sue parole contro Carola Rackete non rappresentavano opinioni politiche ma veri e propri insulti, di fronte ai quali oggi il leader leghista si scherma con l’immunità parlamentare anziché renderne conto davanti a un giudice. In aula confermeremo il nostro voto di oggi».

Curiosa la difesa di Adriano Paroli di Forza Italia che si trincera dietro a “l’articolo 68” che «prevede che si individui il fatto per cui un senatore abbia espresso le sue opinioni nell’esercizio del suo mandato. Ciò non induce la Giunta a intervenire con un’analisi della veridicità o gravità delle affermazioni, non ci compete. Per me era evidente che quello che ha detto il ministro era nell’esercizio del suo mandato». Per Paroli quindi un senatore che scippa un’anziana nell’esercizio del suo mandato è un problema che non gli compete, evidentemente.

Salvini scappa semplicemente questo. E lo fa nel momento in cui al Viminale c’è qualcuno che prova a fare peggio di lui.

Buon mercoledì.

*

L’immagine di apertura è una illustrazione di Paola Formica

Lo Schindler cinese che salvò migliaia di ebrei dalla persecuzione nazista

La giornata della memoria dovrebbe durare tutto l’anno. Anche per questo vogliamo qui riprendere e raccontare un pezzo di storia collettiva ancora poco conosciuto, ma importante. Tra il 1933 e il 1941 più di 18mila ebrei, perlopiù tedeschi e austriaci, trovarono rifugio a Shanghai, città esempio di un cosmopolitismo vitale e complesso basato sui principi di equilibrio dello yin e dello yang. Grazie ai cosiddetti “visti per la vita” rilasciati dall’allora console cinese a Vienna, Ho Feng Shan, lo “Schindler cinese” (nella foto), furono salvate migliaia di persone dagli orrori del nazismo. La storia di un “miracolo”, com’è stata definita, di persone che hanno fatto scelte coraggiose, ambientata in Cina, a conferma della dimensione non solo europea ma globale della Shoah.

Tutto questo è raccontato nel libro Ebrei a Shanghai. Storia dei rifugiati in fuga dal Terzo Reich (O barra O, 2018), presentato il 23 gennaio a Roma, presso la Biblioteca Nelson Mandela, in collaborazione con il Dipartimento ISO dell’Università Sapienza e l’Istituto Confucio di Roma. Abbiamo intervistato per Left la curatrice del volume Elisa Giunipero, ordinaria di Storia della Cina moderna e contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttrice italiana dell’Istituto Confucio dello stesso Ateneo. Dopo un breve excursus storico in apertura del libro, si passa al racconto della vita nel cosiddetto “ghetto” – o più precisamente “area riservata ai rifugiati apolidi” – di Shanghai. Quest’area istituita nel 1943 dai giapponesi che allora occupavano la città sorgeva nel distretto povero di Hongkou, dove ancora oggi è possibile passeggiare fra gli edifici in stile occidentale, su quelle stesse strade percorse da chi scappava dall’orrore nazista.

A memoria di questa vicenda, si incontrano luoghi significativi: la sinagoga Ohel Moshe, costruita nel 1927 dagli ebrei che già si erano stabiliti a Shanghai alla fine del XIX secolo, e lo Shanghai Jewish Refugees Museum, il Museo dei rifugiati ebraici, inaugurato nel 2007; sul cui sito ufficiale si precisa come le immagini e i vari documenti custoditi testimonino, fra le altre cose, «l’aiuto e il sostegno reciproco fra i cinesi e gli ebrei» che si trovarono ad affrontare contemporaneamente degli eventi drammatici: l’occupazione giapponese (1937-1945) e la Shoah. Un’integrazione certo difficile, ma riuscita. Gli ebrei furono costretti dai giapponesi, alleati dei nazisti, a vivere nel “ghetto” di Honkou, ma bisogna sottolineare come non furono mai perseguitati né isolati. «Di fatto l’antisemitismo non è mai stato una realtà né per la Cina, né per il Giappone», sottolinea Elisa Giunipero.

Ma perché proprio a Shanghai? Perché la “Parigi d’Oriente” era rimasta l’unica città ancora accessibile agli ebrei. Divenuta “porto aperto” già a metà dell’Ottocento, come si legge nella premessa del libro, per via delle varie concessioni straniere in continua interazione e dialogo con la parte cinese della popolazione. Teatro dell’elaborazione di una sintesi cosmopolita unica nel suo genere, di commistione più che di mutua esclusione. In linea con i principi dello yin e dallo yang, complementari, mai opposti. Gli ebrei di Shanghai poterono dunque sopravvivere e salvarsi, anche perché i giapponesi, refrattari al coinvolgimento nello sterminio degli ebrei, non cedettero alle pressioni naziste che pretendevano di estendere la “Soluzione finale” anche alla Cina, come si può leggere nel saggio di Agostino Giovagnoli all’interno del libro. Al tal fine, pare che oltre al “macellaio di Varsavia”, Josef Meisinger, la delegazione tedesca in Oriente portò con sé anche contenitori di gas Zyclon B, lo stesso utilizzato nei campi di concentramento. «La Shoah», ci dice la professoressa Giunipero, «è qualcosa di universale per quello che ci insegna e ci lascia. La storia che, insieme ad altri, ho voluto raccontare nel libro è una spia che evidenzia ancora di più la dimensione non solo europea ma globale della Shoah. Per questo è un qualcosa da raccontare», perché non si dimentichi e non si ripeta. Mai.

Nel testo sono raccolte molte testimonianze importanti, di studiosi ma anche di testimoni, come quella dal titolo “Nata a Shanghai” di Sonjia Mühlberger: «I miei genitori (ebrei tedeschi, ndr) arrivarono a Shanghai nel 1939. Si erano incontrati nel club sportivo ebraico Schild di Francoforte negli anni Trenta. Mia madre era incinta quando arrivò a Shanghai e pochi mesi dopo sarei nata io». Le parole di Sonja sono accompagnate dalla fotografia di lei bambina fra le braccia dei genitori, e da quella del suo certificato di nascita. Immagini che parlano di qualcosa che ci riguarda, un prezioso spaccato di vita e di storia collettiva: la convivenza nel “ghetto”, le canzoni della mamma, la bici con cui ogni mattina il papà l’accompagnava a scuola, prima di andare a lavorare nella Concessione francese, la nostalgia di casa. Nelle pagine di Ebrei a Shanghai, inoltre, viene descritta in dettaglio la storia di Ho Feng Shan, l’allora console cinese a Vienna, che riuscì a salvare migliaia di ebrei fornendo loro visti e passaporti cinesi per raggiungere Shanghai e sfuggire alle deportazioni. Il suo coraggio gli è valso nel 2001 il titolo di Giusto tra le Nazioni e, nel 2018, la dedica di una piazzetta vicino via Paolo Sarpi a Milano, oltre a una targa e un albero nel Giardino dei Giusti di Monte Stella, nella stessa città.

«Ho Feng Shan, già questo è indicativo, non parlò mai dei suoi “visti per la vita”, fu sempre molto discreto», ci racconta la curatrice del libro. Infatti, la sua storia fu scoperta solo molti anni dopo, anche grazie al lavoro di ricerca e collazione di fonti e documenti della figlia, Ho Manli. Ho Feng Shan si inventò un vero e proprio sistema per salvare queste persone, approfittando del fatto che in quel momento Shanghai, per una serie di coincidenze (occupazione giapponese, governo fantoccio, presenza delle concessioni straniere), era praticamente scevra da stretti controlli burocratici. Poté così, contro il volere dei suoi superiori, rilasciare un gran numero di visti e passaporti che nessuno avrebbe visionato e che permisero a molti ebrei di raggiungere la Cina, ma anche di dirigersi altrove. Mise in pericolo la propria vita, ma non poté fare altrimenti. In quella circostanza non c’erano differenze di alcun tipo, ma soltanto la ferma consapevolezza di non potere e non dovere restare indifferenti.

La targa in onore di Ho Feng Shan (Shanghai Jewish Refugees Museum and Ohel Moishe Synagogue), HBarrisonhttps://www.flickr.com/photos/hbarrison/5923772961/

Elisa Giunipero ci riporta una frase che il console avrebbe detto rispondendo a chi gli chiese il perché delle sue azioni: «Ho pensato che fosse naturale provare compassione e volere aiutare. È il punto di vista umano, è così che dovrebbe essere». Ecco, in un periodo del genere Ho Feng Shan ha avuto il coraggio di essere umano, “semplicemente”. Come lui tantissime altre persone, uomini e donne, molti ancora sconosciuti, che hanno risposto all’orrore disumano del nazismo con il coraggio di chi conserva la propria umanità, costi quel che costi, come chi, ad esempio, continua ad allungare una mano nel Mediterraneo senza esitazione alcuna. Perché si tratta di persone, di vite umane. E tanto basta. Questo prezioso frammento, come scrive Giovagnoli, «conferma l’attualità della Shoah e quanto sia importante la sua memoria, non solo in Europa ma in tutto il mondo, per evitare che, in altra forma e in altre circostanze, possa ripetersi».

Nella foto: l’immagine della copertina del libro Ebrei a Shanghai. Storia dei rifugiati in fuga dal Terzo Reich (O barra O, 2018)

La serie tv “Mercoledì” e la solita balla del “mostro dentro ognuno di noi”

Lunghe trecce corvine. Espressione corrucciata. Passo svelto e sincopato. Grandi scarponi scuri. Tulle nero per un abito da sera o righe monocrome sulla divisa scolastica. L’orgoglio di non accettare passivamente nessuna imposizione, la voglia di fare da sola, la determinazione nel cercare la verità. Questa è Mercoledì Addams. Prepariamoci ad un carnevale pieno di bambine vestite come lei.

Ad oggi Mercoledì è una delle serie tv più viste di sempre. Spin off di moltissimi film e telefilm, anche animati, ispirati ai personaggi a fumetti creati da Charles Addams dal 1938 per il settimanale The New Yorker, esce su Netflix il 23 novembre 2022 ed è fin da subito un successo planetario. Protagonista della serie è Mercoledì Addams, originariamente, la più piccola componente della nota famiglia Addams, che ha sempre tentato di rappresentare una famiglia allargata alternativa alla famiglia americana tipica del dopoguerra, composta da un unico nucleo famigliare, inquadrata, omologata, consumatrice capitalista. In questo spin off vediamo Mercoledì alle prese con la sua vita di adolescente. Espulsa dalla scuola per aver difeso in maniera sadica e cruenta il fratello Pugsley da alcuni bulli, viene ammessa alla Nevermore Academy, scuola privata per persone speciali alla Harry Potter ma abitata da adolescenti dai poteri mostruosi (vampiri, lupi mannari, sirene, gorgoni e così via). Lì indaga sugli omicidi commessi da un mostro crudele e sui segreti della sua e delle altrui famiglie.

Jenna Ortega, l’attrice che ha interpretato il personaggio principale della serie, è diventata istantaneamente una star seguitissima. Il suo famoso e folle ballo alla festa, improvvisato quando era in attesa di scoprire di essere malata di Covid, senza nessuna coreografia professionale, spopola da mesi su TikTok, riproposto in tutte le salse. Lo stile dark e sarcastico dell’immaginario degli Addams conquista eventi, moda e social.
Ma non tutti sono affascinati completamente da questo revival gotico apparentemente ironico che viene proposto come una grande novità culturale.

E le note stonate sono molte. Sarà la formazione cristiano cattolica dei due sceneggiatori, Alfred Gough e Miles Millar, già creatori di Smallville, che fa classicamente dire alla protagonista che ognuno di noi ha in sé un mostro (retaggio biblico e razionale del peccato originale e dell’animale che si annida in ognuno di noi, come spiegato da Massimo Fagioli pochi anni or sono sulle pagine di questa testata)? Sarà il fatto che, come se niente fosse, la morte di una delle vittime viene accettata dal padre e da tutti come una buona soluzione alla pazzia che il povero defunto stava sviluppando? Sarà che la grande attrazione fisica tra Gomez e Morticia Addams, che rappresentava la vera alternativa al modello genitoriale americano classico, diventa, in questa versione, scialba, risibile e fastidiosa, proposta come se fosse vista dagli occhi impietosi di una figlia adolescente ma di fatto resa ridicola anche dall’interpretazione degli attori e dalla regia (firmata, per i primi tre episodi, da Tim Burton)? Sarà che la coming-of-age story, la storia di formazione, non porta assolutamente la protagonista a trovare una strada diversa da quella percorsa dagli adulti che la circondano? Sarà il fatto che la critica alla bigotta società americana, abbozzata negli eventi che riguardano i Padri pellegrini e i loro discendenti, non porta a nessun reale cambiamento nei personaggi in quanto essi condividono con vecchia generazione e con i villains lo stesso mondo culturale di riferimento? Sarà che la magia in salsa mistica non ha la stessa fantasia di quella che caratterizza le favole?

Ma allora perché tante bambine hanno fatto di Mercoledì Addams la loro eroina? Cosa c’è in questo personaggio che affascina ragazze, ragazzi e soprattutto bambini? Forse il fascino sta nel fatto che Mercoledì non ha paura. Vive in un mondo spaventoso, si misura con la morte, la mostruosità, la difficoltà di crescere, la necessità di cambiare, la solitudine, l’orrore e non ha mai paura. Per questo diventa la paladina dei più giovani, perché Mercoledì affronta tutto a testa alta, anche i suoi stessi errori. Anche la malattia mentale. Perché in fondo il leit-motiv di tutta la serie sembra proprio questa. La pazzia di essere condannati a diventare come i propri genitori; la pazzia che abita in tutti e, se non controllata, diventa omicida; la pazzia che porta a scegliere l’altro con cui confrontarci nel più pazzo che riusciamo a trovare; la pazzia impossibile da comprendere anche per il personaggio della psicoterapeuta. La confezione audiovisiva perfetta, calibrata dai maestri dell’entertainment, purtroppo non aiuta a riconoscere il vecchio in ciò che ci viene proposto. E la capacità della serie di proporre delle nuove immagini femminili, nella preside Larissa Weems, o nell’innovativo personaggio di Enid Sinclair, di giocare con il genere horror e la commedia, di mettere al centro della storia i rapporti interumani e la costruzione della propria identità fa il resto. E forse è proprio questa la ricerca che affascina così tanto e che speriamo troverà serie veramente nuove per essere raccontata.

Metti una sera una boomer e una trapper sullo stesso palco

L’attrice e regista Elda Alvigini torna in scena, al teatro Roma dal 3 al 12 marzo, con un nuovo spettacolo tutto al femminile: Bomba, scritto e diretto da Francesca Zanni.
Sul palco Elda Alvigini e Claudia Genolini sono rispettivamente Asia e Miss Flow, due cantanti appartenenti a epoche diverse che, attraverso il loro incontro, approfondiscono il confronto tra generazioni diverse.

Come è stato misurarsi con questo tema, in una pièce, pur mettendo al centro il tempo, lo mette fra parentesi, perché si svolge in un momento presente?
Devo dire che, grazie al magnifico lavoro di scrittura e regia di Francesca Zanni, è stato tutto molto semplice. Francesca si è rivelata, ancora una volta, sia in veste di autrice che in quella di regista, una donna estremamente consapevole. Il testo non lascia adito a dubbi, per noi attrici è chiarissimo ciò che intende. Poi, per la riuscita dello spettacolo, oltre alle parole sono importantissime le musiche, tutte originali a cura di Edoardo Simeone e Luca Capomaggi e i costumi di Lucia Mariani (spesso al fianco di Giancarlo Sepe al teatro La Comunità) che rivestono un valore narrativo, diventando un prezioso elemento per raccontare le protagoniste, dal momento che lo spettacolo è tutto ambientato in un’unica location. Anche già dal solo abbigliamento emerge il mio personaggio: Asia, una stella degli anni Ottanta, ormai cadente, sia, per così dire, appare quasi “congelata” negli anni Ottanta. Mentre, Miss Flow, interpretata da Claudia, è inconfutabilmente espressione del proprio tempo: il presente.

Ovvero? Siamo curiosi…
Basti dire che i miei status symbol sono: lacca, spalline e paillettes.
Mentre Claudia rispecchia a pieno l’identikit della trapper, non solo per il modo di cantare ma anche per il modo di vestire, di muoversi, di parlare. Una cosa tra tutte: lei pratica il “Goblin” che potremmo definire come l’arte di vestirsi male; fenomeno esploso durante la pandemia ed ora dilagato. Per cui indossa la tuta con capi firmati di alta sartoria, l’intimo in evidenza, per un risultato caratterizzato da una ricercatissima trascuratezza. Perché, in fondo, il paradosso, è che non c’è assolutamente nulla di casuale. Insomma, i nostri costumi sono eloquenti nella misura in cui servono ad esacerbare il gap generazionale tra le due protagoniste.

Traspare da tutto questo un vostro grande affiatamento con Francesca Zanni, sbaglio?
Assolutamente sì. Francesca Zanni è un’autrice e regista di grande esperienza e spessore. Ha scritto e messo in scena spettacoli bellissimi, come: Tutti i miei cari; Sentieri; Cinque donne del sud. Erano anni che sognavo di lavorare con lei. In particolare, mi sto trovando bene perché abbiamo lo stesso senso dell’ironia. Cosa tanto rara, quanto essenziale.

Qual è l’aspetto più interessante della scrittura di Francesca Zanni?
Partendo dal presupposto che, in generale, mi piace il suo modo di scrivere, devo dire che ne apprezzo molto i tempi comici. Più cinematografici che teatrali, dal momento che, nel corso della commedia, c’è sempre più di un plot all’interno della trama. È piena di colpi di scena. E poi è uno spettacolo dolce e amaro, ovvero, per quanto sia divertente, ci sono anche degli aspetti più drammatici.

Quali sono state le sfide da affrontare per Bomba?
La prima, grande e nuova sfida è stata quella di cantare. Perché io ho sempre creduto di non saperlo fare. Tuttavia, non mi sono lasciata dissuadere e ho iniziato a studiare, seguendo le lezioni e gli esercizi della bravissima aiuto regista: Giorgia Remediani che, cantando da tanti anni in un coro, mi ha fatto capire come raggiungere le note e fare i cambi.

C’è feeling con il personaggio interpretato?
Sì. Asia è una donna che in passato è stata molto molto famosa e di cui, con il passare degli anni, il pubblico si è un po’ dimenticato. Anche se ha proposto brani nuovi, tutti vogliono le sue canzoni vecchie e la ricordano solo per quelle. Un po’ com’è accaduto a me con l’esperienza televisiva. Certo, con tutte le dovute differenze, però è sicuramente curioso come un certo pubblico e, soprattutto, una certa quantità di persone addette ai lavori, tendano a “bollare” gli artisti per ciò che hanno fatto in passato, annullando completamente tutta la ricerca fatta negli anni successivi. Poi, voglio aggiungere che, per chi svolge il mestiere dell’attore, trovare qualcosa di sé, della propria vita, nel personaggio da rappresentare è essenziale per interpretarlo al meglio.

In generale che valore ha la commedia oggi?
La commedia dovrebbe avere lo stesso valore di sempre. Il suo ruolo, dalla classicità ad oggi è stato, ed è, quello di sottolineare i valori e i difetti dei potenti e delle cose assodate. La commedia compie un’opera di disvelamento della realtà. Mentre, la satira è una critica alla società contemporanea. E, in Bomba, Commedia e Satira, con le iniziali maiuscole, vanno a braccetto. L’ironia di Francesca Zanni è sempre intelligente, pungente e arguta, insomma, non ha bisogno delle parolacce per suscitare la risata. E devo dire che ne suscita davvero parecchie di risate. Ma valuterà il pubblico… E poi il testo, seppur scritto nel 2021 è davvero attuale. Debuttiamo a due settimane dalla fine di Sanremo, in cui quest’anno c’è stato addirittura (neanche a farlo apposta) l’episodio della bomba. E in televisione è appena partito uno show dedicato ai boomer.

Che dire? Sicuramente è d’attualità. In che misura Bomba si può definire “critico” nei confronti della società?
Si tratta di un testo che mette a nudo tutta l’apparenza in cui vivono i cantanti e in generale i protagonisti del jet set. Prima di tutto quelli più giovani. Claudia Genolini rappresenta una super trap che parla di degrado, di periferie, di situazioni al limite ma chissà se lo ha mai conosciute, almeno lontanamente. Poi, la critica non risparmia neanche i più “maturi”. Anche il mio personaggio, rivendica un passato da star, ma chissà se il ricordo non sia influenzato da qualche idealizzazione. Direi che Bomba è come la vita: c’è la parte che sbrilluccica e la polvere sotto il tappeto. Tappeto che la Zanni non esita ad alzare, provocando un gran polverone ma senza mai giudicare. Al contrario, conferendo la massima umanità alle protagoniste di cui esplora tutte le ragioni.

Lo spettacolo come nasce, in termini di produzione e realizzazione?
Bomba è un’opera indipendente e autoprodotta. Nasce dall’impegno e dalla cura di Francesca Zanni e della sua socia, Eleonora Tripodi, che lo hanno fortemente voluto e lo hanno prodotto con Trebisonda, la loro società.

A chi è destinato?
Questa è facile: A tutti! Per la natura stesse delle protagoniste. Da una parte c’è Miss Flow, la trapper che, quindi, coinvolge un pubblico giovane dagli undici anni in su; poi, ci sono io che, invece, rispecchio un pubblico più adulto. Come dicevo, è uno spettacolo estremamente divertente, privo di volgarità, ricco di colpi di scena e di musica.

Una parola in più sulla musica?
Parlando proprio di due cantanti, la musica è protagonista e, a parte i brani di repertorio, lo spettacolo vanta brani originali realizzati ad hoc da Edoardo Simeone e Luca Capomaggi che, è un produttore trap. Quindi, non si è solo limitato a realizzare i pezzi ma si è anche occupato di “far entrare” Claudia a trecentosessanta gradi nel mondo trap. L’ha istruita sul linguaggio, sui modi.

Insomma potremmo dire che è uno spettacolo comico ma non parodistico?
Esatto. Lo spettacolo non è macchiettistico mai. Noi siamo autentiche. Non c’è alcun intento caricaturale e questo mi piace moltissimo.

Il Pd di Elly, al di là delle chiacchiere

Ieri qualche sedicente esperto di politica discettava comodo in televisione dicendoci che «le primarie del Partito democratico sono state uno scontro di persone ma mancavano i programmi». È solo uno dei tanti esempi della mostrificazione dei Dem da parte di chi non li ha votati, non aveva intenzione di votarli e confida nella loro distruzione prevedendo di guadagnarci qualche briciola.

Stefano Bonaccini e Elly Schlein si sono affrontati con i programmi. Ora resta da vedere se verrano rispettati ma le linee sono chiare. «Le priorità sono il contrasto a ogni forma di disuguaglianza – ha spiegato appena eletta – il diritto a un lavoro dignitoso, la necessità di affrontare con massima urgenza l’emergenza climatica. Dobbiamo ricostruire fiducia là dove s’è spezzata». Ma vediamo cosa contiene il suo programma per capire come si muoverà nello scenario politico.

Sul lavoro Schlein ha preso le distanze in modo netto dalle politiche di renziana memoria. Secondo Schlein è necessario «voltare nettamente pagina dopo gli errori del Jobs Act e del decreto Poletti sulla facilitazione dei licenziamenti e la liberalizzazione dei contratti a termine». La battaglia è per contrastare la precarietà limitando i contratti a termine, rendendo più conveniente il lavoro stabile, abolendo le forme più precarie come gli stage extracurriculari e gratuiti e regolando i lavoratori delle piattaforme. E insiste sul reddito di cittadinanza: «Non va abolito, va migliorato». E poi rimarca la necessità di una battaglia per il salario minimo. «Saremo quel partito – ha detto – che non si dà pace finché non avremo posto un limite alla precarietà, posto un limite ai contratti a tempo determinato, abolito gli stage gratuiti, lottato per portare a casa il salario minimo. E lo dico già da ora, l’ho detto in queste settimane: ci rivolgeremo a tutte le altre opposizioni per fare questa battaglia insieme, per dire che sotto una certa soglia non è lavoro, è sfruttamento».

Anche sul cambiamento climatico la linea è netta. No al nucleare, maggiori investimenti sulle energie rinnovabili, un piano fiscale eco-friendly, in grado di azzerare progressivamente i sussidi ambientalmente dannosi e legare le imposte indirette alle emissioni di Co2 e una vera legge sul consumo di suolo. Sulla sanità si promette un maggiore investimento puntando sulla sanità pubblica, potenziando la cura domiciliare e territoriale. Nel suo discorso ha anche parlato di immigrazione: «Proprio oggi (abbiamo) un’altra strage nel mare, davanti a Crotone, che pesa sulle coscienze di chi solo qualche settimana fa ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare i salvataggi in mare, quando invece ci vorrebbero vie legali e sicure per l’accesso a tutti i Paesi europei e ci vorrebbe una Mare Nostrum europea. Una missione umanitaria per il soccorso in mare».

Idee chiare sul fisco: «il sistema fiscale italiano deve diventare più chiaro, comprensibile e semplice. In una riforma fiscale complessiva e progressiva anche il tema dei grandi patrimoni deve essere affrontato in un’ottica redistributiva, a partire dall’allineamento della tassa sulle donazioni e successioni al livello degli altri grandi Paesi europei». Poi ci sono i diritti, su cui Schlein ha sempre avuto una barra dritta e un’idea chiara.

Di punti programmatici ce ne sono, eccome. E sono i punti programmatici comuni a molti esponenti della socialdemocrazia in Europa, niente di mostruosamente radicale come vorrebbe far credere qualcuno. Resta da vedere se Schlein riuscirà a compiere ciò che ha in mente. Ma i punti ci sono, eccome. E il suo avversario Stefano Bonaccini, con grande senso di responsabilità e delle istituzioni, si è messo a disposizione.

Buon martedì.

Nella foto: Elly Schlein frame del video del discorso dopo la vittoria alle primarie Pd

«Caro prof., le dico cosa penso dell’aggressione di Firenze»

Caro professor Abate,
oggi in classe, parlando della recente aggressione di matrice fascista avvenuta al liceo Michelangiolo, lei mi ha esortato a dire cosa pensassi a riguardo, e ho risposto brevemente dicendo che non ero in grado di trovare parole adatte a descrivere ciò che è accaduto. Non vorrei che la mia risposta fosse suonata fredda e distaccata, al fondo po’ indifferente. Ci ho messo un po’ e spinto in una lunga riflessione ci tengo a dire cosa ne penso, per poter spiegare il mio punto di vista, e perché per come sono fatto non riuscirei ad accettare che mi si creda indifferente ad un fatto simile. Lei stesso prof. ha detto, l’indifferenza è tra i peggiori mali che possano affliggere l’uomo, poiché l’indifferenza è assenza di pensiero, e l’assenza di pensiero può solo rendere l’uomo schiavo del pensiero di qualcun altro…. Quindi se la mia risposta è stata vuota ed arida non è perché non ci ho pensato, ma è perché ci sto ancora pensando e faccio fatica ad esprimermi in una maniera che sia ai miei occhi completa e giusta. E veramente, io vorrei potermi schierare nettamente da un lato e farmi sentire alzando la voce come, giustamente, fanno altri, ma mi assalgono tantissimi dubbi e domande, e non riesco a non vedere le cose attraverso il filtro della messa in dubbio anche dell’evidenza. Se il caso in questione finisse, come dovrebbe, in un tribunale, un eventuale avvocato difensore degli autori di questa aggressione ci metterebbe poco ad ottenere delle attenuanti: noi possiamo basarci sul video che circola e sulle testimonianze, ma effettivamente cosa è successo negli attimi immediatamente precedenti al filmato?

Chi ci dice che, e magari non è questo il caso, i soggetti delle due fazioni opposte non si conoscessero già e che non ci fossero già stati attriti e scontri tra quei ragazzi? Molti, per addurre un’aggravante, hanno ipotizzato che gli aggressori, che erano li, a quanto pare, per fare del volantinaggio, fossero lì in realtà col premeditato scopo di provocare i ragazzi che poi sono stati aggrediti, e che quindi aspettassero solo il tentativo di questi ultimi di impedire loro di distribuire i volantini. Comunque, che alla base di questa aggressione ci siano i rispettivi schieramenti politici è evidente, ma io personalmente non ho gli elementi per poter giudicare le intenzioni, l’eventuale premeditazione e via discorrendo. Questo compito spetta ad altri. Io posso giudicare ciò che vedo in quel video, e vedo, in primo piano, vari ragazzi che prendono ferocemente a calci e pugni un ragazzo steso a terra, ed in secondo piano vedo una lunghissima schiera di individui che assistono paralizzati alla scena.

E per me è sufficiente questo per affermare che sono stati violati dei diritti e
dei valori fondamentali che chiunque, a destra o a sinistra che si trovi, non dovrebbe permettersi di violare. I due schieramenti erano palesemente quelli di sinistra e di estrema destra, le cui organizzazioni (mi riferisco ora all’estrema destra) sono particolarmente note per la loro violenza ed inspiegabilmente non ancora soppresse. Io da quando ho iniziato ad interessarmi ai fatti politici non ho mai avuto veramente fiducia in un partito in particolare, detesto l’ipocrisia di ognuna delle teste che sono state in questi ultimi anni alla guida del Paese, sia a sinistra che a destra. Come molti, avverto che, come ha puntualmente sottolineato oggi una mia compagna di classe, che stimo moltissimo, nessuno qui fa veramente l’interesse dello Stato e dei suoi cittadini. Nessuno lassù, nell’olimpo dei governanti, sottomette le sue posizioni ed opinioni alla coerenza, ma anzi, esse mutano non appena mutano i venti delle opinioni del popolo, che per tutta una lunga serie di ragioni e meccanismi, sono confuse o inesistenti. In relazione a ciò, è interessante notare una cosa: la cura dell’istruzione non è tra le priorità dei nostri governi, né di quelli di molte altre nazioni, ma anzi, è profondamente trascurata.

Non parlo solo di istruzione “scolastica”, che comunque, per ora, è obbligatoria e garantita (sebbene spesso in condizioni precarie!) ma parlo anche e soprattutto degli altri mezzi che
potrebbero essere sfruttati per innalzare il livello culturale delle persone, come i programmi televisivi, che però sono, in massima parte, distanti da ogni scopo educativo. Cito a tal proposito le parole che un magistrato che ammiro molto, dott. Nicola Gratteri, ha detto in merito a ciò: «Il potere non vuole un popolo istruito, vuole un popolo ignorante». Questo aspetto si pone alla base di tutto il modello sociale in cui viviamo, poiché un popolo ignorante non è in grado di sviluppare un pensiero critico, di dubitare, di porsi delle domande e di cercare delle risposte, ed è quindi facilmente governabile.

Un modello del genere è contrario a tutti i principi che stanno alla base di uno
Stato. Uno Stato deve essere giusto, e per essere giusto deve sempre tendere verso la condizione in cui i suoi cittadini sono liberi di pensare e di realizzarsi, coscienti di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto, e protetti sempre da chi contravviene alle leggi che regolano i rapporti tra persone. Ora, è evidente che, come per secoli si è detto, lo Stato perfetto non apparterrà mai a questo mondo, ma certamente affinché uno Stato tenda ad un modello giusto, l’istruzione dei suoi cittadini è un elemento necessario, e se uno stato viaggia in senso contrario, allora, è come un anti-Stato. L’hegelismo insegna che lo stato viene prima dei suoi cittadini, e che la cultura ed i costumi dello stato in cui in individuo cresce hanno un fortissimo peso sulla sua indole.
Dunque, se viviamo in una società pervasa dalla violenza, ed in uno Stato in cui certe violente organizzazioni di stampo neofascista, che sono palesemente anticostituzionali, non sono state soppresse, non possiamo meravigliarci del fatto che in questo Stato si formino anche persone che non condividono i principi che si pongono come fondamento di una società civile e moderna. Con ciò, non voglio deresponsabilizzare gli autori dell’aggressione, ma anzi, voglio responsabilizzare, accanto ad essi, lo Stato.

E con “lo Stato”, intendo dire l’intero sistema al di là dello schieramento politico, poiché la negligenza nei confronti della cosa pubblica, che ha origini piuttosto antiche nella nostra repubblica, è stata sfruttata strategicamente in egual misura, negli ultimi anni, dalla destra e dalla sinistra. Tra i nostri governanti, pochissimi vivono per un valore e lottano per esso, e se ci sono, sono sempre in seconda linea rispetto a chi veramente ha in mano lo scettro.
C’è chi dice che tutto questo fa parte del gioco della politica. Sarà, ma allora è un gioco che mi disgusta.

Come posso sentirmi rappresentato da qualcuno in questo porto di mare che è lo Stato italiano? Le cause dell’aggressione quindi, oltre che nell’indole violenta dei suoi autori, che potevano scegliere se farlo o no, vanno ricercate anche in un meccanismo sociale che va ben oltre gli schieramenti politici, e che a monte non si è preoccupato di estirpare ogni residuo delle ideologie fasciste che hanno segnato l’Italia della prima metà del Novecento. Una situazione così disperata mi fa sorridere nel sentire certe persone sorprendersi della
mancata condanna di questa aggressione da parte del governo.

In questi giorni molti miei conoscenti mi hanno detto che questo evento è stato come una scossa che li ha svegliati da un bel sogno, e che ha fatto aprire loro gli occhi sui pericoli che viviamo tutti i giorni, ho visto lacrime di paura e di sconforto, e le comprendo, perché comprendo il bisogno di credere che si viva in una società moderna e sicura, dove tutti hanno ormai afferrato l’universalità di certi valori, ma non è così, e quando, come in questo caso, la realtà si infrange contro questo velo di seta, si rimane paralizzati, scossi e
tremebondi. La verità è che non siamo così moderni come crediamo, e a quelli che affermano il contrario, che hanno una grande fiducia nei confronti di questi tempi, domando: la frase di Gratteri, evidenzia forse una condizione sociale e politica diversa, all’osso, da quella del medioevo?

Insomma, tutto questo discorso vorrebbe semplicemente mostrare che, per me, l’aspetto prettamente politico, lo scontro tra destra e sinistra, è la punta dell’iceberg delle cause di eventi come questo, i quali sono inseriti in all’interno di un problema ben più ampio della lotta politica, quello della totale assenza da parte di chi ci guida della volontà di cambiare le cose. Eppure noi una Costituzione la abbiamo, e parla chiaro. In essa sono espressi i nostri valori, valori che, essendo contrari ad ogni forma di violenza sono, per forza di cose, antifascisti. Ciò a cui abbiamo assistito è la completa negazione di questi valori. Le idee si devono poter esprimere, ciò sta alla base della democrazia, ma quella a cui abbiamo assistito non è una manifestazione ideologica, è un grave violenza, è un reato. Le idee devono circolare per mezzo della parola, per mezzo degli argomenti, non per mezzo dei pugni e dei calci, perché questi ultimi due mezzi appartengono ad un mondo che non è quello degli umani.

Se non posso affidarmi agli attuali governanti, ripongo la mia fiducia nella Giustizia che, seppur anch’essa imperfetta, cerca di imporre a tutti il rispetto del nostro sistema giuridico, un sistema che, almeno nei suoi principi di base, è giusto, e nessuno, deve poter sfuggire alla sua supremazia. In ultima istanza, se da una parte non sento di poter sperare in una presa di posizione del governo circa questi eventi, sono sicuro che la giustizia farà sentire anche in questo caso la sua voce, poiché, attenuanti o meno, ciò che appare in quel filmato rimane un reato di efferata violenza, e come tale dev’essere condannato e punito. E riflettendo, mi rendo conto che non posso non riporre tante fiducia anche in voi insegnanti, che avete veramente il potere di far comprendere alle giovani menti che vi ascoltano che non possono rimanere indifferenti a questi eventi, che devono pensare, riflettere, e criticare. Solo così quei ragazzi nel loro futuro potranno essere liberi.

Caro professore, questo testo è più uno sfogo pieno di idee sparse e confuse che un’argomentazione strutturata, ma almeno adesso ho detto anch’io come la penso.
Un saluto,

Vittorio

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Foto di Giancarlo Leonelli, manifestazione di Firenze 21 febbraio 2023

«Il coraggio di mia madre, Anna Politkovskaja»

Quando è stata uccisa, il 7 ottobre del 2006, la cronista russa Anna Politkovskaja ha lasciato moltissimi orfani.
In Europa e Stati Uniti, dove era ammirata e considerata. Dove i suoi articoli erano raccolti in libri, tutti diventati bestseller. In Italia in particolare, Paese che l’ha sempre amata. Da noi è stata ospite in un’unica occasione, al Festivaletteratura di Mantova del 2005, l’anno prima di essere assassinata. Era l’11 settembre, una domenica calda e assolata. Lei era rimasta quasi sorpresa nel vedere il numerosissimo pubblico che aveva preso d’assalto il teatro Sociale. Avevano anche dovuto aprire i palchi, come non accadeva da tempo.

«Volevo ringraziare tutti voi per essere stati qui, in una domenica di sole, a sentir parlare di cose tanto lontane da voi e tanto drammatiche» aveva detto lei alla fine.
Di orfani, sempre metaforicamente parlando, Anna ne aveva lasciati anche in Russia. Benché fosse invisa al potere, emarginata dai suoi colleghi e chiamata da molti “la pazza di Mosca”, aveva ancora degli estimatori fra chi non si lasciava stordire dalla propaganda del regime. Anna raccontava che qualche volta, quando andava nei negozi, le persone le si avvicinavano e le dicevano cose del tipo “Oh Anya, ti sosteniamo così tanto, capiamo cosa stai facendo…” Ma succedeva sempre meno di frequente e le persone le parlavano piano, spesso all’orecchio. Non si sa se scherzando o meno, lei diceva che ormai della Cecenia non parlava più neanche agli amici stretti.

La cronaca di questi giorni, però, ha riportato di attualità il fatto che Anna ha lasciato anche due orfani in senso stretto, i suoi figli Il’ja e Vera. La secondogenita è stata qualche giorno in Italia per presentare il libro Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja (scritto con Sara Giudice e pubblicato da Rizzoli).
Seguo e stimo Anna da anni. Su di lei ho scritto anche due libri; il più recente è Anna Politkovskaja. Reporter per amore, uscito nel 2022 con l’editore Morellini. Perciò non potevo mancare all’incontro milanese, che si è tenuto il 22 febbraio alla Fondazione Feltrinelli. Sala gremita. Sul palco insieme all’autrice e all’interprete, due giornaliste del Corriere della Sera: il vice direttore Barbara Stefanelli e la responsabile redazione esteri Mara Gergolat.

La discussione ha ruotato principalmente intorno alla situazione attuale della Russia, che Vera ha dovuto lasciare precipitosamente dopo lo scoppio della guerra. Lei, giornalista, aveva perso il lavoro. La figlia Anna Viktorija, 15 anni, così chiamata in onore della nonna che non ha fatto in tempo a conoscere, era minacciata e bullizzata. Ora vivono all’estero, in un posto sicuro.
«Su Putin non ho risposte. Per alcuni è un grande presidente. Per altri è un dittatore. Per me è l’uomo che compie gli anni il giorno in cui è stata uccisa mia madre» ha detto. Ha poi raccontato la situazione disperata in cui si trovano tante famiglie, schiacciate dalla povertà, incapaci di farsi un’opinione su ciò che sta succedendo (i media indipendenti, già in forte minoranza, sono ora azzerati). Ha spiegato che molti ragazzi sono quasi costretti ad arruolarsi e che manifestare le proprie opinioni è molto pericoloso.

«In Russia o sei d’accordo con il regime o fingi di esserlo. Se scendi in piazza o anche solo manifesti il tuo disaccordo sui social, rischi di finire in prigione».
Alle domande, Vera rispondeva con garbo e misura, senza mai cambiare espressione. Giovane, graziosa, ma irrimediabilmente triste.
Finché le è stato chiesto perché, dopo gli inizi come violinista, abbia deciso di diventare giornalista. A quel punto, dopo 40 minuti dall’inizio dell’incontro, finalmente un sorriso ha illuminato il suo bel viso. «È successo per caso. All’inizio scrivevo di musica, poi di cultura. Poi sono passata ad attualità e politica. Ma in Russia non è facile occuparsi di politica».
Si è parlato poco di Anna, nell’incontro, e forse questo è stato un po’ deludente per i tanti intervenuti. «Mia madre ha fatto quello che ha fatto perché credeva nella libertà di espressione e nella giustizia. Da donna, teneva le storie delle persone nel suo cuore, ne veniva attraversata» ha detto a un certo punto Vera.

Sul finale, un racconto drammatico. Quando Vera era già all’estero, l’ha raggiunta la notizia che era stata data alle fiamme in modo chiaramente doloso la casa di vacanze della famiglia, una dacia a 90 chilometri da Mosca. Qui avevano trascorso momenti bellissimi. «Mamma ci andava spesso a scrivere. Sedeva in veranda, apriva il computer, il cane le si accucciava accanto, e si immergeva nei suoi testi complicati. Tutto era andato distrutto. È stato un grande dolore. Ma qualche mese dopo mi hanno chiamato i vicini: i fiori erano sbocciati, il prato era verde, l’edera rigogliosa, il salice si stava riprendendo. E ho pensato che anche per mia madre è così: lei non c’è più, ma il suo esempio e il suo insegnamento rimangono». E qui Vera ha sorriso di nuovo.

Dopo l’incontro, sono riuscita a conoscerla. Le ho detto, in inglese, quello che ci si può immaginare: quanto sua madre fosse eccezionale e quanto io la stimi. Poi, pur sapendo che non conosce l’italiano, le ho regalato il mio libro.
Tornata a casa, ovviamente, mi sono subito tuffata nel libro, divorato in una notte. Lo dico subito: per i fan di Anna è un po’ una delusione. Di lei non si parla molto e sugli episodi narrati, dal sequestro della Dubrovka all’avvelenamento di Beslan, abbiamo più dettagli noi lettori di Anna.

Però Vera – pur in una narrazione disorganica, lacunosa e carica di omissis – ci regala qualche piccola perla di vita familiare. Ci racconta le discriminazioni e le minacce subite da ragazzini da lei e Il’ja perché figli di due giornalisti non allineati. Ci restituisce l’immagine di una ragazza, diventata moglie e madre ancora giovanissima. Dei suoi sforzi per essere sempre all’altezza: «Non sapeva cucinare ed è diventata una cuoca eccellente. Come educatrice era molto severa: per noi voleva il meglio». E parla delle assenze: «Era spesso in Cecenia. Mi accorgevo che stava per partire, quando la vedevo tirare fuori abiti scuri e informi, per non dare nell’occhio. Metteva anche il velo, per nascondere la sua chioma grigia, così riconoscibile».

Se volete unire i puntini sulla vita, disperata ed eroica, di Anna dovete leggere i suoi libri. Raccontano vicende dure, ma lo fanno con una lingua pulita ed elegante. Sono la cronaca di una guerra terminata da anni, che però ricorda così da vicino quella che si sta combattendo oggi. Adelphi li ha da poco ripubblicati, con grande successo: La Russia di Putin, Per questo e Diario russo.

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Da leggere su Left: sempre di Lucia Tilde Ingrosso, Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja

Siate maledetti, scafisti politici

Per avere l’idea di cosa sia accaduto ieri a Steccato di Cutro basta andarsi a cercare il video in cui alcuni mezzi delle forze dell’ordine passano a pochi centimetri da una montagna coperta da un lenzuolo. Là sotto ci sono decine di morti, molte donne e molte bambini, che sono la montagnola dell’umido in cui noi buttiamo i nostri errori e nostri orrori.

Numeri ufficiali non ce ne saranno, tranquilli. I numeri ufficiali dei morti nel Mediterraneo sono statistiche che possono sapere esattamente quanti se n’è inghiottiti il mare. I morti si valutano sui racconti dei sopravvissuti – racconti disperati e disperanti – e sui corpi che si disimpigliano e infine galleggiano. Il mare che vomita corpi morti sulla spiaggia dell’Italia mentre il suo governo trattiene le navi che vorrebbero salvare, poi le multa e mentre si accorda con le peggiori autarchie per chiudere i confini è l’incubo che ci meritiamo.

Quella di ieri non è una giornata diversa dalle altre. Il Mediterraneo è un buco mortifero tutti i giorni. Ieri è semplicemente accaduto che anche i peggiori satrapi che governano questo Paese hanno dovuto farci i conti perché il sangue ha sporcato la tranquilla domenica pomeriggio dei loro elettori. «Si commenta da sé l’azione di chi oggi specula su questi morti, dopo aver esaltato l’illusione di un’immigrazione senza regole», ha detto ieri Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio di fronte agli accadimenti del mondo, quando non ha il copione scritto dai suoi alleati internazionali, mostra irrimediabilmente tutta la sua ignoranza: l’immigrazione senza regole è quella che marcisce sotto i governi che vorrebbero nascondere l’immigrazione sotto il tappeto. L’immigrazione “senza regole” è figlia dei cretini che vorrebbero fermare la gente che scappa dalla fame e dal piombo sventolando razzismo di bassa lega che non sa (e non vuole sapere) quello che accade da quelle parti del mondo.

Mentre in Calabria si recuperano i cadaveri sfranti dal mare sulla terra sgorgano le lacrime ipocrite. Il mare non uccide, le persone uccidono. I colpevoli di queste morti (come di tutte le morti nel Mediterraneo sono coloro che non hanno capito che senza canali legali l’immigrazione sarà sempre in mano all’illegalità («indispensabile che l’Unione Europea assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani, impegnandosi direttamente nelle politiche migratorie», ha detto ieri Mattarella). I colpevoli di questi morti sono coloro che hanno interessi (o si disinteressano) di «guerre, persecuzioni, terrorismo, povertà, territori resi inospitali dal cambiamento climatico» in un continente in cui rischiare di morire è l’unica strada per sperare di sopravvivere. I colpevoli di questi morti sono coloro che stringono le mani in Libia di persone che sono ufficiali di polizia di giorno e poi scafisti di notte. I colpevoli di questi morti sono quelli che bloccano le navi che salvano vite con decreti illegali e immorali. I colpevoli di queste morti sono i partiti che non hanno mai avuto la voglia di opporsi, nonostante fingano di essere dalla parte giusta.

I colpevoli siano maledetti. E siano maledetti gli speculatori – cara Giorgia Meloni – dell’immigrazione per riempirsi la pancia di voti. Siano maledetti gli scafisti politici.

Buon lunedì.