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Il tribunale israeliano sfratta (altri) 1000 palestinesi

Dopo una battaglia legale di due decenni, l’alta corte israeliana ha stabilito che circa 1000 palestinesi possono essere sfrattati da un’area della Cisgiordania: si tratta di una delle più grandi decisioni di espulsione dall’inizio dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967.

Circa 3mila ettari di Masafer Yatta, un’area rurale delle colline meridionali di Hebron sotto il pieno controllo israeliano e sede di diversi piccoli villaggi palestinesi, è stata designata come “zona di tiro” dallo Stato israeliano negli anni 80, da utilizzare per esercitazioni militari, in cui la presenza di civili è vietata.

Secondo le convenzioni di Ginevra relative al trattamento umanitario in guerra, è illegale espropriare la terra occupata per scopi che non vanno a beneficio delle persone che vivono lì o trasferire con la forza la popolazione locale ma Israele ha sostenuto, tuttavia, che gli abitanti del villaggio di Masafer Yatta che vivono nella zona di tiro 918, allevando animali, non erano residenti permanenti dell’area quando è stata dichiarata la zona di tiro, e quindi non hanno diritti sulla terra. Poiché la decisione dei giudici è stata unanime, non è chiaro se vi siano disponibili ulteriori canali legali israeliani per i residenti degli otto villaggi di Masafer Yatta per appellarsi.

«Abbiamo combattuto con Israele nei tribunali negli ultimi 22 anni e questo giudice ha impiegato cinque minuti per distruggere la vita di 12 villaggi e delle persone che dipendono dalla terra», ha commentato Nidal Younes, capo del consiglio del villaggio di Masafar Yatta.

Breaking the Silence, una Ong israeliana, ha dichiarato: «L’alta corte ha appena dato il via libera al più grande trasferimento di popolazione nella storia dell’occupazione dai primi anni 70. La deportazione di oltre 1.000 persone a favore dell’espansione degli insediamenti, degli avamposti e dell’addestramento dei soldati delle forze di difesa israeliane non è solo una catastrofe umanitaria che potrebbe costituire un precedente per altre comunità in tutta la Cisgiordania, ma anche un chiaro passo nell’annessione de facto dei territori palestinesi occupati e nel consolidamento del dominio militare a tempo indeterminato».

Nella foto la protesta dei residenti di Masafer Yatta (da Twitter Breaking the Silence)

Un barile di motivi per sanzionare Mosca

Oggi pomeriggio Greenpeace Italia ha svolto una protesta pacifica nelle acque di fronte a Siracusa per ostacolare l'arrivo in porto della nave SCF Baltica proveniente dalla Russia e contenente un carico di petrolio greggio. Con il supporto della nave Rainbow Warrior, attivisti e attiviste dell'associazione ambientalista hanno scritto a lettere cubitali sulla fiancata della petroliera il messaggio "Peace not oil" (Pace non petrolio). (SIRACUSA - 2022-04-16, Claudio Sisto) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Finora l’Unione europea ha puntato con decisione su un’unica strategia per entrare “direttamente” in conflitto con la Russia, e forzare Putin a sedersi al tavolo delle trattative. Quella della guerra economica. Cinque pacchetti di sanzioni sono già stati varati dall’Ue, mentre si sta lavorando al sesto, quello che riguarderebbe il petrolio russo. L’ipotesi è che si parta con un embargo graduale per arrivare ad uno stop totale nel 2023. Ma che tipo di provvedimenti sono stati presi sinora? Quanto sono stati davvero efficaci? Quali altre sanzioni potremmo applicare per fare pressione su Mosca, nella prospettiva di danneggiare maggiormente l’economia russa rispetto alla nostra? Ne parliamo con Matteo Villa, research fellow dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) per il Programma migrazioni e per l’Osservatorio Europa e governance globale.

«Il provvedimento economico più “forte” nei confronti di Mosca che finora è stato applicato è il congelamento delle riserve valutarie della Banca centrale russa, compiuto da Europa e Stati Uniti – spiega Villa -. Si tratta di una misura che potenzialmente potrebbe far vacillare la supremazia del dollaro e dell’euro sugli scambi internazionali, dunque relativamente pericolosa, ciò nonostante l’abbiamo presa senza colpo ferire. E questo ci restituisce quanto abbiamo percepito come grave l’invasione dell’Ucraina, lo sfregio al diritto internazionale e anche la minaccia alla nostra sicurezza».

Il secondo grande “fronte” …

L’articolo prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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L’urgenza di una nuova Helsinki

L’aggressione della Russia all’Ucraina «ha rimesso in discussione la più grande conquista della Ue: la pace nel nostro continente. Una pace basata sul rispetto dei confini territoriali, dello stato di diritto, della sovranità democratica; sull’uso della diplomazia come mezzo di risoluzione delle controversie tra Stati», ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi intervenendo in plenaria al Parlamento europeo. Tratteggiando il volto di un’Europa pronta ad aprirsi a Paesi che manifestano aspirazioni europee, dall’Albania alla Macedonia del Nord con cui si aprono i negoziati, fino all’Ucraina che dovrà affrontare i vari step: «Non rappresentano una minaccia per la tenuta del progetto europeo. Ma sono parte della sua realizzazione. L’integrazione è l’alleato migliore».

Draghi ha aggiunto che «la solidarietà mostrata verso i rifugiati ucraini deve spingerci verso una gestione davvero europea anche dei migranti che arrivano da altri contesti di guerra e sfruttamento, superando la logica del Trattato di Dublino». Certo, non ha parlato di accoglienza, ha parlato di gestione. Ha parlato della necessità di rafforzare canali legali di ingresso in Europa, ma anche di rafforzare gli accordi di rimpatrio, misura assai iniqua e lesiva di diritti umani. All’indomani delle dimissioni di Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, accusato di aver coperto respingimenti illegali, una misura giusta e democratica sarebbe abolire questa famigerata agenzia Ue delle frontiere esterne, come scrive Galieni su questo numero di Left. E smettere di foraggiare autocrati come Erdoğan e sedicenti guardie costiere libiche perché, con ogni mezzo, comprese violenze, stupri e torture, impediscano ai migranti di arrivare in Europa.

Solo fermando queste violazioni di diritti umani troverebbero un riscontro concreto le parole di Draghi quando auspica «maggiore attenzione al Mediterraneo. E non come un’area di confine, su cui ergere barriere». Anche di questi temi discuterà con gli altri capi di Stato e di governo il 30 e 31 maggio al Consiglio straordinario di Bruxelles. Ma parlerà anche di costruzione della pace, di cui l’affermazione dei diritti è il più solido pilastro. Per costruire la pace in Ucraina l’Europa non ha fatto abbastanza, trovandosi unita nell’inviare armi, ma divisa sulle sanzioni alla Russia. La contraddizione bruciante è sempre quella: da un lato armiamo gli aggrediti dall’altro paghiamo il gas a Putin che li aggredisce. Molto poco ha fatto la Ue finora sul piano diplomatico per arrivare a un cessate il fuoco e una pace negoziata, in cui ciascuna delle due parti trovi una via d’uscita accettabile. In vista del 9 maggio, giornata della vittoria contro la Germania nazista per Mosca, ma anche festa dell’Europa, Putin, minaccia la guerra totale (con armi tattiche nucleari? Scatenando l’offensiva sul campo? Per via cibernetica?).

L’escalation verbale e militare degli angloamericani non fa che peggiorare le cose, avvicinando lo spettro di una terza guerra mondiale. L’Europa intervenga per fermarli prima che sia troppo tardi. Tante volte abbiamo scritto su Left con esperti, di ciò che potrebbe fare l’Ue nel sollecitare la mediazione della Cina; tante volte abbiamo sollecitato la costruzione di una conferenza di pace, sul modello di quella che si svolse a Helsinki del 1975, di cui ha parlato anche il presidente Mattarella. Il decalogo uscito da quegli accordi parlava di ripudio dell’uso della forza e delle minacce, di inviolabilità delle frontiere, di integrità territoriale degli Stati, di risoluzione pacifica delle controversie, di non ingerenza, di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di uguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli, di cooperazione fra gli Stati, di rispetto del diritto internazionale. Principi violati in Ucraina e che devono essere immediatamente ripristinati.

La conferenza di Helsinki affermò che le frontiere possono essere cambiate solo secondo il diritto internazionale e tramite accordi e mezzi pacifici. Alla fine della Guerra fredda, la Carta di Parigi per una nuova Europa nel 1990 riaffermò quel principio. «L’inviolabilità delle frontiere è diventato un principio incontestato dell’ordine internazionale, un principio dotato di una forza sia ideale sia pratica inimmaginabile nell’Ottocento», scrive Pino Arlacchi in Contro la paura (Chiarelettere). «Delle 119 guerre tra Stati avvenute tra il 1648 e il 1945 ben 93 guerre, il 78,1%, hanno avuto a che fare con controversie di natura territoriale. La proposizione secondo cui uno Stato che emerge vittorioso da una guerra ha diritto al governo di territori acquisiti con la forza è stato un principio importante del diritto internazionale fino ai primi anni del Novecento. Il diritto di conquista era il diritto del vincitore, nonché l’espressione di un’idea profondamente radicata nell’esperienza occidentale: quella che la forza abbia il potere di creare legalità e moralità».

I Paesi riuniti alla conferenza di Helsinki fra i quali anche l’Urss ripudiarono quella logica della forza e della sopraffazione. Putin oggi ci ha riportato indietro nel tempo facendo strage di civili ucraini, seminando distruzione, puntando ad annettere territori che in un delirante progetto di ricostruzione della Grande Russia, sarebbero sue colonie. Erede in questo degli zar e di Stalin. Immemore della rivoluzione russa. Come ci ricorda Arlacchi, uno dei primi atti del governo bolscevico provvisorio russo fu il completo abbandono del diritto di conquista con l’annuncio, il 10 aprile 1917, che «la libera Russia non cerca di dominare le altre nazioni, non cerca di deprivarle del loro patrimonio nazionale, e non cerca di occupare con la forza territori stranieri; il suo scopo è di stabilire una pace duratura sulla base del diritto delle nazioni di decidere il proprio destino».

L’editoriale è tratto da Left del 6 maggio 2022 

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Siete a favore della guerra, benissimo, ma di quale guerra?

Anna Shevchenko, 35, reacts next to her home in Irpin, near Kyiv, Tuesday, May 3, 2022. The house, built by Shevchenko's grandparents, was nearly completely destroyed by bombing in late March during the Russian invasion of Ukraine. In her beloved flowerbed, some roses, lilies, peonies and daffodils survived. "It is new life. So I tried to save my flowers," she said. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Se il dibattito italiano non fosse incagliato nella risibile discussione sui pacifisti che qui da noi sono diventati uno dei punti principali della discussione, (come se non ci fosse una guerra alle porte, una crisi energetica per i prossimi mesi (anni?) e una crisi umanitaria in alcune zone del mondo a causa della levitazione dei prezzi del cibo) potremmo serenamente riconoscere che la maggiore distinzione politica tra coloro che dibattono (e votano) su questa guerra consiste tra chi la guerra la vuole fare smettere e chi la guerra la vuole “portare fino in fondo”.

Non è una differenza da poco. Chi vuole la fine della guerra sa benissimo, come in tutte le guerre, che bisogna parlare anche con l’invasore (quello che prova a fare Macron) per capire quali siano gli spazi di manovra, consapevole che lo spostamento del conflitto dal campo bellico a quello politico comporta l’inasprimento delle sanzioni per mettere all’angolo Putin e una cauta valutazione delle vie d’uscita: cosa è disposto a cedere l’uno, cosa è disposto a volere l’altro.

Chi invece vuole che la guerra “vada fino in fondo” dice senza avere il coraggio di dirlo che il conflitto in Ucraina deve essere l’occasione per sconfiggere totalmente Putin. Ovvero vuole l’eliminazione politica (ma anche fisica a molti andrebbe bene, c’è da scommetterci) del presidente russo. È sostanzialmente la posizione di Biden e dei più esagitati membri del Partito Unico Bellicista. Resta da capire quale sarebbe, secondo loro, la “vittoria” accettabile: avere i confini dell’Ucraina com’era prima dell’invasione? Ottenere i confini prima del 2014? Fare cadere il governo russo (e quindi intervenire con la forza nell’autodeterminazione di una nazione, come va di moda dire in queste settimane)?

Non è uno scarto da poco. Tutte e due le posizioni sono legittime ma bisognerebbe avere il coraggio (e il senso di responsabilità) di dichiararle pubblicamente. Anche perché nel primo caso il conflitto è da sostenere per evitare l’eccidio e la distruzione di un Paese mentre nel secondo è un incendio da alimentare per scardinare la Russia. Cambiano completamente le regole di ingaggio e le responsabilità politiche, oltreché belliche.

Resta il dubbio che prendersela con i pacifisti (tra l’altro con l’ignoranza di chi crede che la pace sia il contrario della guerra) serva anche a non dirimere questa differenza tra gli interventisti. La domanda è semplice: siete a favore della guerra, benissimo, ma di quale guerra?

Buon giovedì.

 

Andrea, Baobab e il fatto che non sussiste

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 03-05-2022 Roma, Italia Cronaca Immigrazione - sentenza Baobab Nella foto: Andrea Costa di Baobab experince assolto dall’ accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina esce dal tribunale di piazzale Clodio atteso da gruppo di sostenitori Photo Mauro Scrobogna / LaPresse May 03, 2022 Roma, Italy News Immigration - Baobab ruling In the photo: Andrea Costa di Baobab experince acquitted of the accusation of aiding and abetting illegal immigration leaves the court in piazzale Clodio awaited by a group of supporters

Andrea Costa, il responsabile di “Baobab experience”, l’associazione che si occupa di assistere i migranti che transitano per la Capitale, rischiava la condanna per il reato di immigrazione clandestina. La sentenza, emessa dal gup in abbreviato, ha fatto cadere le accuse anche nei confronti di altre due attiviste della Onlus. La stessa Procura di Roma aveva sollecitato l’assoluzione per tutti gli imputati.

Andrea rischiava da 6 a 18 anni di reclusione perché con i volontari di Baobab prestarono e aiuto a otto sudanesi e un cittadino del Ciad per acquistare biglietti di pullman e treni così da arrivare in Francia. Il reato è sempre lo stesso, quello previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione che tutti sdegnati commentano e che nessuno pensa di modificare (nonostante il “governo dei migliori”).

Andrea Costa è stato assolto “perché il fatto non sussiste” e perché insistiamo a credere che aiutare i bisognosi possa davvero configurare un reato, alla faccia dei cattolici compiti a messa tutte le domeniche e alla faccia della Patria del diritto che vorrebbe essere l’Occidente.

Quel reato che non esiste serve a ingrossare le fila dei partiti di destra e la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di metterlo in discussione in Parlamento, limitandosi a contestarlo su Twitter.

Andrea Costa giustamente dice «sono soddisfatto perché un giudice ha sancito quello che già sapevo: che il fatto non sussiste, ora c’è qualcuno che lo ha messo nero su bianco» eppure ne abbiamo viste di indagini (da quelle di Zuccaro in giù) che servono solo a stimolare gli intestini peggiori.

Notate un particolare: quelli che si lamentano dei “soldi buttati via per le indagini inutili” in questo caso sono tutti zitti. Si potrebbe sperare che sia un mutismo per vergogna e invece stanno aspettando semplicemente la prossima indagine.

Buon mercoledì.

Maryam Rawi: Così resistiamo all’orrore talebano

EDITORIAL USE ONLY - A woman demonstrator participates in a protest taking place in Kabul on16 January, 2022. On her left hand is written the name of Aalia Azizi, the manager of Herat Prison who disappeared in October. On her right hand is the name of Zainab Abdullahi, a young Hazara woman killed on Thursday 13 january 2022, by a Taliban security forces member at a check-point. Photo by Oriane Zerah/ABACAPRESS.COM

Sono già passati più di 250 giorni dalla fine repentina della ventennale occupazione statunitense e delle forze Nato. I tempi della “fuga” occidentale sono lontani tuttavia in Afghanistan una importante fetta di società civile seppur abbandonata a se stessa non intende rassegnarsi all’oscurantismo talebano e lotta ogni giorno per la dignità e la libertà. Protagoniste, come spesso accade in questi casi sono le donne, e quelle afgane non fanno eccezione. Ecco il racconto di una di loro, Maryam Rawi, attivista di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afgane). Le abbiamo rivolto alcune domande mentre si trovava in un luogo protetto.

Maryam Rawi, dopo l’inverno qual è la situazione umanitaria del Paese?
Negli ultimi otto mesi, le agenzie umanitarie e le ong che lavoravano da noi hanno chiuso quasi tutte le loro sedi. Quelle che ancora restano attive hanno dovuto mandare in congedo soprattutto le donne che ci aiutavano. Ma in questo momento è necessaria una grande assistenza umanitaria a causa della pessima situazione economica in cui si trova l’Afghanistan. E i programmi di aiuto sono insufficienti e non raggiungono molte zone del Paese. Il caos non è solo politico ma soprattutto finanziario e sotto il profilo umanitario.

Nel silenzio calato sull’Afghanistan giungono notizie di una repressione sistematica soprattutto delle donne. Cosa accade concretamente?
Già prima del ritorno dei talebani la vita delle donne non…

L’intervista prosegue su Left del 29 aprile 2022 

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Quale futuro per i bambini yemeniti

Quando Amina poteva ancora mangiare tutti i giorni, il suo piatto preferito era pollo e makhlouta. Una sorta di brodo con verdure tipico di al-udayda o, come la conosciamo noi, Hodeidah. Affacciata sul Mar Rosso, famosa per le sue perle, il caffè e il commercio del pesce, è la quarta città di quello splendido Yemen devastato da una guerra che dura da quasi otto anni di cui nessuno o quasi parla e pochi, soprattutto, conoscono la storia. Probabilmente nemmeno dove stia, mulinando sul mappamondo. «Facciamo un esperimento? Chiediamo per esempio ai nostri parlamentari. Ci sarebbe da ridere. Se non da piangere», ci dice senza perifrasi Cornelia Isabelle Toelgyes, vice-direttrice di Africa express, che per lunghi anni ha vissuto nel grande continente ed è oggi consulente di diverse organizzazioni che si occupano anche di quest’ultimo pezzo di Penisola araba. Martoriato, omesso dalle memorie, tanto conteso e forse secondo alcuni osservatori mai amato davvero dai suoi leader. «Dove la gente non ha più nemmeno la sabbia da mangiare, e gli aiuti arrivano col contagocce. Quando arrivano», precisa, dolorosamente, Toelgyes. Invano, la piccola Amina, che oggi ha 12 anni, sollecitata dai responsabili di una missione del Wfp, il World food programme, organismo delle Nazioni Unite che si occupa dell’emergenza fame, tentò un paio di anni fa di lanciare un appello al mondo con una lettera. «Mi ricordo quando andavo a scuola, poi però è arrivata la guerra. Io avevo sette anni e i bombardamenti non finivano mai – si legge -. Qualche volta ho fame, ma so che devo aspettare. Però la cosa che mi preoccupa di più è che la guerra potrebbe continuare all’infinito…».

Sfollata con la sua famiglia in un campo profughi di Aden, nell’omonimo Golfo, Amina forse ancora sogna di…

L’intervista prosegue su Left del 29 aprile 2022 

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A proposito di interviste a Hitler: Indro Montanelli

Red paint and writing reading in Italian "racist", top, and "rapist’’ are seen scrawled on a statue of late Italian journalist Indro Montanelli, inside a park in Milan, northern Italy, Sunday, June 14, 2020. Montanelli, who inspired a generation of Italian reporters, admitted in the late 1960s that he had a 12-year-old Ethiopian bride when he was a soldier during the Italian occupation of Ethiopia. The death of George Floyd at the hands of Minneapolis police officers sparked a reexamination of the injustices and inequalities underpinning many countries’ histories. (AP Photo/Antonio Calanni)

Mentre tutti danno lezioni di giornalismo non si può non ricordare che un valente giornalista (qui da noi venerato come un idolo) intervistò un dittatore, proprio Hitler in persona, con un solo piccolo particolare: l’intervista se l’è completamente inventata. Che Indro Montanelli fosse un giornalista (e un uomo) più bravo a raccontarsi che a raccontare è cosa nota ma l’intervista a Hitler è un episodio imperdibile.

Lo racconta su Twitter Dark: «Un cazzaro compulsivo, Montanelli, di quelli che infestano molte compagnie di amici, generalmente tollerati quando il loro aneddoto è divertente e presi per il culo quando la sparano troppo grossa. I più bravi e istrionici riescono talvolta persino a declinare questo “difetto” in ambito professionale, diventando dei veri e propri artisti della cazzata. Tra i casi più emblematici vi è quello di Richard Benson, poliedrico personaggio dotato di una comicità travolgente che da anni sbarca il lunario con i suoi racconti clamorosi.

Sfortunatamente, con Montanelli la sorte è stata beffarda, preferendo ricompensarlo per il sopravvalutato (e spesso servile) contributo al giornalismo anziché farlo assurgere agli allori per quella che indubbiamente fu la sua dote migliore: la stronzata epistemologica. (parlo ovviamente della nostra, di sorte, visto che a lui è andata ovviamente meglio così). Un vero peccato, personalmente avrei preferito che nei vari corsi ed esami che mi è toccato dare all’università Montanelli venisse presentato e descritto come il precursore del gossip, delle fake news e dei titoli click-bait, oltre che ovviamente come il pedofilo razzista che ben sappiamo essere stato, anziché come uno dei padri del giornalismo italiano. Sfortunatamente (per noi, ribadisco) non è andata così, motivo per cui negli atenei si tende a non menzionare la rilevantissima sequela di bugie ed esagerazioni raccontate dal nostro mitomane preferito durante tutta la sua ricca e fin troppo lunga vita, tra cui:

  • la presenza in piazza Venezia nel giorno in cui Mussolo annunciò l’entrata in guerra dell’Italia.
  • – la presenza, che in taluni casi tende a sfiorare l’ubiquità, in tutti i più importanti teatri di invasione del fronte orientale durante la WW2: Polonia, Estonia, Finlandia, Norvegia. Per carità, che ci sia stato è (quasi) fuor di dubbio, ma il presenzialismo sistematico che il nostro riesce a manifestare in tutti i POI dove si sono consumati gli episodi chiave del conflitto più che un cronista di guerra ricorda un antesignano di Forrest Gump.
  • la presenza a P.le Loreto, per sua fortuna da astante, durante i fatidici giorni della Liberazione.

Ma la fandonia più clamorosa che il nostro abbia mai raccontato, quella che più di ogni altre merita di farlo salire nel palmarès dei fantacazzari, è quel capolavoro dell’intervista a Adolf Hitler, da lui narrata innumerevoli volte e che adesso non mancherò di ricordare. Il racconto è ambientato l’1 settembre del 1939, giorno in cui la Wehrmacht invase la Polonia: il nostro, neanche a dirlo, era lì, forte del suo carnet di biglietti per un posto in prima fila agli Appuntamenti con la Storia stagione 1939-1945. Secondo alcune (sue) testimonianze si trovava “semplicemente” nel pubblico, presumibilmente appena fuori dal campo della celeberrima foto dei soldati tedeschi che sollevano la sbarra del confine. Secondo altre (sue) versioni, invece, stava orinando in un cespuglio nei pressi. La variante del “cespuglietto” è quella che preferisco perché consente di mettere a fuoco le doti da fanfaluchiere del nostro, che era solito aggiungere curiosi e talvolta imbarazzanti aneddoti ancillari per conferire maggiore verosimiglianza ai suoi mirabolanti racconti. Ma non divaghiamo: Montanelli era proprio lì, a un passo dalla sbarra, intento a curiosare (o a compiere atti osceni) sul luogo del misfatto, quando a un certo punto viene avvicinato da un soldato tedesco che, comprensibilmente, gli chiede a quale titolo si trovasse lì. “Sono un giornalista!” tuona il nostro a quel punto in perfetto italiano, dimostrando notevole acume: praticamente una condanna a morte. In un attimo si trova con la schiena rivolta contro un albero, presumibilmente lo stesso che aveva inopinatamente battezzato poco prima. Ma proprio in quel momento, un attimo prima che il soldato potesse risolvere sul nascere un problema di maschilismo tossico che sarebbe durato 60+ anni, avviene il miracolo: il portello di un Panzer che stava nei pressi si apre di scatto ed esce nientemeno che lui, baffetto. Come in ogni buon racconto revisionista che si rispetti, il bad guy per antonomasia è in realtà un personaggio positivo: non soltanto Adolf grazia Indro ma, saputo che trattasi nientemeno che un giornalista, decide di cogliere la palla al balzo e lo apostrofa così: “Prendi il taccuino, Indro, che ti spiego come mai la Germania sta entrando in guerra”. E così Montanelli, senza neanche aver avuto il tempo di lavarsi le mani, si ritrova a realizzare la prima intervista rilasciata da Hitler in assoluto. E che intervista! “Parlò a lungo e sempre lui, non mi lasciò il tempo di fargli domande, sembrava invasato. Poi, girò i tacchi e se ne tornò nel Panzer, riprendendo l’avanzata”. Il racconto, sfortunatamente, termina con un fine non troppo lieto: Montanelli riesce a telegrafare l’intervista al Corriere, ma gli allora poteri forti (il MinCulPop di Alessandro Pavolini, futuro fondatore delle Brigate Nere) ne bloccarono la pubblicazione. “Mussolini in persona intervenne per porre il veto”, dichiarerà in seguito Montanelli, giusto per aggiungere l’ennesima iperbole. Termina così quello che, a mio modesto parere, è senza ombra di dubbio il lascito più grande di Indro Montanelli: una fiaba breve ma ben costruita, forte di una morale populista e revisionista che ne sussume efficacemente l’esistenza e l’apporto che ha dato alla professione».

Buon martedì.

Nella foto: la statua di Indro Montanelli ricoperta di vernice rossa durante una manifestazione di Black Lives Matter, Milano, 13 giugno 2020

Luigi de Magistris: Ricostruiamo la sinistra dal movimento pacifista

Foto LaPresse - Andrea Panegrossi 14/10/2019 - Roma, Italia. POLITICA Il convegno INPS per Tutti. Luigi De Magistris Photo LaPresse - Andrea Panegrossi 14/10/2019- Rome, Italy The INPS conference for All

Quale occasione migliore della giornata mondiale della Terra per riunire a Madrid tante voci europee in difesa della pace e ribadire che investire nel nostro pianeta è anche reclamare una soluzione diplomatica al conflitto tra Russia e Ucraina. Ne abbiamo parlato con Luigi de Magistris, uno dei relatori alla manifestazione internazionale per costruire un movimento pacifista europeo.

De Magistris, che giudizio dà della mobilitazione pacifista europea e di quella italiana? Come raggiungere l’obiettivo del cessate il fuoco immediato?
Il giudizio della manifestazione è positivo. L’appuntamento di Madrid è il tassello di un percorso a cui stiamo lavorando da tempo. C’è stata una presenza diffusa e qualificata e si è convenuto di continuare sulla strada per un fronte pacifista europeo, sempre più unito e organizzato, e anche per una soluzione diplomatica che ancora nessuno ha seriamente voluto. A Madrid è emersa la convinzione che, oltre alla condanna unanime della guerra di Putin, che tutti considerano illegale, in realtà Nato, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione europea non abbiano fatto nulla per …

L’intervista prosegue su Left del 29 aprile 2022 

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Sentire il respiro delle città

Se apriamo una mano e indichiamo i cinque migliori architetti italiani del momento, io ci metto una donna. Si chiama Benedetta Tagliabue ed è ancora molto giovane per un architetto. È nata a Milano e si è laureata a Venezia nel 1989.
Benedetta Tagliabue guida uno studio che ha la sua sede madre a Barcellona, ma anche una sede in Cina. Lavora in tutto il mondo dalla Scozia all’Oriente, dalla Spagna alla Francia, e credere o no, anche in Italia. Ha completato una chiesa a Ferrara – via del Carbone, 18 – e si aprirà presto la sua stazione della Metropolitana al centro direzionale di Napoli.

Nel suo curriculum un capolavoro dell’architettura degli ultimi vent’anni, il mercato di Santa Caterina a Barcellona, e poi un edificio anti-convenzionale di grandissima rilevanza pubblica: il Parlamento scozzese a Edimburgo. Inoltre una serie numerosa di progetti, alcuni molto grandi e impegnativi, altri che come filamenti sottili ricuciono acqua verde e spazio pubblico. Come nel quartiere Hafen ad Amburgo (in una nuova strategia di affrontare le aree ex portuali), oppure il raccordo tra il lungomare di Barcellona e i parchi a corona del centro.
Ma come ha fatto un architetto italiano, per giunta donna, a diventare così brava e di successo?

Benedetta Tagliabue, all’inizio degli anni Novanta …

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