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A scuola noi formiamo i cittadini di domani. Insorgiamo e insorgeremo sempre contro la violenza

Il pestaggio di alcuni studenti di fronte a una scuola pubblica avvenuto a Firenze alcuni giorni fa è una cosa gravissima, che non può essere taciuta.
La preside Annalisa Savino ha dichiarato di aver scritto il suo comunicato – ormai noto ai più – perché gli studenti non avessero paura, per difenderli. Sì, perché la reazione dei giovani di fronte all’accaduto è stata prima di tutto la paura. E noi, che nella scuola ci lavoriamo e che a quei ragazzi e a quelle ragazze diamo risposte ogni giorno, non possiamo tacere, come ha fatto il governo. È un nostro dovere proteggerli e non deluderli.
Ci difenderemo e li proteggeremo sempre dalla violenza, dalla prepotenza, dall’ignoranza con fermezza e coraggio perché, come scriveva un grande intellettuale morto di botte dopo un pestaggio fascista, Piero Gobetti, “l’antifascismo è una questione di stile” e se al fascismo sta il “rimestare”, a noi conviene il puntualizzare, il definire, a noi spetta il compito di parlare con chiarezza e classificare gli eventi con il loro nome. Ci tocca, per dovere professionale, per coscienza individuale e civica non solo sostenere ma anche seguire la linea della preside Savino che, con estrema puntualità storica, non ha fatto altro che riportare alla luce i dati oggettivi relativi alle origini di una delle pagine più dolorose e tragiche della nostra storia.

I fatti del Michelangiolo non possono essere considerati come una circostanza estemporanea e come un episodio avulso dal momento storico e istituzionale che stiamo vivendo. Proprio per questo motivo la circostanza ci sollecita al rigore della ricostruzione storica, quello stesso rigore che la renda inattaccabile da argomenti pretestuosi e legati a logiche ideologiche sempre più fuori tempo e fuori luogo, sempre più anacronistiche e assurde. In questo momento, più che mai, ci è richiesto di comportarci come deve fare qualsiasi storico che voglia rivendicare la dignità epistemologica della sua ricerca. Di fronte ai fatti è necessario rispondere attraverso un’indagine che si riferisca alle origini di questa “malapianta” che ha determinato la violenza e bisogna farlo, come diceva Marc Bloch, come “giudici istruttori”. È urgente che i fatti vengano combattuti con una conoscenza oggettiva e documentata. Questo atteggiamento e l’onestà intellettuale devono rappresentare gli strumenti necessari per entrare in classe e rispondere in modo adeguato e puntuale alle sollecitazioni, allo stato di confusione, se non di sconforto e di paura, che si possono riscontrare tra i ragazzi dopo i fatti tristemente noti.

Nella loro costernazione, nello spaesamento che rappresenta il tratto comune della loro reazione si percepisce forte la richiesta di rassicurazioni. Questa esigenza può essere soddisfatta solo evitando di salire sulla giostra dell’ipocrisia e cercando di riaffermare con forza i principi e i valori che sono alla base della democrazia e che sono stati traditi in quella triste mattinata davanti a un luogo di cultura. E’ necessario, oggi più che mai, far capire loro l’importanza e il senso delle istituzioni di fronte a una classe dirigente che le utilizza e le umilia a scopo politico e per tornaconti elettorali.

È sempre più urgente tutelare ogni presidio di democrazia, primo tra tutte la scuola pubblica, sottolineare con chiarezza il valore della libertà di opinione sancita dalla Costituzione e calpestata dalle scomposte parole del ministro Valditara che avrebbero voluto intimidire la Preside Savino. Non è semplice, in questo complesso momento, chiedere a ragazzi, poco più che adolescenti, di rispondere alla violenza con le idee, di reagire allo scempio con proposte che manifestino una visione di mondo, di realtà e di futuro alternativo alla deriva che stanno vivendo. Il nostro ruolo di insegnanti, tuttavia, non può che avere questa direzione. Non ci sono altre possibilità se non quella di chiedere a ognuno di loro di iniziare a essere donne e uomini consapevoli, di iniziare a recitare un ruolo attivo e di partecipazione, di “schivare” i pugni con i valori che sono a fondamento della nostra Repubblica. Di formarsi e informarsi e con la formazione e l’informazione manifestare l’eventuale dissenso nei modi e con comportamenti che, quanto più fondati su argomenti forti, tanto più non hanno bisogno di essere sostenuti dalle pratiche violente che hanno messo in atto i ragazzotti vestiti da sgherri davanti a un luogo di sapere e di cultura. L’antifascismo è una questione morale prima che politica (diceva sempre Gobetti), perché il fascismo e i suoi principi sono indifendibili, da un punto di vista umano e sociale. Il fascismo ha usato sistematicamente l’aggressione contro il dissenso. E gli scontri davanti al Liceo Michelangiolo sono da condannare e “spiegare” in quanto sono l’opposto esatto di quel circolo virtuoso che la convivenza tra donne, uomini e idee dovrebbe innescare.
Secondo il ministro Valditara la scuola non si deve occupare di politica… Quale comunità non si occupa di politica? E’ possibile una comunità senza politica? Non crediamo affatto. Ogni atto sociale è atto politico e dunque ogni azione educativa è azione politica. A scuola noi formiamo i cittadini di domani. E allora noi insorgeremo e ci indigneremo sempre di fronte alla violenza e alla violazione dei diritti perché la scuola è quel luogo dove si forma la nostra essenza più propria di esseri umani.

Gli autori: Pietro Abate, Massimo Rubino, Elisabetta Amalfitano sono insegnanti del Liceo Machiavelli-Capponi di Firenze

Foto di Giancarlo Leonelli, manifestazione di Firenze 21 febbraio 2023

Qualcuno bocci il ministro Valditara

Nella continua discesa verso il dirupo si segnala lo sprint del ministro all’Istruzione (e al Merito eh) Valditara che ha vinto la gara di chi si distingue per inadeguatezza. Dopo lo squadrismo ai danni degli studenti del liceo Michelangiolo di Firenze Valditara, come la sua capa Meloni, ha inforcato la vile strada del silenzio, ben attento a non urtare le nostalgie dei suoi sostenitori.

Dopo il silenzio è riuscito addirittura a fare peggio. Dall’alto della sua posizione ha deciso di attaccare frontalmente la preside Annalisa Savino di un altro liceo fiorentino, il Leonardo Da Vinci, che, come è noto, aveva scritto una lettera ai suoi studenti per invitarli a riflettere su come il fascismo nacque «con la vittima di un pestaggio lasciata a se stessa dagli indifferenti». Quelle parole hanno ridato la parola al ministro che ha definito la lettera «del tutto impropria» e si è definito «dispiaciuto» per averla «dovuta leggere» e perché è «stata letta agli studenti». Il pensiero della dirigente scolastica «non rappresenta la realtà dei fatti», sostiene il ministro che annuncia che non interverrà nei confronti di Savino ma evoca il ‘bavaglio’ contro la «politicizzazione» negli istituti scolastici. «Sono lettere ridicole – ha continuato nel suo attacco – vanno prese per quello che sono, un atto di propaganda».

Ospite di Mattino Cinque Valditara ha detto: «Difendere le frontiere e ricordare il proprio passato o l’identità di un popolo non ha nulla a che vedere con il fascismo o, peggio, con il nazismo – aveva proseguito –. Quindi inviterei la preside a riflettere più attentamente sulla storia e sul presente». E ha anche aggiunto: «Non compete a una preside nelle sue funzioni di lanciare messaggi di questo tipo». Poi ovviamente è passato alla minaccia: «Se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure».

«Un atteggiamento grave che lede la libertà di insegnamento», dice la presidente dei senatori del Pd Simona Malpezzi. «Il ministro cosa non condivide della lettera? – prosegue – La verità è che avrebbe dovuto essere Valditara a pronunciare quelle parole e a condannare le violenze contro gli studenti di Firenze. Che non lo abbia fatto dice molto. Tutto». L’ex segretario dem Nicola Zingaretti, ora deputato, parla di una «vergogna» che «richiede unità per difendere i valori della Repubblica». Per Dario Nardella, sindaco di Firenze, le parole di Valditara sono «gravissime, offensive, inaudite» e il ministro è «indegno» di «rivestire il ruolo di ministro». Il governo, ha ricordato, «non ha trovato il tempo neanche per una minima condanna dell’aggressione dei membri di Azione Studentesca ai due studenti minorenni del Liceo Michelangelo ma non ha perso un attimo per intimidire una dirigente scolastica». «L’Italia – ha concluso Nardella – non ha bisogno di un ministro censore d’altri tempi. Si scusi o si dimetta».

Il ministro dell’Istruzione «anziché condannare con fermezza» l’aggressione «squadrista e fascista» di Azione Studentesca e «anziché esprimere solidarietà nei confronti degli studenti aggrediti, se la prende con la preside» per «la lettera inviata agli studenti e alle loro famiglie», attaccano gli esponenti M5s in commissione Istruzione parlando di un «atteggiamento contro la preside» che «è esso stesso un riflesso di atteggiamenti squadristi». Si tratta per il M5s della «prova che un simile personaggio non può rivestire il ruolo di ministro dell’istruzione e che prima torna a casa meglio sarà per studenti, insegnanti e per tutti coloro che hanno a cuore la scuola pubblica nel nostro Paese». Duro anche il commento di Nicola Fratoianni, di Alleanza Verdi Sinistra: «Il ministro non sa che farsene della lettera della dirigente scolastica del liceo Leonardo di Firenze? Di un liquidatore della scuola pubblica come lui il nostro Paese e il mondo della scuola non sanno che farsene».

Valditara, studi, si applichi di più.

Buon venerdì.

L’invasione dell’Ucraina e la crisi del neoliberismo, due facce della stessa medaglia

Il capitalismo era forte e assicurava benessere quando i governi avevano ancora la capacità di orientare le politiche pubbliche in funzione del miglioramento del benessere generale. Erano i primi decenni del secondo dopoguerra, detti anche “trenta gloriosi” o anni del “compromesso socialdemocratico”. Quel modello economico, indirizzato appunto a diffondere il benessere a strati sempre più vasti della popolazione, fu in grado di vincere la sfida col comunismo dell’Est europeo ed assicurare all’Occidente la supremazia economica sul resto del mondo. Vi è un lato oscuro di quel successo: i Paesi avanzati disponevano di una supremazia globale – che si esercitava anche con la violenza e la guerra – che gli consentiva di accedere a risorse energetiche e a materie prime a buon mercato in gran parte del mondo. Quel benessere, in breve, era assicurato anche a spese dei Paesi che non riuscivano ad uscire dalla loro condizione di povertà. Molto è cambiato tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso quando, col crollo del comunismo, crollò anche ogni prospettiva di superamento del capitalismo e la logica del profitto si affermò come unico principio di governo della società e dei rapporti tra Paesi. Le grandi imprese, nella ricerca appunto del massimo profitto e nel tentativo di distruggere il potere contrattuale della propria classe operaia, frantumarono la produzione e spezzettarono le fasi di realizzazione dei prodotti, localizzandole in luoghi sempre più lontani, dove la forza dei lavoratori era inesistente. Anche grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), infatti, divenne possibile collocare i più avanzati processi produttivi in luoghi del tutto privi di tradizioni industriali.

Per chiarire le caratteristiche di questo fenomeno, fino agli anni Settanta del Novecento un Paese, per industrializzarsi, avrebbe dovuto chiudersi al commercio estero e far nascere in un ambiente protetto la propria industria nazionale. Solo dopo il consolidamento di quest’ultima avrebbe potuto aprirsi alla concorrenza internazionale. Quel percorso – seguito peraltro nell’Ottocento da tutti i Paesi industrializzati – nella seconda metà del Novecento è riuscito ad un solo Paese: la Corea del Sud. Dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso invece, un Paese privo di qualsiasi capacità industriale può accogliere pezzi di produzione che i paesi ricchi hanno interesse a spostare altrove, combinando tecnologia avanzata – che rimane di proprietà delle case madri – e salari di fame. Cina, India, Vietnam e tanti altri Paesi del Sud Est asiatico iniziarono così ad inserirsi all’interno di quelle catene globali del valore che, con lo smembramento di produzioni un tempo svolte all’interno dei paesi avanzati, si andavano articolando in ogni angolo del globo.

Lo sviluppo di questo nuovo modello di globalizzazione ha avuto effetti giganteschi sulle caratteristiche della produzione e sugli equilibri mondiali. Anzitutto il valore delle merci è sempre più generato a monte e a valle della produzione in senso stretto, cioè nelle fasi in cui interviene il settore dei servizi: scienza, design, progettazione, brevetti, software, coordinamento della produzione e vendita assorbono una quota crescente di risorse e di ingegno. Dunque quella che nei Paesi avanzati è vissuta come deindustrializzazione, in parte è legata a questo cambiamento della natura del processo produttivo, dove l’importanza dei servizi e del lavoro intellettuale aumenta a spese di quello manuale.

Inoltre, se da un lato la classe operaia dei Paesi avanzati si è trovata a competere con lavoratori con salari incomparabilmente più bassi, uscendone indebolita, dall’altro Paesi poverissimi hanno iniziato ad assorbire quote crescenti della produzione globale. La Cina, in particolare, combinando il potere politico del partito e le dimensioni gigantesche del Paese, è riuscita ad avviare una spettacolare crescita che, nel giro di pochi decenni, l’ha messa in condizione di disporre delle più avanzate tecnologie. Si, perché non è semplice mantenere il monopolio di una tecnologia. Lo spostamento di pezzi della produzione all’estero ha certo consentito al capitalismo occidentale di sconfiggere la propria classe operaia e accumulare enormi profitti, ma ha anche rafforzato temibilissimi concorrenti: chi ospita quelle produzioni, infatti, può formare i propri tecnici, migliorare benessere generale, costruire infrastrutture e servizi, può insomma diventare a sua volta una potenza industriale. La globalizzazione e le ITC hanno anche favorito scambi scientifici e collaborazioni tra università e centri di ricerca di tutto il mondo. La portata del fenomeno può essere illustrata da un dato: si stima che i Paesi che oggi compongono il G7, all’inizio dell’Ottocento coprissero poco più del 20% del Pil mondiale, con Cina e India che ne producevano circa la metà; da allora la quota di Pil del G7 è salita ininterrottamente, fino a superare il 70% nel 1990. Poi però, da quella data, in soli trent’anni, la quota di PIL dei paesi avanzati si è bruscamente ridotta al 43%.

All’interno dei Paesi avanzati, le classi dirigenti – accecate dall’ideologia della “fine della storia” e dall’idea che il modello economico dell’Occidente, e il suo dominio sul mondo, fossero definitivi – hanno fatto di tutto per favorire questo fenomeno, ben felici di poter sostituire la complessità del processo democratico col dominio delle regole del mercato, sottovalutando i cambiamenti che maturavano sotto i loro occhi. Negli anni della presidenza di Clinton, con l’adesione della Cina al Wto (2001) e l’avvento di internet, vi era infatti la convinzione che il regime comunista cinese non avrebbe retto a trasformazioni così profonde. Dieci anni dopo con Obama, l’America era ancora convinta che la Cina non sarebbe stata una minaccia, perché la sua inferiorità tecnologica sarebbe rimasta incolmabile. Solo con l’amministrazione Trump nasce l’allarme e, in violazione delle stesse regole della WTO, gli Stati Uniti ricorrono a sanzioni unilaterali e alla guerra commerciale per ostacolare l’avanzamento dell’economia cinese.

Secondo alcuni analisti, lo scontro tra Russia e Stati Uniti prefigura un conflitto di più vasta portata tra questi ultimi e la Cina, conflitto che peraltro sul piano economico è già in corso. Gli Stati Uniti stanno ostacolando la crescita dell’economia cinese nelle componenti hardware dell’intelligenza artificiale, in particolare nei microchip a più elevate capacità di calcolo. Il dominio su questo settore, oltre ad essere rilevante sul piano militare, è decisivo per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale, perché da esso dipende l’efficienza nello sfruttamento dei big data. Al contempo la Cina ha compiuto enormi investimenti nel settore minerario, e dispone in particolare del controllo della filiera del litio, componente essenziale per le batterie elettriche: la Cina è presente in misura massiccia nella sua estrazione (in Cile, Bolivia, Australia e altre aree decisive), nella raffinazione e nella produzione. Questo le assicura un dominio nel campo della mobilità elettrica, che si associa a quello nella produzione di pannelli fotovoltaici, altro campo dove il Paese non ha rivali. Taiwan, altra area calda del pianeta, è centrale per l’industria dei semiconduttori, che da un lato usufruiscono di tecnologie occidentali e dall’altro sono essenziali per l’economia cinese. Le tensioni per il controllo dell’isola corrispondono dunque alla sua centralità nella produzione di quelli che ormai sono componenti essenziali di ogni prodotto e processo produttivo: sembra che si discuta se dotare queste industrie di sistemi di autodistruzione automatici ove la Cina dovesse invadere il paese.

Nella sostanza da un lato il sistema economico globale è estremamente interconnesso, dall’altro le fratture geopolitiche si accompagnano al ritorno di temi quali la sicurezza nazionale, la protezione delle industrie nazionali, il controllo delle principali materie prime e filiere produttive. Questi temi impongono anche un evidente protagonismo dei governi e spingono imprese a rivedere la localizzazione delle produzioni: compaiono termini nuovi quali reshoaring (ritorno a casa di ciò che era stato delocalizzato), nearshoring (localizzare vicino ai mercati di sbocco per avere maggiore certezza delle forniture) e friendshoaring (localizzare la produzione in Paesi amici).

L’ordine internazionale neoliberale sta dunque attraversando una profondissima crisi. Sono venuti meno, infatti, alcuni suoi presupposti essenziali. Il benessere è affluito a Paesi che si trovano in competizione con i Paesi più avanzati, generando risentimento e instabilità politica all’interno di questi ultimi; per lo strettissimo nesso che si presenta tra intervento pubblico, sviluppo tecnologico, controllo delle risorse e guerra, l’idea che lo Stato fosse di intralcio all’iniziativa privata è tramontata; il potere globale degli Stati Uniti come garanti di quell’ordine è messo in discussione, finanche nel ruolo svolto dal dollaro come mezzo di scambio per il commercio internazionale. È dunque finita un’epoca, mentre non è ancora chiaro quali nuovi equilibri potranno affermarsi.

Dietro ogni epoca storica vi è sempre un pensiero condiviso su alcune questioni capitali relative alla realtà sociale. Questo pensiero serve anche come denominatore comune all’azione dei vari attori sociali. Non è difficile individuarne di volte in volta le caratteristiche. Del “compromesso socialdemocratico” si è già detto: al fondo vi era la convinzione che la potenza economica dei Paesi industrialmente avanzati dovesse essere indirizzata a produrre un benessere diffuso, anche per mostrare la superiorità del capitalismo sui regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Le stesse organizzazioni economiche internazionali e gli accordi che regolavano il funzionamento del commercio e della moneta, come definiti dopo la sconfitta del nazifascismo, erano volti a garantire ai singoli Paesi strumenti di politica economica atti a perseguire tali obiettivi. Il neoliberismo degli anni Ottanta e Novanta – sintetizzato dal celebre “Washington Consensus” – basava invece l’ordine interno e internazionale sui principi del libero mercato. Privatizzazioni, liberalizzazioni, libertà di spostare capitali ovunque fosse nella convenienza dell’industria e della finanza, riduzione dell’intervento pubblico e delle protezioni sociali hanno segnato l’epoca che ora volge al termine, lasciando immensi problemi non risolti: l’ambiente, la finanziarizzazione dell’economia, il ritorno della povertà nei Paesi avanzati, la mancanza di regole comuni tra i grandi attori sulla scena mondiale, di cui il ritorno della guerra è uno degli aspetti più drammatici. Lo stesso Putin potrebbe aver scommesso anche sulla fine dell’ordine internazionale neoliberale.

Troppe sono le variabili in gioco per poter prefigurare quale futuro ci attende. Procederà l’ascesa della Cina e la spinta al riequilibrio dei poteri mondiali, o avrà successo il tentativo americano di invertire la tendenza presidiando i settori tecnologicamente più avanzati? L’instabilità politica che ormai contraddistingue i Paesi avanzati – di cui il tentativo di colpo di stato di Trump è stato uno dei fenomeni più eclatanti – condurrà ad ulteriore indebolimento della capacità occidentale di governare il mondo? E la guerra in corso, porterà alla sconfitta della Russia e all’accerchiamento della Cina, o se si perverrà ad una sorta di compromesso che scongiuri esiti disastrosi? Non lo sappiamo, e non lo sanno neanche gli attori che operano negli attuali scenari mondiali: essi perseguono ciascuno i propri obiettivi, in uno scenario di forte incertezza, senza cioè la piena conoscenza delle variabili e delle forze in gioco. Sappiamo solo il futuro, come sempre accade nella storia umana, non sarà una ripetizione del passato.

«Senza pace non c’è democrazia», la ministra Belarra (Podemos) si smarca dalla linea di Sanchez

«Noi di Podemos siamo molto fieri della nostra posizione sulla pace, di lavorare instancabilmente per costruirla. Perché siamo convinti che sia l’unica condizione per avere democrazia. Senza pace non c’è democrazia, non c’è vita sicura e felice perla popolazione. Per questa nostra posizione abbiamo ricevuto un forte attacco mediatico, ma dire la verità ha un costo molto alto», ha detto la segretaria di Podemos e ministra dei Diritti sociali Ione Belarra, intervenendo alla terza conferenza europea per la pace che il 17 febbraio scorso ha visto molte forze di sinistra riunite a Madrid. Nel discorso, molto diretto, che la ministra ha tenuto alla Fondazione Diario di Madrid – Laboratorio giornalistico Larra è apparsa chiarissima la critica alla linea di Sanchez. Si aprirà una faglia all’interno del governo spagnolo?

«A un anno dall’inizio della guerra, dall’invasione russa dell’Ucraina, voglio condannare questa guerra imperialista della Russia di Putin – ha precisato la ministra e segretaria di Podemos -. Niente, assolutamente niente giustifica la decisione criminale di aggredire un Paese vicino, causando migliaia di vittime e milioni di rifugiati. Il regime di Vladimir Putin è nemico del progresso, dell’uguaglianza, dell’umanità, dei diritti umani e della giustizia sociale». Parole che non lasciano alcuno spazio a chi accusa i pacifisti di essere equidistanti. «Tutta la mia solidarietà va alle famiglie delle vittime, di tutte le vittime civili, ma anche dei giovani militari ucraini e russi che hanno perduto la vita in nome della patria vestendo uniformi militari» ha aggiunto davanti a una platea gremita e a rappresentanti di formazioni e partiti di sinistra venuti dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia, (fra loro esponenti di Sinistra italiana e Unione popolare).

L’affondo critico della sinistra è stato netto contro l’invio di armi: «Paesi europei e Stati Uniti continuano a inviare armi, ribaltando, nel caso della Germania, una posizione storica. Ci dicono che i soldati spagnoli non andranno in questa guerra, che i militari statunitensi non combatteranno in prima linea, questo significherebbe la Terza guerra mondiale, ma noi sappiamo che l’escalation bellica è una bestia insaziabile. Non voglio veder scendere in campo truppe spagnole per i piani voluti dai potenti di altri Paesi. Perché è lì che ci stanno trascinando con le loro irresponsabilità». E ancora, facendosi portavoce di una sensibilità popolare diffusa ha detto: «La gente vuole la pace, vuole una via diplomatica, vuole una negoziazione. Questa guerra sta avendo un costo altissimo per la gente, ma è anche la gallina dalle uova d’oro dell’industria bellica. I soldi che vengono spesi in questa guerra sono i soldi della nostra gente: devono essere destinati alla sanità, all’educazione, alla lotta contro la violenza machista, e non alle armi e alla guerra. Sappiamo che la lobby dell’industria delle armi è molto potente, dobbiamo fermare questa escalation bellica. Oggi chiedo ai nostri alleati di Governo di riconsiderare le posizioni prese, e dico che aver contribuito alla escalation bellica è stato un errore».

Il discorso della ministra Belarra è proseguito poi analizzando come questa guerra stia gravando sui costi dell’energia e della spesa alimentare delle persone, e di come i Paesi del sud del mondo ne stiano pagando maggiormente le conseguenze. Ha ricordato anche che in Spagna è stato creato uno scudo sociale per proteggere la popolazione da questa crisi innescata dal conflitto bellico, aggiungendo però che non basta: «Bisogna fare ancora di più per abbassare i prezzi degli alimenti di base». La guerra, ha aggiunto la segretaria di Podemos, genera altre crisi, come quella climatica e muove il peggio della società umana. «La logica della guerra è la stessa logica del capitalismo più brutale, con l’espansione e l’accumulazione di benefici per un’élite a cui non importa assolutamente nulla della vita della maggior parte della gente».

Temi questi che hanno trovato eco negli interventi dei rappresentanti delle forze politiche europee di sinistra, tutte sulle stesse note, con lo stesso animo di pace, di giustizia sociale ed ecologica, tutti uniti contro l’invio di armi, nella ricerca di una soluzione diplomatica e di negoziato attraverso anche osservatori internazionali. Era presente all’incontro anche Irene Montero, ministra dell’Uguaglianza, e la candidata di Podemos alla presidenza della Comunità di Madrid per le elezioni del prossimo maggio Alejandra Jacinto, avvocata e attivista per i diritti all’abitazione.

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente. (Bertolt Brecht)

Nella foto: Ione Belarra, frame dal video del suo intervento al Forum europeo contro la guerra, 3 aprile 2022

L’astensione che parla

Ci sono astensioni che dicono più di un voto. Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una mozione che esprime solidarietà nei confronti degli studenti del Collettivo Sum aggrediti davanti al liceo Michelangiolo, a Firenze. La Lega si è astenuta mentre Fratelli d’Italia ha deciso di non partecipare al voto.

Per quell’episodio sono indagati sei attivisti della formazione di ultradestra (meglio: fascista) Azione Studentesca, strettamente collegata al partito di Giorgia Meloni. «Chiedevamo di prendere distanza dalle aggressioni – commenta il consigliere Pd Iacopo Melio – È una vergogna che da Lega e FdI non sia ancora arrivata una ferma condanna».

Secondo Lega e Fratelli d’Italia quello che è accaduto davanti al liceo Michelangiolo non sarebbe squadrismo ma sarebbe «una semplice rissa». Peccato che fosse una rissa coordinata, organizzata e spinta da motivazioni politiche. Tecnicamente: squadrismo.

L’atto impegna la Giunta toscana ad «attivarsi nelle sedi opportune», affinché «vengano assunti tutti i necessari provvedimenti atti a garantire la libertà e l’incolumità degli studenti toscani». Preoccupata per il «clima di odio e violenza» che si respira in città, l’assemblea chiede che sia il governo nazionale, in primis, «a condannare fermamente quanto accaduto».

Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Consiglio regionale Francesco Torselli, tanto per inquinare i pozzi, ha presentato una mozione alternativa che  parla di «violenze durante il corteo antifascista». È il caro vecchio trucco del “ma anche”. Quella mozione non l’hanno votata nemmeno i suoi amici della Lega, per dire.

Vale la pena quindi rileggere la lettera della dirigente scolastica del liceo Leonardo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino, inviata a tutti gli studenti: «siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni».

Consapevoli. Buon giovedì.

Nella foto: l’aggressione di Azione studentesca e la votazione in Consiglio regionale della Toscana (dalla pagina facebook di Iacopo Melio)

Storia di Tonino, tradito tre volte a 8 anni

La violenza accadde il 5 luglio 1982. Tonino aveva 8 anni, a maggio dell’anno prima, nel giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II, si erano celebrati i funerali di sua madre. Lui ancora ne soffriva (per sua madre), come è naturale. Con un pretesto padre Alfio lo attirò nelle docce della canonica. Era da tempo che il sacerdote lo aveva puntato e dopo averlo avvicinato, fatto sentire importante e blandito con regali portò a compimento il suo piano criminale. Attorno a questa storia, che può risuonare come vera ma è di pura finzione, si snoda il romanzo di esordio di Giovani Di Marco L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi edito da Baldini+Castoldi. Abbiamo voluto incontrare l’autore perché raramente la narrativa si è occupata del tema della pedofilia nella Chiesa cattolica. Anzi, addirittura in Italia molto probabilmente si tratta di una assoluta prima volta. Una prima volta che ci preme approfondire.

«Questo mio lavoro – racconta Di Marco – è generalmente definito un romanzo di formazione. È corretto ma lo è semplicemente perché il protagonista è un bambino e lo vediamo crescere nel corso delle pagine fin dall’infanzia. In realtà – prosegue – è anche e soprattutto un romanzo di denuncia, perché l’intenzione sottesa è quella di mettere in luce il modus operandi che la Chiesa cattolica ha adottato per decenni gestendo in segreto assoluto i casi di pedofilia. Per evitare lo scandalo pubblico e per un’idea di giustizia (sempre che si tratti di giustizia) che mai coincide con quella laica. Il punto è che questo atteggiamento ha creato i presupposti perché le vittime si moltiplicassero in tutto il mondo». Di Marco è un appassionato giornalista sportivo (lo si nota dal racconto dei mondiali di Spagna che accompagna il lettore nella prima parte del romanzo) ed è accanito lettore. Sul suo canale Instagram (thebooklover_it) conduce il programma Bla Bla libri nel quale conversa con altri autori per scoprire i loro gusti in tema di letture. Mai si è occupato per professione di vicende di pedofilia. Allora perché un romanzo e perché su questo tema?

«Come chiunque abbia quanto meno un briciolo di umanità e sensibilità provo orrore e sdegno di fronte a notizie come quella sulle 210mila vittime di preti pedofili in Francia oppure quella più recente delle migliaia di vittime scoperte da un’inchiesta indipendente in Portogallo. Tuttavia mi rendo anche conto che l’opinione pubblica in Italia legge, s’indigna e il giorno dopo dimentica». In tanti si voltano dall’altra parte. «Esattamente. E forse questo atteggiamento diffuso è il motivo per cui la Chiesa italiana è rimasta di fatto l’unica al mondo che è riuscita a evitare che una vera commissione indipendente indagasse sui crimini dei suoi preti. Allora ho pensato che attraverso una storia inventata avrei potuto contribuire ad aggirare l’indifferenza e sensibilizzare chi resta inerte. Il fatto che L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi in poche settimane abbia avuto risultati importanti mi fa ben sperare».

La pedofilia, come ha detto lo psichiatra Massimo Fagioli, è «l’annullamento della realtà umana del bambino», e la violenza di padre Alfio su Tonino corrisponde a una firma precisa del modus operandi di queste persone. Prima c’è la manipolazione approfittando dello stato emotivo del bambino ancora molto provato dalla morte della madre e poi una volta carpita la sua fiducia avviene l’aggressione (quella che il magistrato Pietro Forno ha definito efficacemente: «L’equivalente di un incesto»). Anche questa è mascherata vigliaccamente e lucidamente dall’adulto con parole che confondono e colpevolizzano la vittima. «Non dire che ti ho lavato. Anzi non dire proprio niente. Solo che mi stai aiutando a ripitturare la canonica e basta… lo giuri?» «Lo giuro». «Mi raccomando coi giuramenti non si scherza». C’è poi magistralmente rappresentato dall’autore anche il vuoto complice, delle istituzioni laiche e di quelle religiose oltre che della fetta di società immediatamente vicina alla Chiesa, che si crea intorno a questo crimine.

«Ho iniziato a scrivere solo dopo aver molto studiato ed essermi documentato su saggi e libri che per fortuna non mancano, e ho inventato questa vicenda che si può definire emblematica e realistica al tempo stesso perché queste storie si assomigliano tutte. Succede così che Tonino si sente tradito almeno tre volte: da un adulto a cui aveva dato fiducia, da una figura di riferimento come può essere un prete per chi è nato e cresciuto in ambiente religioso e poi dalla Chiesa, o forse ancor di più dalla religione, che protegge il suo aguzzino. Da ateo dico che questo non è certo un libro contro chi crede ma non c’è dubbio che certe coscienze soprattutto all’interno del Vaticano, ma non solo, vadano scosse in profondità altrimenti questa piaga sociale non sarà mai affrontata seriamente».

Un’altra cosa che colpisce leggendo questo romanzo è il fatto che sia calibrato sulla vittima e sulle conseguenze della violenza subita sulla sua vita sociale e di relazione. «Pensiamo a come i media italiani si occupano generalmente di questi casi. La vittima non c’è mai. Si concentrano morbosamente sul carnefice, sui particolari della violenza. Al più si bilancia questa cosa facendo pronunciare le solite parole vuote di circostanza al rappresentante della Chiesa che promette pulizia. Si crea un racconto nel quale (non so quanto involontariamente) assume rilievo quello che ha fatto il prete, chi lo difende, il contesto in cui è accaduto il crimine. E la vittima diventa invisibile». Anziché suscitare solidarietà si ottiene il contrario. «Le vittime fanno paura, vengono isolate da una certa fetta della società. Io vivo in Sicilia. Chi denuncia il pizzo viene isolato. Magari la gente sta dalla sua parte ma lo emargina socialmente». Così si dà potere alla mafia. «Lo stesso accade con i preti pedofili. C’è una struttura che li protegge e li sottrae alla giustizia e un pezzo di società (e di politica) che non osa andar contro questa struttura. Fermo restando il dovere giornalistico di tutelare la privacy di un bambino, parlare della vittima sui media va contro l’imposizione del silenzio da parte della Chiesa».

L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi (a proposito, il polacco è Wojtyla, e Tonino non si capacita che l’attentato faccia più notizia della morte di sua madre; per quanto riguarda i ceci, non vogliamo inibire la curiosità del lettore) è ambientato come detto inizialmente nei primi anni Ottanta. La scelta dell’autore non è casuale. Sono gli anni di Giovanni Paolo II e del suo fido braccio destro alla guida della magistratura vaticana, il cardinale Ratzinger e, come si scoprirà dopo un ventennio, sono quelli di massima diffusione della pedofilia nella Chiesa in tutto il mondo. Quello che vorremmo sapere da Di Marco è se è d’accordo con la narrazione mainstream secondo cui con Bergoglio la Chiesa ha iniziato ad arginare la pedofilia al suo interno. «Non so dire se Wojtyla abbia commesso un inaccettabile errore di valutazione oppure se ne sia totalmente disinteressato. Lui era ossessionato dal comunismo e badava solo a eliminarlo. Per Ratzinger questo crimine è rimasto fino all’ultimo un delitto contro la morale, un peccato, sebbene sia ricordato per aver inasprito le norme penali. Quanto a Bergoglio io non credo che abbia la forza per cambiare concretamente le cose. Dà l’impressione di voler fare ma in concreto ha fatto pochissimo. Basta guardare cosa (non) fa la Chiesa italiana. Il Vaticano dovrebbe costringere i vescovi a denunciare e collaborare con la giustizia. Punto. Ma dal momento che questo non succede è lo Stato italiano che se ne deve prendere carico. Non può più lasciarli fare come gli pare».

L’immagine di apertura è tratta dalla copertina del libro di Giovanni Di Marco

I danni ambientali della guerra

A pochi giorni dall’anniversario del conflitto in Ucraina, Greenpeace e la Ong ucraina Ecoaction pubblicano una Mappa dei danni ambientali causati dalla guerra e per denunciare i gravissimi impatti sugli ecosistemi. Le due organizzazioni chiedono inoltre al governo di Kiev e alla Commissione europea di istituire un fondo per il ripristino dell’ambiente, vittima silenziosa della guerra. I dati, raccolti da Ecoaction e consultabili online, sono stati confermati dalle immagini satellitari e mappati da Greenpeace Central and Eastern Europe (Cee). La mappa illustra 30 dei 900 eventi raccolti, per evidenziare gli impatti ambientali più gravi. In base alle informazioni ufficiali, dall’inizio delle ostilità sono stati danneggiati circa il 20 per cento delle aree naturali protette del Paese, e 3 milioni di ettari di foresta, mentre altri 450 mila ettari si trovano in zone occupate o interessate dai combattimenti. «Mappare i danni causati dalla guerra in Ucraina è complicato dal fatto che gran parte del territorio liberato potrebbe essere disseminato di mine e altri ordigni esplosivi, mentre le forze russe occupano ancora parti del Paese, rendendo difficile la raccolta dei dati», dichiara Denys Tsutsaiev di Greenpeace Cee a Kiev. «È però necessario evidenziare questi danni, perché il ripristino ambientale deve avere un posto centrale nel dibattito sul futuro dell’Ucraina. I fondi devono essere stanziati adesso, non quando la guerra sarà finita».

INFOGRAFICA I danni ambientali della guerra in Ucraina
Milano, 21 feb (GEA) – Nell’infografica GEA, la ‘Mappa dei danni ambientali’ causati dalla guerra in Ucraina secondo Greenpeace e la Ong ucraina Ecoaction. Le due organizzazioni chiedono al governo di Kiev e alla Commissione Ue “di istituire un fondo per il ripristino dell’ambiente, vittima silenziosa della guerra”. I dati, raccolti da Ecoaction e consultabili online, sono stati confermati dalle immagini satellitari e mappati da Greenpeace Central and Eastern Europe (CEE). La mappa illustra alcuni dei 900 eventi raccolti per evidenziare gli impatti ambientali più gravi. In base alle informazioni ufficiali, dall’inizio delle ostilità sono stati danneggiati circa il 20% delle aree naturali protette del Paese, e 3 milioni di ettari di foresta, mentre altri 450 mila ettari si trovano in zone occupate o interessate dai combattimenti.
AFT/VOR

La mappa mostra come l’invasione russa abbia devastato l’ambiente ucraino: la guerra ha provocato incendi, danneggiato gli habitat e inquinato l’acqua, l’aria e il suolo, mentre i bombardamenti dei siti industriali hanno provocato ulteriori contaminazioni. Le esplosioni, inoltre, rilasciano nell’atmosfera un cocktail di composti chimici. Il principale, l’anidride carbonica, non è tossico, ma contribuisce al cambiamento climatico. Gli ossidi di zolfo e di azoto possono inoltre provocare piogge acide, modificando il pH del suolo e causando la bruciatura della vegetazione, soprattutto delle conifere. Le piogge acide sono pericolose anche per gli esseri umani e per la fauna, perché hanno un grave impatto sulle mucose e sugli organi respiratori. Anche i frammenti metallici delle granate sono pericolosi per l’ambiente. La ghisa mista ad acciaio è il materiale più comune per i bossoli delle munizioni e non contiene solo ferro e carbonio, ma anche zolfo e rame. Queste sostanze si infiltrano nel terreno e possono finire  nelle acque sotterranee, entrando nelle catene alimentari di esseri umani e animali. L’intera regione è a rischio di catastrofe e presenta gravi pericoli per la salute della popolazione circostante.

Greenpeace ed Ecoaction chiedono che la ricostruzione delle città avvenga parallelamente al ripristino ambientale del Paese. La sofferenza e la distruzione ambientale in tempo di guerra sono immense e hanno conseguenze a lungo termine sulla vita delle persone e sugli ecosistemi delle aree colpite. Per questo motivo, Greenpeace chiede che si rendano subito disponibili risorse finanziarie per il ripristino ambientale dell’Ucraina.

Buon mercoledì.

Nella foto frame del video da Presa diretta del 21 marzo 2022 sul disastro ambientale causato dalla guerra in Ucraina

Mario Tozzi, Gasparri e quell’irresistibile voglia di bonificare la storia

Se non vi siete ancora ripresi dal degrado di una classe politica che mentre si ritrova in maggioranza in Parlamento e mentre è al governo ha comunque sprecato una decina di giorni per commentare la scaletta del Festival di Sanremo preparatevi all’ultima uscita di Maurizio Gasparri che ha individuato il nuovo nemico: il divulgatore e giornalista televisivo Mario Tozzi.

E cosa può avere combinato il buon Tozzi che si occupa di ambiente, di storia e di divulgazione scientifica? La pietra dello scandalo sarebbe una puntata dedicata alle bonifiche nell’Agro Pontino realizzate durante il Ventennio fascista e che, si spiega nel corso della trasmissione, hanno prodotto forti impatti ambientali. «Indomita, nonostante le perplessità suscitate, Rai3 manderà in onda la nuova stagione di un presunto programma sull’ambiente – aveva commentato Gasparri – che attaccherà, con folli argomentazioni, le bonifiche dell’Agro Pontino. Un’opera tentata per anni, avviata e realizzata nei primi decenni del secolo scorso, che sconfisse miseria e malattie diffuse in quella parte d’Italia malsana e paludosa». Per il senatore si tratta di «una follia che da sola giustifica un ricambio dei vertici». E aggiunge sui suoi social: «Il servizio pubblico che tifa per il degrado e la malaria va rifondato. Tutti a casa».

Per il senatore Gasparri la difesa dell’Agro Pontino significa, evidentemente, la difesa del fascismo e di Benito Mussolini. Non c’è, nelle parole del senatore berlusconiano, nient’altro che un posizionamento politico personale sulla pelle della Rai e di Tozzi, semplicemente per non rimanere indietro in questa corsa a indossare il profumo nostalgico migliore del momento. Sullo sfondo si intravede anche il core business del partito del suo padrone: distruggere la Rai in ogni modo, con ogni mezzo, usando di volta in volta il personaggio televisivo di turno come manganello.

Buon martedì.

Nella foto: Mario Tozzi (frame da “Sapiens”, RaiTre) e Maurizio Gasparri (frame da video SenatoTv)

Agguati fascisti. Tutto bene?

Sta circolando il video dei neofascisti di Azione studentesca ai danni degli studenti del liceo Michelangiolo di Firenze. Nel video c’è uno studente per terra coperto di calci e di pugni anche da adulti. Ha ragione il sindaco di Firenze Dario Nardella a parlare «aggressione squadrista intollerabile». Ci mancherebbe.

Ma chi sono i punti di riferimento di questi vigliacchi fascisti? Basterebbe leggere con attenzione il comunicato del Coordinamento di Fratelli d’Italia di Firenze che dopo aver espresso “profondo rammarico” per gli scontri si è affrettato a chiedere «che venga fatta chiarezza sull’episodio con la corretta ricostruzione dei fatti e auspichiamo che tutti, soprattutto coloro che rivestono incarichi istituzionali come ha fatto il sindaco di Firenze, abbiano la stessa accortezza nel commentare l’accaduto senza additare responsabilità prima che le stesse siano acclarate, cosa che rischia soltanto di alimentare ulteriormente un clima già troppo pesante». Capito? Nemmeno con un ragazzino per terra pestato a calci da degli adulti basta a fargli intendere la “matrice”. Un comunicato che fa orrore.

Anche perché la matrice di Azione studentesca sta tutta nei loro patetici slogan. «Sogna, combatti, distinguiti». «La rivolta comincia dai banchi, chi non lotta è complice». Oppure «difendiamo la patria come fecero gli arditi». Frasi che non hanno bisogno di troppe interpretazioni. Solo che anche loro spesso, proprio come gli “arditi” a cui fanno riferimento, riescono a distinguersi per vigliaccheria.

«Sono minorenni, al massimo hanno 20 anni» ha detto il coordinatore fiorentino di Fratelli d’Italia. Fratelli d’Italia che ha il suo simbolo in bella evidenza sulla sede di Azione studentesca e Casaggì (il centro sociale di destra) in via Frusa che dice? «Nessuno provi a costruire ambiguità o dubbi sul nostro pensiero – ha detto Francesco Torselli, capogruppo di Fratelli d’Italia in consiglio regionale della Toscana – Le aggressioni, le intimidazioni, gli atti vigliacchi non appartengono né alla nostra storia né al nostro modo di fare politica. Fratelli d’Italia e i suoi movimenti giovanili rifiutano la violenza come forma di manifestazione politica e condannano apertamente qualsivoglia aggressione o intimidazione, da qualsiasi parte esse arrivino». No, è vero. Non ci sono ambiguità.

Notate, tra le altre cose, il silenzio di quelli che si sono fatti insanguinare gli occhi per un po’ di vernice lavabile sui muri degli ambientalisti. Notate come sono sbadati. Notate come sono fascisti.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video dell’attacco di Azione studentesca davanti al liceo Michelangiolo di Firenze

Guerra in Ucraina. Perché negli Stati Uniti si può parlare delle responsabilità della Nato e da noi no?

La guerra in Ucraina è stata definita come “unprovoked aggression” “aggressione non provocata” tradotto anche con “c’è un aggredito e un aggressore”. Tre intellettuali e accademici americani, John Mearsheimer, Jeffrey Sachs e Noam Chomsky, da prospettive culturali e ideologiche diversissime, ma ragionando da persone di grande intelligenza e cultura quali sono, hanno demistificato questa narrazione. Questa è tra l’altro, la grandezza dell’America, dove si possono trovare posizioni critiche della narrazione del governo senza passare per essere putiniani o altre sciocchezze del genere: da questo punto di vista anni luce avanti a noi europei.

John Mearsheimer, professore scienze politiche all’Università di Chicago, in maniera molto raffinata, inquadra il problema nella sua teoria delle relazioni internazionali sul comportamento delle grandi potenze nota come “realismo offensivo”. Mearsheimer già nel 2014 ha scritto un importante articolo dal titolo auto-esplicativo Perché la crisi ucraina è colpa dell’Occidente in cui ha anticipato gli eventi spiegandone in dettaglio le ragioni: «Gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità della crisi [ucraina]. La radice del problema è l’allargamento della Nato». E «i leader russi hanno ripetutamente detto che vedono l’adesione dell’Ucraina alla Nato come una minaccia esistenziale che deve essere impedita». Le ragioni per questa posizione sono varie: dalle radici storiche che legano la Russia all’Ucraina, al fatto che la Crimea, da sempre appartenuta alla Russia che lì ha una importante base navale, rappresenta l’imprescindibile sbocco sul Mar Nero. Una famosa lezione del 2015 di Mearsheimer in cui spiega il suo pensiero sulla crisi ucraina ha ricevuto quasi 30 milioni di visualizzazioni.

Jeffery Sachs, ora direttore del Centro di sviluppo sostenibile della Columbia University, è stato protagonista in questa vicenda sin dagli anni Novanta, quando era il giovane economista brillante consigliere del governo polacco, dell’Urss di Gorbaciov prima e della Russia di Eltsin dopo, ed infine anche del governo ucraino. La sua missione era strutturare la transizione all’economia di mercato capitalistica. I metodi di Sachs di stabilizzazione dell’economia sono diventati noti come “shock therapy” e la sua azione è stata fortemente criticata per la spinta alla privatizzazione delle aziende pubbliche, una strategia che ha aperto le porte agli oligarchi e al disastro economico della Russia degli anni Novanta.

Naomi Klein, nel suo libro Shock Economy, lo critica in maniera spietata. La critica della Klein è condivisibile anche se per la Russia ci sono state delle condizioni politiche e finanziarie diverse dalla Polonia e fuori il controllo dello stesso Sachs.

Sachs è sempre stato un economista neoliberale per la sua fiducia nel potere regolatorio del mercato, ma anche, politicamente un liberal. Accademico intellettualmente onesto che non ha mai rinnegato le sue idee né in economia né, tanto meno, in politica diventando una delle voci più critiche della politica del governo americano dai tempi di Clinton e Bush junior. Sachs ricorda che l’idea di espandere l’alleanza militare americana all’Ucraina e alla Georgia per circondare la Russia e la regione del Mar Nero risale infatti alla seconda metà degli anni Novanta.

Secondo l’economista statunitense l’origine della guerra e di questa crisi geopolitica va identificata proprio in quegli anni quando la Nato violò l’accordo che aveva preso con Gorbaciov che non si sarebbe espansa di “un solo dito verso est”.

Noam Chomsky è invece un linguista che ha insegnato al MIT e universalmente noto per la sua critica alla politica esterna degli Usa e l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali che lo hanno reso uno degli intellettuali americani più noti e ascoltati al mondo. «Il termine ‘non provocata’ è piuttosto interessante se si considera che non è mai stato usato in passato… Se si fa una ricerca su Google per invasione non provocata si ottengono un paio di milioni di risultati per l’invasione non provocata dell’Ucraina, provate a cercare l’invasione non provocata dell’Iraq. …. In realtà non è mai stata usata prima e qualsiasi psicologo può spiegare esattamente cosa sta succedendo il motivo per cui si insiste a chiamare l’invasione non provocata è che si sa benissimo che è stata provocata. In realtà ci sono ampie provocazioni che risalgono agli anni Novanta, come ho già detto. Non è la mia opinione, è l’opinione di quasi tutti i vertici della diplomazia americana. Naturalmente provocato non significa giustificato. D’altra parte, l’invasione statunitense dell’Iraq che è stata molto peggiore dell’invasione russa dell’Ucraina, non si può dire che sia stata del tutto immotivata, non c’è stata alcuna provocazione per l’invasione dell’Iraq, c’è invece tanta provocazione per l’invasione russa dell’Ucraina. Sono entrambi casi di aggressione criminale, indipendente dalla provocazione, ma è molto interessante e ci dice molto sulla propaganda il modo in cui l’espressione “invasione non provocata” sia diventata non solo popolare ma quasi essenziale nell’ultimo anno anche se tutti sanno che è un’assurdità totale, è un modo per cercare di enfatizzare e far sì che le persone non prestino attenzione a ciò che è successo».

Questa linea rossa, la neutralità dell’Ucraina e della Georgia, era nota all’alta diplomazia statunitense fin dall’avvertimento di George Kennan, diplomatico statunitense e attento osservatore delle relazioni internazionali, famoso per aver previsto il crollo dell’Unione Sovietica. Meno noto è il suo avvertimento nel 1948 che nessun governo russo avrebbe mai accettato l’indipendenza dell’Ucraina.  Kennan scrisse che «espandere la Nato sarebbe il più fatale errore della politica Usa nell’era post-guerra fredda», poiché «riporterà l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spingerà la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento».

Insomma, malgrado fosse chiaro a «quasi tutti i vertici della diplomazia americana» che questa politica avrebbe indotto tensioni crescenti con la Russia, Clinton prima e Bush jr dopo perseguirono l’espansione della Nato verso i paesi ex-comunisti. A quell’epoca la Russia era troppo debole per potersi opporre, e così molti paesi dell’Europa orientale sono entrati nella Nato.

Poi nella Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 Putin ha chiarito che la linea rossa per la Russia era che la Georgia e l’Ucraina rimanessero neutrali. L’argomento era che i russi non volevano missili balistici in Ucraina e Georgia: «Emerge il fatto – disse Putin-che la Nato ha posto le sue forze di prima linea ai nostri confini, mentre noi continuiamo a rispettare rigorosamente gli obblighi del trattato e non reagiamo affatto a queste azioni. Penso sia ovvio che l’allargamento della Nato non abbia alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di garantire la sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una grave provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiederci: contro chi è destinata questa espansione? E che fine hanno fatto le assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Nessuno le ricorda nemmeno».

L’espansione verso l’Ucraina non era dunque accettabile per i russi. Giusto o sbagliato che fosse, tutti lo sapevano e quindi non solo non era impossibile evitare la guerra ma era necessario farlo con una accorta politica che avesse preso in considerazione le ragioni dei russi per la determinazione di un quadro di sicurezza europeo condiviso e quelle degli ucraini per rendere per loro positivo il ruolo di stato cuscinetto tra Unione Europea e Russia. L’accordo di Minsk riguardava proprio questo aspetto, insieme con lo status delle Repubbliche del Donbass dove la maggioranza della popolazione è russofona. Le ragioni della guerra, le provocazioni, come dice Chomsky, erano dunque sul tavolo dagli anni Novanta e tutti ne erano a conoscenza. Tuttavia, la scommessa degli Stati Uniti era che la Russia non avrebbe osato reagire perché si trovava in una posizione di “lose-lose”. Perdere se l’invasione non fosse avvenuta, perché in quel caso avrebbe avuto il rischio che la Nato installasse missili balistici a cinque minuti da Mosca e di perdere il controllo della Crimea e con essa l’accesso al Mar Nero. Perdere perché se l’invasione fosse avvenuta, la decennale “guerra del gas” sarebbe stata persa e, con essa le maggiori entrate economiche della Russia. Inoltre, l’esercito ucraino avrebbe potuto essere abbastanza forte da fermare l’invasione con il supporto della Nato e degli effetti delle sanzioni. Per quanto riguarda la guerra del gas: la Russia ha enormi risorse energetiche di cui l’Europa ha necessità. Per questo sin dagli anni Ottanta si è pensato di sviluppare il gasdotto Trans-Siberiano per portare il gas estratto dai giacimenti siberiano all’Europa, progetto che già allora aveva suscitato l’ostilità degli Stati Uniti per motivi geopolitici.

Più recentemente, lo stesso Biden aveva chiarito prima del 24 febbraio 2022 che nel caso la Russia avesse invaso l’Ucraina, il gasdotto Nord Stream, il collegamento energetico ed economico tra Russia ed Europa, sarebbe stato, “in qualche modo”, interrotto. Questa era dunque la scommessa degli Stati Uniti, che inglobare l’Ucraina nella Nato sarebbe stato possibile perché la Russia non avrebbe avuto la forza e l’interesse di reagire. Crediamo che non abbia funzionato per due motivi. La Russia è stata in grado di costruire legami economici con altri Paesi e dal 2014 ha lavorato per avere un esercito abbastanza forte da poter fronteggiare in una guerra convenzionale non solo l’esercito ucraino, un anno fa uno dei meglio addestrati ed armati in Europa, ma la stessa Nato.

Come spiega John Mearsheimer l’espansione della Nato in Ucraina era vista dalla Russia, e non da Putin solamente come fosse un despota fuori controllo, come la più importante minaccia esistenziale: queste sono le radici della guerra.

Purtroppo, ed è questo il motivo di tanta preoccupazione per il momento che stiamo attraversando, sembra ora che la guerra, per una sorta di eterogenesi dei fini, sia diventata una minaccia esistenziale anche per gli Stati Uniti e di conseguenza per l’Europa che è vieppiù dipendente da quest’ultimi. Non perché direttamente coinvolti nel conflitto, al momento ancora indirettamente anche se questa posizione si logora ogni giorno che passa avvicinandosi così il momento in cui gli eserciti Nato interverranno sul terreno, ma per le ripercussioni internazionali di carattere politico e economico. Il fatto che la Russia abbia resistito alle sanzioni ed anzi abbia ampliato i suoi legami economici e politici con paesi di grande importanza come la Cina, l’India, l’Iran e molti altri sta mettendo in seria crisi l’intero ordine internazionale. Per comprendere come la partita che si gioca in Ucraina possa ripercuotersi sull’ordine internazionale è sufficiente fare una proiezione: quale sarà la situazione tra sei mesi o un anno se la Russia occupasse del tutto le provincie russofone dell’Ucraina e instaurasse un governo “amico” in quel che rimane dell’Ucraina occidentale? Sarebbe venuto meno non solo il legame tra Russia ed Europa, scambio di tecnologia per energia a basso costo, ma lo stesso predominio degli Stati Uniti nella politica e nell’economia internazionali. Se una debacle militare comporta le chiare conseguenze di un duro colpo al mito dell’invincibilità dell’alleanza atlantica, vi sono delle motivazioni ancora più profonde.

Uno degli effetti collaterali, non previsti né voluti, della deregolamentazione del sistema economico globale è stato rendere le tensioni geopolitiche estremamente più acute. Gli Stati Uniti, e con essi il Regno Unito e altri Paesi occidentali, hanno accumulato ingenti debiti verso l’estero, mentre la Cina, altri Paesi orientali, e in parte anche la Russia, sono in una posizione di credito verso l’estero. Un’implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l’Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: uno spostamento cioè del capitale in mani orientali. Gli Stati Uniti, che avevano un debito pubblico del 31% del PIL nel 1971 sono passati a uno del 132% oggi e un debito netto verso l’estero di oltre 14 mila miliardi di dollari pari al 65% del PIL. Questo debito è stato sostenibile solo grazie al ruolo centrale che ha il dollaro negli scambi a livello internazionale ma rende l’economia statunitense sempre più fragile e condizionata dagli interessi dei creditori. Per questa ragione, sono oggi gli Stati Uniti, già promotori della globalizzazione, a richiedere una chiusura protezionista sempre più accentuata nei confronti delle merci e dei capitali provenienti da Cina, Russia e gran parte dell’Oriente non allineato. È questa criticità nell’equilibrio economico mondiale che rende pericoloso questo momento storico: la guerra è vista come una minaccia esistenziale non solo dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti: nessuno si può permettere di perderla.

Per avviare un realistico processo di pace, è oggi dunque necessaria una non solo ridisegnare un quadro di sicurezza europeo condiviso che tenga conto delle istanze della Russia, ma è necessaria anche una iniziativa di politica economica internazionale. Come recita l’appello promosso da promosso dagli economisti Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e apparso sul Financial Times del 17 febbraio 2023: «Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union. Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero abbandonare la loro adesione al libero scambio senza limiti. Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».