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A volte ritornano. All’armi, son fascisti

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 22 Maggio 2021 Roma (Italia) Politica : Manifestazione di Forza Nuova a Ponte Milvio contro l’antifascismo Nella Foto : i manifestanti dell’organizzazione di estrema destra davanti alla porta di Ponte Milvio inneggiano al Fascismo Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse May 22 , 2021 Roma (Italy) News : Forza Nuova demonstration in Ponte Milvio against anti-fascism In The Pic : the protesters of the far-right organization in front of the gate of Ponte Milvio praise Fascism

Breve cronaca e storia recente dell’estremismo nero in Italia. Nel solo 2021 le forze di polizia e la magistratura italiana hanno scompaginato ben cinque piccole organizzazioni nazi-fasciste che stavano letteralmente passando alla lotta armata. Nel gennaio si è iniziato con l’arresto a Savona di un giovane di 22 anni, che puntava ad «organizzare vere e proprie milizie paramilitari» per distruggere «gli ebrei», visti come «il male da eliminare prima di chiunque altri», nel quadro di una più generale guerra razziale «contro negri e degenerati». Per questo, con altri, almeno cinque, aveva dato vita a Sole nero con l’intenzione di «creare terrore, creare panico, creare l’apocalisse», relazionandosi con esponenti della rete terroristica neonazista dell’Atomwaffen division (nota anche come Ordine nazionalsocialista), già responsabile di atti di violenza nel Sud degli Stati Uniti. Da qui l’idea della costituzione di una cellula italiana di questa organizzazione, nonché l’esaltazione delle gesta stragiste di Anders Breivik in Norvegia nel 2011 (uccise 77 persone) e di Brenton Tarrant in Nuova Zelanda nel 2019 (fece 51 vittime), immaginando attentati simili in Italia. Qualche arma già era nella disponibilità del gruppo: carabine semiautomatiche e pistole calibro 7.65. Su un canale pubblico creato su Telegram, Sole nero in pochi mesi aveva raccolto 500 adesioni.

Analoghe formazioni sono poi state smantellate nei mesi successivi. In maggio era toccato a Ultima legione, con 30 indagati tra la Lombardia (la roccaforte era a Milano), l’Abruzzo, la Liguria e il Veneto. Un gruppo di «filonazisti», con al vertice ultracinquantenni e settantenni, possessori di armi (sequestrati fucili, pistole e pugnali), che si scambiavano le «procedure per la costruzione di ordigni esplosivi», non nascondendo l’ammirazione, anche in questo caso, per le «stragi di matrice suprematista» e per Luca Traini che il 3 febbraio 2018 a Macerata aveva sparato ferendo sei immigrati. A giugno i Ros, con 12 ordinanze, tra Milano, Roma, Cosenza, Sassari, l’Aquila e Latina, avevano, invece, bloccato il cosiddetto Ordine ario romano, composto da nazisti inneggianti alla «purezza della razza», tra i 26 e i 62 anni, che avevano in animo anche di colpire una struttura Nato. Tra loro un carabiniere. Negazionisti dell’Olocausto postavano sui social (Facebook e Vkontakte) slogan del tipo: «Fuori i giudei dall’Italia». Agli inizi di luglio, un nuovo gruppo denominato Avanguardia rivoluzionaria, fondato sui disvalori del nazifascismo e del suprematismo bianco, era a sua volta finito nel mirino della Digos e della magistratura. Quattro ventenni, tutti studenti universitari, vennero bloccati a Milano con manganelli e coltelli mentre si…

L’intervista prosegue su Left del 29 aprile 2022 

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Najwan Darwish, il poeta dell’uguaglianza

Najwan Darwish, classe 1978, nasce a Gerusalemme e ad oggi è considerato uno dei più importanti poeti arabi contemporanei. Dalla pubblicazione della sua prima raccolta nel 2000, la sua poesia è stata acclamata a livello internazionale come una straordinaria espressione della lotta palestinese. Pubblicato in Italia per Il ponte del sale edizioni, Più nulla da perdere è il primo libro tradotto in italiano del poeta palestinese.
La traduzione dall’arabo è a cura di Simone Sibilio, professore di lingua e letteratura araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia, anche lui poeta. Lo stesso Najwan ritiene fondamentale e prezioso il lavoro di Sibilio, capace di trasformare il linguaggio mantenendo intatto l’intero corpo delle sue poesie.
L’autore con i suoi scritti rompe i confini nazionali e ridisegna la propria identità, affermando di fare parte di ogni umanità maltrattata, dal popolo curdo a quello iracheno, dall’ebreo espulso da al-Andalus all’armeno «incredulo alle lacrime sotto le palpebre della Storia». Spesso definito da critici letterari “poeta internazionalista”, Najwan mette in discussione il concetto stesso di “nazionale” o “internazionale”.

Può approfondire per i lettori di Left la sua riflessione sul concetto di identità nazionale ?
Credo che il concetto di nazionale e internazionale siano tematiche che appartengono a secoli passati. L’identità nazionale è un’invenzione, creata ad hoc per controllare le popolazioni. Attraverso la narrazione, nello specifico quella dell’identità nazionale, si costruiscono tratti che ti differenziano da un’altra nazione ed è su quello si esercita il potere del controllo e dell’appartenenza nazionale. La poesia in tal senso ci aiuta poiché è liberazione per sua definizione. Un poema è liberazione che tu lo legga o lo scriva. Questo è il modo che hanno gli esseri umani di liberarsi dalla pressione sociale, politica, economica, dalle catene della società.

Quanto ha influito sul suo avvicinamento alla poesia il nascere e crescere in una città come Gerusalemme, sotto occupazione militare?
Ricordo di quando ero piccolo, avrò avuto dodici o tredici anni, e mi trovavo in uno di questi campi estivi con altri studenti francesi. Alla fine della gita nei luoghi sacri di Gerusalemme, si era organizzato un incontro tra studenti palestinesi e francesi. Uno dei professori parlava di come il colonialismo era necessario e…

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De Palma (Fiom-Cgil): La forza del sindacato nel deserto della politica

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 06-04-2022 Roma Politica Michele De Palma eletto segretario generale della Fiom-Cgil Nella foto Michele De Palma Photo Roberto Monaldo / LaPresse 06-04-2022 Rome (Italy) Michele De Palma elected general secretary of the Fiom-Cgil union In the pic Michele De Palma

Una crisi nella crisi. Prima due anni di pandemia, con degli strascichi importanti ancora in corso in termini socio-sanitari, poi l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin che ha portato con sé, oltre alla tragedia umanitaria in Est Europa, conseguenze pesantissime in gran parte delle economie occidentali e nella nostra in particolare, dipendente com’è dal gas russo. Il mondo dei lavoratori, stretto nella morsa del carovita, della precarietà e degli incidenti sui luoghi di lavoro che non accennano a diminuire, si prepara a celebrare il Primo maggio del 2022 dovendo fare i conti con uno dei momenti più complessi della storia recente del nostro Paese. Ne parliamo con Michele De Palma che all’inizio di aprile è stato eletto segretario generale della Fiom-Cgil.

L’Inail segnala che nel 2021 ben 1.221 persone sono morte sul lavoro. Nei primi due mesi del 2022 le vittime sono state 114. Secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna, che tiene conto anche dei lavoratori senza contratto, nel 2022 hanno perso la vita 407 persone mentre lavoravano. Cosa deve fare l’Italia per prevenire questa carneficina?
Il dramma delle morti sul lavoro non è soltanto una questione tecnica o almeno non possiamo affrontarla solo con questa visione. È la conseguenza di…

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I Curdi, il popolo proibito

Kurds dancing during a demonstration in Cologne, Germany, 3 September 2016. Several thousand Kurds assembled for a demonstration against Turkish government policy. Photo by: Oliver Berg/picture-alliance/dpa/AP Images

«I curdi non hanno amici se non le montagne». Questo vecchio proverbio scatta una fotografia forse più efficace di tante analisi sulla storia e sul destino di un popolo per lo più ignorato da un mondo distratto e occupato com’è da tutt’altre vicende. Ecco (anche) perché tiranni come Recep Tayyip Erdoğan si prendono ancora la libertà, per esempio, e soltanto qualche giorno fa, di lanciare indisturbati una nuova offensiva militare nel Kurdistan, a nord dell’Iraq e vicino al confine con la Turchia, nel cuore del Pkk, il Partito dei lavoratori, per colpire le basi curde e sempre con una scusa: stavolta un presunto piano militare “su larga scala” da parte dei guerriglieri. Una “Minority report” tutta turca, dunque, per giustificare l’ingiustificabile. E per far alzare in volo aerei ed elicotteri di notte, coadiuvati dagli ormai celebri droni Bayraktar (fondamentali nella difesa degli ucraini contro l’avanzata russa) nelle regione di Zap, Metina e Avasin Basyan distruggendo, secondo il racconto di Ankara, depositi di armi e munizioni, rifugi e basi strategiche del nemico. Ma per quanto si sforzino i visir di Erdoğan di precisare che l’operazione – un nuovo livello dei “giochi” di guerra contro il Pkk, lo ricordiamo considerato alla stregua di un’organizzazione terroristica, iniziati nel 2020 e denominati “artiglio” – sia stata decisa soltanto per colpire i terroristi, appunto, e che terrà ben in conto l’integrità dell’Iraq, l’incidente diplomatico è aperto.

«Consideriamo queste…

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Contro il westplaining

Foto Claudio Furlan/LaPresse 25 Aprile 2022 Milano (Italia) News Manifestazione per il 25 Aprile festa della Liberazione, corteo da Corso Venezia Photo Claudio Furlan / LaPresse 25 April 2022 Milan (Italy) News Demonstration for April 25, Liberation Day, parade from Corso Venezia

“Westplaining”. Si è reso necessario addirittura un neologismo per indicare l’atteggiamento razzista con cui una parte delle sinistre europee e nordamericane parlano della guerra in Ucraina. Il termine anglofono – composto da West, cioè “Ovest”, e il verbo explain, che significa “spiegare” – è stato coniato dalla sinistra dell’Europa dell’Est e si riferisce alla tendenza di un certo progressismo radicale occidentale a considerare tutto ciò che accade ad Est della Germania come un prodotto delle politiche d’Occidente. Questo modo di leggere la realtà, di fatto, squalifica gli attori dello scenario geopolitico dell’Europa orientale, trattandoli come oggetti e non come soggetti, negando insomma la loro identità e la loro capacità di iniziativa.

Secondo questa prospettiva, Putin avrebbe invaso l’intera Ucraina come conseguenza diretta dell’allargamento ad Est della Nato, Zelensky non sarebbe altro che un burattino manovrato da Biden, i militari e i cittadini che resistono una propaggine dell’esercito statunitense, i governi dell’Est Europa che sostengono Kiev gli utili idioti della Casa Bianca e del Patto atlantico. La parola “westplaining” non è del tutto “nuova”: è una variante sul tema del meno recente neologismo “mansplaining”, con cui viene definito l’atteggiamento di alcuni uomini (ma non solo) quando in modo paternalistico e saccente spiegano ad una donna qualcosa di ovvio, o che essa stessa già conosce, nella presunzione di saperne sempre e comunque più di lei, in quanto uomo. Ora, volendo fare un paragone, se il mansplaining è chiaramente frutto del maschilismo, il westplaining può essere considerato una sorta di figlio indiretto del pensiero colonialista e suprematista: poiché ogni colpa della Storia dipenderebbe dall’ingordigia di noi occidentali, non può esistere un’altra causa per un conflitto come quello in Ucraina, né un altro potere altrettanto spietato di quello occidentale e dotato di una propria agenda imperialista a cui è necessario opporsi. Si arriva dunque al paradosso di un “anticolonialismo colonialista”, che vorrebbe imporre ai popoli oppressi quali devono essere i loro nemici, di fatto sovradeterminando i loro desideri e la loro volontà.

Uno degli effetti più evidenti di questo fenomeno è la relativa poca attenzione che le forze politiche e i media occidentali di sinistra (e, a fortiori, quelli mainstream) hanno dedicato al punto di vista sulla guerra maturato dalla sinistra democratica ucraina, da quella russa e più in generale dell’Europa orientale. Si tratta di…

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Prigioni incivili: Paese incivile

FOTO DI REPERTORIO ©LAPRESSE 05/01/2012 Carceri:scontro governo-polizia

Come tutti gli anni il XVIII Rapporto annuale dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia dipinge un quadro desolante.

In Italia il tasso ufficiale di affollamento delle carceri risulta del 107,4% ma il dato reale racconta di una Puglia al 134,5%, la Lombardia al 129,9%, il carcere di Canton Mombello al 185%, Varese al 164%, e Bergamo e  Busto Arsizio al 165%.

I detenuti con condanne in via definitiva erano il 69,6% dei presenti al 31 dicembre 2021, mentre 10 anni prima erano il 56,9%. Una crescita di 10 punti percentuali in 10 anni. Da tempo infatti si registra una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare e dunque in proporzione alla crescita tra i presenti di persone con una condanna definitiva. Ancora però i numeri sono altissimi.

Sono 1.810 gli ergastolani, di cui 119 stranieri. Nel 2012 erano 1.581, nel 2002 erano 990, nel 1992 erano 408. Sono cresciuti di 1.402 unità in trent’anni.

Dei detenuti in carcere alla fine del 2021, il 3% stava scontando una pena inflitta fino ad un anno, il 19% fino a 3 anni, il 18% da 10 a 20 anni, il 7% oltre 20 anni, il 5% l’ergastolo. Quanto alla pena residua, il 18% aveva un residuo pena fino ad un anno, il 52% fino a 3 anni, il 6% da 10 a 20 anni, l’1% oltre 20 anni (cui si aggiunge il 5% che scontava l’ergastolo). Un numero enorme di detenuti dunque, per la precisione 19.478, deve scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative.

Per quanto riguarda i servizi sanitari e igienici, dei 24 istituti con donne detenute visitati da Antigone nel 2021 il 62,5% disponeva di un servizio di ginecologia e il 21,7% di un servizio di ostetricia. Solo nel 58,3% degli istituti visitati le celle erano dotate di bidet, come richiesto dal regolamento di esecuzione da più di vent’anni.

Al 31 marzo 2022, erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario. Di questi, il gruppo più consistente è composto da 8 bambini ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un istituto penitenziario. A questo segue un gruppo di 4 bambini all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile. Ospitano poi due bambini ognuno gli Icam interni alla Casa Circondariale di Milano San Vittore e di Torino e la Casa Circondariale di Benevento. Un solo bambino si trova invece all’interno dell’Icam della Casa di Reclusione Femminile di Venezia. A fine 2021 i bambini in carcere erano 18, il numero più basso registrato negli ultimi decenni. Dopo i picchi raggiunti nei primi anni 2000, quando si sono arrivati a contare anche più di 70 bambini in carcere, negli ultimi dieci anni i numeri sono complessivamente diminuiti seppur con un andamento piuttosto altalenante.

Gli stranieri, nonostante la narrazione, non sono i “più pericolosi delinquenti”: la pena residua dei detenuti stranieri (dati al 31 dicembre 2021) è generalmente più bassa rispetto alla media: il 24,3% degli stranieri sconta infatti un residuo di pena tra 0 e 1 anno, a fronte di una percentuale generale del 18%. Il 42,2% degli stranieri sconta tra 0 e 5 anni di residuo pena, a fronte del 37,6% del totale della popolazione detenuta che sconta lo stesso residuo. Solo il 2,6% dei detenuti stranieri ha una pena inflitta a più di 20 anni di carcere, a fronte del 6,6% della popolazione totale detenuta. l’1% dei detenuti stranieri sconta la pena dell’ergastolo, a fronte del 4,8% del totale della popolazione detenuta.

Nel 2020 il tasso di suicidi era pari a 11.4, ben superiore alla media europea annuale attestatasi a 7.2 casi ogni 10.000 persone detenute. Il Paese con il tasso più alto è la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4) e Lussemburgo (18). Importante notare inoltre come l’Italia sia tra i Paesi europei con il più alto tasso di suicidi.

«A proposito del regolamento di esecuzione del 2000, di cui sarebbe urgente un aggiornamento, questo prescriveva che le “camere detentive” fossero dotate di doccia, riscaldamento adeguato ed acqua calda. In molti degli istituti da noi visitati – si legge nel rapporto di Antigone – ci sono ancora celle che non rispettano queste condizioni. Nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta, ma in un angolo della cella. A Carinola ad esempio, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo ed il letto. A San Severo in Puglia il bagno è separato dal resto della stanza esclusivamente tramite un pannello dell’altezza di circa 3 metri».

Sono quasi 17.000 i detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche. Molti lavorano per poche ore al giorno o pochi giorni al mese. Il budget non consente la piena occupazione e si cerca di distribuire il benefit. I detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2022 erano 2.305, rappresentando il 4,3% sul totale dei detenuti. Tra questi i semiliberi erano 799 e le persone in articolo 21 erano 551. Lavoravano in istituto per imprese 242 detenuti e 713 detenuti lavoravano per cooperative. Scrive Antigone: «Secondo la nostra rilevazione, in media nei 96 istituti visitati il 33% dei detenuti presenti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria; di questi buona parte è impiegato sempre in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti era invece in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Il dato è peraltro molto disomogeneo. In Emilia-Romagna questa percentuale era del 4%, in Campania dello 0,3%. In 37 istituti visitati, più di un terzo del totale, non abbiamo trovato alcun detenuto impiegato per un datore di lavoro diverso dal carcere stesso. In un istituto importante come Poggioreale lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti, meno del 13%».

Questi sono solo alcuni dei punti critici del rapporto. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione», recita la frase attribuita a Voltaire. A voi il giudizio.

Buon venerdì.

Il sogno (infranto) di un’Europa politica

IMAGE DISTRIBUTED FOR AVAAZ - Candles and lights form a giant peace sign during the Avaaz peace vigil action in front of the European Council and Commission buildings on Tuesday, March 22, 2022 in Brussels, Belgium. Avaaz calls on Europe to get off Russian oil to stop the Ukraine war ahead of the European Council summit with US President Biden. Olivier Matthys/AP Images for Avaaz Foundation)

Terzo mese di guerra. L’offensiva imperialista di Putin, benedetta dalla Chiesa del patriarca Kirill, non si ferma. In Ucraina distruzioni, depredazioni, eccidi, esecuzioni di civili, stupri come arma di guerra, come già in Bosnia, come accade quotidianamente nei lager libici.

L’escalation militare sostenuta dalla Nato e dagli Usa che hanno armato e addestrato per 8 anni gli ucraini e ora inviano armi pesanti – con tutta evidenza – non ferma il conflitto. Non serve neanche a garantire corridoi umanitari sicuri per mettere in salvo la popolazione. Ma anche di fronte a questa drammatica evidenza in molti – compreso l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Borrell – dicono irresponsabilmente che la soluzione non si potrà che giocare sul campo militare, in un confronto di forze. Costi quel che costi in termini di vite umane fra i civili ucraini.

Quando già c’è stata una immane carneficina e non si contano più le fosse comuni. Il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Austin ha affermato esplicitamente che l’obiettivo primario è indebolire Putin, non far cessare il fuoco. Del resto il presidente Biden aveva già parlato della necessità di un cambio di regime al Cremlino. Si palesa così la strategia che avevamo sempre paventato, di una guerra per procura fra Usa e Russia, sulla pelle degli ucraini. Intanto il conflitto rischia di allargarsi ulteriormente. E il ministro degli esteri russo Lavrov torna ad agitare lo spettro della terza guerra mondiale.

A fronte di questa escalation di violenza iniziata con il deliberato e criminale attacco di Putin chiediamo con forza una escalation diplomatica. Chiediamo che l’Europa non rinunci a giocare un ruolo di primo piano nel cercare di avviare una trattativa, per trovare una via di uscita dal conflitto. Non lasciando che sia solo un autocrate come Erdoğan a proporsi come mediatore. Mediatore, peraltro, interessato e bifronte che fornisce armi all’Ucraina e al contempo tesse rapporti economici con l’amica-nemica Russia (dal nucleare al turismo). Mediatore interessato che riceve fiumi di denaro dalla stessa Europa per la gestione repressiva dei flussi migratori.

Nella partita della guerra russa all’Ucraina Erdoğan punta a rifarsi un’immagine internazionale, mentre violentemente attacca i curdi e reprime il dissenso interno. Basti pensare all’ignominia dell’ergastolo comminato all’editore e filantropo Osman Cavala, reo di aver sostenuto la pacifica protesta di Gezi Park.

L’Unione europea intanto tace e ne è complice. Lo rimarchiamo con dolore, da innamorati del sogno di un’Europa politica come casa comune dei popoli e delle culture, culla dei diritti civili e sociali, preconizzata dagli antifascisti Rossi, Colorni e Spinelli nel 1941 nel carcere di Ventotene. Un’Europa che non sia solo una mera unione di mercati ha il dovere di non arrendersi alla logica della violenza e della sopraffazione, ha il dovere di costruire una prospettiva di pace anche giocandosi la carta del dialogo con la Cina, sollecitandone il lavoro diplomatico in Russia e l’uscita dall’ambiguità.

Fin qui malgrado abbia votato contro la sospensione della Russia dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, malgrado l’esplicita contrarietà alle sanzioni, non risulta che Pechino abbia aiutato concretamente Putin nella sua pazza guerra di aggressione. La tradizionale politica cinese di non ingerenza, l’esigenza di stabilità e di globalizzazione commerciale, fanno sì che Xi Jinping, anche in vista di un terzo mandato presidenziale a ottobre, non abbia alcun interesse a fomentare la guerra in Ucraina, per quanto possa in certo modo profittare dell’indebolimento della Russia.

Ora che i Paesi del gruppo di Visegrad appaiono divisi e indeboliti dall’esito delle elezioni in Francia e Slovenia, Bruxelles dovrebbe anche tornare a guardare al Mediterraneo invertendo radicalmente la rotta rispetto a politiche di esternalizzazione dei confini e di commercio di armi che non fanno che alimentare regimi autoritari (dall’Egitto alla Turchia) e conflitti. Emblematico è il caso dalla Libia, uno Stato di fatto fallito, in mano a bande di trafficanti e schiavisti ampiamente foraggiati dall’Europa e in particolare dall’Italia, grazie agli accordi stipulati da Gentiloni.

Ma su questo numero parliamo anche del Marocco che nega i diritti del popolo Saharawi con la complicità della Spagna. Parliamo della lotta del popolo curdo, che l’Europa ha abbandonato dopo averne esaltato l’eroica resistenza all’Isis. Parliamo di Yemen, dove la guerra non si è mai fermata dal 2015 e dove fino a poco più di un anno fa la popolazione civile è stata attaccata dalle bombe saudite fabbricate in Germania, in Gran Bretagna e in Italia. Parliamo di Palestina dove, nel silenzio generale, Israele continua le sue politiche di occupazione, colonizzazione e discriminazione. Parliamo di Afghanistan dove, dopo la disastrosa occupazione e ritirata delle truppe Usa e Nato, si sta consumando una immane tragedia umanitaria.

Quell’Europa che giustamente ha aperto le porte ai profughi ucraini non le chiuda davanti a quelli provenienti dalla Siria, dall’Iraq, dallo Yemen, dai tanti Paesi africani dove guerre, tirannie e povertà negano una possibilità di vita.

L’editoriale è tratto da Left del 29 aprile 2022 

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Trentatré guerre, più una

Sono i numeri che raccontano come e dove viviamo. All’inizio del 2022 – sembra trascorsa un’era geologica – ci dicevano che un miliardo di esseri umani nel Pianeta muore letteralmente di fame. E ancora, ci spiegano che 270milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria casa, la propria storia, per tentare di avere un futuro migliore altrove. Due miliardi di uomini e donne non hanno accesso all’acqua, centinaia di milioni di bambini non possono in alcun modo andare a scuola. Questo perché quasi metà della popolazione mondiale vive con meno 5,5 dollari al giorno. Intanto, però, nel 2021 abbiamo speso 2mila miliardi di dollari in armi.

Numeri, dati, che rappresentano diritti mancati, ignorati, assenti. Cifre che disegnano ingiustizie e raccontano quale sia la “benzina” che alimenta le trentaquattro guerre nel mondo. Perché sono trentaquattro i luoghi in cui si combatte fra eserciti di Paesi nemici, oppure si lotta fra milizie irregolari e eserciti nazionali per la contesa del potere o, infine, sono situazioni in cui la guerra è ferma solo perché una forza militare terza – ad esempio i Caschi blu dell’Onu – garantiscono la non belligeranza. A tutto questo dobbiamo aggiungere una quindicina di aree di crisi accesa, non ancora diventata guerra.

Sono questi i numeri che fotografano il Pianeta, in questa tarda primavera del 2022. E se la nostra attenzione è concentrata sull’…

* L’autore: Raffaele Crocco è giornalista, saggista e direttore responsabile de L’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo. Maggiori info su: www.atlanteguerre.it. In alto, un’infografica aggiornata a giugno 2021, tratta dall’Atlante (Terra nuova edizioni)

L’articolo prosegue su Left del 29 aprile 2022 

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Sulla base militare di Coltano Guerini deve battere la ritirata

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 25-02-2022 Roma, Italy Politica Senato - Informativa del Presidente del Consiglio Draghi sulla crisi tra Russia e Ucraina Nella foto: il Ministro della Difesa Paolo Guerini e il Presidente del Consiglio Mario Draghi durante l’ intervento in aula sulla crisi Ucraina Photo Mauro Scrobogna / LaPresse February 25, 2021 Rome, Italy Politics Senate - Information from the Prime Minister Draghi on the crisis between Russia and Ukraine In the photo: Defence Minister Paolo Guerini and Prime Minister Mario Draghi during the speech in front of the Senate on the Ukraine crisis

Quindi alla fine sapevano. Il governo fa una parziale retromarcia sulla costruzione di una base da 70 ettari per accorpare reparti specializzati dei Carabinieri a Coltano, nel Parco di San Rossore. Tramonta la brillante idea di usare i soldi del Pnrr per costruire una base militare nel cuore di un parco protetto, a san Rossore Migliarino Massaciuccoli in Toscana, che con i suoi 23mila ettari è importantissimo per la biodiversità, per il turismo che porta al territorio e per la sua storia che passa dagli etruschi agli antichi romani.

Nella foga bellica il ministro della guerra Guerini aveva pensato che non ci fosse nulla di più simile a una “ripresa” di un piano da oltre 440mila metri cubi di nuove edificazioni da costruire dentro il territorio protetto del parco, su una area complessiva di 730mila metri quadrati dove dovrebbero sorgere villette a schiera, poligoni di tiro, edifici, infrastrutture di addestramento, magazzini, uffici e autolavaggi.

Con un ordine del giorno del Movimento 5 Stelle ora il governo ci ripensa. Del resto il Pd toscano era sobbalzato sulla sedia e perfino Letta aveva ritenuto l’idea sbagliata. Ora si valuterà un altro luogo (sempre lì in provincia di Pisa) dove costruire comunque questa bella colata di cemento militare.

Rimangono però almeno due dubbi. Innanzitutto sarebbe bello conoscere il motivo per cui il Pd non sa cosa fa la sua mano destra (il ministro Guerini) mentre parla di ambientalismo con la mano sinistra. Come racconta Riccardo Ricciardi del M5S (che ha presentato l’ordine del giorno): «Il governo ha chiarito che il Pd, tramite il presidente Parco, sapeva da molti mesi di Coltano». Il secondo dubbio sta nell’esultanza generale per uno “spostamento” di un progetto che si ritiene sbagliato. Se è sbagliato perché farlo?

Buon giovedì.

A proposito degli immigrati come risorse

Afana Bella Dieudonne è arrivato dal Camerun il 5 ottobre del 2014, sbarcato da una nave della guarda costiera, dopo essere stato salvato da una imbarcazione della ong Migrant Offshore Aid Station (Moas). È riuscito a vivere nei primi anni grazie a 5.200 euro annui di una borsa di studio per i migranti (in servizi di biblioteca, mensa e alloggio) tra Pistoia e Cerignola. Ad aprile 2019 è finito sui giornali per aver soccorso una ragazza di origini nigeriane picchiata da un suo connazionale risiedente al Cara. C’erano tante persone durante l’aggressione ma solo Afana l’ha aiutata e poi ha convinto la giovane a sporgere denuncia scortandola fino in Questura. Sognava di  finire le scuole magistrali e prendere un dottorato in cooperazione internazionale.

Il 22 aprile si è laureato per la terza volta con il massimo dei voti a Bari. Afana è anche l’amministratore delegato della Società Cooperativa Terra Nostra. La sua terza laurea magistrale è in Relazioni internazionali e studi europei. Titolo ottenuto dopo la laurea triennale in Comunicazione linguistica e interculturale all’Università di Bari e dopo aver anche conseguito in master in Risorse umane e organizzazione all’Università Cattolica sacro cuore di Milano.

Nella foto pubblicata su Facebook scrive: «110 e Lode… 3 volte dottore in Italia ma di questo non parleranno i media. Se invece un immigrato sbaglia c’è il mainstream». «Posso essere considerato come un immigrato integrato?», chiede Afana. La domanda sembra una provocazione e invece è il sintomo di un Paese che cambia nonostante i razzisti, i conservatori sconnessi dalla realtà e una politica che guarda il mondo con gli occhi di decenni fa.

Buon mercoledì.

Foto dalla pagina facebook di Afana Bella Dieudonne