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Fare i conti con il Long covid

A boy rides a bicycle by graffiti in the southern, ethnic Albanian-dominated part of Mitrovica, Kosovo, Sunday, Oct. 17, 2021. (AP Photo/Darko Vojinovic)

Una nuova fase di convivenza con il virus Sars-Cov-2 è iniziata nei Paesi dove la vaccinazione è in fase avanzata, Italia compresa. Sebbene la variante Omicron sia dieci volte più contagiosa della Delta, grazie soprattutto alla campagna vaccinale la percentuale di ricoveri si è dimezzata rispetto a un anno fa (come emerge da un preprint pubblicato su The Lancet nelle scorse settimane su uno studio basato in Gran Bretagna). Con l’attenuarsi della situazione di emergenza i sistemi sanitari possono finalmente “respirare”, tuttavia bisogna fare i conti con una tematica legata alla pandemia che molti infettivologi concordano nell’affermare essere il nuovo punto critico della lotta al coronavirus: il Long covid, vale a dire, secondo la definizione dell’Istituto superiore di sanità, quella condizione caratterizzata da segni e sintomi causati dall’infezione di Sars-Cov-2 che continuano o si sviluppano dopo quattro settimane dalla fase acuta.

Si tratta di una vera e propria patologia il cui possibile impatto socio sanitario non va sottovalutato, dato che può colpire fra il 20% e il 30% dei pazienti guariti dal Sars-Cov-2 e in alcuni casi può manifestare sintomi persistenti anche per nove mesi (secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità). Questo significa che in Italia potrebbero essere almeno 4 milioni le persone che stanno soffrendo o hanno sofferto di una qualche forma di Covid lungo (Lc). I sintomi fino a oggi classificati più frequentemente sono nebbia mentale, affaticamento o difficoltà respiratorie con conseguenze anche invalidanti che si ripercuoteranno sulla qualità della vita dei pazienti Lc e di conseguenza sulla sanità pubblica. Ma la verità, a oltre due anni dallo scoppio della pandemia, è che quasi tutti i ricercatori concordano sul fatto che di Long covid ne sappiamo ancora troppo poco. Come mai?

Uno dei motivi va ricercato nel fattore tempo. L’arco temporale in cui la sindrome si manifesta è molto lungo e per analizzarla servono un tempo e degli strumenti adeguati. Un altro fattore non meno importante è rappresentato dall’ampio ventaglio di sintomi classificati fin qui. Secondo l’Oms sarebbero oltre 200, e anche qui si capisce quanto sia complesso dal punto di vista scientifico procedere con le necessarie verifiche. Una ricerca italiana dell’Università di Firenze e dell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi, che sarà presentata il 23 aprile al Congresso europeo di Microbiologia clinica e malattie infettive di Lisbona, ha provato a…

L’inchiesta prosegue su Left del 22-28 aprile 2022 

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Prove tecniche di revisionismo sulla pelle degli Alpini

Foto LaPresse/ Claudio Furlan 08 Luglio 2019, Milano Centenario dell’Associazione Nazionale Alpini, con deposizione corona ai caduti Nella foto: Matteo Salvini Photo Lapresse/Claudio Furlan 08 July 2019, Milan Centenary of the National Alpine Association, with crown deposition for the fallen In the pic: Matteo Salvini

Il Senato ha approvato in via definitiva un disegno di legge che istituisce la Giornata della memoria degli Alpini. Iniziativa in sé commendevole, visto che quello degli Alpini è non solo probabilmente il miglior corpo di fanteria di montagna al mondo, ma anche una comunità di rilievo non solo militare ma anche civile, un mondo di valori, di coraggio, di solidarietà, di attenzione all’ambiente, in montagna e non solo.

Ma c’è un problema. È stato scelto come “giorno della memoria” degli Alpini il 26 gennaio. Data che pone almeno due gravi interrogativi.

L’iniziativa parlamentare è stata ovviamente della destra, segnatamente di ambienti revisionisti e cripto-fascisti. Ma è il contesto, in cui l’operazione è potuta riuscire a rendere in modo plastico e deprimente i sensi della miseria di una classe politica, tutta ignoranza, ignavia, insensibilità, irresponsabilità, revisionismo strisciante. Inevitabile il finale unanimismo “sordo e grigio”.

Inutile dire che…

L’articolo prosegue su Left del 22-28 aprile 2022 

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Difendere l’Anpi senza se e senza ma

Foto LaPresse - Claudio Furlan 25 aprile 2021 - Milano (Italia) News Manifestazione per la festa della liberazione presso Piazza Castello Photo LaPresse - Claudio Furlan 25 April 2021 - Milano (Italy) Liberation Day demonstration in Piazza Castello

Le parole, quelle vere, pronunciate dal presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo durante la conferenza stampa per il lancio della manifestazione del 25 aprile, avrebbero dovuto chiudere qualsiasi polemica. «Mai stati equidistanti nella tragedia di questa guerra, eravamo e siamo dalla parte degli aggrediti e contro gli aggressori». Cioè dalla parte del popolo ucraino contro l’esercito di occupazione russo.
Purtroppo però non basta. Non basta agli opinionisti. Una sorta di super casta, impegnata quotidianamente nella produzione di egemonia culturale e oggi, in particolare, schieratissima su posizioni ultra belliciste tipo “taci il nemico ti ascolta”. Per questi produttori di pubblica opinione è anche una occasione storica per chiudere un po’ di conti. Conti con il mondo pacifista, con il sindacato, a volte persino con il papa, conti con l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Soprattutto chiudere i conti con quel fenomeno straordinario di popolo che è stata la Resistenza italiana.

Il tema non è partecipare alla discussione sostenendo l’invio di armi in Ucraina, cosa che non convince, ma che fa parte delle opzioni possibili. Il tema è come vengono annichilite e violentate le posizioni diverse da quelle espresse da una parte consistente di questi commentatori. Che ad alimentare l’imbarbarimento del dibattito pubblico siano, per lo più, giornalisti ed intellettuali progressisti aggiunge quel tocco di ferocia che solo i “buoni” sanno garantire. Perché solo i “buoni” sanno come si agisce, in maniera esemplare, la doppia morale. Tendenzialmente maschia e paternalista.

Il merito delle questioni sembra non…

L’autore: Massimiliano Smeriglio è eurodeputato gruppo Socialisti e democratici (coordinatore della Commissione per la cultura e l’istruzione del Parlamento Europeo) e scrittore

L’articolo prosegue su Left del 22-28 aprile 2022 

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Chi ha paura dei pacifisti?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 05 Marzo 2022 Roma (Italia) Cronaca : Manifestazione per la pace contro la guerra in Ucraina Nella Foto : il corteo della CGIL delle associazioni e dei movimenti porta in piazza le diverse istanze contro la guerra Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse March , 05 2022 Rome (Italy) News : Demonstration against the war in Ukraine In The Pic : people of different organizzation at the demonstration

Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni per l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia, lo scrive senza troppi giri di parole: «Fanno paura a tutti quelli che ritengono necessario inviare armi all’Ucraina perché ricordano che l’Italia non solo non manda armi ai popoli aggrediti ma continua a fornirle a Stati aggressori come Israele che reprime la popolazione palestinese, la Turchia che cannoneggia i curdi, il Marocco che rinchiude i saharawi, l’Arabia Saudita che bombarda gli yemeniti. Fanno paura a tutti quelli che pensano che è solo inviando armi che si può sconfiggere Putin perché ribadiscono che non c’è nessuna vittoria con migliaia di morti e città devastate. E l’unica soluzione alla guerra è fermarla portando le parti alle trattative anche con sanzioni dure».

Gli attacchi ai pacifisti (perfino ai pacifisti presunti) ormai sono una costante del dibattito pubblico come se fosse davvero i pacifisti fossero il punto focale di quest’epoca. Lo fanno, tra l’altro, fingendo di non vedere i sondaggi nazionali (che in questo caso non vengono sbandierati) che confermano ogni volta come la maggioranza dei cittadini lamenti poca voglia di trovare la pace. Questa guerra, ogni giorno che passa, sembra piacere tantissimo.

Ha ragione Beretta, i pacifisti «fanno paura a tutti quelli che per anni hanno corteggiato Putin perché hanno sempre denunciato la brutale repressione dei diritti umani e civili in Russia. Anche quando le aziende militari italiane, sostenute da vari governi, hanno fornito sistemi militari alla Russia di Putin ed hanno continuato a fornirle anche dopo il 2014 nonostante l’embargo di armamenti stabilito dall’Unione europea. Fanno paura perché ricordano a chi oggi teme – e giustamente – una escalation della violenza fino all’utilizzo delle bombe nucleari, che l’unico modo per prevenire l’olocausto atomico è mettere al bando gli ordigni nucleari come richiede il Trattato di proibizione delle armi nucleari (Tpnw). Trattato che però l’Italia continua a ignorare così come la gran parte delle potenze atomiche che non vogliono rinunciare ai propri arsenali nucleari. Fanno paura a chi li accusa di starsene comodamente in poltrona perché i pacifisti sono stati i primi a soccorrere i profughi ucraini così come da anni fanno con tutti i profughi. E per farlo hanno anche organizzato la grande Carovana della Pace per portare aiuti e medicinali in Ucraina e portare in Italia le persone più fragili e bisognose. In tutto questo i pacifisti sono stati isolati e ignorati dalla gran parte delle forze politiche e dei giornali che oggi si scoprono bellicisti e vogliono più armi e più fondi per aumentare ancora i bilanci militari di tutti i paesi d’Europa».

E poi, volendo vedere, ma davvero nel pieno di una guerra vale la pena prendersela con chi chiede la pace? Ma non vi sembra una tattica infame?

Buon venerdì

Nella foto: manifestazione per la pace e contro la guerra in Ucraina, Roma, 5 marzo 2022

Il 25 aprile e i costruttori di pace

Ormai quasi non si contano più gli attacchi al 25 aprile, festa della Liberazione al nazifascismo; “festa divisiva” dicono i nostalgici del fascismo. E di nostalgici diretti e indiretti se ne contano tanti: da Berlusconi che sdoganò Alleanza nazionale a Dell’Utri che propalò il falso dei diari di Mussolini, per arrivare a Salvini che tante volte ha ammiccato al «me ne frego» di mussoliniana memoria, arrivando poi, dalla spiaggia del Papete a invocare i pieni poteri. Per non dire di Giorgia Meloni che conserva nel simbolo di Fratelli d’Italia la bara stilizzata del duce dalla quale scaturisce la fiamma tricolore, e che ne libro Io Giorgia si dichiara figlia spirituale di Giorgio Almirante.

Come ci ricorda Mimmo Franzinelli nel suo nuovo libro Il fascismo è finito il 25 aprile del 1945 (Laterza) il padre spirituale di Giorgia Meloni si impegnò 1durante il regime nella campagna antiebraica», fu «firmatario nella Rsi di bandi per la fucilazione dei renitenti alla leva e nel secondo dopoguerra» fu «dirigente del Msi in una strategia che combinava il manganello al doppiopetto, senza distanziarsi dal
fascismo».

Da questo ampio fronte di destra arriva ora l’ennesimo attacco alla memoria storica resistenziale con l’istituzione – sancita purtroppo da un ampio arco parlamentare – della giornata nazionale degli alpini, celebrando la loro pagina di storia più buia, ovvero quando furono mandati al massacro nel 1943, a sostegno dei nazisti per forzare il blocco dell’armata rossa. A questo attacco che si gioca (apparentemente) sul piano simbolico se ne aggiunge un altro ben concreto, che ha assunto i contorni di una vera e propria campagna di discredito e di delegittimazione dell’Anpi.

Questa volta non sono solo le destre in campo. L’attacco viene anche da commentatori di giornali mainstream e, persino, da esponenti del centrosinistra inorriditi perché l’Associazione nazionale dei partigiani ha lanciato un appello per fermare la guerra di aggressione di Putin all’Ucraina chiedendo di costruire la pace ricorrendo a una lotta senza armi attraverso le parole della diplomazia e della trattativa. Pietra dello scandalo – oltre al no alle armi per evitare una escalation del conflitto e salvare vite umane – è stato anche il no dell’Anpi alle bandiere della Nato in piazza il 25 aprile. Apriti cielo.

I guerrafondai che chiedono l’invio di armi in Ucraina, lasciando che siano poi gli ucraini a vedersela sul campo, hanno puntato il dito contro la dirigenza dell’Anpi, rea – secondo loro – di disconoscere l’aiuto che gli alleati ci dettero nella lotta per la Liberazione. Come se riconoscere quel fatto storico equivalesse a rendersi ciechi rispetto alla Nato, alleanza militare fondata nel 1949 (sic!) e che non vanta una storia esattamente esemplare, basti pensare alle bombe sganciate sul Kosovo. L’espansionismo della Nato, peraltro, è stato usato come scusa da Putin per giustificare il suo criminale imperialismo nazionalista nei confronti dell’Ucraina.

Quanto meno inopportuna ci è parsa anche la scelta della premier svedese Magdalena Andersson e di quella finlandese Senna Marin di avanzare proprio ora la proposta di entrare nell’Alleanza (trascurando il dissenso e il dibattito a sinistra nei loro Paesi). Colpisce che siano due donne socialdemocratiche a voler creare una barriera Nato ai confini russi, finendo proprio per assecondare le ossessioni di Putin. E ci ha lasciati ancor più “di stucco” che a decretare il riarmo della Germania sia stato il cancelliere Scholz dell’Spd. All’inizio della guerra Berlino si era distinta per un prezioso invio di presidi medici ed elmetti. Poche settimane dopo, operando una inquietante rottura storica, ha decretato un investimento di 100 miliardi in spese militari.

Anche l’Italia come è noto si è precipitata alla corsa alle armi aumentando la spesa militare fino al 2% del Pil, come richiesta Nato. Già il ministro Guerini aveva chiesto al Parlamento di portare la spesa militare annua da 25 a 38 miliardi come abbiamo documentato nei numeri scorsi di Left. Ma su tutto questo non è dato obiettare. Le ciniche ragioni delle armi e della guerra sono date come incontestabili. Anche il papa predicando la pace parla della «cainitudine» che allignerebbe nella natura umana, come fosse un destino ineluttabile. Non è così. Non ci arrendiamo a questo pensiero violento. Non è realtà umana sbranarsi gli uni gli altri, al contrario ci realizziamo nella socialità. Non è vero quello che c’è scritto nella Bibbia e che per secoli hanno ripetuto tanti pensatori, da Hobbes a Kant a Freud e Heidegger…

Ne ha scritto su Left splendidamente lo psichiatra Fernando Panzera parlando della naturale socialità dei bambini, approfondendo con gli strumenti della moderna psichiatria una antropologia che è ben diversa da quella che traspare dalle parole dei principali commentatori sui media nostrani, che additano come visionario (o peggio) chiunque cerchi il modo di far cessare la guerra senza passare per le armi. La guerra non è mai uno strumento di risoluzione dei conflitti, come dice l’articolo 11 della nostra Costituzione. Perché non cercare di opporre alla violenza la forza non distruttiva della trattativa, della diplomazia coinvolgendo l’Onu (riformata e democratizzata) costruendo una conferenza internazionale di pace sul modello di Helsinki 1975? Costruire la pace attraverso gli strumenti della nonviolenza, del disarmo unitario, della resistenza attiva, della costruzione di corpi civili di pace è la proposta dal basso di movimenti internazionali tra cui la Rete per la pace e il disarmo.

Per capire a che punto siamo, per andare in profondità nella ricerca delle soluzioni ci serve la forza dello studio della storia come scrive su questo Left uno studioso come Eric Gobetti; serve la forza della testimonianza e della memoria come quella di un grande partigiano come Carlo Smuraglia, presidente emerito dell’Anpi, che arricchisce questo numero della rivista con importanti riflessioni; serve il lavoro dei sindacati, della politica di sinistra; serve la partecipazione attiva di tutti noi per difendere i valori dell’antifascismo e della lotta per la Liberazione.

L’editoriale è tratto da Left del 22-28 aprile 2022 

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Carlo Smuraglia: 25 aprile, la festa delle persone libere

Former partisan Carlo Smuraglia, 97, President of the National Association of Italian Partisans (ANPI), right, and his wife Enrica, wave after singing 'Bella Ciao', the anthem of Italy’s communist resistance, from the balcony of their apartment, in Milan, Italy, Saturday, April 25, 2020. Italy's annual commemoration of its liberation from Nazi occupation is celebrated on April 25 but lockdown measures in the coronavirus-afflicted country mean no marches can be held this year and the National Association of Italian Partisans has invited all to sing “Bella Ciao", (AP Photo/Luca Bruno)

Avvocato, accademico, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, senatore per nove anni, presidente della commissione Lavoro, ex presidente dell’Anpi. Ma, prima di tutto, partigiano. Carlo Smuraglia, che ad agosto compirà 99 anni, ha ricoperto tutti questi ruoli ed è uno degli ultimi alfieri ancora in vita della Costituzione italiana, di quelli che hanno creato le condizioni affinché nascesse e poi l’hanno instancabilmente protetta negli anni dagli attacchi di coloro ai quali stava “stretta”. Dai vertici della Associazione dei partigiani d’Italia, di cui attualmente è presidente onorario, ha partecipato alle più importanti battaglie democratiche del nostro Paese, fino a quella per il No alla “deforma” costituzionale di Renzi del 2016. E tutt’ora non si tira certo indietro, quando c’è da prendere posizione in difesa dei valori costituzionali. L’abbiamo raggiunto telefonicamente, alla vigilia della festa della Liberazione. Mentre parliamo, sui giornali, impazza la polemica circa la postura assunta dall’attuale presidenza dell’Anpi a proposito della guerra in Ucraina. Rappresentata sia da una legittima quanto netta posizione contro l’invio di armi da parte dell’Italia al governo di Kiev che da un meno condivisibile comunicato a proposito della strage di Bucha, che di fatto metteva in dubbio la responsabilità russa dello sterminio rischiando di fare eco alla propaganda di Mosca.

A Smuraglia chiediamo un parere anche sulla guerra e come leggere il conflitto dal punto di vista di un combattente per la libertà.

Presidente, in un’intervista su Repubblica ha detto che quella che stanno facendo gli ucraini può essere considerata Resistenza. Perché?
Ogni volta che è necessario contrapporsi a minacce alla libertà di un Paese, entra in campo la possibilità di resistere. Ora, il termine “resistenza”, in effetti, può essere inteso equivocamente. Il punto è che quando noi parliamo della Resistenza italiana, o di altri Paesi, non ci riferiamo solo alla difesa da un nemico, ma a qualcosa che comprende anche l’idea di attacco, di reazione ad una violenza. La Resistenza, in Italia e non solo, è stata anche questo, è stata combattimento non solamente per difendersi ma anche per colpire il nemico. Un Paese la cui indipendenza e libertà sono minacciate ha il diritto e il dovere di difendersi e di pretendere che la propria libertà sia garantita. E i Paesi civili che lo circondano hanno il dovere di essere solidali e sostenere una battaglia per la democrazia, la libertà e la dignità. Su questo credo che non possano esserci transazioni, riduzioni o concessioni di alcun genere, si tratta di principi assoluti e inderogabili. Non possiamo dire “mah, in questo momento, per questa ragione, si può non applicarli”. No, sono intangibili.

Possiamo definire Putin un “fascista”?
Beh, in un certo senso pensiamo al fascismo come qualunque fenomeno che contenga e riduca la libertà. Ad ogni modo paragonare le due circostanze ha poca importanza. Mi pare che l’operato di Putin si qualifichi da sé, in qualsiasi maniera lo si voglia chiamare.

Lei si è espresso favorevolmente all’invio di armi al governo di Kiev. Come mai?
Quella del sostegno alla resistenza armata ucraina è una materia di ampia discussione. Quando ci troviamo di fronte ad una situazione di oppressione, dove una parte più forte opprime la più debole,  il nostro primo istinto ci suggerisce di sostenere i più deboli. E di farlo con tutti gli strumenti possibili, dunque in questo caso anche fornendogli delle armi. Qualcuno però ribatte “fornire armamenti può essere pericoloso, perché può ampliare la guerra”. Ho capito, però questo pericolo va sempre valutato per quello che è realmente. Quando c’è un simile conflitto in atto, con una tale disparità di condizioni, il mio parere è che il soggetto oppresso e più debole debba essere sempre sostenuto in ogni modo, anche con lo strumento delle armi. Ciò può rappresentare un rischio, certo, ma pur di difendere il più debole occorre correre qualche rischio.

Il pericolo, però, è che si arrivi ad un coinvolgimento diretto dell’Italia nella guerra…
Occorre fare il possibile per non farci coinvolgere nel conflitto, su questo non c’è dubbio. La guerra è un nemico invisibile sempre presente, da cui dobbiamo guardarci. Dobbiamo mettere in atto tutte le misure necessarie per fornire il massimo aiuto possibile all’Ucraina senza essere direttamente coinvolti nella guerra. Questo è assolutamente possibile, ed è avvenuto storicamente in molti casi, sappiamo che si può fare, ovvio bisogna stare molto attenti.

Secondo alcuni, per far finire subito la guerra, Zelensky dovrebbe mettere sul tavolo la cessione di una parte del territorio ucraino alla Russia. Sarebbe un compromesso ragionevole?
Non me ne intendo abbastanza per esprimermi sul tema con precisione, credo comunque che si debba mantenere un certo senso della misura.

Veniamo al 25 aprile. Qual è, oggi, il significato dell’anniversario della Liberazione?
La festa della Liberazione ha un enorme e importantissimo significato sempre, perché ricorda il momento in cui l’Italia si è finalmente liberata, dopo tanti anni, dopo il fascismo, da un conflitto mondiale. Ho bene in mente il “primo 25 aprile”, quello del 1945, prima che diventasse una festa ufficiale l’anno successivo. Il senso di liberazione che ci pervadeva, la gioia di sentirci finalmente liberi dalla guerra, dalle oppressioni, dall’invasione, dalle occupazioni, dalla sottomissione ad altri Paesi. Fu un giorno di un entusiasmo enorme per tutti, dovunque ci si trovasse e qualsiasi cosa si stesse facendo. Ebbene, il 25 aprile non può perdere questo carattere e spero non lo perda mai. Perché un Paese democratico ha bisogno di ricordare le date fondamentali della propria esistenza, e non con una memoria “statica”. Il 25 aprile non è un semplice ricordo del passato, ma anche una speranza per il futuro, la speranza di restare sempre un Paese libero e democratico.

Chi dovrebbe festeggiarlo?
La Liberazione è una festa che dovrebbe essere di tutti, indipendentemente dal proprio orientamento politico, dalla propria adesione o meno ad un partito. Deve esserci questo tratto unificante nel 25 aprile, perché tutti dovremmo volere un’Italia libera e indipendente, che abbia il senso della propria libertà nel sangue, per così dire. Questa è la sostanza della democrazia. Per questo spero che ogni anno il 25 aprile venga ricordato non come una solennità formale, come un appuntamento convenzionale, bensì come qualcosa che, ripensando all’esperienza partigiana della Liberazione, sappia continuamente rinnovarsi.

La Costituzione è il lascito più importante che i partigiani ci hanno consegnato. Qual è la parte che oggi più ha bisogno di essere rammentata?
Quella relativa al diritto al lavoro. Il lavoro è un elemento essenziale della vita del Paese e la nostra Costituzione parte proprio da lì. Nella Carta il “lavoro” viene inteso non come qualcosa di astratto, non ci si riferisce semplicemente alla fatica, ma ad una attività produttiva in cui una persona impegna la propria personalità, partecipando alla vita del Paese, contribuendo al benessere di tutti e soprattutto migliorando e approfondendo la propria personalità, realizzazione e consapevolezza di sé. Ecco, questa parte della Costituzione oggi è particolarmente trascurata.

Basti pensare alla strage senza soste sui luoghi di lavoro. Nel 2022 ben 182 persone hanno perso la vita secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna sulle morti sul lavoro. E l’Inail dice che nel primo bimestre di quest’anno gli infortuni mortali hanno avuto un incremento del 9,6% rispetto allo stesso periodo del 2021…
Certo, questo è uno dei drammi che chi governa in Italia non riesce a risolvere. Ci sono troppe morti sul lavoro. Persino in momenti in cui la produzione diminuiva a causa della pandemia, il trend non è proporzionalmente calato. È un incubo. La Costituzione proclama che il lavoro deve essere sicuro e dignitoso. L’avvio un’attività imprenditoriale dovrebbe avere come requisito indispensabile la garanzia di non mettere a repentaglio tre cose: la dignità e la salute del lavoratore e la sua libertà. Chi lavora mette ovviamente a disposizione le proprie energie, ma per il resto è, e deve restare, un cittadino libero. Se il lavoro non è sicuro, si genera una contraddizione in termini, per cui il perno della nostra Repubblica diventa causa di malattia o di morte. Persino in alcune norme del periodo fascista, per quanto il tema non fosse certo una priorità all’epoca, si richiedeva all’imprenditore di osservare alcune misure necessarie relative alla sicurezza sul lavoro. È un tema che deve andare al di là degli schieramenti politici, che deve essere posto al di sopra di tutto.

In Italia il problema del neofascismo è più attuale che mai. Una parte dell’estrema destra ha provato a lucrare consensi durante la pandemia speculando sulle paure delle persone. Come arginare con efficacia queste derive?
Occorre espandere di più la nozione di antifascismo. Spesso si immagina la società italiana come divisa in due parti contrapposte, da un lato i fascisti e dall’altra gli antifascisti, quasi fossero due fazioni “paragonabili”. La parte degli “antifascisti” dovrebbe essere immensamente più ampia rispetto a quella che solitamente il termine finisce con l’indicare. Dovrebbe essere quella di tutti coloro che magari non si riconoscono in una particolare etichetta, ma comunque non tollerano che ci sia qualcuno contrario alla libertà, e son dunque contrari ad ogni forma di fascismo. Tutti i cittadini, infatti, a prescindere dal loro eventuale impegno politico, devono essere impegnati nel difendere la libertà, che è un bene intangibile. Chi la minaccia è un nemico della democrazia e bisogna difendersi da qualunque orientamento che in qualche modo vada contro all’idea della democrazia, della libertà e della convivenza in pari dignità sociale.

In queste settimane abbiamo avuto conferma che in Italia una tensione verso l’uomo forte è diffusa non solo nella destra, ma anche in una porzione della “estrema sinistra”, fra i rossobruni, nella forma di un putinismo più o meno strisciante…
Purtroppo ci sono molti simpatizzanti dell’uomo forte tout court, non solo di quello in Russia o in altri Paesi. Ogni tanto in Italia c’è qualcuno che pensa all’uomo forte che potrebbe risolvere i “problemi” della democrazia. È un gravissimo errore che occorre togliere di mezzo dalla discussione civile. Gli antichi ateniesi, là dove è nata la democrazia, ci hanno insegnato che essa si esprime nella sua forma più elementare quando i cittadini in condizione di uguaglianza si trovano in piazza e decidono insieme. Noi oggi eleggiamo i nostri rappresentanti, i parlamentari, deleghiamo loro il compito di decidere, non lo facciamo direttamente, e questo è lecito e consentito. Ma nulla di più può essere accettato, al di là di questo si entra in un campo minato estremamente pericoloso e dannoso. La necessità dell’uomo forte non deve neanche essere formulata, neanche pensata.

In che modo possiamo trasmettere i valori della Resistenza alle nuove generazioni, senza annoiarsi, facendole appassionare?
Occorre saperlo fare. Faccio un esempio. Una volta una collega del mio studio professionale mi ha chiesto di andare a casa sua, perché raccontassi al suo figlio piccolo un po’ di storie sulla Resistenza. Gli ho risposto che non era semplice, ma che sarei andato. Mentre lui mangiava, ho deciso di narrargli alcuni degli episodi più divertenti, se così si può dire, della mia esperienza da partigiano. Tipo quello di quando commettemmo un errore andando di pattuglia di notte, sbagliammo a leggere la carta, e ci trovammo tutto intorno a noi persone che parlavano tedesco. Capitammo insomma in mezzo ai nemici e dovemmo trovare un modo per fuggire. Il bambino rideva e ascoltava mentre mangiava, la mamma era contenta. Dobbiamo partire dall’idea che se mi relaziono con un bambino, o con un ragazzo, non posso raccontagli solo gli ideali per cui ci siamo battuti. Per instillargli i nostri valori occorre prima renderla partecipe della nostra esperienza, specie se quella persona sa poco o nulla della vicenda partigiana. 

Com’è finita, poi, la storia di quando vi trovaste in mezzo ai nemici?
È una disavventura che ho raccontato più volte per intero andando nelle scuole, di fronte a ragazzi più grandi, incontrando sempre una platea attenta e curiosa. Perché quando raccontiamo pomposamente ai giovani le “vicende gloriose” del periodo della Resistenza, in realtà non diciamo loro granché. È inutile fare gli eroi. Ebbene, tornando alla storia, ci capitò appunto di andare di pattuglia una notte, e a tenere la carta geografica c’era uno di noi che era stato tenente. Peccato che non la sapesse leggere. Per cui ci trovammo in bocca al nemico, in un punto in cui non avremmo dovuto essere. Pensai “oddio siamo caduti in trappola”. A lungo riflettemmo sul da farsi. Uno di noi propose di dare le nostre coordinate al centro di comando, affinché fosse bombardata quella zona in cui c’erano fascisti e tedeschi. Ma poi realizzammo che  così avrebbero bombardato anche noi. Dopo una grande discussione scegliemmo un’opzione che nessuna scuola militare avrebbe mai insegnato. All’improvviso, tutti assieme, usammo tutte le armi che avevamo, per far credere ai tedeschi di essere in mille, e nel mentre ci demmo alla fuga. L’operazione riuscì perfettamente, e ce la cavammo così. Tutte le volte che ho raccontato questa storia, i ragazzi si sono immedesimati nella nostra inesperienza, nella nostra gioventù, e nella scelta di fare una cosa un po’ azzardata e impensabile se vuoi.

Si tratta di un modo molto “umano” di ripercorrere la vicenda partigiana, che non tutti hanno avuto la sensibilità di proporre…
Una volta fui invitato a parlare ad un gruppo di studenti assieme ad un vecchio partigiano. Lui aveva iniziato subito a parlare degli scontri, di quando aveva incontrato i nemici armi in pugno, “ne abbiamo sbudellati due” spiegava. Io ero orripilato. I ragazzi non erano minimamente interessati. Si appassionarono molto di più al mio racconto di quando facemmo una birichinata.

Quale birichinata?
Io frequentavo la Scuola normale superiore di Pisa, e la sera della vigilia dell’1maggio uscimmo di nascosto saltando dalla finestra ,perché i cancelli chiudevano alle 22, per andare a scrivere di nascosto sui muri della città “Viva il Primo maggio”. Ci scoprirono e ci diedero alcuni giorni di sospensione. Fu un tentativo anche ingenuo di uscire dalla “normalità” dell’epoca e fare un gesto positivo. Questo è un aneddoto che i ragazzi “capivano”. Li ho visti ridere ed appassionarsi a questo piccolo racconto. Se invece gli avessimo soltanto parlato delle “eroiche gesta partigiane” li avremmo fatti meno interessare a questa vicenda. Un giovane deve potersi riconoscere nei partigiani, deve potersi immedesimare in loro, così da interrogarsi e da pensare “cosa avrei fatto io in quel caso?”. Se ci limitiamo a spiegare come siamo stati noi, e come dovrebbero essere loro, allora i ragazzi non ci ascoltano.

Ho la sensazione che questa attività, ossia immedesimarsi nell’esperienza della resistenza vissuta dalle singole persone, sarebbe un utile esercizio anche per chi oggi parla dell’Ucraina. Spesso si sente dire “questo è ciò che vuole Putin”, “questo è ciò che vuole Zelensky”, “questo è ciò che vuole l’Occidente”. Ma troppo poco ci si chiede “cosa vogliono i cittadini ucraini? E “cosa vorremmo noi se fossimo al loro posto?”.
È assolutamente vero, in realtà non si parla quasi mai dei singoli ucraini. Pensiamo ai vertici dei governi, delle strutture organizzate, ma non al cittadino medio, cosa pensa, come vive la  situazione e come prova a resistere.

L’intervista è tratta da Left del 22-28 aprile 2022 

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Da chi ha preso i soldi Le Pen?

French far-right leader Marine Le Pen speaks during a press conference Tuesday, April 12, 2022 in Vernon, west of Paris. The thought of an extreme-right leader standing at the helm of the European Union would be abhorrent to most in the 27-nation bloc. But if Emmanuel Macron falters in the April 24 French presidential elections, it might be two weeks away. (AP Photo/Francois Mori)

L’oppositore russo Alexey Navalny ieri su Twitter ha raccontato in una serie di tweet una storia che merita di essere letta:

«Mi rendo conto dell’ironia della situazione», dice  Navalny, «un prigioniero politico russo si rivolge agli elettori francesi. Tecnicamente sono in prigione a causa di una denuncia di una società francese. Ho studiato francese all’università, e quando vengo a Parigi, indosso un foulard con qualsiasi tempo. Quindi questo Paese è vicino a me e ci proverò». Poi si è rivolto agli elettori francesi: «È senza alcuna esitazione che invito il popolo francese a votare per Macron il 24 aprile, ma vorrei rivolgermi a coloro che non escludono il voto per Le Pen. Vorrei parlarvi della corruzione e del conservatorismo. Prima di tutto, io e i miei colleghi indaghiamo sulla corruzione in Russia e ne so più di altri. E, come se non bastasse, ho passato molti anni a costruire una coalizione politica anti-Putin composta non solo da liberali, ma anche da conservatori di destra che lo vedevano come Marine Le Pen come esempio da seguire. Sono stato molto criticato per questo, ma penso che la mia capacità di parlare con persone con diverse opinioni politiche sia il mio vantaggio e non penso che tutti quelli con cui sono in disaccordo debbano essere cancellati dall’arena politica».

Continua Navalny: «Sono rimasto scioccato nell’apprendere che il partito di Le Pen ha ottenuto un prestito di 9 milioni di euro dalla First Czech-Russian Bank. Credetemi, questo non è solo un ‘affare losco’. Questa banca è una nota agenzia di riciclaggio di denaro che è stata creata su istigazione di Putin. Che ne direste se un politico francese ricevesse un prestito da Cosa Nostra? Beh, è lo stesso. Non dubito per un momento che i loro negoziati con queste persone e le loro transazioni con loro comportino un accordo politico segreto. Questa è corruzione. Ed è una vendita di influenza politica a Putin».

Poi Navalny parla di Putin: «Ogni volta che la destra europea mostra simpatia per il ‘conservatorismo’ di Putin, mi lascia perplesso. Putin e la sua élite politica sono completamente immorali, disprezzano i valori della famiglia: avere una seconda e anche una terza famiglia, amanti e yacht è la norma per loro. Sono ipocriti. Poco tempo fa imprigionavano la gente che possedeva la Bibbia, e ora benedicono se stessi nelle chiese. Odiano la classe media e trattano i lavoratori con disprezzo. In Russia, quelli che lavorano sono molto poveri. Putin ha attuato una politica migratoria completamente insensata in cui il libero ingresso di migranti dall’Asia centrale coincide con la trasformazione di questi migranti in schiavi senza diritti. Putin ha creato e sta sostenendo e traendo profitto da un vero e proprio stato terroristico in Cecenia dove l’omicidio, il rapimento e l’intimidazione sono diventati la norma. Ecco perché tutti coloro che si definiscono ‘conservatori’ e simpatizzano con Putin sono solo degli ipocriti senza scrupoli. Le elezioni sono sempre difficili. Ma devi andare, almeno per votare contro».

Buon giovedì

Claire Gibault: La mia musica contro i pregiudizi di genere

Il concorso internazionale “La Maestra” che si svolge a Parigi è l’unico appuntamento al mondo dedicato esclusivamente alle direttrici d’orchestra. Una creatura di Claire Gibault, la prima donna a dirigere la Filarmonica della Scala e i Berliner Philharmoniker.
Perché un concorso per sole donne? «Purtroppo, benché la cultura sia cambiata da quando nel 1969 France Soir pubblicava in prima pagina lo sbarco sulla Luna con la foto di Neil Armstrong insieme alla sua, prima donna direttrice d’orchestra di Francia, data l’eccezionalità della notizia, le musiciste e le aspiranti direttrici d’orchestra incontrano ancora la discriminazione di genere», risponde Gibault.

Nella sua autobiografia appena uscita, Direttrice d’orchestra. La mia musica, la mia vita, (add editore)racconta con una scrittura diretta e morbida la sua formazione, le esperienze artistiche, i complessi rapporti all’Opera di Lione come assistente di John Eliot Gardiner, la lunga e determinante collaborazione con Claudio Abbado, il lavoro con il Flauto magico per i bambini, le resistenze subite a Vienna, all’Opera di Roma, l’amicizia e la collaborazione con il compositore Fabio Vacchi, la creazione della Pmo, Paris Mozart Orchestra, la sua orchestra. Sorprende la lettura di pagine anche molto intime, per esempio, gli anni dedicati all’adozione da single di due bambini del Togo, la sua maternità difesa strenuamente insieme alla carriera, alla sua femminilità.

Claire Gibault, lei ha cominciato a studiare la musica a cinque anni e poi è stato un susseguirsi di riconoscimenti e risultati sorprendenti che costellano la sua lunga carriera. Cosa ha significato essere una donna? Ci sono stati momenti in cui aggressioni esplicite o latenti hanno messo a dura prova la sua certezza interiore?
Ricordo i titoli che in passato mi hanno riservato Le Monde, “Le orchestre non amano essere dirette da donne!”, e Le Figaro “Lei li dirige a bacchetta”, quest’ultimo molto volgare per me perché suggerisce rapporti basati sul sadomasochismo e una immagine priva di femminilità. Ho sofferto dell’arroganza di certi manager d’orchestra e dell’aggressività di certi musicisti. Ma la mia passione per la musica è sempre stata più forte e sono stata sostenuta da grandi direttori d’orchestra. Fin da bambina ho capito che la musica è un linguaggio in grado di far accedere al profondo. Non parlavo quasi mai, non usavo le parole ma mi esprimevo solo attraverso la musica, mettevo al primo posto il…

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Scrivere e sentirsi liberi

“Non si può fare”. Qualsiasi progetto di formazione all’interno delle carceri si scontra con uno sfiancante meccanismo: un misto di burocrazia, rassegnazione e pregiudizio.
Chi ha sbagliato una volta sbaglierà sempre; i detenuti sono feccia e devono marcire in galera: pensieri, nemmeno tanto celati, che non muoiono mai e che ostacolano ogni tentativo di cambiamento.
Nonostante questo, qualche coraggioso riesce ad andare oltre queste barriere e a portare avanti iniziative e progetti di formazione che però rimangono quasi sempre privi di adeguata diffusione. Il carcere è un luogo lontano dalla vista e dai pensieri della gente, quasi mai si sa cosa succede dietro quelle mura, sia di positivo che di negativo, e perciò è importante l’uscita di Letteratura d’evasione curato da Federica Graziani e Ivan Talarico e pubblicato da Il Saggiatore. Questo libro nasce da un laboratorio di scrittura tenuto nel 2021 nel carcere di Frosinone e racchiude gli scritti di un gruppo di detenuti della media sicurezza.

Ne abbiamo parlato con Graziani dell’associazione A buon diritto che, insieme al cantautore e poeta Talarico, ha tenuto il laboratorio. L’obiettivo di questo progetto era quello di non lasciare che anche la mente dei detenuti fosse imprigionata ma di liberarla, come scrive Talarico nella sua premessa al libro.
L’invito è stato raccolto da quattordici detenuti e quello che emerge dai loro scritti è sì lo sconforto e la consapevolezza della propria condizione, ma anche e soprattutto la voglia di andare oltre e di essere vivi. In una delle prefazioni Luigi Manconi afferma che «questo libro dimostra la forza irriducibile della vocazione dell’uomo a narrare e a narrarsi. E, con ciò, a emanciparsi da vincoli e costrizioni di qualunque specie» e quello che arriva al lettore è proprio l’effetto positivo che questa evasione dalla costrizione della pena ha avuto per i partecipanti al laboratorio.

Tutto nel carcere rema contro, perché le cose non accadano, ci racconta Federica Graziani, ma al tempo stesso questa esperienza è stata importante, non solo per i detenuti, ma anche per gli organizzatori del laboratorio. Gli uni e gli altri ne sono usciti arricchiti sotto il profilo umano ed emotivo.
Il laboratorio ha modificato positivamente i rapporti tra i detenuti partecipanti, che si sono avvicinati e hanno imparato a vedersi l’un l’altro sotto una luce diversa: in quelle ore non erano più detenuti condannati per vari reati, ma semplici persone che…

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Ma le avete lette bene le parole del presidente dell’Anpi Pagliarulo?

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 15-04-2022 Roma Politica Conferenza stampa del presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo Nella foto Gianfranco Pagliarulo Photo Roberto Monaldo / LaPresse 15-04-2022 Rome (Italy) Press conference by the president of the National Association of Italian Partisans Gianfranco Pagliarulo In the pic Gianfranco Pagliarulo

Prima di qualsiasi polemica. Avete letto bene cosa ha detto il presidente dell’Associazione nazionale partigiani dl’Italia Gianfranco Pagliarulo? Prima di qualsiasi giudizio, prima di qualsiasi commento. Ecco qui l’intervento video in cui risponde agli attacchi:

«Di questi tempi – spiega Pagliarulo – non c’è giorno che l’Anpi e la mia persona non siano attaccate da qualcuno. Sostengono che si va divisi al 25 aprile in particolare per quello che ho detto lo scorso 15 aprile, quando ho affermato testualmente “Oggi rilanciamo la nostra proposta di dialogo e di unità. Sappiamo bene che la guerra tra i tanti disastri divide. Noi vogliamo contrastare questa deriva, pur nelle opinioni diverse, perché sono convinto che in ultima analisi l’obiettivo comune è quello della pace”, e ho aggiunto “Da ciò l’urgenza di un rafforzamento dell’unità di tutte le forze di pace del nostro Paese e del dialogo fra tutte le forze antifasciste per abbassare la tensione e ricercare la via del negoziato. La diversità di opinioni su singoli punti non deve impedire questo dialogo e la ricerca dell’unità a cominciare dalle più grandi forze democratiche presenti nel governo”. Ecco la tecnica: far dire al bersaglio della polemica, cioè io, esattamente il contrario di quello che ho detto. Ho parlato di unità, e scopro che le mie parole sono di divisione».

Poi il presidente aggiunge: «Ma questo è stato solo l’antipasto. Si è andati a frugare in qualche post su facebook e in qualche articolo che ho scritto nel 2014 e nel 2015 per dimostrare che sono… un seguace di Putin! In quei post, in sostanza, mi riferivo al cambio di regime avvenuto in Ucraina a cavallo fra il 2013 e il 2014 ed all’avvio della guerra civile fra il Donbass autonomista, e le armate ucraine che lo hanno attaccato militarmente. Fin dai tempi del cambio di regime di Maidan erano avvenute cose sconvolgenti: violenze spesso omicide da parte di formazioni paramilitari e politiche esplicitamente ispirate al nazismo, come Settore destro e Svoboda, la creazione di un vero e proprio battaglione combattente, il battaglione Azov, fondato e diretto da Andrij Biletsky, che affermò che la missione dell’Ucraina è quella di “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro i subumani, i sottouomini, capeggiati dai semiti”. Il simbolo del battaglione Azov è un simbolo simile alla svastica ed è lo stesso logo utilizzato da varie unità SS, sullo sfondo del sole nero, simbolo della mistica nazista; è lo stesso simbolo di un gruppo neofascista italiano e viene spesso usato da Forza nuova. Negli Stati Uniti l’anno scorso la commissione parlamentare per la lotta al terrorismo ha definito Azov “organizzazione terrorista straniera”. L’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha denunciato i crimini di guerra del battaglione Azov nel 2015 e nel 2016».

Dopodiché, Pagliarulo chiarisce: «Io non sono antifascista a giorni alterni. Davanti all’offensiva paranazista di quegli anni pensavo e continuo a pensare che fosse giusto contestare la spirale di violenza innescata da un oscuro cambio di regime e sostenuta da forze esplicitamente neonaziste. Essere antifascista non vuol dire affatto sostenere Putin. Tantomeno oggi dopo un’invasione criminale che sta mettendo a repentaglio la pace nel pianeta. Si dirà: ma il precedente governo ucraino prima di Maidan, quello di Viktor Yanukovych, era corrotto. Credo che sia verissimo. Ma anche il successivo governo di Petro Poroshenko, quello del rinnovamento dopo Maidan, era corrotto. Quando nelle elezioni ucraine dell’aprile 2019 Zelenskiy vinse contro Poroshenko, mi sembrò francamente un fatto positivo. Pensai che forse si sarebbero finalmente realizzati gli accordi di Minsk in merito al Donbass e che ritornasse la pace. Non è avvenuto».

Il presidente Anpi invita poi ad andare a rileggersi alcuni suoi vecchi articoli, su cui in questi giorni la stampa non si è soffermata: «Sembra che chiunque stia fuori dal coro dei vari Mentana diventa in automatico un pericoloso putiniano, agente del nemico, quinta colonna. Suggerisco la lettura di un mio articolo sullo scandalo Metropol, una oscura storia di rapporti fra l’uomo di Salvini, tale Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia Russia. Nell’incontro fra tre russi e tre italiani, fra cui Savoini, si sarebbe parlato di un finanziamento illegale alla Lega tramite una tangente di 65 milioni di euro in ragione di una triangolazione commerciale di una gigantesca quantità di gasolio. Cito questo episodio fra i tanti, perché si scoprirà che il putiniano Pagliarulo denunciava e approfondiva la vicenda il 26 luglio 2019 sul periodico nazionale dell’Anpi. Di eventi in cui Salvini si è dichiarato putiniano ce ne sono tanti. Ma cito questa storia perché mi pongo e pongo a tutti voi una domanda. Perché le autorevoli testate di orientamento liberaldemocratico non indagano a fondo sui rapporti della destra sovranista col nazionalista imperiale Putin e invece insistono a dipingere l’Anpi per ciò che non è e a descrivere Pagliarulo per ciò che non pensa e non dice?».

Infine, chiosa il capo dell’Anpi: «Stiano tranquilli tutti coloro che si stanno accanendo contro l’Anpi e contro me stesso: continueremo a condannare senza se e senza ma un’invasione sanguinosa di cui Putin ha tutte le responsabilità; continueremo a sostenere l’urgenza dell’immediato cessate il fuoco e del ritiro delle truppe russe dall’Ucraina. Continueremo a sostenere che l’unica via per far cessare questa catastrofe è una trattativa seria e una continua de-escalation. Continueremo a sostenere che l’invio di armi che si sta incrementando è benzina sul fuoco di una guerra che può deflagrare su scala europea e mondiale e di cui le prime vittime sono gli ucraini. Continueremo a sostenere che nel dibattito pubblico in Italia bisogna unirsi, dialogare, confrontarsi e non insultarsi, senza demonizzare nessuno. Continueremo a sostenere che il primo urgentissimo obiettivo è la pace e con questa parola d’ordine manifesteremo unitariamente il 25 aprile. Continueremo a sostenere che nel nostro tempo in una guerra non ci sono vinti né vincitori ma solo superstiti. Sappiamo di essere tanti. Condividiamo gli appelli del papa. Eravamo, siamo e saremo sempre antifascisti».

Se leggete bene le sue dichiarazioni vi stupirete, ne sono certo, di non trovarci dentro nulla del fango che si trova in giro. Chiaro, no?