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Da noi non serve nemmeno abolire l’aborto: basta boicottarlo

Foto LaPresse - Claudio Furlan 21/11/2018 Milano ( Mi ) Cronaca Protesta in consiglio comunale dove si discuteva sulla Legge 194 del movimento femminista Non una di Meno , vestite come ancelle della serie tv Handmaids TalePhoto LaPresse - Claudio Furlan 21/11/2018 Milan ( Mi ) ITANewsFeminist protest against law 194 during Town Council

Sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o Oss. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. È quanto emerge dall’indagine aggiornata “Mai Dati!” di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e di Sonia Montegiove, informatica e giornalista.

44 anni dopo l’approvazione della legge 194 il primo dato che salta all’occhio è la difficoltà di ottenere dati. «La ricerca – spiega l’Associazione Luca Coscioni – , tramite accesso civico generalizzato, ha evidenziato ciò che la Relazione ministeriale non fa emergere, pubblicando i dati chiusi e aggregati per Regione».

Come ha spiegato Filomena Gallo, avvocato e Segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni: «Una cosa è però molto chiara: la legge 194 è ancora mal applicata o addirittura ignorata in molte aree del nostro paese. Con Anna Pompili e Mirella Parachini, ginecologhe, e con l’Associazione Luca Coscioni abbiamo spesso evidenziato le criticità reali dell’applicazione e dell’accesso alla interruzione volontaria della gravidanza. Oggi chiediamo con urgenza al ministro della Salute Roberto Speranza e al ministro della Giustizia Marta Cartabia che i dati sull’applicazione della legge 194 siano in formato aperto, di qualità, aggiornati e non aggregati; che si sappia quanti sono i non obiettori che eseguono le Ivg e gli operatori che le eseguono dopo il primo trimestre; che tutte le regioni offrano realmente  la possibilità di eseguire le Ivg farmacologiche in regime ambulatoriale; che venga inserito nei Lea un indicatore rappresentativo della effettiva possibilità di accedere alla Ivg in ciascuna regione; e che la relazione ministeriale venga presentata ogni anno nel rispetto dell’articolo 16 della stessa 194».

«L’indagine Mai dati ci dice che la valutazione del numero degli obiettori e dei non obiettori è troppo spesso molto lontana dalla realtà», aggiungono Chiara Lalli e Sonia Montegiove, autrici della indagine Mai Dati. «Dobbiamo infatti sapere, tra i non obiettori, chi esegue realmente le Ivg (in alcuni ospedali alcuni non obiettori eseguono solo ecografie, oppure ci sono non obiettori che lavorano in ospedali nei quali non esiste il servizio Ivg, e quindi non ne eseguono). La percentuale nazionale di ginecologi non obiettori di coscienza (che secondo la Relazione è del 33%) deve, dunque, essere ulteriormente ridotta perché non tutti i non obiettori eseguono Ivg. Non basta conoscere la percentuale media degli obiettori per regione per sapere se l’accesso all’Ivg è davvero garantito in una determinata struttura sanitaria. Perché ottenere un aborto è un servizio medico e non può essere una caccia al tesoro».

Tra l’altro l’indagine di Lalli e Montegiove tramite accesso civico generalizzato evidenzia come l’ultima Relazione sulla stessa legge del Ministero della salute e i dati in essa contenuti, relativi al 2019, restituiscono una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese. La relazione dovrebbe restituire un quadro il più possibile realistico sullo stato di applicazione della legge, al fine di avviare tutte le manovre correttive, per superare le diseguaglianze tra le regioni e per assicurare a tutte le donne l’accesso all’Ivg. Di fatto, sia il ritardo nella presentazione, sia gli indicatori e le modalità di pubblicazione dei dati (chiusi e aggregati), rendono la relazione un’osservazione passiva e neanche tanto veritiera della realtà. Questo rende impossibile qualunque miglioramento. L’indagine rende evidente come sia necessario aprire i dati, non solo sulla obiezione di coscienza, al fine di consentire la lettura, l’analisi e la rielaborazione di queste informazioni da parte di chiunque.

Le richieste sono chiare e precise:

«Chiediamo al ministero – scrivono le autrici dell’indagine – di aprire i dati e di proseguire nella raccolta: tutti i dati devono essere aperti, pubblici, aggiornati e per singola struttura (e non in pdf e in ritardo di anni, diversamente da come previsto e come succede ora).

I dati non riguardano ovviamente solo l’obiezione di coscienza, ma tutte le informazioni già presenti nella Relazione, come l’aborto medico (RU486) e l’aborto dopo il primo trimestre.

Chiediamo di sapere quanti non obiettori effettuano le Ivg, qual è il numero medio settimanale di Ivg per non obiettore e se ogni struttura in cui non c’è il servizio assicura alle donne il percorso di Ivg.

Ricordiamo che i dati aperti non sono una concessione ma un nostro diritto.

Chiediamo di sapere quale “indicazione [è stata data] alle Regioni e alle strutture di organizzarsi per proseguire a fornire la prestazione” e quale ricaduta ha avuto la pandemia “sull’organizzazione dei servizi e sullo svolgimento dell’intervento” (pagina 13 della Relazione).

Chiediamo di aprire i dati sulla tabella “IVG nel contesto dell’emergenza COVID-19-maggio-giugno 2020” (pagina 14), soprattutto per le seguenti voci:

  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di interrompere il servizio Ivg (2)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di ridurre il numero di interventi settimanali (4)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di sospendere le procedure di Ivg farmacologica (4)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di sospendere le procedure di Ivg chirurgica (2)

E chiediamo quali Regioni hanno segnalato problemi e quali no (12 non hanno segnalato problemi).

Chiediamo alle Regioni di fare la stessa cosa e di uniformare le modalità di presentazione dei dati. Se il Lazio è fermo al 2018 con un bel pdf chiuso, la Regione Toscana, seppure ferma al 2020, è un ottimo esempio.

I dati che abbiamo raccolto scadranno presto. Anzi, forse sono già scaduti quelli che abbiamo ricevuto ad agosto dai più bravi che ci hanno risposto subito, come il Policlinico Casilino e l’ospedale Sant’Eugenio di Roma.

Questo lavoro richiede un osservatorio permanente.

Solo con questi dati aperti e aggiornati continuamente si può fare una mappa utile.

Possiamo ispirarci alla Spagna o all’Inghilterra.

Rendere accessibili e aperti i dati analitici metterebbe in luce le difficoltà ancora presenti in Italia per accedere al servizio di Ivg. Queste difficoltà, secondo l’ONU, possono essere:

  1. restrictive laws
  2. poor availability of services
  3. high cost
  4. stigma
  5. the conscientious objection of health-care providers and
  6. unnecessary requirements, such as mandatory waiting periods, mandatory counselling, provision of misleading information, third-party authorization, and medically unnecessary tests that delay care»

Sarebbe ora di riconoscere che l’obiezione di coscienza non è una questione morale ma è una questione di accesso a un servizio.

Buon venerdì.

Nella foto: protesta di Non una di meno contro una mozione anti-aborto al Consiglio comunale di Milano, 21 novembre 2018

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Neutralità addio

Sweden and Finland with NATO. Defence and military conflict with Russia. Flags painted on concrete wall with crack, website background

Il 12 maggio il presidente della Repubblica, Sauli Niinistö, e la prima ministra socialdemocratica, Sanna Marin, hanno ufficializzato l’intenzione della Finlandia di aderire alla Nato, seguiti a ruota (il 15 maggio) dai socialdemocratici svedesi, a loro volta al governo di Stoccolma. La comune motivazione è che, alla luce del sovvertimento globale innescato dalla guerra in Ucraina, solo il Trattato atlantico, in particolare l’articolo 5, assicurerebbe la difesa dei due Paesi (uno dei quali, la Finlandia, condivide oltre mille chilometri di confine con la Russia); peraltro, già oggi essi godono dello status di Partner Nato con opportunità potenziate. Le garanzie militari offerte dalla clausola 42 del Trattato sull’Unione europea sono ritenute insufficienti.

Per comprendere la portata storica del riposizionamento finlandese, occorre ricordare che per tutto il dopoguerra lo Stato nordico si è attenuto, nella sua politica estera, a un equilibrio non sempre facile da mantenere, ma che ha dato ottimi risultati. Se per un verso Helsinki ha evitato condotte che potessero mettere in crisi i buoni rapporti con l’Unione sovietica prima, e con la Russia poi, per un altro verso ha sempre badato a rintuzzare qualsiasi tentativo di ingerenza da parte dell’ingombrante vicino (anche dotandosi di un esercito ben equipaggiato e addestrato). La “dottrina Paasikivi-Kekkonen”, dal nome dei due presidenti della Repubblica che ne sono stati gli artefici, ha permesso alla Finlandia, Paese capitalista e liberaldemocratico, di svolgere per decenni una funzione di raccordo tra Est e Ovest. Dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, è vero che Helsinki ha intensificato la cooperazione militare con gli altri Paesi nordici e con gli Stati Uniti, ma al contempo il neutralismo ha continuato a ispirare il dibattito sulle relazioni russo-finniche.

Quanto alla Svezia, a partire dagli anni Sessanta è passata da una politica estera sostanzialmente isolazionistica a un…

 

* L’autrice: Monica Quirico è storica della politica e della società svedese e nordica. È honorary research fellow dell’Istituto di Storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma

L’articolo prosegue su Left del 20 maggio 2022 

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Un pericoloso cambio di passo

Sweden's Prime Minister Magdalena Andersson drives a combat vehicle during a visit to the international military exercise Cold Response 22 in Norway, March 21, 2022. Cold Response is a Norwegian-led winter exercise in which NATO and partner countries participate. Sweden participates with 1,500 soldiers and officers and is organized together with Finnish army units. Photo: Anders Wiklund / TT / code 10040

Con il suo criminale attacco all’Ucraina Putin è riuscito a determinare esattamente quello che più paventava: rafforzare la Nato, rimetterla in piedi, compattarla e allargarla. Tanto che ora perfino due Paesi di lunga tradizione democratica e neutrale come la Svezia e la Finlandia, chiedono di entrare nell’alleanza atlantica a trazione Usa. Quella Nato che nel 2019 era stata data per cerebralmente morta da Macron è stata resuscitata proprio dal presidente russo. E una nuova cortina di ferro si innalzerà fra Russia e Finlandia lungo quei 1.300 chilometri di confine.

Siamo certi che questa corsa scandinava sotto l’ombrello nucleare Nato porti maggiore sicurezza e non sia letta come una provocazione e usata come scusa dalla potenza nucleare russa? Fin qui Putin ha risposto che la Finlandia non rappresenta una minaccia e si è limitato a dire che il suo ingresso nella Nato è «un errore politico». Ma c’è qualcuno che ancora crede alle sue parole dopo che più e più volte aveva ripetuto di non volere invadere l’Ucraina, salvo poi passare all’atto? Siamo certi che questa perfettamente legittima richiesta da parte dei due Paesi scandinavi (per altro già molto ben armati) non getti nuova benzina sul fuoco del conflitto che da tre mesi dilania l’Ucraina?

Nel frattempo nel Donbass e non solo la guerra entra in una nuova fase: da una guerra difensiva potrebbe diventare offensiva. Dall’Occidente arrivano altre armi e più pesanti che potrebbero essere usate anche per contrattaccare in territorio russo. Quante altre persone devono ancora morire perché si arrivi a un tavolo di negoziato? Come uscire da questa spirale di violenza che non potrà che portare ancora più strazio, morte e distruzione? La questione del cessate il fuoco sembra del tutto sparita dalle agende. Tace l’iniziativa europea per un negoziato che abbiamo sempre chiesto con forza.

Non si parla più di ritorno alla conferenza di Helsinki del 1975 che fu un pilastro nella costruzione della pace. E la Helsinki di oggi addirittura rinnega la propria lunga storia di neutralità. Ad annunciarlo è stata la sua giovane premier progressista Senna Marin, seguita a ruota dalla collega svedese, Magdalena Andersson. Ci avevano colpito, lo scorso marzo, le immagini che la ritraevano con casco e mimetica alla guida di un carro armato durante una esercitazione della Nato.

Sì certo, benché non aderenti alla Alleanza atlantica i due Paesi avevano sempre collaborato. Ma ora quelle immagini assumono un nuovo significato e una luce assai più inquietante. Fanno balenare la paura di una nuova escalation, di un allargamento del conflitto. Oltre a una immensa tristezza – come approfondisce Monica Quirico su Left – nel veder così gettare alle ortiche la lezione di Olof Palme, padre della “neutralità attiva” della Svezia, che pagò con la vita, probabilmente, la sua battaglia contro i trafficanti di armi.

Duole dirlo, ma di politici progressisti e di rango come lui che lavorino per la pace non se ne vedono oggi. Neanche in Europa. Tornano alla mente le parole del cancelliere socialdemocratico Scholz, «il pacifismo è superato» e il salto di paradigma che con lui alla guida del governo ha compiuto la Germania aumentando di 100 miliardi le spese militari.

Tornano in mente le parole dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e membro del Psoe, Joseph Borrel, che già settimane fa aveva detto che non era tempo di dialogo e che la guerra si doveva consumare fino in fondo sul campo.

Colpisce che nel momento in cui il presidente Zelensky ha avanzato timide aperture sul negoziato, lasciando intendere di essere disposto a mettere da parte la questione della Crimea, il presidente della Nato Stoltenberg lo abbia rintuzzato dicendo in sostanza “non se ne parla” (al di là dei distinguo filologici). Ora il capo della Nato incita l’Ucraina alla vittoria sul campo. Facendo eco al presidente Biden, alla sua escalation militare e semantica, come se l’obiettivo non fosse fermare la guerra ma un cambio di regime in Russia. Cambio di regime, che come abbiamo scritto tante volte, sarebbe assai auspicabile se giungesse del basso, da una iniziativa democratica e popolare. Ma se imposto in un’ottica di “esportazione della democrazia” non potrebbe che far danni come già abbiamo visto in Iraq, in Afghanistan, in Kosovo e in molti altri Paesi dove la Nato è intervenuta rispondendo al comando Usa.

In questo quadro “esultare”, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri Di Maio, per la richiesta di ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, in momento delicatissimo come quello che stiamo attraversando ci pare a dir poco inopportuno. Di Maio più atlantista di Draghi. Il che è tutto dire. È grave che un nuovo voto del Parlamento sull’invio delle armi non ci sia stato. Mentre si prospetta un allargamento della Nato e un innalzamento dello scontro internazionale, quella larga parte del Paese che non vuole la guerra e l’invio delle armi resta inascoltata e, di fatto, senza rappresentanza.

* In foto, il primo ministro svedese Magdalena Andersson alla esercitazione militare internazionale Cold response. Narvik, Norvegia, 21 marzo 2022

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Il dittatore coccolato

Turkish President Recep Tayyip Erdogan speaks during a media conference after an extraordinary NATO summit at NATO headquarters in Brussels, Thursday, March 24, 2022. As the war in Ukraine grinds into a second month, President Joe Biden and Western allies are gathering to chart a path to ramp up pressure on Russian President Vladimir Putin while tending to the economic and security fallout that's spreading across Europe and the world. (AP Photo/Markus Schreiber)

La Turchia ha bloccato la decisione iniziale della Nato di elaborare le richieste di Finlandia e Svezia di aderire all’alleanza militare, mettendo in dubbio le speranze di una rapida adesione dei due Paesi nordici. Gli ambasciatori della Nato si sono incontrati mercoledì con l’obiettivo di aprire i colloqui di adesione, lo stesso giorno in cui Finlandia e Svezia hanno presentato le loro domande, ma l’opposizione di Ankara ha interrotto qualsiasi voto, secondo una persona con conoscenza diretta della questione. La mossa solleva dubbi sul fatto che la Nato sarà in grado di approvare la prima fase delle domande di Finlandia e Svezia entro una o due settimane, come ha indicato il segretario generale Jens Stoltenberg.

Dalla Turchia giocano di sponda: un funzionario turco ha confermato che Ankara aveva frenato il processo, ma ha insistito sul fatto che la Turchia non escludeva la prospettiva che Svezia e Finlandia si unissero. «Non stiamo dicendo che non possono essere membri della Nato», ha detto il funzionario. «Solo che dobbiamo essere sulla stessa lunghezza d’onda, sulla stessa pagina, sulla minaccia che stiamo affrontando».

Tutte balle. Ancora una volta, com’è nella natura di Erdogan, la discussione non ha niente a che vedere con principi politici. Si tratta solo di decidere cosa chiedere in cambio. E in questo caso lo scambio consiste in 30 curdi accusati di terrorismo (e in Turchia è un’accusa che si leva fin troppo facilmente) che Erdogan vorrebbe ottenere. Questo è il livello della politica di Erdogan: dare per ottenere. Come avviene per le frontiere che l’Ue gli ha subappaltato in cambio di denaro sonante, come avviene per la violazione di diritti che viene volutamente non vista dai partner europei.

Erdogan è un dittatore, uno di quelli che, prima o poi, provocherà vergogna per averci avuto a che fare. In questo caos è un dittatore che chiede agli altri di essere come lui riguardo nei confronti dei curdi. Se la Svezia (e l’Ue) accettasse uno scambio del genere possiamo anche smetterla con tutte queste chiacchiere sulla “democrazia” e sulla superiorità. No?

Buon giovedì.

Il razzismo minorenne e violento è un sistema

A Pietrasanta, in provincia di Lucca, un 29enne rifugiato dal Gambia è stato accerchiato da sei ragazzini che la stampa italiana sta definendo “bulli” (e invece sono solo razzisti, cinque minorenni e tutti e sei razzisti) ed è stato pestato. I ragazzini mentre menano le mani urlano “buba” (uno dei tanti suoni onomatopeici che servono per indicare un nero come scimmia) mentre la vittima urla per il dolore dei colpi inferti e chiede di smettere.

Il video ovviamente è finito sui social perché, si sa, questo è il tempo in cui è di moda non solo essere razzisti ma perfino sventolarlo in giro. Già questo particolare dovrebbe chiarire quanto il fenomeno non sia solo criminale ma sia una cultura intrisa perfino nelle bande più giovani.

I sei denunciati ieri sono stati perquisiti nelle abitazioni dove vivono coi genitori. Sequestrati dai carabinieri gli indumenti utilizzati durante l’aggressione, i cellulari, alcuni grammi di hashish e marijuana, una mazza da baseball, manoscritti inneggianti alla violenza e contro i carabinieri. Teorizzare la violenza e scriverne è un indizio che riporta alle stragi peggiori, quelle che arrivano ad esempio dagli Usa (l’ultima qualche giorno fa a Buffalo) e che non sono figlie di un raptus ma rientrano in una teoria del razzismo e della violenza che dovrebbe invitare tutti a porre la giusta attenzione.

La notizia dei giovani razzisti, vedrete, verrà presto derubricata come “ragazzata” e non ce ne ricorderemo più. Come se davvero fosse possibile che dei minorenni possano, per gioco, mettersi a scrivere testi a favore della violenza e contro i carabinieri. Ma non si tratta di casi isolati. Come avverte la “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, recentemente inviata al Parlamento, «ancora alto è apparso l’indice di pericolosità promanante dalla diffusione online di ideologie neonaziste e suprematiste che istigano a porre in essere atti violenti e indiscriminati motivati dall’odio razziale o in linea con quella corrente ’accelerazionista’ globale che mira alla ’soluzione violenta’ come unica via per abbattere il ’sistema’».

«Il fenomeno – si legge nella Relazione – che segue negli ultimi anni un trend in costante ascesa sul panorama internazionale, ha trovato nel 2021 ulteriori conferme sul piano giudiziario, con diverse operazioni di polizia che hanno disvelato come nel nostro Paese tale propaganda virtuale pro-violence abbia contribuito ad alimentare insidiosi percorsi di radicalizzazione di singoli individui e di ristretti gruppi, facendo emergere segnali di un rischio di transizione della minaccia, anche sul piano reale». 

Buon mercoledì.

 

L’accusa per un padre di voler salvare suo figlio?

Migrants sit on a Turkish coast guard vessel after they were pulled off life rafts, during a rescue operation in the Aegean Sea, between Turkey and Greece, Saturday, Sept. 12, 2020. Turkey is accusing Greece of large-scale pushbacks at sea — summary deportations without access to asylum procedures, in violation of international law. The Turkish coast guard says it rescued over 300 migrants "pushed back by Greek elements to Turkish waters" this month alone. Greece denies the allegations and accuses Ankara of weaponizing migrants. (AP Photo/Emrah Gurel)

Un richiedente asilo afgano di 26 anni rischia fino a 10 anni di carcere in Grecia per la morte del figlio di cinque anni, annegato dopo essere salito a bordo di un gommone dalla Turchia alla Grecia con il padre a bordo l’8 novembre 2020. Hafez, lo pseudonimo di un imputato che ha parlato con Al Jazeera in condizione di anonimato, sarà processato mercoledì, accusato di aver messo in pericolo la vita di suo figlio.

Ha descritto di aver abbracciato forte suo figlio mentre la barca con 24 persone a bordo ha colpito le rocce al largo dell’isola greca di Samos nell’Egeo orientale e si è capovolta. Il ragazzo scomparve in acqua e fu poi ritrovato dalle autorità greche, incagliato sulle rive di Capo Prasso, una parte dell’isola ripida e perfidamente rocciosa, a volte indicata come “il Capo della Morte”. Hafez ha avuto difficoltà ad entrare nei dettagli di quella notte, ma ha detto di essere venuto in Europa, come hanno fatto centinaia di migliaia di altri, cercando una vita migliore per suo figlio.

La sua domanda di asilo era stata respinta due volte in Turchia e doveva essere espulso in Afghanistan. “Sono venuto qui solo per il futuro di mio figlio”, ha detto, ricordando le numerose volte che suo figlio gli ha chiesto quando poteva andare a scuola. Hafez non riesce a capire perché sta rischiando il carcere per questo tragico evento che ha visto morire suo figlio.

Il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha costantemente difeso l’approccio del suo Paese alla migrazione, negando le notizie di respingimenti illegali di richiedenti asilo alle frontiere e insistendo affinché le autorità seguano la lettera della legge. Mitsotakis ha affermato che il Paese ha una politica di immigrazione “dura ma equa” in cui i diritti umani sono pienamente rispettati. Il ministro greco per la migrazione Notis Mitarachi, parlando del caso di Hafez ai media, ha affermato che era importante che le circostanze di eventuali decessi fossero indagate a fondo. “Se c’è la perdita di vite umane, bisogna indagare se alcune persone, per negligenza o deliberatamente, hanno agito al di fuori dei limiti della legge”, ha affermato.

Ha ragione il ministro greco: bisognerebbe indagare a fondo sui bambini che muoiono nei mari intorno all’Europa oppure nei boschi della rotta balcanica. Bisognerebbe avere il coraggio di risalire a tutti i mandanti. Ci si accorgerebbe che processare un padre per la morte di suo figlio è una vigliaccheria per non guardare in alto, dove la classe dirigente degli Stati di Europa ha le mani sporche di sangue.

Buon martedì.

Nella foto: un’operazione di salvataggio di migranti nel mar Egeo

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A scuola di senso dell’orientamento

Nei sistemi d’istruzione europei, l’orientamento è uno dei metodi più diffusi per prevenire e contrastare l’abbandono precoce degli studi. Infatti, l’abbandono è spesso legato alle difficoltà riscontrate, soprattutto dagli studenti più svantaggiati, nelle transizioni tra cicli scolastici e nella gestione delle scelte riguardanti il proprio futuro. Proprio su questo intervengono le misure di orientamento.
Di recente, il tema ha acquisito nuova centralità per due ragioni: da un lato, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha previsto un investimento complessivo di 250 milioni di euro in questo settore; dall’altro, le recenti proteste organizzate dai movimenti studenteschi hanno messo in discussione l’alternanza scuola-lavoro (dal 2019 rinominata Pcto, Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) che è tra i principali strumenti di orientamento presenti nella scuola italiana.
In questo articolo indaghiamo gli aspetti principali del fenomeno e illustriamo le possibili strategie di riforma, alla luce dei risultati di una ricerca realizzata da Percorsi di secondo welfare su incarico di ActionAid Italia dal titolo Contrastare le disuguaglianze educative: partecipazione studentesca e orientamento scolastico. Per prima cosa, cerchiamo di capire meglio cos’è l’orientamento e come funziona il sistema nella pratica.

Orientamento: di cosa parliamo?
Nelle sue formulazioni più recenti a livello europeo, l’orientamento è stato definito come un processo formativo grazie al quale gli studenti acquisiscono conoscenze e competenze necessarie ad affrontare in autonomia le scelte relative alla propria carriera formativa e lavorativa. Questo processo prevede lo sviluppo di una riflessione sulle proprie aspirazioni e sui propri interessi personali utile a individuare degli obiettivi formativi e/o professionali e ad acquisire gli strumenti necessari a raggiungerli. Mentre l’idea più …

 

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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Il terrorismo bianco, il più coccolato del mondo

People hug outside the scene after a shooting at a supermarket on Saturday, May 14, 2022, in Buffalo, N.Y. (AP Photo/Joshua Bessex)

Il giovane appena diciottenne che a Buffalo, nello stato di New York, ha sparato a diverse persone imbracciando un fucile all’interno di un supermercato trasmettendo il tutto in diretta su Twitch non è un caso isolato, non è nemmeno da mettere nel cassetto degli eventi violenti che non hanno nessun filo rosso.

Ciò che è accaduto a Buffalo è terrorismo, proprio quel terrorismo su cui si spendono quintali di articoli e ore di trasmissioni nel caso in cui il terrorista abbia la pelle scura oppure parli arabo oppure sia musulmano. Solo che questo terrorismo, bianco e con le fattezze così simili alle nostre, non ci terrorizza per i danni che provoca (a Buffalo sono dieci morti) ma ci indispone perché non appartiene a “altri”, è tutta roba nostra. E poiché nel nazionalismo (o sovranismo, chiamatelo come vi pare, è sempre razzismo sotto altre vesti) i “nostri” sono tutti cari e buoni facciamo finta di nulla.

L’attentatore dichiara di essersi radicalizzato prima della pandemia inizialmente su 4chan e poi in spazi digitali ancora più estremisti. Ha letto i manifesti di altri attentatori (che ci ostiniamo a non voler mettere in fila, come i reati spia di mafia che rimangono sparsi sulle cronache locali per non prendersi la responsabilità di vedere un delitto sistemico): il terrorista si rifà soprattutto agli attentatori di Christchurch, di Poway, di El Paso e naturalmente a Anders Breivik (autore degli attentati del luglio 2011 in Norvegia), il cui nome compare anche sull’arma usata a Buffalo. Per non farci mancare nulla c’è anche il nostro Luca Traini, un altro caso su cui non c’è stato un centimetro di tutto il dibattito che avrebbe meritato.

Come già avvenuto nel caso di Christchurch l’evento è stato trasmesso live su una piattaforma streaming, come se fosse un videogioco. Come scrive Leonardo Bianchi in un importante articolo per Valigia blu: «Uno degli effetti più terribili del terrorismo bianco è quello di spaccare le comunità al proprio interno, erodendo quella zona grigia di tolleranza che rende possibile la convivenza pacifica tra persone di diversa estrazione sociale, religiosa, politica e culturale. È un equilibrio precario, sottoposto ad uno stress incredibile in condizioni normali; figuriamoci in un contesto inquinato da discorsi tossici e atti di violenza».

E sapete qual è la teoria alla base di tutto: la “sostituzione etnica” che tanta parte occupa nella propaganda di alcuni partiti. Insomma, questi sono gli esecutori ma non è difficile immaginare i mandanti. E a me pare una questione politica enorme su cui anche nel cosiddetto centrosinistra sembra regni la paura di parlare.

Buon lunedì.

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Arte contro la guerra

A work called 'Das Einzige Licht' (The Only Light) by German artist Anselm Kiefer is seen on display at Sotheby's auction rooms in London, Monday, Oct. 13, 2008. The work is up for auction in Sotheby's Contemporary Art Evening on Oct. 17 and is estimated at GBP350,000-450,000 (USD 600,000-772,000). (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)

Dopo Bucha e Mariupol ci sarà ancora chi fa poesia? L’oscenità dei traumi della guerra per chi li ha vissuti in prima persona rischia di produrre una anestesia affettiva, una ablazione permanente della fantasia che può uccidere nella culla l’impulso artistico. In altri individui toccati più tangenzialmente, ma comunque coinvolti in eventi tragici, la vitalità può subire una sollecitazione orientata a cercare di dare un senso a quanto di primo acchito sembra non averlo, per rappresentare quanto sembra non rappresentabile: la sfida ad affrontare il dolore immane e drammi sconvolgenti e inenarrabili non può essere elusa da nessuno ma soprattutto dagli artisti. Questi ultimi non possono usare le parole fredde dei commentatori e indulgere alle analisi asettiche dei geopolitici, ma devono ricreare in qualche modo in se stessi la sofferenza che traspare dalle immagini della guerra per trasformarla in un dolore cui si possa attribuire un significato senza volerlo cancellare dalla coscienza.

È quest’ultima la strada percorsa da artisti come Anselm Kiefer: negli anni Ottanta l’artista tedesco approda, nel ricordo dell’olocausto, all’opera colossale che occupa gli spazi come una mostruosa metafora della vergogna, del senso di colpa, o del dolore. Il gigantismo tragico maschera l’impotenza della denuncia che pure storicamente si era avvalsa delle eccezionali capacità espressive di Francisco Goya, che fra il 1810 e il 1820 incise I disastri della guerra, e di Pablo Picasso con Guernica (1939); quest’ultima opera è diventata meta di attrazione turistica a Madrid nonché oggetto di dotte disquisizioni estetiche. Il fare arte, che non si limiti a cercare nella bellezza la consolazione per anime inquiete e tormentate, non riesce da solo a cogliere e fermare quel nucleo di religiosità che si lega alla pulsione di annullamento rivolta contro la realtà umana. È questo nucleo la radice nascosta della guerra per quella mentalità che ritiene il dogma e l’ideologia, il delirio imperiale e onnipotente più importante delle vite e dei sogni dei bambini e delle donne, degli anziani inermi che non si possono difendere.

I soldati sono considerati solo carne da cannone destinati ad immolarsi o perché costretti o nel nome di un nazionalismo cieco, di un eroismo inutile se fine a se stesso. L’arte non deve chiudersi nella torre del silenzio rappresentata in un quadro di Giorgio De Chirico del 1932: essa deve affiancarsi inevitabilmente ad un’azione politica a sostegno dei diritti umani fra cui quello fondamentale è il diritto alla vita e inserirsi in una prassi di trasformazione della realtà umana che tenga conto della dimensione irrazionale. Rivendicare, nel contesto attuale che vede la recrudescenza di conflitti armati, e rappresentare artisticamente i valori del pacifismo può avere il significato di…

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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Quando non si deposero i libri nella Sarajevo assediata

Non solo armi
1.425 giorni d’assedio, 11.541 civili uccisi, di cui 1.601 bambini, e 50mila feriti. Basterebbero questi numeri per restituire l’entità della tragedia che ha colpito la popolazione di Sarajevo dal 5 aprile 1992 fino al tardo febbraio del 1996. Per circa quattro anni la capitale bosniaca è diventata una città-ghetto, spaccata in due da check-point improvvisati e divisa secondo quartieri “etnicamente puri”. Tutt’oggi i lasciti dalla follia nazionalista sono visibili e palpabili attraverso i fori degli obici che ancora marchiano molti degli edifici popolari di Sarajevo. Queste stesse cicatrici urbane hanno acquisito ormai la valenza di tratti identitari per la comunità locale: veri e propri luoghi di memoria non istituzionalizzati e inseriti nella morfologia urbana. Luoghi, come suggerisce l’etnologo Marc Augé nel suo saggio Nonluoghi (Elèuthera), immersi in un «principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che osserva». Eppure, analizzando bene, oltre ai lasciti divisivi del conflitto, la città si apre a tutt’altra narrazione: amalgama la resistenza con l’arte, traduce la voglia di sopravvivere nelle espressioni culturali. Se ricordare le vittime del conflitto è un esercizio di riconoscimento sociale fondamentale, allora altrettanta importanza dovrebbe avere rievocare le memorie di chi ha resistito affinché tale diritto potesse prendere forma. Insomma, non ci sarebbero martiri se non ci fossero stati i resistenti. A Sarajevo, in quei 1.425 giorni, la resistenza è stata capace di adattarsi al contesto e di rigenerarsi plasticamente davanti alle tragedie umanitarie. Oltre alla risposta militare i sarajevesi hanno trovato nella sinestesia dell’arte uno spazio di sicurezza e di rivalsa, attraverso il quale opporre al primitivismo delle armi l’armonia della cultura.

Memorie dell’assedio
Durante l’assedio l’afflato artistico coinvolse coralmente una buona parte della popolazione, la quale contribuì alla grande produzione culturale bellica. Secondo i dati riportati dalla piattaforma multimediale del collettivo Fama (Federal agriculture and marketing authority) in quel periodo furono organizzati 3.102 eventi aggregativi, di cui 177 mostre nelle sei gallerie cittadine, 48 concerti della sola filarmonica di Sarajevo, 263 libri pubblicati, 156 tra documentari e corti e 182 première, con più di 2mila spettacoli visti da oltre mezzo milione di spettatori. Alla violenza dei cetnici asserragliati tra le montagne, i sarajevesi opposero la potenza della parola, la distorsione…

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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