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La sindaca di Lodi, le minacce inventate e la mediocrità di provincia

Sono culturalmente e politicamente la persona più lontana da Sara Casanova, sindaca leghista di Lodi che è comparsa nelle cronache nazionali per avere provato a togliere il pane ai bambini stranieri, secondo i desiderata salviniani che godono nel punire i deboli perché non si ha la stazza e la sostanza per affrontare i potenti.

Sara Casanova però in questa campagna elettorale è vittima di una sequela di attacchi sessisti sui manifesti elettorali, dove si è passati dal ventaglio di organi maschili disegnati sui cartelloni alle ultime minacce gravi (questa è la definizione giuridica di “vi scuoio”) disegnate sulla faccia della candidata.

Fin qui nulla di interessante a livello nazionale, nulla di meritevole di diventare una notizia degna di occupare questo spazio. C’è un particolare, laterale ma sostanziale, in tutta questa storia che mi prendo la briga di commentare. Lo faccio con un uso sfacciatamente personalistico di questa rubrica e lo scrivo perché al di là delle antipatie politiche ci sono momenti cruciali della mia vita che hanno a che vedere con l’impianto valoriale che mi propongo di preservare.

In una campagna elettorale di una città ininfluente nel panorama nazionale (Lodi politicamente conta se ne arrestano il sindaco o se un mediocre ex sindaco diventa ministro della guerra) la voce che corre per la città è che la sindaca (ricandidata) Sara Casanova si sia disegnata i cazzi sui manifesti e si sia auto minacciata per vincere le elezioni. Voi direte, e quindi? Ora mi spiego. Quella città è la stessa città che molti anni fa rispose nello stesso modo (vigliacco e immorale) quando finii sotto scorta per minacce mafiose. Dissero che le minacce me le ero inventate alcuni politici democratici che nel frattempo inauguravano i bar della piazza frutto di riciclaggio, gli artisti di provincia che sono artisti al massimo nelle pagine locali, i giornalisti che abbassano lo sguardo se li incontri di persona, le malelingue benpensanti che si sbriciolerebbero ogni volta che si inginocchiano se esistesse il loro dio, gli imprenditori famosi nella via dello struscio che si sentono internazionali, i soggetti culturali che si distinguono per la qualità del buffet e qualche dirigente democratico che sgomita per diventare lo zerbino del ministro lodigiano.

La provincia che sculetta calunniando le persone è quanto di più odioso io possa immaginare, culturalmente e politicamente, per l’evidente incapacità di affrontare le questioni nel merito. Del resto i mandanti calunniatori della sindaca leghista sono gli stessi, dieci anni dopo, che vennero irrisi nel mio caso dalla politica nazionale. Non solo non hanno imparato la lezione ma addirittura si sono sclerotizzati in un’infamia senza lode che li fa sentire vivi.

Mi piacerebbe sapere quale guadagno potrebbe avere una sindaca (ripeto: lontanissima da me) nel disegnare membri sopra alla sua faccia o nel minacciarsi da sola. Mi piacerebbe vedere la faccia di calunniatori messi di fronte alla bassezza dei loro comportamenti, esattamente come si promette di fare quest’articolo.

Anche perché, ricordiamolo, questi democratici sono gli stessi che rivendicano una superiorità morale che gli si slaccia al secondo giro di aperitivo, come tutte le simulazioni che cadono appena si allenta il controllo.

È una vicenda locale, lo so, ma è la cifra di molte campagne elettorali locali che si svolgono in questi giorni. Una schiera di mediocri che aspirano ai loro 5 minuti di celebrità e che hanno le radici così unte da sbriciolarsi in un secondo.

Volete vincere le elezioni? Fate politica, politica vera, con il coraggio di uscire dal chiacchiericcio. Qui da fuori è uno spettacolo indecente.

Buon mercoledì.

Nella foto le scritte minacciose sul manifesto elettorale di Sara Casanova con Pietro Foroni

Il raduno nazionale degli stupiti dalle molestie

Anche quest’anno, come ogni anno, durante il raduno nazionale degli Alpini si sono registrati casi di molestie nei confronti di donne, quest’anno siamo a Rimini, che misurano l’ottimo stato di salute del patriarcato giornalistico italiano.

Ogni anno si comincia con qualche donna che testimonia episodi avvenuti nei bar, per strada, e poi il fiume si ingrossa con altre voci che raccontano tutte la stessa storia: quando un branco di uomini con un tasso alcolico elevato che si sentono protetti dall’essere un gruppo (in questo caso perfino parte di un corpo in piena celebrazione) non riesce a trattenere gli istinti primordiali che vengono riversati sulla malcapitata di turno.

Dalle palpate, alle leccate sul collo, all’offerta del proprio membro come opportunità, anche quest’anno l’Italia scopre che il branco fa danni. Non è’ questione di Alpini, elettricisti o commercialisti: la fallocrazia come governo dei sogni appartiene a tutte le classi professionali e sociali. Semplicemente nel caso dell’annuale raduno degli Alpini questa dinamica finisce sotto gli occhi di tutti perché le città che ospitano l’evento sono inevitabilmente sotto gli occhi della stampa.

Quella che interessa è la dinamica che ogni anno si ripete: le prime che raccontano di molestie e abusi vengono trattate con sufficienza e fastidio, quando le testimonianze si moltiplicano si interviene dicendo subito «non sono tutti così» e infine quando la notizia non si può più ignorare i giornali si ritrovano loro malgrado costretti a dare la notizia.

Le notizie di oggi sono un esempio lampante di malafede. Si sottolinea il fatto che non ci siano denunce (eppure basterebbe leggere le testimonianze per rendersi conto che i titolari invitano le “ragazze” a non mostrarsi ostili, ovvero fingere di essere “a disposizione”). Si immagina un complotto mondiale contro gli Alpini (come se le donne che devono difendersi dagli uomini non abbiano problemi ben più larghi di una singola categoria) e infine arriva il cretino che esprime solidarietà al contrario.

Matteo Salvini (eccallà) scrive: «Viva gli Alpini, più forti di tutto e di tutti!». Forse sta intendendo viva gli Alpini che hanno sconfitto le donne. Direi che il quadro è completo. Ora si può aspettare serenamente la prossima adunata.

Buon martedì.

Ai margini dell’Europa

FILE - In this Friday, Feb. 5, 2021 file photo, a migrant wearing a face mask, stands behind a fence inside a refugee camp in Kokkinotrimithia outside of capital Nicosia, Cyprus. Cyprus wants the European Union's border agency Frontex to step in and prevent the flow of migrant arrivals from Turkey that authorities say have stretched the east Mediterranean island nation's asylum system to its limits. (AP Photo/Petros Karadjias, File)

Il conflitto in Ucraina, che coinvolge direttamente l’Unione europea, sta facendo perdere di vista quanto accade alle altre frontiere. L’attacco turco ai curdi in Iraq porterà presto nuovi profughi, dall’Afghanistan si continua a fuggire nonostante il regime talebano bruci i passaporti e i governi dei Paesi limitrofi impediscano agli afgani di passare; la siccità, unita agli effetti indiretti delle sanzioni verso la Russia, prospetta già crisi alimentari nel Corno d’Africa, la Libia resta in un caos a bassa intensità mentre le tensioni aumentano in Tunisia, dove i prezzi dei generi di prima necessità stanno salendo alle stelle. Scontri militari sono all’ordine del giorno in Mali, Sud Sudan, Congo, Camerun, Burkina Faso, eccetera. Secondo quanto ha raccontato la deputata di ManifestA, Yana Ehm, recentemente tornata dalla Siria, dove la guerra continua, le persone hanno ripreso a fuggire.

C’è da aspettarsi che nel Mediterraneo centrale, nell’Egeo, sulla rotta atlantica, tornino ancor più imbarcazioni piene di persone in fuga, così come sono ripresi gli arrivi sulla Balkan route. I Paesi a cui si rivolgono quelle prue delle imbarcazioni dei migranti sono gli stessi in cui, mentre gli operatori umanitari diretti in Ucraina vengono considerati eroi, quelli che soccorrono in mare sono perseguiti per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Tutto prevedibile, a parte forse l’invasione russa, ma segno di come l’Ue non riesca ancora ad affrontare le migrazioni come fatto strutturale. La giusta applicazione della direttiva Ue 55/2001 che permette ai soli ucraini di avere protezione umanitaria di un anno, rinnovabile, in Europa, crea però le condizioni giuridiche per privilegiare l’ingresso dei “bianchi” mettendo in subordine le identiche motivazioni dei “neri”.

Questo accade mentre l’Ue, …

L’intervista prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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«Vantarsi di uccidere i generali russi e innamorarsi dell’Ucraina è una follia» secondo il NY Times

Members of Congress give Ukraine President Volodymyr Zelensky a standing ovation before he speaks in a virtual address to Congress in the U.S. Capitol Visitors Center Congressional Auditorium in Washington, Wednesday, March 16, 2022. (Sarahbeth Maney/The New York Times via AP, Pool)

Vale la pena rileggere l’editoriale di Thomas L. Friedman, editorialista del NY Times vincitore di due premi Pulitzer. Parole che qui da noi varrebbero l’accusa di filo-putinismo nel tempo di un amen ma che rendono perfettamente l’idea. Anche perché qui da noi nel cassetto dei filo-putiniani ci sono finiti De Benedetti, Delrio, Bersani, Conte, Canfora, Sergio Romano, Michele Santoro, Nico Piro, Cecilia Sala, l’Anpi e Papa Francesco. Tanto per dire come siamo messi. Scrive Thomas L. Friedman:

«… Ma sono cittadino americano e voglio che stiamo attenti. L’Ucraina era, ed è tuttora, un paese coperto di corruzione. Ciò non significa che non dovremmo aiutarlo. Sono contento che lo stiamo facendo. Insisto che lo facciamo. Ma la mia sensazione è che la squadra di Biden stia camminando molto più sul filo del rasoio con Zelensky di quanto sembrerebbe ad occhio, volendo fare tutto il possibile per assicurarsi che vinca questa guerra, ma facendolo in un modo che mantenga ancora una certa distanza tra noi e la leadership ucraina. È così che Kiev non sta prendendo l’iniziativa e quindi non saremo imbarazzati dalla politica ucraina disordinata all’indomani della guerra.

[…]

Allora, dove siamo adesso? Il Piano A di Putin – prendere Kiev e insediare il proprio leader – è fallito. E il suo Piano B, che cerca solo di prendere il pieno controllo del vecchio cuore industriale dell’Ucraina, noto come Donbas, che è in gran parte di lingua russa, è ancora in dubbio. Le forze di terra appena rinforzate di Putin hanno fatto qualche progresso, ma sono ancora limitate. È primavera nel Donbas, il che significa che il terreno a volte è ancora fangoso e umido, quindi le forze armate russe devono ancora rimanere su strade e autostrade in molte aree, rendendole vulnerabili.

Mentre l’America naviga tra Ucraina e Russia e cerca di evitare di essere intrappolata, un punto luminoso nello sforzo di evitare una guerra più ampia è il successo dell’amministrazione nell’impedire alla Cina di fornire aiuti militari alla Russia. Questo è stato enorme.

Dopotutto, era solo il 4 febbraio quando il presidente cinese, Xi Jinping, ha ospitato Putin all’apertura dei Giochi Olimpici invernali del 2022, dove hanno svelato tutti i tipi di accordi commerciali ed energetici, e poi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando che l’amicizia tra Russia e Cina “ non ha limiti.

Quello è successo allora. Dopo l’inizio della guerra, Biden ha spiegato personalmente a Xi in una lunga telefonata che il futuro economico della Cina si basa sull’accesso ai mercati americano ed europeo – i suoi due maggiori partner commerciali – e se la Cina fornisse aiuti militari a Putin, avrebbe avuto conseguenze molto negative per il commercio della Cina con entrambi i mercati. Xi ha fatto i conti ed è stato dissuaso dall’aiutare la Russia in qualsiasi modo militare, il che ha anche reso Putin più debole. Le restrizioni occidentali sulla spedizione di microchip in Russia hanno iniziato a far arrancare davvero alcune delle sue fabbriche e la Cina non è intervenuta, finora.

La mia linea di fondo riecheggia la mia linea superiore – e non posso sottolinearlo abbastanza: dobbiamo attenerci il più strettamente possibile al nostro obiettivo originale, limitato e chiaramente definito di aiutare l’Ucraina a espellere il più possibile le forze russe o negoziare per il loro ritiro ogni volta che i leader dell’Ucraina sentono che è il momento giusto.

Ma abbiamo a che fare con alcuni elementi incredibilmente instabili, in particolare un Putin politicamente ferito. Vantarsi di aver ucciso i suoi generali e di affondare le sue navi, o innamorarsi dell’Ucraina in modi che ci invischieranno lì per sempre, è il culmine della follia».

Nella foto: il presidente ucraino Zelensky in collegamento con il Congresso Usa, 16 marzo 2022

La battaglia di Coltano contro la base militare

©MAURO SCROBOGNA/LAPRESSE 08-03-2003 PISA INTERNI CAMP DARBY - MANIFESTAZIONE CONTRO GUERRA IN IRAQ NELLA FOTO STATUA DELLA LIBERTA' ARMATA CON BANDIERE DELLA PACE

Sferzati dal vento, danno continua prova di “resistenza” i pini secolari del Parco regionale di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli, in Toscana vicino Pisa. Ma ora rischiano di capitolare per lasciare il campo, in questi oscuri tempi di guerra, a una nuova base militare per il I reggimento dei carabinieri paracadutisti “Tuscania” e quello del Centro cinofili.
Una maxi colata di cemento di 445mila metri cubi sta per abbattersi su un vasto appezzamento agricolo nell’area protetta a Coltano, frazione di 400 anime alle porte di Pisa, finita al centro di un polverone politico dai risvolti sempre più ampi anche per il movimento pacifista, che proprio da qui guarda al prossimo 2 giugno per una manifestazione nazionale. Il borgo, che vanta una villa medicea e la celebre stazione radio di Guglielmo Marconi, oggi in rovina, è da sempre inserito in un contesto agricolo. Unica eccezione un piccolo edificio militare fatiscente, il “centro radar” usato un tempo dalle truppe americane, oggi al centro degli interessi dei due corpi di Carabinieri.

Giustificandola con il bollino della «difesa nazionale» con un decreto del 14 gennaio 2022, cioè ben prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il governo Draghi ha stabilito che quel casotto di guardia si dovesse trasformare in una vera cittadella militare da 73 ettari dal costo per il contribuente di da 190milioni di euro. L’opera è finita in Gazzetta ufficiale a marzo e dovrebbe essere finanziata con i fondi del Pnrr, quelli della ripartenza post pandemia, controfirmata dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd).

Tutto è iniziato in sordina…

L’inchiesta prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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Lijia Zhang: La Cina incompresa dall’Occidente

La prima volta l’avevamo incontrata molti anni fa, quando viveva ancora in Cina. Dopo aver lavorato una decina di anni in una fabbrica “strategica”, per la precisione di missili intercontinentali, Lijia Zhang aveva iniziato la sua attività di “fixer” per i media stranieri. Lavoro che ha svolto con grande passione e grazie al quale ha conosciuto quello che dopo qualche anno sarebbe diventato suo marito e con il quale, quattro anni fa, ha preso la decisione di andare a vivere in Inghilterra. Dove tutt’ora vive, oramai affermata scrittrice e opinionista per vari giornali, assieme alle sue due figlie. L’abbiamo intervistata pochi giorni fa, in Toscana.

Lijia, tu scrivi cose abbastanza critiche sulla Cina, ma non ti consideri una dissidente, giusto? Anzi, ci tieni a precisare che vuoi lasciarti le porte aperte con il tuo Paese e che punti ad un ruolo di mediazione con l’Occidente. Che secondo te ha un’opinione errata della Cina. Quali sono i punti più importanti di questa “incomprensione”?
Intanto l’ignoranza. La maggior parte degli occidentali, americani in testa, ignora la storia della Cina, e questo è il primo, grave e pericoloso handicap. Che ne provoca un altro: l’arroganza. L’Occidente non si rende conto che il suo modello non è più quello universalmente accettato dal resto del mondo, e all’ignoranza aggiunge l’arroganza. Che la Cina, e altri Paesi “emergenti”, non sono più disposti ad accettare. Basterebbe un po’ più di umiltà, di capacità di approfondimento per risolvere buona parte dei problemi… e invece, lo stiamo vedendo in questi giorni, si punta ad acuire le differenze, anziché trovare obiettivi – e percorsi – comuni.

Parliamo della posizione cinese sull’Ucraina, immagino…
Sì, certo. Anche se non solo. Vedi, io vivo in Europa, e capisco perfettamente l’indignazione nei confronti della Russia, che personalmente condivido. Ma come cinese che ha ancora rapporti e contatti con il mio Paese di origine vi assicuro che il dibattito in Cina c’è e riesce anche ad affiorare non solo sui social, ma anche ad alto livello politico. Ci sono intellettuali accreditati, vicini al partito, che contestano l’appoggio alla Russia e auspicano un “ravvedimento” del governo, una correzione di rotta. Molti pensano che questo sia anche nell’interesse di Xi Jinping, che come sapete tra pochi mesi deve affrontare la sfida oramai non più scontata del congresso e del terzo mandato. L’Occidente fa male a sottovalutare questo aspetto e fa ancora peggio nel sollecitare la Cina a mediare, ma nello stesso tempo minacciandola di gravi conseguenze se non lo farà. Non è questo il modo migliore di collaborare.

È quello che la Cina, in varie occasioni, compreso l’ultimo vertice virtuale con l’Unione europea, continua a ripetere: attenzione, guardate che i vostri interessi non sono necessariamente quelli americani… Come europei, dovreste cercare di sganciarvi. Al che noi rispondiamo che anche la Cina dovrebbe sganciarsi dalla Russia.
Infatti, su questo sono assolutamente d’accordo. Il processo era iniziato, già da anni, con il lancio della cosiddetta nuova Via della Seta. Ma oggi è tutto più difficile. La guerra in Ucraina ha riavvicinato l’Europa agli Stati Uniti, ci vorrà del tempo prima che gli interessi culturali, commerciali ed economici riprendano il sopravvento su quelli politici e soprattutto militari.

Un’altra domanda che l’Occidente si pone, noi italiani compresi, è se dobbiamo avere “paura” della Cina. Sono in molti a non capire bene la differenza tra “assertività” e “aggressività”, provi a spiegarcela?
Ci provo. Ma prima lasciami dire che non è certo solo la Cina ad essere assertiva e/o aggressiva. Abbiamo assistito per secoli all’aggressività occidentale, e noi cinesi siamo tra i popoli che più l’hanno subita sia in termini politici che sociali, umanitari e culturali. Non dobbiamo dimenticare le umiliazioni che abbiamo subito. E anche oggi inviare leader politici, sia pure di secondo piano, a Taiwan per rinnovare l’impegno a difenderla in caso di attacco cinese non mi sembra molto saggio. È qualcosa che irrita la Cina, con la quale pretendete invece di trattare e di coinvolgere nella gestione delle vicende del mondo. Che poi anche Pechino oggi si diverta a provocare l’Occidente è un fatto. L’intensa attività nel Pacifico e in Africa è un fatto, e capisco le preoccupazioni occidentali. Ma al tempo stesso non penso siano espressione di una volontà egemonica della Cina, bensì di un inevitabile riposizionamento geopolitico. Ed è qui che l’Occidente deve fare attenzione. A non commettere lo stesso errore fatto a suo tempo con il Giappone, quando a seguito delle pressioni avute dalle grandi potenze europee e dagli Stati Uniti decise di “aprirsi”, alla fine del XIX secolo. L’Occidente per un po’ appoggiò la sua rincorsa, ma dopo la vittoria contro la Russia dello Zar cominciò a frenarne le aspirazioni. Non vorrei che questo succedesse, oggi, con la Cina. Tanto più che l’ascesa cinese di oggi è meno violenta di quella giapponese ai primi del Novecento.

Tu hai intenzione di tornare in Cina? O sei in qualche modo sulla lista… nera?
Penso e spero proprio di no. Anche se ora ho un passaporto inglese, mi sento ancora cinese e penso di avere il diritto dovere di criticare il mio Paese. Il patriottismo non significa accettare a scatola chiusa tutto quello che ti raccontano. Ma contribuire a migliorare la situazione. Anche con le critiche.

Un’altra questione controversa è quella sul razzismo. I cinesi sono razzisti?
Sì, temo di sì. Ma anche qui, bisogna capirci bene. Il razzismo cinese è più interno che esterno. Mi spiego: esiste per esempio lo sciovinismo han, l’etnia di gran lunga predominante. Ma nei confronti degli stranieri, migranti compresi, è meno diffuso e meno grave. Ed il governo sta facendo di tutto per eliminare i rischi di una emarginazione che nel lungo periodo potrebbe costituire un problema sociale. Negli ultimi giorni è stata approvata una legge che estende anche ai migranti, anche quelli non contrattualizzati, l’accesso ai sussidi e all’assistenza sanitaria. Una legge esemplare direi, che non penso sia stata ancora adottata in Occidente. Dove lo stato sociale è sicuramente più attrezzato e organizzato, ma non per tutti: i lavoratori precari, ad esempio, sono ancora molto discriminati.

E che mi dici della condizione femminile? Leggiamo di un sempre maggiore coinvolgimento delle donne nell’economia, e di un governo che non colpevolizza più le donne single, è vero?
La tendenza c’è, ma non è ancora scolpita nella società. Si tratta di nicchie, per ora limitate alle grandi città. Ma il processo è iniziato, è lento, ma in movimento costante. Come tutte le cose, in Cina. Penso al delicato tema della violenza domestica. Sono stati fatti enormi passi in avanti, oggi le donne che denunciano atti di violenza vengono protette e hanno buone possibilità di far valere le loro ragioni in tribunale.

Un’ultima domanda, Lijia. Ci sono due grandi leader spirituali in attesa di essere accolti in Cina. Il papa ed il dalai lama. Chi dei due sarà il primo?
Il papa, senza alcun dubbio. Il papa è anche un leader politico, e la Cina ha tutto l’interesse a colmare questa storica lacuna. Certo, c’è il problema di Taiwan. Ma sia Pechino che il Vaticano possono contare su una diplomazia esperta e sofisticata. Troveranno una soluzione…

L’intervista è stata pubblicata su Left del 6 maggio 2022 

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L’Europa tra due fuochi

Gli Stati Uniti che convocano un briefing di guerra in una loro base in Germania (scegliendo alla carta gli invitati anche tra i Paesi Nato) per spingere a dare più armi per «vincere», e la Gran Bretagna, fresca di Brexit anti Ue, che prende la testa delle operazioni, per non parlare dei “reprobi” polacchi, dicono molto di come sia messa male l’Europa in questa guerra di Putin, che tende a diventare mondiale.
Come siamo arrivati a questo punto? Proviamo a guardare indietro, per ritrovare la capacità di farlo in avanti.

Una Europa di pace, dall’Atlantico agli Urali, cioè dal Portogallo alla Russia. Era ciò che voleva il movimento contro gli euromissili ad Ovest ed Est che caratterizzò gli anni Ottanta. Che poi quella prospettiva era anche di Enrico Berlinguer e del suo eurocomunismo, di Willy Brandt con la Ostpolitik, di Olof Palme.
Pershing e Cruise, i supermissili, furono l’ultima fiammata della Guerra fredda. Poi il crollo del muro, la fine dell’Urss, nonostante Gorbaciov; Eltsin, pupillo dell’Occidente, e poi Putin.
Per trentatré anni la globalizzazione con una espansione senza freni del capitalismo è sembrata avere in mano le magnifiche sorti e progressive. Poi tre …

L’articolo prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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Amitav Ghosh: La giungla dà una lezione ai potenti

«Credo di avere scritto a lungo tempo di porti, a cominciare dalla Trilogia dell’Ibis ambientata nell’Oceano indiano dell’Ottocento, di cui fanno parte i romanzi Mare di papaveri, Fiume dell’oppio e Diluvio di fuoco. Altri miei libri sono ambientati a Calcutta, Bombay e Guangzhou, un porto anche noto con il nome di Canton. Molti dei miei scritti hanno a che vedere con la vita in mezzo al mare e hanno come protagonisti migranti, marinai e deportati. Di conseguenza, i porti sono un filo conduttore della mia scrittura». Così racconta Amitav Ghosh in videocollegamento da Goa. Lo scrittore indiano scrive da sempre in inglese pur essendo la sua lingua madre il bengali che utilizza «soltanto per qualche lettera perché sono cresciuto nel nord dell’India, dove la lingua dell’istruzione è l’inglese». Il 15 maggio Amitav Ghosh sarà ospite del festival ChiassoLetteraria. E il 19 maggio aprirà la XXXIV edizione del Salone Internazionale del libro di Torino.

A ChiassoLetteraria lei presenterà Jungle nama. Il racconto della giungla (Neri Pozza). È il libero adattamento di un’antica leggenda custodita nel cuore delle Sundarban, la più grande foresta di mangrovie del mondo. È un luogo reale?
Assolutamente sì, è la più grande foresta al mondo ed è patrimonio dell’Unesco. Occupa quasi tutto il Sud del Bangladesh e buona parte del Sud ovest del Bengala. È un posto importante, anche dal punto di vista mitologico.

Jungle nama. Il racconto della giungla è la leggenda di Dokkhin Rai, uno spirito terribile che, spargendo il terrore, detta la sua legge selvaggia e regna incontrastato sulla foresta. Sotto le sembianze di una tigre, compare all’improvviso al cospetto degli sventurati che osano avventurarsi nel suo reame e ne divora ossa, pelle, mani…
Sì, è la leggenda di Bon Bibi e di suo fratello Shah Jongoli, due esseri dal …

L’intervista prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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Il declino dell’impero occidentale

La globalizzazione, ormai è assodato, ha avuto due effetti contrastanti: all’interno dei Paesi di più vecchia industrializzazione ampi strati sociali si sono impoveriti, mentre in Paesi quali Cina, India, Sud Est asiatico, ma anche in alcuni Paesi africani, si è invece formata una classe media benestante con stili di vita simili ai nostri. Accanto a quegli oligarchi di ogni Paese che ostentano fortune immense, dunque, tra i vincenti della globalizzazione figurano anche alcuni miliardi di persone che sono uscite da una condizione di estrema povertà. Questo processo pone Stati Uniti, Europa, e loro alleati di fronte ad una scelta: assecondare questa tendenza, prendendo atto della sproporzione tra il loro peso demografico ed economico e gli strumenti di potere di cui ancora dispongono; oppure sfruttare questi strumenti per conservare il proprio dominio. Con la prima alternativa l’Occidente dovrebbe operare affinché i principi di cui va fiero – libertà, diritti e democrazia – possano trovare realizzarsi anche nei rapporti tra i popoli, riformando organismi quali il Fondo monetario internazionale, la World bank, e operando per lo stato di diritto a livello globale, mentre con la seconda torniamo alla nostra peggiore tradizione, segnata da schiavismo, razzismo e sfruttamento dei popoli “inferiori”.

La globalizzazione ha generato questo doppio effetto (crescita delle diseguaglianze e crescita dell’uguaglianza) perché lo sviluppo dei commerci ha favorito l’accumulazione di immense fortune nelle mani di pochi, ma anche lo sviluppo di Paesi quali India, Cina e tanti altri. È vero, infatti, che mettere in concorrenza un lavoratore americano e europeo con un cinese, un indiano e un vietnamita genera una spinta verso il basso dei salari nei Paesi avanzati, ma nei Paesi poveri l’effetto sui salari è opposto, soprattutto dove i governi sono stati in grado di gestire questi processi a proprio vantaggio.
La pandemia ha modificato il quadro, spingendo le imprese a considerare rischi prima inesistenti quali l’incertezza delle forniture da Paesi lontani. Anche la necessità di fornire risposte alla protesta sociale ha incentivato i Paesi avanzati a riportare all’interno dei confini domestici produzioni delocalizzate. Nella stessa direzione opera il conflitto in corso, che ha indotto i governi a riprendere il controllo di imprese e produzioni strategicamente importanti. È comparsa una parola nuova: deglobalizzazione. Venendo alla guerra, il suo effetto immediato è stata la…

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Gianni Cuperlo: Non arrendiamoci a un destino di guerra

Covegno Europa Sinistra Riscatto alla ex Fonderia Napoleonica in via Thaon de Ravel, Gianni Cuperlo (Milano - 2018-10-20, Maurizio Maule) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Cuperlo, partiamo subito dalle note dolenti: l’Unione europea, come istituzione, è la grande assente di questa crisi. Cosa potrebbe fare secondo lei per avere un ruolo di primo piano nella risoluzione della guerra in Ucraina? Perché, finora, non ha spinto per il cessate il fuoco proponendosi come mediatore?
L’Europa ha assunto una posizione chiara dal primo momento, all’indomani del 24 febbraio, con una condanna che si è tradotta in un ventaglio di misure: sanzioni pesanti nei confronti di Mosca, sostegno e aiuti umanitari al Paese aggredito, accoglienza dei profughi e un sostegno militare alla resistenza del governo e del popolo ucraino. Questa reazione non era quella che Mosca si attendeva anche alla luce dei precedenti: il 2008 in Georgia, il 2014 in Ucraina con l’annessione della Crimea, ma soprattutto quella fuga da Kabul un anno fa che agli occhi di molti è apparsa come la rinuncia dell’Occidente a presidiare i diritti di una popolazione esposta a future repressioni. La realtà ha preso una piega diversa e la reazione dell’Europa con ogni probabilità ha spiazzato molte previsioni. Detto ciò oggi siamo di fronte a un problema diverso. Occorre decidersi, se si ritiene percorribile la strada di una “vittoria” sul campo come teorizzato da Boris Johnson, e non solo lui, oppure se si debba riaprire in ogni modo e con ogni mezzo il sentiero di una mediazione che muova da un immediato cessate il fuoco. Credo che la seconda sia la sola strada da imboccare se non vogliamo che il “dopoguerra”, perché un dopoguerra comunque ci sarà, ci precipiti in un passato remoto e nell’idea di una Guerra fredda 2.0 anziché verso il traguardo di una nuova Helsinki come indicato dallo stesso presidente Mattarella nel suo discorso all’assemblea del Consiglio d’Europa.

Nel suo libro, Rinascimento europeo (Il Saggiatore), non poteva prevedere questa crisi eppure un accenno alla pericolosità di Putin c’è. Sembra quasi una premonizione: citando un’intervista al presidente russo del 2019, sembra quasi suggerire come le mire imperiali di Mosca siano state messe solo in pausa dalla pandemia. Ritiene che questa escalation fosse inevitabile?
Inevitabile no e mi hanno colpito le parole del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che ricordando il suo incontro del 2000 a Palazzo Chigi con un giovane Vladimir Putin ha spiegato come allora vi fosse da parte sua l’intenzione di rafforzare un legame di collaborazione e cooperazione con l’Europa e l’Occidente. Quell’occasione non è stata coltivata come si sarebbe potuto e dovuto fare, il che nulla toglie alla gravità imperdonabile della linea che Mosca ha assunto in questa vicenda. Nel libro ho citato quell’intervista di Putin al Financial times del giugno 2019 perché mi sembrava indicativa di…

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