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Fortezza Polonia

A cuddly toy doll is seen hooked on a barber wire separating Ukraine and Poland at the Medyka border crossing in Poland, Friday, April 15, 2022. (AP Photo/Emilio Morenatti)

«Quello che ho visto nella regione di Podlasie, al confine con la Bielorussia è stata per me un’esperienza limite», dice Rut Kurkiewicz che da oltre sei mesi racconta su media polacchi e stranieri quello che stanno vivendo i profughi non europei nella grande foresta che separa la “sua” Polonia dal Paese del dittatore Lukashenka. Forse nessuno più di lei in questo momento ha il polso della situazione ed è a lei che ci rivolgiamo per fare il punto.
«Ho incontrato persone completamente indifese, inermi, alla mercé dei servizi segreti polacchi – dice -, l’atmosfera di paura e le brutali violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato membro dell’Ue sono all’ordine del giorno da mesi. Le persone muoiono di freddo tra gli alberi, la polizia polacca e quella bielorussa abbandonano le famiglie con i bambini nelle paludi: non c’è un aiuto sistematico, c’è razzismo diffuso, sistematico».

Oltre un mese fa è iniziata l’invasione da parte delle truppe della Federazione russa del territorio dell’Ucraina. Lei dove si trovava e cosa ha pensato?
La guerra mi ha trovato a Norimberga (sic!), stavo andando a Gibilterra. Prima del viaggio, ho parlato con alcuni amici, nessuno di noi credeva che fosse possibile una invasione dell’Ucraina. Il fatto che la Russia avesse riconosciuto le repubbliche del Donbass era in qualche modo comprensibile, ma le mosse successive della Russia erano inspiegabili. È stato uno shock. E paura. In quel momento mi stavo allontanando dalla Polonia, e mi chiedevo se sarei stata in grado di tornare, dato che la situazione stava precipitando. Poche ore dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ho ricevuto la prima drammatica richiesta di aiuto da parte di amici di Berlino per far evacuare le loro famiglie da Kiev. L’ondata di rifugiati è iniziata immediatamente.

Ad oggi, la Polonia ha già accolto più di 2,5 milioni di ucraini.
Sì ma allo stesso tempo, purtroppo, devo dire che per me la guerra è iniziata molto prima, in ottobre, nella regione di Podlasie, sul confine polacco-bielorusso.

Negli ultimi mesi su Left grazie all’attivista Nawal Soufi più volte abbiamo documentato soprusi e violenze subiti dai profughi. Qual è la situazione oggi?
È la stessa ormai dall’agosto del 2021. Come è noto il regime bielorusso di Alexander Lukashenka ha creato una nuova rotta migratoria servendosi di “agenzie di viaggio” che offrivano ai migranti da Iraq, Siria e Kurdistan l’accesso in Europa. Essendo questa rotta alternativa a quelle, pericolosissime, del Mediteraneo e dei Balcani decine di migliaia di persone hanno sperato di …

L’articolo prosegue su Left del 22-28 aprile 2022 

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Francesco Vignarca: Quelle accuse inaccettabili ai pacifisti

In questi quasi due mesi di guerra, nel dibattito pubblico italiano sono emerse tante contraddizioni e spaccature. In alcuni partiti il conflitto in Ucraina ha portato anche fratture importanti specie nell’area della sinistra. Ne parliamo con Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana pace e disarmo, il network italiano di associazioni, ong, sindacati e movimenti che ha organizzato il corteo nazionale per la fine della guerra dello scorso 5 marzo a Roma.

Prima di tutto le chiedo un giudizio sull’andamento di questa guerra. In queste settimane sono stati fatti vari tentativi di negoziato, anche con la mediazione della Turchia. Possibili spiragli per la pace?
Noi speriamo sempre che ci siano spiragli di natura diplomatica, perché crediamo che solo in questo modo si possa prima far cessare il fuoco e poi provare ad arrivare a una pace duratura, che sono due cose diverse e devono essere ben collegate. Al momento non abbiamo ancora elementi per capire se i vari colloqui in corso arriveranno ad essere coronati da successo. In generale quello che pensiamo noi è che una vera mediazione possa essere fatta solo in maniera multilaterale: non crediamo infatti che un singolo mediatore possa avere successo in quanto ciascuno ha le proprie fragilità e può essere non accettato da una delle controparti. Noi pensiamo che solo un tavolo che veda tutte le grandi potenze e anche le istituzioni internazionali presenti, oltre ovviamente a Ucraina e Russia, potrà avere un reale successo.

Veniamo ai punti divisivi. Il primo è quello dell’invio di armi da parte dei governi Ue all’Ucraina. Invio che ha consentito di resistere alla aggressione russa. La vostra proposta è stata la «neutralità attiva». Una proposta che vi ha, al di là delle vostre intenzioni, attirato forti critiche. Come si può esercitare una «neutralità attiva» o «nonviolenza attiva», di fronte a Putin che fa stragi di civili?
Va precisato che la nostra proposta di neutralità attiva era…

Nella foto, Manifestazione per la pace a Roma, 5 marzo 2022. Foto di Lorenzo Foddai

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Intanto gli altri morti continuano a morire

Tunisian coast guards stand next to the clovered dead bodies of migrants in the port of Sfax, central Tunisia, Thursday, Dec. 24, 2020. About 20 African migrants were found dead Thursday after their smuggling boat sank in the Mediterranean Sea while trying to reach Europe, Tunisian authorities said. Coast guard boats and local fishermen found and retrieved the bodies in the waters off the coastal city of Sfax in central Tunisia. (AP Photo/Houssem Zouari)

Le autorità tunisine hanno dichiarato domenica (24 aprile) che 17 corpi sono stati recuperati dopo che quattro barche si sono capovolte nel Mar Mediterraneo vicino alla costa tunisina. Mourad Turki, un portavoce a Sfax, ha affermato che le barche erano in cattive condizioni e che erano partite dalla città portuale durante la notte da venerdì a sabato (22-23 aprile).

Le vittime includevano una donna e “almeno un bambino”, ha detto Turki, ma il bilancio potrebbe aumentare. I sopravvissuti hanno detto che “c’erano tra le 30 e le 32 persone a bordo di ogni barca”. La maggior parte proveniva da Paesi dell’Africa subsahariana, tra cui Costa d’Avorio, Mali e Somalia.

La marina tunisina ha dichiarato di aver salvato 98 sopravvissuti dalle quattro piccole imbarcazioni. Un portavoce della Guardia nazionale tunisina a Sfax, Ali Ayari, ha confermato che le barche erano dirette in Italia.

Domenica scorsa, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’immigrazione Iom in Tunisia ha twittato che erano stati recuperati 12 corpi.

L’agenzia di stampa Reuters ha riferito domenica che i corpi di tre persone sono stati recuperati in Tunisia e altre 155 persone sono state detenute, secondo l’agenzia di stampa statale tunisina. Lo stesso rapporto afferma anche che 76 migranti sono stati soccorsi al largo della costa tunisina a Mahdia, a circa 100 chilometri a nord di Sfax. Non sono disponibili ulteriori dettagli.

Muoiono così tante persone nel mare che non c’è più spazio nei cimiteri, ha detto Mourad Turki all’agenzia di stampa dpa domenica.

I corpi vengono distribuiti tra vari cimiteri in altre regioni, secondo Turki. Fonti dell’ospedale locale di Sfax hanno detto che circa 50 corpi di coloro che erano morti in passati naufragi sono rimasti negli obitori in attesa di sepoltura.

Al largo della costa libica, secondo quanto riferito, almeno sei persone sono morte quando la loro barca è affondata nel fine settimana. Nel frattempo, domenica le autorità libiche hanno arrestato e detenuto più di 540 persone, per lo più cittadini del Bangladesh, mentre provavano a partire per l’Europa.

L’Oim afferma che il Mediterraneo centrale, dalla Libia e dai Paesi del Maghreb all’Italia e a Malta, è la rotta migratoria più pericolosa al mondo. L’agenzia delle Nazioni Unite stima che più di 1.500 persone siano morte o scomparse nel Mediterraneo centrale nel 2021, e oltre 500 finora nel 2022.

Buon lunedì.

La forza della Costituzione

Nessuno avrebbe mai immaginato che avremmo festeggiato il 25 aprile, la festa di Liberazione dal nazifascismo, nel bel mezzo di una guerra, con le morti, le devastazioni, il dolore, la crudeltà e gli orrori che accompagnano tutte le guerre, anche quelle tante guerre dimenticate nel mondo e dal mondo.

La Cgil ha chiesto e continua a chiedere che prevalga la pace ed una soluzione negoziata e che si avvii una seria azione diplomatica europea e internazionale. Lo abbiamo gridato dalle piazze con tante organizzazioni e associazioni, all’indomani del 24 febbraio, data dell’avvio dell’aggressione russa all’Ucraina e non ci stancheremo di farlo in tutte le iniziative previste nelle prossime settimane, a partire dal primo maggio. Oggi infatti – a due mesi dall’avvio del conflitto – purtroppo le parole pace e negoziato sembrano scomparse dal lessico e soprattutto dalle azioni. Al contrario stiamo assistendo ad un prolungamento del conflitto e ad una scelta di riarmo generalizzata in Europa e nel mondo.

La prima riflessione è quindi che il 24 febbraio segna indubbiamente uno…

* L’autrice Gianna Fracassi è vice segretaria generale della Cgil

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Il colore della Resistenza

Una data divisiva, un’occasione di scontro fra opposti estremismi. Il giorno della Liberazione è sempre più ai margini del nostro calendario civile, e oggi a maggior ragione, viste le aggressioni mediatiche a cui è sottoposta la principale associazione partigiana, l’Anpi. Eppure nelle ultime settimane politici e mass media ricorrono con crescente insistenza all’uso del termine “resistenza” in riferimento alla guerra in corso in Ucraina. Per decenni era sembrata una parola fuori moda, appannaggio di una piccola categoria di intellettuali e nostalgici. Alla Resistenza si preferiva la “resilienza”, questa sì positiva e condivisa. Il messaggio era chiaro: oggi non serve più combattere, lottare, difendere la democrazia e i suoi valori; è sufficiente adeguarsi, adattarsi a una società pacificata e florida. Gli avvenimenti degli ultimi due anni, e ancora di più degli ultimi tre mesi, hanno cambiato radicalmente questa sensazione, riportando in auge espressioni che richiamano l’epoca fascista e la guerra di liberazione. Si è parlato di “dittatura sanitaria” in relazione alle politiche adottate in seguito alla crisi pandemica; si parla oggi di “totalitarismo” putiniano, di “genocidio” russo e di “resistenza” ucraina. Le categorie di analisi ereditate dalla Seconda guerra mondiale sembrano oggi più attuali che mai. Ma ha davvero senso utilizzarle? Non rischiano piuttosto di creare confusione, di produrre un appiattimento, una rinuncia alla comprensione della complessità degli eventi?

Una scelta
Per comprendere il senso di questi riferimenti è necessario ribadire cosa è stata la…

 

* L’autore: lo storico Eric Gobetti è studioso del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza. Autore di numerosi saggi, ha pubblicato nel 2021 E allora le foibe? (Laterza). Per approfondire vedi l’intervista di Leonardo Filippi pubblicata su Left del 5 febbraio 2021

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Mezzogiorno resistente, il contributo decisivo del Sud alla Liberazione

Settantasette anni fa i partigiani entravano vittoriosi a Milano, capitale dell’Alta Italia come allora si diceva, liberando il Centro-Nord dall’occupazione tedesca e riunendo il Paese rimasto diviso lungo un confine mobile, progressivamente spinto a settentrione dall’avanzata degli Alleati. La resistenza al nazifascismo, dopo venti durissimi mesi, aveva infine trionfato. Per fissare la data di inizio di questa guerra di liberazione gli storici hanno scelto l’8 settembre 1943, il giorno in cui il maresciallo Pietro Badoglio, assunto su incarico del re la guida del governo dopo l’esautorazione di Mussolini, annuncia l’armistizio raggiunto nei giorni precedenti con gli anglo-americani.

A quella data i tedeschi, dopo aver abbandonato la Sicilia in seguito allo sbarco alleato del 9 luglio, sono già in ritirata per attestarsi, in ottobre, a nord di una linea difensiva che taglia in due la penisola dal Tirreno all’Adriatico. La linea Gustav, estendendosi dalla foce del Garigliano alla città di Ortona, risparmia dall’occupazione nazista buona parte del territorio meridionale. Questa la ragione per cui si è soliti pensare alla Resistenza come a un evento storico che ha interessato pressoché esclusivamente l’Italia del Centro-Nord.

Tuttavia, nelle poche settimane durante le quali, dopo l’8 settembre, l’esercito tedesco si accampò sul territorio meridionale non mancarono gli episodi di aperto contrasto all’ex alleato da parte della popolazione civile. L’episodio certamente più noto è quello delle Quattro giornate di Napoli, troppo spesso e riduttivamente rappresentato come un moto di spontanea ribellione.

In realtà dal 28 settembre al primo ottobre 1943 fu tutt’altro che marginale il ruolo svolto da alcuni ufficiali dell’esercito italiano come il capitano Enzo Stimolo; inoltre quella rivolta aveva avuto una lunga incubazione e traeva origine dall’esistenza nella capitale del Mezzogiorno di una rete di migliaia di iscritti alle principali formazioni antifasciste clandestine, prime fra tutte quelle del Partito comunista e del Partito d’Azione. Ancor prima e senza pretesa di esaurire il novero delle rivolte meridionali, il 21 settembre era insorta Matera dove si conteranno ventisei vittime, e Maschito, in provincia di Potenza, può vantare addirittura la nascita, il 15 settembre, di una delle prime repubbliche partigiane.

L’armistizio, con la conseguente resa incondizionata dell’Italia, venne reso noto l’8 settembre ma era stato siglato cinque giorni prima, fra il generale Castellano e il suo omologo statunitense Bedell Smith, a Cassibile, una frazione di Siracusa. Ecco perché i tedeschi, in ritirata e al corrente delle manovre italiane, il 6 settembre cannoneggiano Rizziconi, un piccolo centro agricolo nella pianura di Gioia Tauro, provocando 17 morti e 56 feriti fra la popolazione civile. Non lontano da lì, a Taurianova, il 25 agosto, legato a un albero di ulivo, con l’accusa di aver sabotato le linee del telegrafo tedesco, era stato fucilato al petto il socialista libertario Cipriano Scarfò.

È il primo partigiano a pagare con la vita un atto di deliberata resistenza ai nazisti. Al di là della linea Gustav, in territorio abruzzese si organizzano le prime bande. Sono circa mille e seicento gli uomini, per lo più soldati sbandati, che si raccolgono a Bosco Martese nel Teramano mentre sulle pendici del Gran Sasso e della Maiella si stabiliscono gruppi di giovanissimi studenti medi affiancati dai loro insegnanti. Nel Chietino la rivolta partigiana è guidata dal maggiore siciliano Salvatore Cutelli, giustiziato dai tedeschi insieme a nove dei suoi uomini il 14 dicembre a Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara.

Alla Resistenza nel Mezzogiorno bisogna affiancare la Resistenza che i meridionali svilupparono insieme agli italiani di altre regioni nel resto della penisola. Nella capitale, tra gli antifascisti che combattono per impedire l’avanzata tedesca lungo la via Ostiense, spicca la figura del “gobbo del Quarticciolo”, il calabrese Giuseppe Albano, immortalato nel 1960 dalla pellicola di Carlo Lizzani. Dovunque, nell’Italia rimasta occupata dall’esercito tedesco assistito dal governo fascista di Salò, si trovano meridionali fra le file dei resistenti.

Non si tratta, come vuole una certa storiografia, di militari rimasti intrappolati a nord dopo l’armistizio e quasi costretti ad abbracciare la Resistenza per l’impossibilità di rientrare nelle regioni di origine. Non solo tra i resistenti meridionali nel Nord Italia si trovano operai, impiegati e studenti emigrati prima dello scoppio della guerra, ma c’è anche chi si è portato in quelle regioni proprio per avviare la lotta armata contro il nemico nazifascista. Un caso esemplare è quello del calabrese Dante Castellucci la cui vicenda, inizialmente legata a quelli dei fratelli Cervi in Emilia, si concluderà tragicamente in Lunigiana alla testa del battaglione “Picelli” con il nome di battaglia Facio.

Solo nel 2013 una ricerca condotta dall’Istoreto, l’Istituto storico per la storia della Resistenza di Torino, su impulso della presidenza del Consiglio regionale del Piemonte, ha stabilito, pur limitando l’analisi ai combattenti delle sei regioni più a sud (Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia e Sardegna), in oltre seimila i meridionali presenti fra le file della Resistenza. Tra questi uomini si trova il siciliano Pompeo Colajanni che, con il nome di Barbato, è tra i primi ufficiali del vecchio esercito sabaudo a portarsi sulle montagne della Valle Po dove costituirà la brigata garibaldina “Pisacane” e sarà, poi, protagonista della liberazione di Torino. Meno fortunata la vicenda di altri audaci partigiani meridionali che perderanno la vita durante la guerra di Liberazione, il siciliano Giacomo di Crollalanza (comandante Pablo) e il pugliese Antonio Gigante, tra i primi organizzatori della Resistenza nel Parmense e a Trieste, rispettivamente.

Alcuni partigiani meridionali, si pensi ad esempio al calabrese Giulio Nicoletta che aveva guidato le formazioni in Val Sangone, non torneranno al termine della guerra nelle regioni di origine, dove non avrebbero ottenuto il riconoscimento che ebbero nei luoghi dell’esperienza militante. Anche questo fatto, tra gli altri, può ben spiegare perché ancor oggi molti di loro siano ignoti ai corregionali e perché si faccia fatica a comprendere il ruolo, non certo comprimario, che essi svolsero nella guerra di Liberazione.

Nella foto: murale a Napoli di Salvatore Iodice che raffigura Gennaro Capuozzo, lo scugnizzo protagonista della Resistenza napoletana e che venne rappresentato nel film di Nanni Loy “Le quattro giornate di Napoli”

Povera Pompei, ormai è un luogo da turismo mordi e fuggi

Temple columns and gate with Vesuvius volcano in the background at the ancient Roman city of Pompeii, Italy

Da diversi anni scrivere di Pompei è divenuta una operazione consueta. Raccontare la città antica sì è trasformata in un passaggio, quasi, obbligato. A prescindere dal ruolo. Dalla professione. Studioso, oppure cultore della materia. Giornalista, oppure scrittore. Poco importa. Quel che conta è che siano testi divulgativi. Che possano raggiungere il maggior numero possibile di persone. E riescano ad attirare la loro attenzione.
Rievocando l’eruzione del 79 d. C., ma soprattutto soffermandosi sulla “meraviglia” delle scoperte.
Il minimun comun denominatore di prodotti editoriali tanto eterogenei? La celebrazione del sito archeologico. La sua rinascita, presunta. Descritta con toni epici. Frequentemente, ammantando di verità delle ipotesi. Insomma, mettendo sostanzialmente al bando i dati. Le analisi. La ricerca.

Forse anche per questo…

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Lavoratori e migranti, carne da cannone per il governo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 07-04-2022 Roma, Italy Politica Palazzo Chigi - incontro con il Primo Ministro del Regno dei Paesi Bassi Nella foto: Il Presidente del Consiglio Mario Draghi Photo Mauro Scrobogna / LaPresse April 07, 2022 Rome, Italy Politics Palazzo Chigi - meeting with the Prime Minister of the Kingdom of the Netherlands In the photo: Prime Minister Mario Draghi

«Abbiamo deciso, dentro un ragionamento di dialogo sociale, di porre fine al blocco dei licenziamenti pur con una serie di eccezioni rispetto ai settori in crisi.» È la voce del ministro Renato Brunetta a riassumere perfettamente la visione dei Migliori. Si dialoga con la pistola sul tavolo, e la pistola è lo sblocco dei licenziamenti: l’1 luglio 2020, in piena pandemia.
Tra i primi a sperimentare il «dialogo sociale» di Draghi sono, scrive Angelo Mastrandrea su Internazionale, gli 88 operai, i 15 addetti alla logistica e altrettanti alla manutenzione, i due dipendenti del comparto qualità e i 31 impiegati della Gianetti Ruote. Alle cinque di pomeriggio di venerdì 2 luglio, al termine dell’ultimo turno di lavoro settimanale, l’azienda gli ha mandato un’email stringata con oggetto «chiusura dello stabilimento». Il testo era laconico: …

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A scuola di pace lungo i sentieri della Resistenza

Marzabotto (Bo). Celebrazioni per il 76esimo anniversario della LIberazione avvenuta ad opera dei partigiani e degli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Nella foto il sindaco Valentina Cuppi (Marzabotto - 2021-04-25, ROBERTO BRANCOLINI) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Fra pochi giorni torneremo a festeggiare il 25 aprile in tanti, con una presenza fisica che si accompagna a quella di cuore e mente. Torneremo a respirare l’aria di quei luoghi in cui guerra e nazifascismo hanno devastato comunità ed estirpato violentemente la vita.

Abbiamo cercato di resistere negli ultimi due anni, resistere facendo sentire anche a distanza il vincolo che ognuno ha con questa data, che ha sancito la conquista della libertà di cui godiamo quotidianamente. Una data di festa e non solo celebrativa, in cui si rinnova l’impegno a difendere giorno per giorno quella conquista, nella consapevolezza che va curata, che bisogna battersi ancora affinché i principi elencati nella nostra Costituzione radicata nell’antifascismo abbiano piena attuazione. Non si possono concepire le ricorrenze e le commemorazioni come meri momenti di ricordo, che si ripetono uguali a se stessi di anno in anno. Sì, è importante il rito, è indispensabile il ricordo, ma è essenziale in queste celebrazioni fare i conti con il presente e con quello che si sta costruendo per il futuro. Per chi vive di memoria, memorie, e costruzione di pace ogni giorno, è un momento per ricordare a se stessi e agli altri quanto ancora c’è da fare e cosa c’è da fare.

Questo festa di Liberazione sarà un ritorno. Ritorno nei…

 

* L’autrice Valentina Cuppi è insegnante, sindaca di Marzabotto e presidente del Partito democratico

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La Slovenia al voto con la speranza di archiviare la destra populista di Janša

A poster depicting Prime Minister Janez Jansa and reading 'He is Finished', is seen near a polling station for early voting in Ljubljana, Slovenia, Thursday, April 21, 2022. The vote on Sunday April 24 in Slovenia will be held amid heightened political divisions in the small Alpine nation of 2 million. (AP Photo/Darko Bandic)

Il 24 aprile gli sloveni si recheranno alle urne per rinnovare l’Assemblea nazionale. Gli aventi diritto sono circa 1,8 milioni ma è facile prevedere che quasi la metà di loro resterà a casa, secondo “tradizione”. Nonostante le turbolenze e i clamorosi rovesciamenti di fronte cui si assistito dall’ultima tornata elettorale del giugno del 2018, il governo guidato dal premier Janez Janša è arrivato a scadenza naturale.
Nel firmare il decreto con cui nel febbraio scorso aveva fissato la data delle consultazioni, il presidente della repubblica, Borut Pahor, aveva anche sottolineato che avrebbe conferito il mandato di formare il governo al politico in grado di assicurare i 46 voti necessari per la maggioranza assoluta «con le firme dei deputati a sostegno dell’esecutivo, anche se questo non è richiesto dalla Costituzione». In caso contrario, Pahor aveva spiegato che si sarebbe rivolto al partito di maggioranza relativa affinché si cercasse i voti in parlamento. Data la tradizionale frammentarietà del quadro politico sloveno è questo secondo scenario, allo stato, il più probabile. È questa considerazione che rende il futuro assetto politico sloveno quanto mai incerto.

La partita, stando agli ultimi sondaggi disponibili, sembra apertissima e il testa a testa tra i due partiti maggioritari nelle preferenze degli sloveni, giocata sul filo del punto percentuale. E se tra i due contendenti c’è, come sempre, il Partito democratico sloveno (Sds) di Janša – partito che rappresenta la destra populista e xenofoba vicina alle posizioni del premier ungherese Viktor Orban e al cosiddetto Gruppo di Visegrad -, a sorprendere è l’assenza del tradizionale rivale, il Partito socialdemocratico (Sd), in lento ma costante declino. A farne le veci, sul fronte sinistro (moderato) dello schieramento politico nazionale, è un gruppo nuovo di zecca, il Movimento Libertà (Gibanije Svoboda, Gs), guidato da Robert Golob, parvenu della politica ma che nel giro di pochissimi mesi è riuscito ad aggregare attorno a sé un consenso inaspettato.

Un movimento che a gennaio di quest’anno non esisteva e che oggi le ultime rilevazioni demoscopiche accreditano, invece, di un clamoroso 25%, solo un punto in meno dell’Sds. Piace, con ogni evidenza, il modello di uomo-azienda incarnato da Golep, ex manager del colosso della distribuzione elettro energetica Gen-I, mentre, di contro, la scintilla tra il paese e Janša non sembra essere mai scoccata veramente.
Saranno però i gruppi minori a fungere da vero ago della bilancia detto che nessun partito o coalizione raggiungerà la maggioranza assoluta e detto, anche, che Janša rischia di trovarsi a rivivere lo stesso scenario già vissuto nel 2018 quando, nonostante avesse ottenuto una maggioranza relativa schiacciante (25% contro il 13% di Lista Marjan Šarec-Lms) fu costretto a rinunciare all’incarico per l’incapacità di mettere insieme una coalizione di governo. Molti dei partiti di “seconda fascia” – dal punto di vista del consenso – afferiscono, infatti, al medesimo campo di riferimento – liberale e progressista – del movimento presieduto da Golep e potrebbero, all’indomani delle elezioni, consentirgli di conquistare la poltrona di primo ministro, indipendentemente dal fatto che il Movimento Libertà risulti effettivamente il più votato domenica prossima. Sempre che si riesca a trovare la quadra, vincendo quella connaturata tendenza all’autoreferenzialità che ha impedito di trovare un accordo programmatico già prima delle elezioni.

Il riferimento è al già citato moribondo Partito Socialdemocratico (crollato nuovamente intorno all’8% dopo una breve parentesi in cui sembrava in ripresa) e alla Lms, movimento fondato da Marjan Šarec, predecessore di Janša alla guida del paese, prima del suo “suicidio politico” nel gennaio del 2020. Proprio la Lms, secondo le ultime rilevazioni, sta danzando sulla fatidica soglia del 4% – quella necessaria per entrare in parlamento – e all’orizzonte potrebbe addirittura profilarsi un’esclusione che avrebbe del clamoroso. Alla vigilia, al contrario, non sembra possibile alcuna intesa con Levica, il partito di sinistra radicale accredito dai sondaggi di un misero 6%, sempre più isolato nel panorama politico nazionale anche in ragione delle scelte pro-Putin manifestate nelle scorse settimane. Difficile un accordo con loro anche in considerazione del fatto che Levica, già al governo con LMS, fu tra le cause della caduta del governo Šarec. Tra i partiti di governo solo Nuova Slovenia (N.Si) sembra certa di poter superare lo sbarramento con un consenso stimato intorno al 7%, mentre fuori dai giochi è il Partito Democratico dei Pensionati (DeSUS), ormai residuale nelle preferenze.

In un contesto in cui il tutto si giocherà sul filo del singolo voto, un piccolo vantaggio per Golep potrebbe essere rappresentato dalle sue origini goriziane. Fattore che potrebbe favorirlo nell’acquisizione dei due seggi che la legge elettorale prevede per i rappresentanti della minoranza italiana per i quali si è anche candidato il presidente della comunità italiana in Slovenia, Maurizio Tremul, fresco del recente endorsment della Lega dei cattolici comunisti istriani.

L’Europa è ovviamente spettatrice interessata e c’è da giurare che la maggior parte delle cancellerie continentali speri in un cambiamento radicale di governo. Le posizioni populiste e anti-migratorie sostenute dall’esecutivo di Janša, unitamente alle politiche illiberali e persecutorie portate avanti nei confronti dei media nazionali e al sostanziale euroscetticismo dell’attuale primo ministro, hanno provocato più di un mal di pancia a Bruxelles. Non un dettaglio visto che proprio dall’Europa sono in arrivo i dieci miliardi previsti dal Recovery fund.