Home Blog Pagina 327

Impedire che altri sacerdoti violentino bambini, un impegno di civiltà. Nasce il database di Left

Priest in confession booth with cross in hand. Desaturate the blue for a nice black and white image. The mesh screen is between the camera and priest.

Chi è il pedofilo? Cos’è la pedofilia? Cosa contraddistingue quella di matrice ecclesiastica? Quali sono le conseguenze per una vittima? Quanti sono i preti pedofili in Italia? Quante sono le loro vittime? Cosa fare quando si viene a conoscenza di una violenza subita da un bambino? A chi rivolgersi e a chi non rivolgersi per denunciare?

Sin da quando è nato Left – oggi, 17 febbraio sono esattamente 16 anni – dare una risposta a queste domande è stato uno dei nostri impegni prioritari. E lo abbiamo fatto con inchieste giornalistiche, dando voce alle vittime inascoltate e ignorate dalle istituzioni, oltre che con articoli divulgativi avvalendoci della competenza di esperti in varie discipline – avvocati, psichiatri, psicoterapeuti, storici, magistrati, psicologi. Siamo infatti convinti che uno degli errori più grandi del giornalismo in Italia consista nel raccontare il fenomeno criminale della pedofilia di matrice clericale come fosse una “semplice” somma di vicende di cronaca isolate, che accadono per caso all’interno delle parrocchie.

L’home page del database di Left

Una delle conseguenze è che, soprattutto dai grandi media e dalla tv, viene restituita all’opinione pubblica un’immagine falsata, parcellizzata di un crimine violentissimo che invece purtroppo è diffuso ovunque ed è malamente affrontato sia dalle istituzioni ecclesiastiche che da quelle laiche. Come se non ci fosse nulla da fare. Come se fosse inevitabile. La pedofilia è divenuta ormai un fenomeno endemico alla Chiesa cattolica. È stato accertato dalle inchieste realizzate negli ultimi 15 anni in Paesi come gli Stati Uniti, Olanda, Belgio, Irlanda, Germania, Francia, Australia. Ma è falso che non ci sia nulla da fare. Le stesse inchieste hanno dimostrato che solo affrontando la pedofilia clericale senza tare ideologiche, con l’obiettivo di mettere definitivamente la parola fine e avendo chiaramente presente cosa comporti per un bambino essere stuprato da un adulto di cui è stato indotto a fidarsi, solo così, dicevamo, si può iniziare a pensare di poter sradicare questo crimine da un ambiente culturale che per decenni, o meglio per secoli, ha sempre pensato a preservare l’istituzione religiosa da scandali che difficilmente avrebbe saputo giustificare, e mai si è preoccupato di tutelare i bambini dalla violenza. Una violenza omicida.

Chi legge Left sa che per noi questo è un punto cardine. Sulle nostre pagine più volte la violenza di un adulto su un bambino è stata definita da psichiatri e psicoterapeuti «un omicidio psichico». Tanto basterebbe, a nostro avviso, per mettere in allarme le autorità laiche preposte alla prevenzione e alla repressione di questi reati. Tanto dovrebbe bastare per non tollerare nemmeno una violenza in più e fare di tutto per impedirla. Invece nulla di tutto ciò. E questa intollerabile indifferenza è una delle concause che hanno reso endemica la pedofilia negli ambienti ecclesiastici.

Ormai l’Italia è rimasto l’unico Paese in cui la Chiesa e lo Stato non hanno mai voluto realizzare un’indagine su scala nazionale. Come leggerete nell’articolo di Marina Turi persino la “cattolicissima Spagna” si sta attivando per realizzare un’inchiesta indipendente. Una svolta storica resa possibile dall’eccellente lavoro d’inchiesta del quotidiano El Pais che nel 2018 ha preso le mosse dalla realizzazione di un database pubblicato sul proprio sito.

Da tempo noi di Left chiediamo che sia istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulla pedofilia nella Chiesa italiana come quella importantissima, già attiva, sul femminicidio. Ma il nostro appello fino a oggi è rimasto incredibilmente senza riscontro. Vogliamo pertanto sopperire a questa grave mancanza di informazioni con un nostro archivio online, il primo in Italia realizzato da una testata giornalistica. Una mancanza che è anche una inaccettabile disattenzione da parte della politica e delle istituzioni nei confronti della sicurezza e della salute psicofisica dei bambini.

Realizzato in collaborazione con l’associazione di vittime Rete L’Abuso che da anni gestisce un proprio archivio, lavorando su fonti originali, su fonti d’agenzia e giornalistiche, il database indica, laddove è possibile renderlo noto, il nome del sacerdote condannato o sotto inchiesta, il tipo di reato contestato, il numero conosciuto delle vittime, l’anno in cui è stato compiuto il reato, la data in cui il caso è divenuto noto, la diocesi di appartenenza. Un numeratore terrà aggiornato il conteggio dei sacerdoti coinvolti e delle loro vittime, mentre una parte del sito sarà dedicata all’archiviazione delle fonti giornalistiche e dei documenti. L’archivio è online dal 18 febbraio mostrando i primi 60 casi censiti e accertati (chiesaepedofilia.left.it). Sarà aggiornato costantemente e vi anticipiamo sin da ora che sono almeno 300 le “situazioni” documentate negli ultimi 20 anni, con centinaia e centinaia di vittime; sarà inoltre implementato da inchieste originali, interviste, analisi e riflessioni di esperti per dare un’interpretazione dei risultati ottenuti, con linguaggio chiaro e divulgativo.

L’obiettivo è fornire all’opinione pubblica un quadro d’insieme della situazione italiana per fare pressione sulla politica e le istituzioni affinché pongano in essere tutte le misure necessarie per prevenire ulteriori violenze – la pedofilia è notoriamente un crimine seriale – e per garantire tutta la necessaria assistenza psicologica alle vittime. Ci pare il minimo sindacale in un Paese civile.

*-*

Se sei a conoscenza di un caso che non è stato segnalato o vuoi aggiungere nuove informazioni a quelle già pubblicate, puoi scriverci all’indirizzo email [email protected]


L’editoriale è tratto da Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Gioco di specchi, così la Chiesa italiana insabbia i casi di pedofilia

Pope Francis talks with a cardinal as he arrives for second day of a Vatican's conference on dealing with sex abuse by priests, at the Vatican, Friday, Feb. 22, 2019. Pope Francis has issued 21 proposals to stem the clergy sex abuse around the world, calling for specific protocols to handle accusations against bishops and for lay experts to be involved in abuse investigations. (Giuseppe Lami/Pool Photo via AP)

«Eccellenza, mi riferisco al caso del rev. Nello Giraudo, del clero della sua Diocesi, che fu denunciato nel 1980 per abuso di minori e che nel 2002 manifestava al vicario generale la propria tendenza pedofila. Il suo predecessore, S.E. mons. Calcagno, nel 2003 segnalava il caso a questa Congregazione. Il 4 aprile 2006 egli fu invitato ad avvicinare il chierico per chiedergli se intendesse domandare al Santo Padre la dispensa da tutti gli oneri sacerdotali: in caso contrario, avrebbe dovuto attivare un processo penale amministrativo… nei confronti del sacerdote. Essendo ormai trascorsi quattro anni La invito a voler cortesemente informare questo Dicastero sull’evoluzione del caso». Quello che avete appena letto è il testo di una lettera inviata al vescovo Lupi il 29 marzo 2010 da monsignor Ladaria, all’epoca segretario della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf, la procura generale della Santa sede, conosciuta anche come ex Sant’uffizio). Lupi in quel tempo era capo della diocesi ligure di Savona-Noli.

Come si insabbia un caso di pedofilia nella Chiesa
Queste poche ma emblematiche righe sono lo specchio di un collaudato sistema di insabbiamento, quello utilizzato dalla Chiesa italiana e dal Vaticano per gestire i casi di crimini pedofili segnalati ai capi delle diocesi da sacerdoti che non intendono volgere lo sguardo altrove o da vittime che ritengono possibile ottenere giustizia dalle autorità ecclesiastiche. Converrete con noi che già scorrendo le date riportate nella missiva ci si accorge che c’è qualcosa che non torna.

In pratica, nel 2010 il braccio destro del procuratore generale della Santa Sede chiede conto al capo di una diocesi circa i 4 anni di totale silenzio da parte sua su un caso di pedofilia segnalato presso la stessa diocesi sin dal 1980, ammesso dallo stesso sacerdote nel 2002 e trasmesso alla Cdf, cioè alla procura della Santa Sede, nel 2003. Emerge inoltre che, sebbene nel 2002 la «tendenza pedofila» di Giraudo fosse “ufficialmente” nota, devono passare 4 anni prima che la diocesi lo richiami alle sue responsabilità. Un timidissimo richiamo: “Se non ti dimetti dall’abito talare spontaneamente, ti processiamo”. E il sacerdote reo confesso cosa fa? Evidentemente nulla, così come nulla fa la diocesi nei suoi confronti se 4 anni dopo Ladaria chiede informazioni al suo vescovo sull’evoluzione del caso. In tutto questo, in 30 anni non una parola trapela all’esterno.

Giraudo che negli anni viene spostato da una parrocchia all’altra del savonese e – almeno fino al 2003 – è autorizzato a partecipare ai campi scout, sa benissimo che l’obiettivo primario del “sistema”, di cui lui è solo uno dei tanti ingranaggi, consiste nell’evitare scandali e preservare l’immagine pubblica dell’istituzione ecclesiastica. Se questo casualmente coincide con l’incolumità di nuove potenziali vittime tanto meglio, ma la salute psicofisica dei bambini per tutti gli attori di queste storie è irrilevante. Tanto è vero che nel 2012 Giraudo patteggerà un anno e mezzo davanti al Gip di Savona per l’unico reato che i giudici sono riusciti a salvare dalla prescrizione, la violenza ai danni di minore compiuta (in un campo scout) nel 2005, cioè quando sia la Diocesi che la Congregazione per la dottrina della fede erano a conoscenza da tempo della sua «tendenza».

Prima di raccontare come l'”affaire Giraudo” si leghi al modo in cui oggi la Chiesa italiana “insabbia” le segnalazioni e le denunce di casi di pedofilia di matrice clericale – sottraendole all’azione della magistratura -, vale la pena ricostruire brevemente l’intera vicenda criminale che si è consumata nel savonese.

Lasciarono che i bambini andassero a lui
«Assolutamente omissivo»: così sentenzia il 14 maggio del 2012 il…


L’inchiesta prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Vaccini: disuguali fino alla morte

People wait for COVID-19 vaccination at Soweto's Baragwanath hospital Monday Dec. 13, 2021. South Africa's 7-day rolling average of daily new COVID-19 cases has risen over the past two weeks from 7.60 new cases per 100,000 people on Nov. 28 to 32.71 new cases per 100,000 people on Dec. 12, according to Johns Hopkins University. In general, the new omicron cases have resulted in milder cases, with fewer hospitalizations and less severe cases requiring oxygen or intensive care. (AP Photo/Jerome Delay)

A fine mese l’Europa butterà 55 milioni di dosi di vaccini perché in scadenza. Intanto l’Europa, nonostante le promesse, ha trasferito in Africa solo 30 milioni di vaccini dall’inizio dell’anno. In Africa, intanto, sono morte 7mila persone al giorno e solo 1 persona su 10 risulta vaccinata. Se si va nella zona subsahariana le cose vanno addirittura peggio e le percentuali scendono al 4/5%.

Il programma Covax che avrebbe dovuto garantire uguaglianza nella distribuzione dei vaccini rimane un futile giuramento che è risultato buono solo per i comunicati stampa e per presentare in bello stile i potenti del mondo. Anche sui vaccini i ricchi si sono ingozzati fino a sprecare mentre i più poveri rimangono ad aspettare qualche goccia. Al summit tra Unione Europea e Unione africana che comincia oggi a Bruxelles assisteremo ancora una volta alla sfilata delle buone intenzioni. È stancante perfino indignarsi, ormai. Sul superamento dei brevetti sappiamo che la Francia è favorevole, che la Germania si oppone con decisione. Inutile che vi chiedete quale sia la posizione dell’Italia visto che al netto di alcuni frasi di circostanza di Mario Draghi non c’è nulla di ufficiale. Niente.

«Nonostante la retorica di una relazione speciale con l’Africa, l’Unione europea, che al momento è il primo esportatore di vaccini al mondo, ha dato la priorità alla vendita di dosi prodotte in Europa ai Paesi ricchi in grado di pagare prezzi esorbitanti facendo prevalere unicamente la logica del profitto delle case farmaceutiche. Solo l’8% delle dosi esportate è andato al continente africano. – hanno detto Sara Albiani, policy advisor per la salute globale di Oxfam Italia e Rosella Miccio, presidente di Emergency – BioNTech, l’azienda tedesca partner di Pfizer, ha venduto solo l’1% del suo export nei Paesi africani. Allo stesso tempo, fino ad oggi è l’Unione europea, sotto la spinta della Germania, ad opporsi con maggiore forza alla proposta di sospensione dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini Covid, avanzata da India e Sud Africa all’Organizzazione mondiale del commercio con il sostegno dell’Unione africana e di oltre 100 Paesi. Un passo che, se accompagnato dalla condivisione di tecnologie e know-how, consentirebbe la libera produzione di vaccini, test e cure, bloccando lo sviluppo di nuove varianti del virus».

Intanto la pandemia ha portato Pfizer a prendere l’80% del mercato con 32 miliardi di dollari di ricavi programmati per il 2022 dopo avere raddoppiato il fatturato l’anno scorso. Nei primi 9 mesi del 2021 BioNtech ha incassato 13,4 miliardi di euro, dato che si confronta con i 137 milioni di ricavi che avevano caratterizzato lo stesso periodo del 2020. Il fatturato di BioNtech ha contribuito in maniera sostanziale anche alle casse della Germania grazie alle tasse pagate: provate a indovinare perché i tedeschi siano contro la liberalizzazione dei brevetti. A proposito: tutti i vaccini sono stati finanziati con soldi pubblici, anche se molti sembrano essersene dimenticati.

Infine c’è un ultimo particolare non trascurabile: l’approccio dei ricchi oltre che immorale è anche sbagliato e pericoloso, la formula perfetta per favorire eventuali nuovi varianti. La prossima variante non chiamatela con una lettera greca, chiamatela “siamo stati noi”.

Buon giovedì.

At Paul Mason’s School of Anti-Fascism

How to stop new fascism speakes of nowadays but has deep roots in Paul Mason’s life. What was your first experience of fascism? I read that in your childhood you came across in disused wartime air-raid shelters scrawled with anti-Nazi graffiti. Is that right? What are your memories?
I first became aware that fascism existed by watching the first five seconds of a documentary about the liberation of Bergen-Belsen. The famous shot of bodies being bulldozed into mass graves came on. My mother – who was half-Jewish – switched it off, violently. She explained to me – I was maybe 5 years old – that the Nazis had killed a lot of Jewish people and that she would have been one of them. It was presented to me, then, as a piece of ancient history. But it was only as far away in time as 9/11 is to today. It made sense of the word I had seen graffiti-ed onto the walls of disused air-raid shelters, which were to me the ultimate scary playground as a kid: No Nazis. Nazis out. Fuck Nazis. That conversation, and those images, added an extra dimension to my life that has never really gone away: the knowledge that, if things go really badly in the world, despite my DNA being only 27% “Ashekenazi Jew” my life could end by being herded into a concrete box from which I do not emerge.

Since you where a boy, before becoming a famous essayist and journalist, you have been an anti-fascist activist, disrupting events organised by small groups such as the National Front and the British National Party. Can you tell us something about that experience and how it contributed to your education?
The 1970s were experienced as the fall of a working civilisation. At the start of the 1970s my father was occupying union offices, staging wildcat strikes; a minister had to appear on TV with only a candle for lighting because a mass strike switched off the power. The end of the 1970s began, for me, when a convoy of police riot vans – which nobody knew existed – passed me on the way to suppress an antifascist demo in a nearby small town. From then on, through university and right up to the mid-1990s, we were at sporadic war with a kind of “Fascism 1.5” – the National Front, Combat 18, The British National Party. Nazi tribute bands with a strong element of Nordic mysticism and “Third Position” street violence (in fact inspired by Fiore).There is no statute of limitations in the UK, so I will not go into detail. We mobilised big groups of young, working class men – with a subculture that still lives, 30 years later, in the European antifa scene. We took actions that made it hard for the fascist groups to hold meetings, concerts, or campaign in elections.What did we succeed in? They disappeared off the streets, changed their names, abandoned violence, wore suits and began to understand that the real battle is ideological. So today we are facing something much more powerful: a fascism that is not a “tribute band” to Nazism but has regrown – like the root ball of a plant – in different conditions.

In your new book you imagine the Nazis inventing a time machine at the end of World War II. In your fantasy, a crack SS team travels 75 years into the future to 2020. Do you think they wuold be gratetful to the work of many nowdays leaders such as Orban, Erdogan, Kashinski, Lukaschenko, Putin, Bolsonaro, Meloni, Salvini and may others who speak of racial purity, male supremacy and leader worship?This idea began as a screenplay. Its a cool idea – time travelling Nazis arrive in 2020 to destroy democracy. But the more I worked on it, the more I realised it would have to be a comedy – because the joke is, their mission is entirely unneccesary.Fascism has regrown from its pre-1915 philosophical roots – Nietzsche, Bergson, Sorel, Maurras, Le Bon, Spengler, Social-Darwinism – it’s all back, and perfectly adapted to the world of Bitcoin, NFTs and troll farms.

And what about parties like Vox in Spain winning three million votes as they rail against migrants and feminists. And what about Golden Dawn in Greek?
Golden Dawn was defeated because it stuck to three things modern fascists don’t need: command hierarchy, Nazi regalia and targeted murder. Their members murdered Pavlos Fyssas, the antifascist musician; the authorities – who had been tolerating them disgracefully – were forced to investigate; and with one small effort they uncovered a command structure of a criminal enterprise with SS uniforms in secret basements. I don’t think we’re going to be so lucky with Vox, or with Zemmour. The 21st century far right works through networks, not hierarchies; its violence is symbolic – designed to tell a story to millions, not silence one voice; and it doesn’t need Nazi memorabilia – it has its own, subtextual and ironic visual code.

 Vox and Golden Dawn, (which thankfully is on trial), are extremist groups, but the Nazis of your time machine would also be happy with certain ultraliberal sides of Western society? We don’t forget that that 74 million people voted for Trump in November’s election in 2016, and we do not forget the assault on Capitol Hill. What do you think about that?
I don’t call Trump ultraliberal. What we’re seeing is the inversion of right-wing tech-bro libertarianism into the demand for the authoritarian state. At the fulcrum of this sudden inversion is race. The libertarian of the 1990s sees Black Lives Matter, or he sees migrants landing on Lampedusa, and he says: in order for my life to remain “free”, the lives of the minority must be subjected to absolute authoritariaism. And yes, tens of millions of people are racist. In America, in Europe, in India, in Latin America. The biggest ongoing genocides we have, right now, are in Asia. So political science spent 30 years constructing fine definitions: authoritarian conservatism, right wing populism, the alt-right, the far right. The problem is they have all converged around a shared project – to spread the Great Replacement myth, to attack feminism and human rights, to construct the authoritarian state and impose high costs, in terms of violence and institutional decay, on anyone who tries to remove them through voting. Trump is not actually their model. Putin and Erdogan are the models. And we have to understand – Trump is not “defeated”. America democracy is fragile – I don’t know if it will exist beyond the mid-2020s.

Talking about France, Marine Le Pen will attempt to oust Emmanuel Macron in next  presidential election. And they are threatened by the xenophobe Zemmour. Do the anti-fascists have no voice? With what consequences?
The French presidential election has turned into a textbook confirmation of my thesis. The “liberal” Macron attacks Islam. Zemmour emerges, prepared to use the most disgusting overt racism. Le Pen, who had made herself acceptable by stifling the old racism of her father, and concentrating on economic grievance, suddenly finds that what racists want is ethno-supremacy, not just petrol. Meanwhile the centre left has disintegrated because – as in the UK – it cannot work out how to simultaneoulsy represent the young and the old, the cool and the uncool.

Coming to Italy. There is a chapter in your book “To destroy everything” in which you reconstruct how in 1922 Mussolini took power, after he had been underestimated, considered a wreck and left on the loose. Why wasn’t he stopped?
First, because Italian “liberalism” of the late Giolitti era was not liberal at all, and actually sponsored Mussolini. Second because the Italian state was weak: two kinds of policemen added up to no kind of policing and the rule of law disintegrated. Third because of the “Maximalist” dreams of the socialist workers and peasants themselves. They could imagine socialism but not barbarism. There was nothing in the Marxism of the Second International, which was a mass ideology in Italy, that prepared them for the phenomenon of “radical evil”. Finally, because the PCI’s leaders were absolutely stupid – above all Bordiga, who told the Comintern everythign would be OK after the March on Rome and that Mussolini’s regime would be “liberal”.What the whole episode makes me fear is the inertia of ordinary people trapped in organisational cultures. “If i break with Bordiga, or if I break with the Maximalist culture I grew up in, my friends will hate me; I won’t get on the local committee; my name won’t be on the list of candidates”. I see the same instincts among left-wing and social movement people today. If I don’t call for the abolition of the police, or “full surrogate motherhood now!” I will not get invited to the next cool party. We have to think our way out of this problem – and thinking demands dissonance, alternatives, respectful arguments, logic over emotion – and the left’s biggest problem right now is its intolerance for these things: dissonance, difference and logic.

Some month ago far-right groups such as Forza Nuova attacked the headquarters of the CGIL union in Rome. Also in 1919 and 1921 the fascists attacked union offices and the socialist newspaper L’Avanti!. We are not in the same predicament, of course. History does not repeat itself, but do you think that Italy has never reckoned enough with the Fascist period?
2022 is a great year in which I hope Italian students and school students can measure, day by day, the speed at which democracy went down the plughole. You should mark the centenary of every massacre by the Blackshirts, of the legal general strike, of the Parma uprising, and the March on Rome – almost hour by hour – because these are living lessons in how a fascist coup could be defeated. That’s why, in the book, I present the rise of Mussolini as a “board game” – with alternative outcomes but only so many moves.

 In Italy for the President of the Republic’s election, which confirmed Mattarella, Giorgia Meloni and Matteo Salvini were praising for a presidential republic and they supported Marcello Pera (a crusader with Christian roots of Europe) and Berlusconi («vero patriota», Meloni said) who was enrolled in the P2, and who tried to tamper with the anti-fascist constitution, what do you think?
Everywhere this alliance of the conservative right, the populist right and the fascists has the same modus operandi: turn parliamentary democracies into presidential autocracies, bring in the oligarchs – from Russia, Saudi, China, it doesn;t matter – to fund a permanent hereditary elite, and then print money from the central bank to pay for both bread and circuses, both guns and butter.To stop it you need a mass movement devoted not to socialism but to antifascist popular democracy and social justice. I think we can build that – but only if we, the left, disrupt our tired ways of thinking.

A lezione di antifascismo da Paul Mason

Come fermare il nuovo fascismo di Paul Mason è un libro appassionato e urgente che ci mette in guardia rispetto al pericolo di risorgenti nazionalismi, sovranismi, autoritarismi, che soffiano sul fuoco e si nutrono del malessere sociale cresciuto con la pandemia. Nel 2022 il risorgente trumpismo getta più di un’ombra sulle elezioni di Midterm, Orbán cercherà la riconferma in Ungheria mentre in Brasile Bolsonaro minaccia di prendere le armi pur di restare al potere. Ma non solo. Fondamentalisti religiosi e custodi di valori tradizionali arretrati minacciano la democrazia in varie parti del mondo. E anche nei Paesi europei crescono frange di estrema destra e pericolose, formazioni neonaziste e neofasciste. Tanto che se a bordo di una navicella del tempo gruppi di nazisti approdassero nel presente avrebbero molto di cui compiacersi, avverte Paul Mason usando per scuotere le nostre coscienze anche gli strumenti del racconto distopico.
Giornalista che ha lavorato a lungo per la Bbc e Channel 4, saggista, regista, autore di pamphlet graffianti contro l’ideologia neoliberista, Mason in questo libro pubblicato in Italia da Il Saggiatore riallaccia i fili della storia, invitandoci a riflettere su cosa significa essere antifascisti oggi.

Lui lo è da sempre. Fin da quando nel Leicester, da piccolo, giocava fra ruderi coperti di graffiti anti nazisti. «Mi sono reso conto per la prima volta dell’esistenza del fascismo vedendo i primi cinque secondi di un documentario sulla liberazione di Bergen-Belsen» racconta Mason a Left. «È comparsa la fatidica inquadratura dei corpi uccisi con i bulldozer nelle fosse comuni. Mia madre, che era per metà ebrea, lo spense, bruscamente. Mi spiegò – avevo forse 5 anni – che i nazisti avevano ucciso molti ebrei e che lei sarebbe potuta essere una di loro. Quel video dava un senso alla parole incise, a quei graffiti sui muri dei rifugi antiaerei in disuso che da bambino erano per me l’ultimo parco giochi. Un parco giochi spaventoso, ho appreso poi, ma dove c’era scritto: “Maledetti nazisti”. “Fuori i nazisti”. “Fanculo i nazisti”. Quelle poche parole di mia madre, quelle immagini, aggiunsero una consapevolezza alla mia vita che non è più scomparsa. Mi fu subito chiaro che benché fossi askenazita al 27 per cento potevo finire in un cunicolo da cui non sarei uscito».

Poi da ragazzo sei diventato attivista antifascista, partecipando ad azioni contro il National front e il British national party. Che puoi dirci di quegli anni? Come hanno contribuito alla tua formazione?
Gli anni Settanta sono stati raccontati come la fine di una civiltà operaia. All’inizio di quel decennio mio padre, che faceva il sindacalista, organizzava scioperi selvaggi. Un ministro fu costretto a comparire in tv con una candela in mano perché uno sciopero di massa aveva fatto saltare la corrente. Ebbi la sensazione di una drammatica fine di quelle lotte quando un…


L’intervista prosegue su Left dell’11-17 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il Tso mortale di Mauro Guerra

Mauro Guerra aveva 32 anni ed è stato ucciso il 29 luglio del 2015 in una calda giornata a Carmignano di Sant’Urbano, in provincia di Padova, per un colpo d’arma da fuoco nell’addome. A sparare è stato il maresciallo Marco Pegoraro che avrebbe premuto il grilletto, così dice al giudice, perché spaventato da una colluttazione tra Guerra con un suo collega carabiniere.

Partiamo dall’inizio: Mauro Guerra da qualche giorno dava segni di disagio psichico e aveva intenzione di organizzare una non precisata manifestazione. Quando si presenta in caserma il maresciallo Pegoraro lo ritiene “pericoloso” e decide di sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. Solo che quel Tso è illegittimo e addirittura illegale visto che mancano le autorizzazioni dei sanitari e quella del sindaco. I carabinieri si presentano a casa di Guerra e comincia una snervante trattativa che si prolunga per ore. Prima gli comunicano che devono portarlo in caserma, poi lo invitano a salire su un’ambulanza infine quando Guerra scappa (in mutande) si mettono a inseguirlo finché non lo raggiungono. Gli mettono una sola manetta e Mauro Guerra si oppone e riesce a divincolarsi. A questo punto ci sono i due colpi di arma da fuoco. Mauro Guerra muore lì, steso a terra in mezzo a un campo.

Il primo processo per omicidio colposo vede l’assoluzione del maresciallo Pegoraro – è il dicembre 2018 – ma le motivazioni della sentenza sono più che contraddittorie: «È da ritenere – si legge nella sentenza – che tutto l’inseguimento per i campi, nonché i tentativi di immobilizzazione della persona offesa, siano state condotte del tutto arbitrarie e illegittime». E ancora: è stato realizzato un «grave tentativo di stordimento del Guerra (in quel momento libero cittadino), attraverso la somministrazione occulta di una dose di tranquillante». La Procura però non presenta appello.

Il processo in sede civile, però, prosegue e pochi giorni fa in un’intervista a PadovaOggi il il maresciallo Filippo Billeci, comandante della stazione dei carabinieri di Carmignano fino a tre mesi prima, dice cose importanti: quel giorno era stato chiamato per un tentativo di «mediazione», per far accettare a Guerra il Tso. «Dopo ho scoperto che non c’era» nessun Tso, racconta. «Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni», dice il maresciallo. «Se fosse stato pericoloso, non sarei stato in casa da solo un’ora con lui». Il carabiniere, accortosi che non c’era il documento che certificava il Tso, ha detto che lo si poteva lasciare stare e Guerra ha preso la strada per i campi. Nella sua fuga, nella sua corsa «lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno». Per Billeci «c’è stata quella colluttazione con il carabiniere Sarto, poi il collega che è intervenuto, Pegoraro, ha deciso di operare in quella maniera». «Non doveva finire così. Ognuno si deve assumere le sue responsabilità rispetto a quello che è successo», dice Billeci. Una curiosità: l’ex comandante non è mai stato sentito in tribunale.

Mauro Guerra è morto. Il carabiniere “aggredito” ha avuto per qualche giorno un cerotto sulla fronte. Chissà che non arrivi anche la giustizia.

Buon mercoledì.

Superbonus 110%, nani e ballerine

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 11-02-2022 Roma Conferenza stampa del Presidente del Consiglio Mario Draghi al termine del Consiglio dei ministri Nella foto Mario Draghi, Daniele Franco Photo Roberto Monaldo / LaPresse 11-02-2022 Rome (Italy) Press conference of the Prime Minister Mario Draghi after the cabinet meeting In the pic Mario Draghi, Daniele Franco

La discussione che si è accesa intorno al bonus edilizia 110% è la cartina di tornasole perfetta per leggere tutte le contraddizioni nei comportamenti della politica nostrana contemporanea. Sul bonus in sé e sugli errori contenuti in quella legge tanto si è scritto e non è questo che ci interessa, qui e ora: leggere le dichiarazioni dei politici è un esercizio utile per analizzare l’antropologia politica.

C’è Draghi, innanzitutto. Draghi si presenta in conferenza stampa, una di quelle conferenze stampa che hanno la pericolosità e la tensione giornalistica di una pizzata con gli ex compagni di classe, e ci infila una battutona delle sue dicendoci che «chi più tuona sul superbonus sono quelli che hanno scritto la legge». La battuta ovviamente fa impazzire tutti e viene rilanciata su tutti i giornali. Nessuno che faccia notare al signor Draghi che sia il presidente del Consiglio dei ministri e che abbia dalla sua tutta la maggioranza parlamentare che serve per cambiare le cose, presumibilmente migliorandole. Il compito di Draghi non è quello di “bacchettare” (nonostante piaccia molto ai giornali) ma quello di proporre e di attuare soluzioni. Comunque non stupisce l’appiattimento: stiamo parlando di chi ricopre la carica più politica nella nostra Repubblica e comunque si può permettere di dirci che non sa se prima o poi farà politica, un presidente del Consiglio. A proposito: qualcuno potrebbe dire a Draghi che i “controlli” alle imprese nel mondo del lavoro sono deficitarie da anni, in tutti i settori, e le poche ispezioni danno ovunque risultati sconfortanti.

Insuperabile Luciano Nobili, di Italia Viva, che al TG1 dice testualmente: «Il sistema dei bonus edilizi del governo Conte con i crediti che girano come le giostre ha permesso truffe intollerabili. Ha ragione Draghi: è ora di mettere ordine per garantire trasparenza, legalità e per dare certezze a famiglie e imprese oneste». Per fortuna c’è chi, come Calenda, ricorda ai renziani che al governo c’erano anche loro. Scrive Calenda: «Leggi scritte e approvate dal Governo di cui ⁦@matteorenzi⁩ e Italia Viva facevano parte. Stesso inaccettabile atteggiamento dei 5S sul Tap. Io non c’ero e se c’ero dormivo non funziona e non fa bene alla credibilità della politica». Non serve aggiungere altro.

Sul Superbonus la Lega, indovinate un po’, si spacca: Giorgetti corre a dare fiducia a Draghi e a Salvini tocca correggere la rotta. Del resto quel bonus ha le regioni del Nord come maggiori utilizzatrici (Lombardia e Veneto in testa) e i numeri sono la netta dimostrazione che no, che non sono i terroni a fare i furbetti per incassare denaro.

Notevoli anche tutti quelli che da mesi ci dicono che il reddito di cittadinanza (che, ricordiamolo, non è un bonus) fa schifo perché sarebbe un sussidio inutile per sfaticati. Sono gli stessi che da sempre ci dicono che i soldi non bisogna darli ai lavoratori ma alle imprese che le imprese sono buone e poi ci pensano loro a distribuirli: il Superbonus dimostra, ancora una volta, che lo Stato viene visto da troppi imprenditori come l’occasione per essere furbi e che non ci siano mai significative ricadute per i lavoratori che stanno più in basso. Eppure loro fingono di non vedere la contraddizione e riescono a essere contro le misure per lenire la povertà e ora contro un bonus per rilanciare un settore. Alla fine troveranno il coraggio di ammettere che la loro soluzione ideale sarebbe un bel bonifico da parte dello Stato direttamente alle imprese loro amiche che per pura coincidenza sono anche il loro elettorato.

Buon martedì.

Nella foto: il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro dell’Economia Daniele Franco alla conferenza stampa dell’11 febbraio 2022

Nursel Aydoğan: Siamo le spine nel fianco di Erdoğan

Tra pandemia, difficoltà politiche, nuove crisi che hanno avuto risalto internazionale, è calato il silenzio su quanto accade in Turchia, in un’area vicina e governata da un dittatore con cui, lo ha affermato il presidente del Consiglio Draghi, bisogna dialogare perché “utile”. Il 15 febbraio saranno trascorsi 23 anni dal giorno in cui Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) vive rinchiuso nell’isola-carcere di Imrali, senza avere prospettive di futuro. Öcalan, ricordiamo, venne catturato a Nairobi da un commando turco dopo che le autorità italiane nel 1998 gli avevano negato l’asilo politico. Il presidente/dittatore Tayyip Erdoğan sembra dominare indisturbato ma la società civile turca, nonostante la riduzione degli spazi democratici, non resta immobile anzi, reagisce, anche politicamente, esponendosi a rischi. In questi giorni è in Italia Nursel Aydoğan, deputata dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, spesso presentato superficialmente come partito dei curdi.

«Sono nata a Bursa, sono turca ma ho scoperto a 18 anni la causa curda e all’università sono entrata a far parte del movimento rivoluzionario – esordisce – Studiavo ad Ankara, fra il 1977 e il 1982, quando la causa curda era ignorata. Dopo il golpe del generale Kenan Evren nel 1980 il nostro movimento è stato liquidato ma ho continuato a lottare. Ho seguito i movimenti per la giustizia e la libertà delle donne, poi sono stata dirigente sindacale e dal 1999 al 2005 sono stata segretaria del Tuhad – Fed, la federazione delle associazioni che sostengono le famiglie dei detenuti. Intanto i partiti curdi hanno iniziato a presentarsi alle elezioni, dovendo cambiare ogni volta nome perché venivano dichiarati illegali. Il Bdp (Partito della pace e della democrazia) che succedette al Dtp (Partito della società democratica) e poi l’Hdp, il Partito democratico dei popoli. Con l’Hdp sono stata eletta parlamentare fra il 2011 e il 2017, nella circoscrizione curda di Diyarbakir, ma il 4 novembre del 2016 mi hanno arrestata, insieme ai coopresidenti del partito, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag. Ho passato sei mesi di carcere a Silvri, nei pressi di Istanbul, poi il rilascio e, due giorni dopo, un nuovo mandato d’arresto, nonostante l’immunità parlamentare, per motivazioni politiche. Questo è illegale e fascista, quindi mi sono rifugiata in Germania da dove continuo la mia lotta».

Ma anche dalla Germania può raccontare con chiarezza quanto avviene nel suo Paese e lo fa in maniera netta: «Abbiamo un regime autocratico. Gli organi di informazione sono sotto pressione con centinaia di giornalisti arrestati, radio e tv di opposizione chiuse. Simile sorte per le associazioni delle donne e della società civile. È stato chiesto di rendere illegale anche il mio partito. Tutto è sotto il controllo del partito di governo (Akp), decine di migliaia di persone subiscono processi o sono in carcere con l’accusa di aver offeso o criticato Erdoğan. Chi scende in piazza per manifestare il proprio dissenso rischia molto. Non ci sono tribunali indipendenti, tutto è…
(traduzione di Alessandro Nobili)


L’articolo prosegue su Left dell’11-16 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Selay Ghaffar: Rompere il silenzio a Kabul

A woman holds a photograph during a protest to raise awareness regarding the situation in Afghanistan outside EU headquarters in Brussels, Wednesday, Aug. 18, 2021. The European Union has no immediate plans to recognize the Taliban after their sweeping victory in Afghanistan but will talk with the militants to ensure that European nationals and Afghans who have worked with the EU can leave safely, the bloc's top diplomat said Tuesday. (AP Photo/Francisco Seco)

L’ultima volta l’avevo incontrata a Kabul in una fredda giornata di novembre, nel 2017. Aveva il viso stanco ma gli stessi occhi magnetici e lo sguardo fiero di sempre, un lungo mantello e i capelli neri lunghi sciolti. Un particolare irrilevante per noi ma che non passa inosservato in Afghanistan. Altro che il leone del Panshir, Selay Ghaffar era anche dal vivo la figura carismatica di cui avevo letto e sentito parlare dalle colleghe. Quattro uomini armati e altri apparentemente disarmati ma vigili, controllavano l’ingresso dell’abitazione, una delle tante in cui era costretta a vivere solo per pochi giorni, spesso da sola, senza figli e marito.

Dopo quell’incontro a Kabul, la risento e la rivedo via zoom. È dovuta fuggire anche lei, poco prima di Natale, e per adesso non può dire in quale Paese ha chiesto rifugio. È passato più di un mese da quando ha lasciato l’Afghanistan con il marito ed una delle figlie, e si capisce subito che la costrizione alla fuga è ancora una ferita aperta. Glielo si legge negli occhi, combattenti ma tristi, nella voce che si rompe alla commozione. Sussurra tra una risposta e l’altra. «Mi avevano trovato, il sistema di sicurezza che avevamo messo in piedi era in ginocchio, mi avevano minacciato di nuovo dopo la morte di un’attivista a novembre – Sei tu la prossima…». Quasi a doversi giustificare, dopo anni di minacce vissute nel Paese e anni passati a nascondersi: «Non ho visto i miei figli per settimane e a volte mesi interi, ero costretta a dire che non ero sposata, e a mio marito è stato detto di fare lo stesso, ho cambiato molte case per nascondermi ma rifarei tutto perché so che questo era il prezzo da pagare per essere libera e lottare».   

Le chiedo di agosto, dei giorni della presa di Kabul da parte dei talebani e lei mi interrompe: «La rapida presa da parte dei talebani non è stata una sorpresa per me e per molti altri afgani ma certo la caduta di Kabul in un solo giorno ci ha scioccato».

Portavoce di Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico partito politico laico presente in Afghanistan e figlia di una famiglia di attivisti, Selay ha già conosciuto l’esilio da bambina, quando la famiglia fuggì prima verso l’Iran e, successivamente verso il Pakistan, per liberarsi da un sistema fatto di violenza e discriminazione. Rivoluzionaria e combattente, non risparmia neppure questa volta le aspre critiche alle potenze occidentali, in primis agli Stati Uniti, colpevoli di aver riportato al potere i talebani.

Come giudica il comportamento degli Stati Uniti?
È stato chiaro a tutti gli afgani che…


L’articolo prosegue su Left dell’11-16 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Come sempre, la guerra che non vuole nessuno

Alla fine ci si è ridotti ad attaccarsi alla telefonata tra Usa e Russia, perché in fondo passano gli anni ma le abitudini peggiori rimangono intatte. Se da quella telefonata tra Biden e Putin ci si aspettava uno sviluppo qualsiasi, anche minimamente positivo, si può ufficializzare la delusione: gli Usa che avevano ripetuto di non voler entrare nel conflitto (fingendo di non sapere che l’Ucraina sia nel bel mezzo di un percorso di annessione alla Nato) ora minaccia «reazioni» e «una risposta decisa». Non male per rasserenare gli animi.

Da parte sua Putin fa politica internazionale come l’ha sempre fatta, incapace di esercitare pressione senza sfoderare armi e militari. E nonostante il presidente russo abbia interloquito con Macron (che ha intensificato i suoi contatti anche con Biden) tutti i segnali indicano un risultato scontato. Dagli Usa indicano anche una data: la commissione parlamentare russa che gestisce gli affari degli Stati indipendenti discuterà martedì l’ipotesi di riconoscere ufficialmente le due repubbliche ribelli di Donetsk e di Lugansk. In caso di parere positivo, l’Aula della Duma sarebbe chiamata a votare il giorno seguente, e quindi mercoledì. Mercoledì potrebbe essere il giorno, quindi.

La guerra sarebbe un grosso problema anche per l’Ucraina che subirebbe una brusca frenata nel suo percorso di avvicinamento alla Nato. Il ministro Di Maio in audizione alle Camere ha ricordato l’articolo 10 del Patto atlantico, secondo il quale l’allargamento deve «accrescere la sicurezza collettiva». Tutto vero, per carità, ma sarebbe curioso chiedere se l’allargamento della Nato a Est abbia o meno contribuito proprio a destabilizzare, piuttosto che accrescere la sicurezza. Poi si potrebbe ricordare a tutti gli sfegatati atlantisti di queste ore, perché, se «ogni Stato ha il diritto di scegliersi l’alleato che vuole» (come si sente dire in giro per difendere il governo di Kiev), poi alla fine gli stessi Usa (e la Nato) abbiano usato i jihadisti contro l’Urss negli anni Ottanta, perché gli Usa (e la Nato) siano intervenuti in Libia nel 2011 con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, perché si siano inventati una guerra in Iraq nel 2003 o, per finire, cosa ne dicono dell’ordine che hanno ristabilito in Afghanistan.

Di certo gli ucraini si sono affidati per il riarmo a Erdogan (un altro che non si capisce bene come contribuisca all’allargamento della sicurezza) e si è concesso a Putin di ammassare uomini e armi al confine in tutta tranquillità. Gli attori in scena sono tutt’altro che affidabili. Come sempre accade per le guerre tutti si occupano di trovare una giustificazione per una guerra che tutti fingono di non volere e intanto si apparecchia.

Buon lunedì.


Per approfondire, vedi Left dell’11-16 febbraio 2022

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO