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Potere di veto all’Onu, un’arma contro la pace

Ukrainian Ambassador to the United Nations Sergiy Kyslytsya holds up a copy of the charter of the United Nations while speaking during an emergency meeting of the General Assembly at United Nations headquarters, Wednesday, March 2, 2022. (AP Photo/Seth Wenig)

Il meccanismo di dialogo e rappresentazione delle Nazioni Unite, costituito dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale, è ritenuto insufficiente da un numero sempre maggiore di Paesi aderenti all’Onu. Lo scorso 26 aprile l’Assemblea generale del Palazzo di vetro ha adottato, tramite consenso e dunque senza necessità di votare, una risoluzione (la A/Res/76/262) in cui viene messo in discussione in maniera condivisa e concreta il meccanismo di utilizzo del veto da parte dei 5 Stati membri permanenti del Consiglio che sono Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Federazione Russa e Repubblica popolare cinese. La risoluzione prevede che quando uno dei 5 utilizzi il potere di veto, il segretario generale convochi entro dieci giorni lavorativi una sessione dell’Assemblea così da discutere circa l’oggetto della votazione bloccata dal veto. Inoltre, la stessa Assemblea richiede al Consiglio che entro 72 ore dalla sessione straordinaria questo presenti un report in cui descriva l’uso del veto in questione.

La risoluzione in questione …

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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Diplomazia e rinnovabili per costruire la pace

Non nascondo la mia preoccupazione per la posizione dell’Italia sul conflitto in Ucraina. L’invio di armi non può e non deve essere la soluzione, che invece va trovata in un rafforzamento delle trattative diplomatiche. La continua escalation della tensione nelle dichiarazioni dei leader e nelle azioni, penso al dispiegamento di mezzi militari al confine finlandese o alle esercitazioni di militari italiani in Ungheria e Bulgaria, non sono certo rassicuranti.

Per questo è fondamentale che sia la via diplomatica a prevalere e ad oggi non sembra che si stia facendo abbastanza, in particolare l’Italia che, come ho ribadito in occasione dell’intervento di Mario Draghi al Parlamento Ue, a dispetto della posizione di prima linea da lui rivendicata nelle trattative diplomatiche, si è finora autocondannata all’invisibilità internazionale. In che modo l’Italia sta favorendo il dialogo e la pace in questo momento? Draghi…

L’autrice: Eleonora Evi è europarlamentare e co-portavoce nazionale di Europa verde

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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L’unione fa la forza, della sinistra

A demonstrator hols a board reading: 'neither Macron nor Le Pen', during a protest against far-right in Paris, Saturday, April 16, 2022. Far-right leader Marine Le Pen is trying to unseat centrist President Emmanuel Macron, who has a slim lead in polls ahead of France's April 24 presidential runoff election. (AP Photo/Christophe Ena)

Le presidenziali francesi sono state detronizzate dal rango di elezione regina. Rieletto presidente lo scorso 24 aprile, Emmanuel Macron non è certo di ottenere una maggioranza in Assemblea nazionale alle elezioni legislative che si terranno in due turni il 12 e il 19 giugno. Cinque anni fa, la sua vittoria parlamentare era stata un gioco facile, come è accaduto a tutti i presidenti eletti dal 1981: La République en marche (Lrem), il suo “partito”, aveva ottenuto una confortevole maggioranza assoluta. Ma oggi l’impopolarità di Macron è al suo apice. È il risultato di cinque anni di macronismo, un mix di politiche neoliberiste, di disintermediazione (nessun dialogo con i sindacati), di autoritarismo e di politiche aggressive nei confronti dei ceti popolari. Nei fatti, Macron è stato rieletto alle recenti presidenziali solo perché si è trovato a fronteggiare al secondo turno Marine Le Pen, leader del Rassemblement national, un “potente repellente” per l’elettorato di sinistra che ha votato Macron pur di sbarrare la strada verso la presidenza all’esponente dell’estrema destra francese.

Le elezioni legislative del 2022, come dicevamo, non assomiglieranno a quelle del 2017. Il 19 aprile, fra il primo e il secondo turno delle presidenziali, Jean-Luc Mélenchon ha chiesto ai cittadini francesi di essere eletto Primo ministro. Il leader del partito populista di sinistra, la France insoumise, sconfitto al primo turno con il 22% dei voti, ha detto di voler trasformare le politiche in una sorta di “terzo turno” delle elezioni presidenziali. Dal primo turno delle presidenziali è emersa…

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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«Spasiba», viaggio nell’Ucraina ferita

The situation near the cities of Irpin and Bucha, west of Kyiv, Ukraine, civilian refugees cross a destroyed bridge. Continued heavy fighting in Irpin, Bucha during the Russian invasion, as Russia invaded Ukraine on February 24, pictured on March 11, 2022. Photo/Pavel Nemecek (CTK via AP Images)

La terza missione #Safepassage dell’ong Mediterranea saving humans parte con sei van e un furgone, da Roma, Venezia, Milano, Bologna, con più di otto tonnellate di aiuti umanitari. Proprio a Venezia in un autogrill, ad aspettare la carovana, c’è Roxana, la nostra interprete. Lei vive in Italia da venti anni, ma dall’inizio della guerra in Ucraina si è attivata per aiutare i suoi compaesani. Insieme a lei Valentina, un’altra signora ucraina. Durante il viaggio, Valentina ci racconta la sua esperienza, Roxana traduce: «Sono in Italia da due settimane, sono rimasta per quasi un mese in un bunker durante i bombardamenti, appena c’è stato un momento di tregua sono riuscita a fuggire. A Kiev ho tutta la mia famiglia, mio marito, i miei due figli, la mia cagnolina Giraldina, sto tornando da loro. Non riesco a rimanere qui, preferisco morire nel mio Paese piuttosto che lontano da casa».

Le sue parole cadono nel silenzio del van. Al confine tra la Polonia e l’Ucraina ci sono code chilometriche, la maggior parte delle macchine portano la targa ucraina; stanno rientrando nel Paese, tante persone la pensano come Valentina. Entriamo a Leopoli, per alcuni di noi, questa è la seconda o la terza volta dall’inizio del conflitto. Con il tempo la geometria della città si fa più affilata e militarizzata, ancora più checkpoint, piramidi di sacchi di sabbia moltiplicate, così anche le croci di ghisa sorvegliate da guardie militari o civili. Ci spingiamo fino a Kiev, il tragitto è saturo di checkpoint ufficiali o auto organizzati, le strade traforate dal passaggio dei convogli militari che ci sfrecciano davanti. Nelle città di Bucha e Irpin, il tempo sembra cristallizzato, i segni della devastazione ritornano costantemente. Gli scheletri degli edifici, le vetrate dei locali infrante nel vuoto assoluto della sala interna dei locali, i parcogiochi devastati, le strade bucate, i cavalcavia bombardati, i racconti delle fosse.

Oltre gli angoli di una città martoriata, quello che colpisce è la consistenza dell’aria: pressante, concentrata. La sera arriviamo nella capitale, ad attenderci al cancello del centro salesiano che ci ospita, vediamo un signore con un cane. Valentina esce di corsa dal van, abbraccia suo marito, Giraldina si muove a festa intorno a loro, si guardano e…

*L’autrice: Sara Alawia fa parte della delegazione di Casetta rossa di Roma che partecipa alla missione #Safepassage organizzata dall’ong Mediterranea saving humans

Il reportage prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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Lavoratori eppure poveri

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 10 Novembre 2021 Roma (Italia) Cronaca : Superbonus per la ristrutturazione edilizia in manovra Nella Foto : un cantiere edilizio sal centro di Roma Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse November 10, 2021 Rome (Italy) News : economic maneuver for the building trade In the Pic : building site

Prima del 2020 un lavoratore su 8 era in povertà lavorativa. Nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era a rischio di povertà, oltre 2,5 punti percentuali sopra la media europea. I working poor sono passati dal 10,3% al 13,2% della forza lavoro di riferimento tra il 2006 e il 2017. Sono questi alcuni dati contenuti nel rapporto “Disuguitalia: ridare valore, potere e dignità al lavoro”.

In Italia si lavora e si rimane poveri, anche da lavoratori. Quasi un lavoratore su 5 percepiva nel 2017 una retribuzione bassa con il rischio più elevato per gli occupati in regime di part-time. Si conferma la maggiore vulnerabilità delle donne: il lavoro povero è più diffuso nel segmento femminile della forza lavoro con la quota delle lavoratrici con bassa retribuzione attestatasi al 27,8% nel 2017 a fronte del 16,5% tra i lavoratori uomini. Un lavoratore su otto vive in una famiglia con un reddito disponibile insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base.

Il report scritto da Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia, racconta che nel Paese esiste un serio problema di dignità del lavoro. Se un impiego non basta per sopravvivere significa che il mercato serve a una parte sola. È qualcosa che dovrebbe sollevare un dibattito politico enorme e invece rimarrà incagliato tra le pagine dei giornali e nella desolazione delle famiglie.

Oxfam critica anche il Pnrr, che «assomiglia più a una sommatoria di interventi che a un’organica agenda di sviluppo» e manca di una solida visione di politica industriale. I comparti su cui si punta sono costruzioni, edilizia, commercio: quelli in cui i posti di lavoro tendono ad essere poco qualificati, precari e scarsamente pagati. La maggior parte delle risorse in capo al ministero dello Sviluppo è destinata a incentivi alle imprese senza condizionalità in termini di innovazione, sostenibilità, tenuta dei livelli occupazionali e qualità del lavoro.

L’articolo 36 della Costituzione dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’articolo 36 dovrebbe campeggiare sui programmi elettorali dei partiti per le prossime elezioni.

Come ci si salva da un lavoro che non fa uscire dalla povertà? Oxfam propone di:

  • limitare l’uso di deroghe – da parte delle stazioni appaltanti che struttureranno i bandi del Pnrr e del Piano nazionale degli investimenti complementari (Pnc) – al vincolo imposto agli operatori economici aggiudicatari di destinare ai giovani sotto i 36 anni di età e alle donne almeno il 30% dell’occupazione aggiuntiva creata in esecuzione del contratto, per evitare il rischio di veder perpetuate vulnerabilità esistenti, soprattutto con riferimento alla nuova occupazione femminile;
  • garantire un robusto monitoraggio del rispetto della clausola occupazionale prevedendo flag specifici per le nuove assunzioni da parte degli aggiudicatori dei bandi del Pnrr e del Pnc all’interno del sistema delle comunicazioni obbligatorie;
  • ampliare le condizionalità alla qualità del nuovo lavoro creato -grazie ai bandi del Pnrr e del Pnc e agli incentivi pubblici alle imprese – per garantire una più equa condivisione, tra i fattori produttivi, dei benefici ricavati dalle nuove attività finanziate o supportate dall’operatore pubblico;
  • disincentivare l’utilizzo dei contratti a termine, con previsione di causali stringenti e circoscritte e introdurre limitazioni all’esternalizzazione del lavoro mediante appalti a imprese multiservizi;
  • previo accordo tra le parti sociali, sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale e datoriale, estendere per via legislativa l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati tra soggetti maggiormente rappresentativi;
  • introdurre un salario minimo legale, per colmare gli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi e rafforzare il potere negoziale dei lavoratori autonomi che condividono alcune caratteristiche con i lavoratori subordinati. Per stabilire la definizione della retribuzione da assumere come soglia e l’ammontare della soglia stessa, è necessaria l’istituzione di un organo collegiale (con rappresentanza paritetica delle parti sociali), titolare anche della verifica e della definizione di criteri di aggiornamento periodico dell’ammontare della misura da attuare tenendo conto della congiuntura economica, dell’andamento dei salari contrattuali e dell’evoluzione del sistema tax-benefit.

Buon venerdì.

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Qualcosa di sinistra

Dalla parte degli studenti, che chiedono formazione di qualità, giustizia sociale e lotta al climate change. Jean-Luc Mélenchon in Francia è riuscito a interpretarne le istanze, diventandone un punto di riferimento.
Tanto che, lo scorso aprile, al primo turno delle presidenziali i francesi tra i 18 e i 34 anni hanno votato in maggioranza per lui. Anche nel 2017 l’ex ministro del governo Jospin e oggi leader di France insoumise era stato il più votato dalle nuove generazioni.
Ora la tendenza si è consolidata, con tanti giovani politici come Mathilde Panot e l’europarlamentare Manon Aubry (che compare con lui in copertina) che sono diventati battaglieri e validissimi “quadri”di partito, superando il maestro.

Qualcosa di simile era riuscito al vecchio socialista Bernie Sanders negli Stati Uniti, gettando le basi per un nuovo patto fra generazioni, spezzando la logica che nelle società capitalistiche le contrappone in un feroce vita mea-mors tua.
Mélenchon non si accontenta però e punta a mandare a gambe all’aria anche altri tabù. Dopo aver sfiorato per un soffio il ballottaggio con Macron alle recenti presidenziali francesi, non solo si candida a primo ministro alle legislative di giugno, ma – ecco il punto che più ci interessa – per questo «terzo turno» è riuscito a riunire la sinistra in un “campo largo”, che va dai verdi, ai socialisti, ai comunisti, superando vecchie reciproche pregiudiziali, lanciando una ambiziosa sfida: costruire una articolata federazione, un nuovo Front populaire (ribattezzato Union populaire) che non si limiti ad essere un mera sommatoria di sigle.

Il che potrebbe avere molto da dire anche alla frammentata sinistra nostrana? E anche al Pd che si attesta al 21%, ma arranca nel progetto di realizzazione di un “campo largo”? Certo la situazione in Francia è ben diversa da quella italiana. Le controriforme liberiste di Macron hanno fatto crescere negli ultimi 5 anni un vasto malcontento popolare Oltralpe e Mélenchon ha saputo farsene interprete rimettendo al centro la questione sociale, smascherando il finto interesse per i ceti popolari delle destre (che nonostante gli slogan ripropongono le medesime ricette classiste dei liberisti).

Per la rielezione di Macron come è noto, molto ha contato il voto utile. Alla richiesta di fare “barrage” contro l’ultra destra di Le Pen i francesi per fortuna hanno risposto. Ma lo storico partito socialdemocratico Parti socialiste (Ps), cannibalizzato dal macronismo, è ridotto ai minimi termini. E forse anche per questo ha accettato di federarsi. Ma è interessante tuttavia che abbia accettato di farlo aprendo a un programma di radicale rottura che si oppone al neoliberismo che ha contribuito alla devastazione dell’ambiente e alla crescita delle disuguaglianze. Il programma lanciato da Mélenchon, infatti, mette al centro i temi della democrazia, della costruzione della pace e del disarmo, del lavoro (salario minimo, pensione a 60 anni ecc), della giustizia ambientale e sociale, dell’antirazzismo, della qualità della vita e della salute intesa come benessere più complessivo.

Alla piattaforma lanciata dal leader di France insoumise hanno detto sì i comunisti guidati da Fabien Roussel, i verdi di Yannick Jadot e i socialisti. Lo scorso 6 maggio, il Consiglio nazionale del Partito socialista francese ha approvato a maggioranza la proposta di entrare nella nuova formazione. Se la sindaca di Parigi Anne Hidalgo (che nella tornata delle presidenziali ha preso solo l’1,75% dei voti) aveva detto no all’alleanza dei socialisti con Mélenchon, un sostegno era arrivato invece da una socialista di spicco come Ségolène Royal che ha dichiarato di aver votato per lui.

Certo la strada della federazione a sinistra è ancora in larga parte da costruire. Ma qualcosa di importante è già avvenuto. Lo raccontiamo e approfondiamo su questo numero di Left, con servizi da Parigi. In collaborazione con il quotidiano francese l’Humanité vi proponiamo una ampia intervista al leader di Union populaire. Ognuno potrà farsi una propria idea, riguardo ai contenuti e anche rispetto ai toni e a certe venature populiste e ad alcune formulazioni un po’ “d’antan” che caratterizzano il suo eloquio. Ma sono altresì convinta che quel che sta accadendo in Francia sia un fatto di spicco per il futuro della sinistra in Europa e da raccontare e indagare sul piano giornalistico.

Anche per le ricadute positive che potrebbe avere nei vari Paesi e per quel che sta muovendo in Italia. Per esempio, l’ex magistrato e ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, leader di Dema guarda all’operazione di Mélenchon con interesse, candidandosi a federatore della sinistra radicale in Italia, lanciandosi in una campagna elettorale dal basso. E chissà cosa pensano di quel che sta accadendo a sinistra in Francia Letta da sempre di casa a Parigi e vicino a Macron, ma anche Bersani e i fuoriusciti del Pd che si apprestano a rientravi. Chissà che ne pensano le frange più di sinistra dei M5s. Sarà interessante seguire e intervenire nel dibattito.

L’editoriale è tratto da Left del 13 maggio 2022 

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Jean-Luc Mélenchon: A sinistra, ora tutto è possibile

Far-left leader Jean-Luc Melenchon speaks during a rally at the Prado beach in Marseille, southern France, Sunday, March 27, 2022. Polling in third or fourth place, Melenchon aimed to unite left-leaning supporters after the brutal running down of the French Socialists in recent years. (AP Photo/Daniel Cole)

Il candidato dell’Union populaire ha lanciato un appello al suo “campo largo” per trasformare le elezioni legislative in un “terzo turno” delle presidenziali e arrivare ad eleggere un proprio primo ministro. Dopo la sconfitta di Marine Le Pen, Jean-Luc Mélenchon, leader di France insoumise scommette che non ci sarà nessun regalo per un presidente così «mal eletto» come Macron e invita a «radunare il massimo delle forze a sinistra» per vincere. Un risultato lo ha già ottenuto: per la prima volta verdi, socialisti, comunisti sono riuniti in un progetto politico con obiettivi in comune.

Mélenchon, lei chiede di essere eletto primo ministro. Come convincere gli elettori che alle legislative una vittoria è possibile?
Le elezioni presidenziali hanno ridisegnato il paesaggio politico in Francia facendo emergere tre blocchi politici più o meno numericamente equivalenti: il blocco liberale, che include la destra tradizionale, quello di estrema destra, e infine quello che abbiamo chiamato il blocco popolare. Quest’ultimo è il risultato di una strategia di lungo corso. L’inizio risale al Front de gauche (Fronte di sinistra) del 2012. Ne è seguita una costruzione paziente che ha a poco a poco aggregato varie fasce della popolazione intorno alle idee del programma “l’Avenir en commun”. Alla base c’è un blocco sociale, con al centro i ceti popolari. Avanziamo proposte di superamento di questo iniquo ordine capitalistico. Le elezioni presidenziali non hanno fatto nascere una vera maggioranza politica. Tutte le spie che indicano una forte crisi democratica, ecologica e sociale restano accese. Chi ha appoggiato la mia candidatura alle presidenziali è rimasto insoddisfatto perché abbiamo perso l’occasione di andare al ballottaggio per 420mila voti. Potevamo farcela se ci fossimo presentati insieme al Partito comunista. Ma questa frustrazione non ci lascia rassegnati perché con questo “terzo turno” la lotta riprende. Possiamo conquistare il potere. La posta in gioco è enorme, lo…

Traduzione di Catherine Penn.
Intervista pubblicata il 28 aprile 2022 sul quotidiano francese l’Humanité – partner, come Left, di Media Alliance

L’intervista prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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In Palestina i giornalisti cadono dalle scale

La giornalista palestinese Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata uccisa giovedì 11 aprile durante un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nei territori occupati della Cisgiordania. Indossava il giubbotto con la scritta “Press”: era difficile non riconoscerla.

Della sua morte circolano dei video che mostrano chiaramente che non era in corso nessun «conflitto a fuoco». Il proiettile chirurgicamente piantato nell’unico posto non protetto dal giubbotto e dall’elmetto indica una precisa volontà.

Le forze israeliane hanno occupato l’abitazione di Shireen Abu Akleh parlando di «assembramento non autorizzato». Perfino piangere i morti è vietato, se si è palestinesi. Israele dal canto suo ha prima parlato di un «proiettile vagante sparato da palestinesi» (che ricorda molto il sasso che avrebbe ucciso Carlo Giuliani a Genova durante il G8). Poi, resosi conto dell’assurdità degna di un Putin qualsiasi, il tenente generale Aviv Kochavi ha detto che ora non è chiaro chi abbia sparato il colpo che ha ucciso Abu Akleh. Omar Shakir, direttore israeliano e palestinese di Human rights watch, ha detto che l’organizzazione sta esaminando l’uccisione di Abu Akleh, ma ha denunciato le indagini israeliane come «tentativi di despistaggio».

Uccidere una giornalista è un crimine di guerra, si sa, soprattutto di questi tempi. Eppure la notizia in Italia è stata data con una timidezza immorale, con una sconvolgente ritrosia a chiamare Palestina la Palestina, a raccontare di un invaso e un invasore, un aggressore e un aggredito. La boria bellicista che in questi mesi inonda i cuori di molti nostri giornalisti ieri è stata insolitamente fiacca. I nemici dell’equidistanza ieri sono stati tutti talmente equidistanti da avere sorvolato un assassinio.

Peccato solo che ci siano i video dell’accaduto altrimenti sono sicuro che qualcuno avrebbe raccontato in scioltezza che Shireen Abu Akleh fosse semplicemente caduta dalle scale.

Buon giovedì.

Asmaa Al Natour: In Europa giocano con le nostre vite

Asmaa Al Natour (con il cartello a sx)

«Non so scrivere su Damasco senza che si intrecci il gelsomino sulle mie dita/Non so pronunciare il suo nome senza che sulla mia bocca si addensi il nettare dell’albicocca, del melograno, della mora e del cotogno/Non so ricordarla senza che si posino su un muretto della memoria mille colombe… e mille colombe volano». Rifugiata da sette anni in Danimarca con suo marito Omar, Asmaa Al Natour, cinquant’anni, insegnante di arabo, dissidente del regime di Assad, adora i versi di Nizar Qabbani, monumento della letteratura siriana. Li raggiungiamo al telefono, lei sospira ricordando quei versi perché sa che non può tornare nel suo Paese senza rischiare di venire arrestata, torturata, uccisa. Davanti ai loro occhi però c’è uno spettro: una sentenza che deciderà della loro sorte. Dopo ben sette anni, e quando le cose cominciavano ad andar bene, Asmaa e Omar sono stati costretti intanto a lasciare la loro casa di Holsterbro, per essere alloggiati all’Asylum Center, di fatto un centro di prima accoglienza, ricacciati indietro nella loro storia, scritta anche sulle pagine di quel faticosissimo percorso d’integrazione. Dal 2020 al 2021 la socialdemocratica Danimarca ha revocato il permesso di soggiorno a centinaia di rifugiati, con la palese menzogna secondo cui la Siria sarebbe diventato ormai un posto sicuro, dove poter tornare in piena libertà e senza rischi. «Una pazzia, una bugia gigantesca, andremmo incontro alla morte, anche Amnesty international ha detto che non ci sono le condizioni per tornare in Siria», dice Asmaa, smarrita, incredula, con ancora nelle orecchie i fischi dei bombardamenti su Al Yarmouk, appena fuori Damasco, il più grande campo profughi palestinese del Medio Oriente, dove lei si recava tutte le mattine dai suoi scolari.

Asmaa, tu ha ribadito ai giudici che siete dissidenti, che rischiate la vita?
Certo, abbiamo raccontato tutto, e loro lo sanno benissimo chi siamo. Ma non gli importa nulla, siamo soltanto dei numeri. Io sono un’insegnante di arabo, mio marito, che si è ammalato di cuore e ha avuto poi un ictus per questa odissea che stiamo vivendo, era un funzionario del ministero dell’Agricoltura. Vorrei vedere loro al nostro posto, costretti a fuggire, la nostra identità umiliata. Io non sono una rifugiata, non c’era scritto questo sui miei documenti quando sono venuta al mondo. C’erano scritti il mio nome e cognome, non “rifugiata”.

Avete preso parte alle manifestazioni di protesta pacifiche, quando scoppiò la rivolta?
Sì, da subito. Come tantissimi di noi, contro quel regime sanguinario, anche i miei due ragazzi… Ed è per questo che abbiamo avuto dei martiri nella nostra famiglia, alcuni assassinati sotto tortura. Un giorno ci riportarono il corpo di un nostro nipote, dicendoci che avremmo dovuto ringraziarli per averci dato la possibilità di avere il cadavere.

Che cosa facevate prima di essere relegati all’Asylum Center? E i tuoi figli?
Dopo tanta fatica e lacrime eravamo riusciti ad aprire un negozietto di prodotti arab, cibi etnici, dolci. I miei ragazzi hanno 25 e 21 anni, si chiamano Hani e Wessam, studiano entrambi informatica, uno all’università, l’altro ha scelto un percorso più veloce. Loro possono restare, per questo motivo, in Danimarca.

Ma che cosa faranno le autorità danesi nell’eventualità di una sentenza negativa?
Non ci cacciano con la forza, ma fanno pressioni. Ci metteranno in un campo di espulsione, che è come una prigione. Arrivi a un punto in cui dici: non ce la faccio più. E magari parti. Non sapremmo dove andare, non abbiamo vie d’uscita.

È terribile questo, Asmaa, e accade dopo sette anni e soprattutto dopo il viaggio dalla Siria a qui che possiamo soltanto immaginare…
Ti dico solo che siamo anche passati dalla Libia, e prima nel deserto al confine, dove ci derubarono di tutto. Infine su quella barca di legno, disperati, increduli. Restammo in mare tre giorni, fino a che una nave  commerciale ci avvistò e ci portò fino in Sicilia. Da lì a Milano, e poi verso il nord Europa. Siamo passati dalla guerra dove siamo stati vicini alla morte, a un viaggio durato un mese e mezzo dove la morte è stata sempre accanto a noi, a due passi da noi. Mio figlio più grande era già in Danimarca, partito con un gruppo di ragazzi siriani e uno zio, fuggito sia perché in età per fare il militare e sia perché aveva partecipato alle manifestazioni. Io e Omar partimmo invece con nostro figlio più piccolo. Mi sono detta: meglio morire in mare che essere presi dal regime.

Chi è Assad per te?
Il presidente di nessuno, si prende in giro da solo

Non hai paura? Anche in Danimarca, come altrove, è pieno di agenti dei servizi segreti e di gente collegata al regime.
Dopo un’intervista ad Al Jazeera, a ottobre scorso, ho ricevuto minacce di morte. Ma non mi sento in pericolo, e sono forte. So che saremo noi a vincere. Ma qui in Europa devono smetterla di giocare con le nostre vite.

Che sentimenti provi in queste ore, osservando ciò che sta accadendo in Ucraina?
Sento un grande dolore. Mi vengono in mente le scene della nostra guerra, in Siria, quando la gente scappava, le file di automobili sotto le bombe, la morte di tanti innocenti per colpa delle armi chimiche. È terribile. La nostra casa, la scuola, tutto è stato bombardato dai missili di quel criminale di Bashar al-Assad che è uguale a Putin.

 

* Aggiornamento dell’11 maggio 2022 *
Le autorità danesi hanno infine prolungato il permesso di soggiorno per Asmaa e Omar

 

In foto, Asmaa Al Natour (con il cartello a sinistra)

 


L’articolo è tratto da Left dell’11-17 marzo 2022 

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Afghanistan, la fine di un’illusione

Herat, Afghanistan - September 16, 2021: A elementary girls school in Herat. Photo by: Kaveh Kazemi

«Il primo talebano con cui ho parlato l’ho incontrato accanto a un carro armato russo», un residuato bellico dell’era dell’occupazione sovietica.
«Aveva vissuto in Iran per alcuni anni e recentemente era tornato in Afghanistan. Si lamentava del fatto che i talebani non pagavano e aveva intenzione di tornare in Iran. A causa del blocco dei beni dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti, le casse del nuovo governo sono vuote e i talebani hanno pochi soldi in mano». A parlare è Kaveh Kazemi, fotoreporter iraniano che per decenni ha viaggiato in mezzo mondo, divenendo una firma dell’agenzia Getty Images. Kazemi dedica il suo ultimo libro all’Afghanistan tornato in mano ai talebani. Il libro, che in circa 170 pagine raccoglie una selezione di immagini dal suo recente viaggio nel Paese, si intitola Afghanistan. Return of the Taliban. A nation betrayed ed è uscito, con testi sia in inglese che in persiano, con l’editore iraniano Nazar art publication ed è disponibile sul sito dell’olandese Idea Books.
«Lo stesso pomeriggio – prosegue Kazemi , nel suo racconto del viaggio dello scorso settembre – mi sono imbattuto in un gruppo di talebani, davanti all’ufficio del governatore» di Herat. A colpirlo in particolare uno di loro che, sandali ai piedi, era tutto concentrato sul proprio smartphone e immerso nei social. Era seduto «sul tetto di un Humvee, un mezzo militare americano, il cui lunotto antiproiettile era stato frantumato da colpi di arma da fuoco o lanciarazzi dei talebani. Aveva un atteggiamento orgoglioso. Quella foto, a mio avviso, simboleggia l’inutilità di 20 anni di guerra e l’umiliazione subita dagli americani» nel loro precipitoso ritiro del 15 agosto 2021. Il racconto per immagini di Kazemi ci porta anche nel Qargha Park, un parco per divertimenti appena fuori Kabul, dove un gruppo di talebani si divertiva con le attrazioni del posto: in particolare, un’altalena gigante a forma di nave dei pirati. Fra di loro, protetto da una scorta di uomini delle forze speciali note come Badri 313, anche il vice ministro dell’intelligence. Andando su e giù su quella nave dei pirati, guardie del corpo e delle forze speciali «erano più eccitate dei bambini. Quei combattenti avevano probabilmente vissuto per anni tra grotte e montagne e ora, per la prima volta nella loro vita, stavano facendo un giro in un parco divertimenti».
Della tappa a Kandahar, la storica roccaforte talebana nel sud, il fotografo ricorda in particolare l’enorme pista di un aeroporto militare costruito dagli americani, ormai deserta e inutile, e «la povertà e la devastazione causata dalla guerra» in quella regione, rimasta particolarmente arretrata. E del ritorno via terra alla frontiera con l’Iran, segnala «la lunga e bellissima strada» che ricordava il film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf Ritorno a Kandahar: 5-600 chilometri costruiti prima dai russi e poi dagli americani, ma cosparsa dei danni causati dalle bombe dei talebani» e che loro stessi dovrebbero ora riparare.
Il racconto di Kazemi è essenziale e attento ai dettagli come le sue foto, ma a parlare molto di più sono appunto le immagini: scatti che colgono gli sguardi (in primo luogo degli stessi talebani, i quali «amano essere fotografati») e i contrasti di un Paese il cui destino è stato bruscamente cambiato nel giro di quei pochi giorni dello scorso agosto.
A completare la narrazione è un testo di Catalina Gomez Angel, giornalista di origine colombiana che ha coperto il Medio Oriente e l’Asia Centrale per vari media internazionali, fra i quali La Vanguardia di Barcellona e il canale in spagnolo di France24. Cosa c’era dietro quelle immagini?, si chiede la giornalista, che è anche moglie di Kazemi e con lui ha condiviso quel viaggio. «C’era speranza tra coloro che celebravano la fine della guerra» e la fine degli attacchi aerei sulle regioni del sud. «Alcuni erano indignati per il modo in cui il presidente Ashraf Ghani aveva lasciato il Paese, altri erano felici che gli americani se ne fossero andati… C’era molta disillusione, disperazione, paura, sfinimento, angoscia, il senso di essere stati traditi e, soprattutto, molta tristezza, anche se non sempre per le stesse ragioni». E ancora, la disperazione di chi aveva contato sui combattenti del Panjshir come ultimo fronte di resistenza. E «la tristezza di centinaia di famiglie in fuga dalla guerra, che ora si trovano in condizioni terribili, vivono nelle tende, senza alcun aiuto», visto che molte organizzazioni internazionali hanno sospeso la loro attività. Gli sfollati sono stati abbandonati al loro destino, con un governo che non sapeva governare né aveva le risorse per farlo, visto il congelamento all’estero dei fondi del Paese, che ha fatto precipitare la crisi economica. E poi la tristezza dei giornalisti che avevano perso il lavoro per la chiusura dei media per cui lavoravano, e ora rischiavano l’arresto e le violenze in carcere. E la disperazione da cui cercavano di non essere sopraffatte le donne, che da un giorno all’altro erano state estromesse dal lavoro, e alle quali venivano imposti nuovi obblighi di abbigliamento: non solo il burqa blu obbligatorio negli anni Novanta ma anche, significativa novità per l’Afghanistan, l’abaya e il niqab nero che siamo soliti associare ai Paesi arabi del Golfo e alle mogli dei jihadisti dell’Isis.
Da quando Kaveh Kazemi e Catalina Gomez Angel hanno concluso il loro viaggio poco è cambiato se non in peggio: dall’aggravarsi della crisi umanitaria (secondo l’Onu almeno 23 milioni di afgani soffrono la fame e il 95% della popolazione non riesce a fare tre pasti al giorno) alla recente esclusione delle ragazze dalle scuole superiori, sopra gli 11 anni di età. Fino ai sanguinosi attentati, probabilmente per mano dell’Isis, che continuano a uccidere decine di persone della minoranza etnica Hazara. Mentre le basi costruite dagli americani e dagli altri partner della coalizione, conclude la giornalista, restano in piedi «come simboli giganti di fallimento, e testimoni di innumerevoli vite perse, di miliardi sperperati in una guerra inutile e di cuori e speranze spezzati».

Foto di Kaveh Kazemi

L’articolo di Luciana Borsatti è tratta da Left del 29 aprile 2022 

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