Home Blog Pagina 326

Centri per il rimpatrio, il business della vergogna

Migrants who crossed the Mediterranean Sea by boat line up behind a fence in Lampedusa, Italy, Friday, Oct. 1, 2021, as they wait to board a ferry to Sicily. Despite the risks, many migrants and refugees say they'd rather die trying to cross to Europe than be returned to Libya where, upon disembarkation, they are placed in detention centers and often subjected to relentless abuse. (AP Photo/Renata Brito)

La Commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatović, all’esplodere della pandemia aveva chiesto ai governi degli Stati membri di sospendere il trattenimento nei centri per il rimpatrio presenti, a vario titolo, nei 27 Paesi dell’Unione. Le motivazioni della raccomandazione erano dettate dal fatto che la chiusura delle frontiere avrebbe impedito di effettuare i rimpatri e che i problemi di ordine sanitario si sarebbero acuiti. Richieste che non sono state mai rispettate.

Un punto di osservazione sulle condizioni dei migranti ora ce lo offre il volume, da pochi giorni in libreria edito da Seb 27, dal titolo Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa ai tempi della sindemia, curato da Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello. Il testo, a cui hanno collaborato ricercatrici e ricercatori in ambiti multidisciplinari e provenienti da diversi Paesi, ha il gran pregio di offrire una panoramica, per quanto non esaustiva (non tutti i 27 Stati sono trattati nel volume che però considera anche Paesi extra Ue) su quanto è accaduto nel sistema di internamento per persone la cui presenza è considerata illegale, soprattutto negli ultimi due anni. Gli autori non mancano di spiegare in sintesi come funzionino nel Paese in esame, tali strutture – che hanno elementi in comune e altri caratteristici legate ai contesti – e i loro punti di vista, come di osservazione, diversi, non impediscono ad ognuna/o di indicare un approccio radicalmente abolizionista come unica soluzione praticabile.

Ne parliamo con Francesca Esposito, lecturer presso la Scuola di scienze sociali all’università di Westminster a Londra e direttrice associata di Border criminologies, (una piattaforma interattiva sulla detenzione ) realizzata all’Università di Oxford. Il suo punto di vista di ricercatrice e attivista – ha lavorato molto soprattutto in merito alla detenzione delle donne migranti – ha il pregio di contenere i dati inequivocabili delle analisi quantitative e qualitative e lo sguardo mai lontano dall’indignazione verso un sistema che considera ingiusto e criminale.

«Premetto che invece di “pandemia” abbiamo scelto di usare il termine “sindemia”, utilizzato da Merrill Singer quando si affrontava l’emergenza Aids. Sindemia perché è impossibile non considerare insieme la crisi sanitaria e i suoi aspetti sociali. Le disparità sociali non solo influiscono nel poter o meno evitare il contagio, ma si sono acuite, creando un numero enorme di nuovi poveri e marginali – afferma Esposito -. Ed entrando nel tema che affrontiamo nel libro, non possiamo che confermare il fatto che il sistema di trattenimento non si è bloccato. Anzi, si è nel frattempo riorganizzato».
La curatrice del libro fa alcuni esempi: «In Italia non c’è stata una misura ufficiale per…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La finestra di Overton

Joseph Overton era un sociologo americano. Morì giovane, a 43 anni, schiantandosi su un aereo ultraleggero che stava pilotando in circostanze mai del tutto chiarite. La sua teoria di ingegneria sociale, la “finestra di Overton”, ha avuto una certa notorietà postuma. Studiava i meccanismi di persuasione e di manipolazione della masse che vengono usate nel marketing e sempre di più anche nella politica.

Overton riteneva che qualsiasi idea, anche la più assurda è lontana dall’immaginario contemporaneo, potesse trovare la sua “finestra” di possibilità per diventare universalmente accettata. Il trucco sta tutto nell’inserirla con cura nel circuito dell’opinione pubblica seguendo 6 passaggi fondamentale che si potrebbero sintetizzare così:

  1. L’impensabile. Quando l’idea risulta inaccettabile e vietata. Con il primo passaggio però si comincia a parlare di ciò che prima non veniva nemmeno lontanamente immaginato. E il parlarne apre le porte alla finestra successiva.
  2. Radicale. Qualcosa è vietata ma con eccezioni. L’idea continua a essere considerata inopportuna ma la proposta viene comunque letta come una provocazione.
  3. Accettabile. La finestra entra nel socialmente rilevante e ci si chiede se abbia senso vietarlo agli altri, nonostante il disaccordo generale. In questa fase i salotti televisivi si aprono a presunti “esperti”.
  4. Ragionevole. In questa fase ormai l’idea ha perso tutto il suo carico eversivo. Ormai è più che comprensibile. Non resta che creare le condizioni per lo stadio successivo.
  5. Diffuso. Ora l’idea raccoglie consenso politico e di mercato. Il sentire comune viene rappresentato anche da figure pop che ne portano avanti gli ideali.
  6. Legale. L’idea diventa legge dello Stato.

Joseph Overton non era un moralista e il suo schema ovviamente non è progressista o reazionario. Dentro ci si può mettere qualsiasi prodotto, qualsiasi ideale che sia di destra o di sinistra. Del resto riprende l’idea della “rana bollita” di Noam Chomsky che diceva: «Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni – sostiene Noam  Chomsky – ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e oggi ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute».

Ieri Alessandro Guerani in un tweet scriveva: «Se oggi fossero in politica sarebbero percepiti così: Junio Borghese: destra populista. Almirante: destra moderata. Zanone: liberal-socialista. Andreotti: sinistra riformista. Craxi: sinistra. Donat Cattin: sinistra radicale. Berlinguer: terrorista. Capanna: Satana». Appena mi è capitato di leggere mi ha fatto sorridere. Ripensando a Overton molto meno.

Buon martedì.

Lidia Menapace, partigiana per sempre

Uno scricciolo dall’aspetto fragile e dalla forza interiore grandissima. Così ci appare Lidia Menapace all’inizio del film che le ha dedicato il regista e attore Massimo Tarducci. Uno scricciolo di donna ma pronta a fare la rivoluzione. Una rivoluzione senza armi, ma con la cultura e con le idee.
Le armi, quelle materiali, si rifiutò di imbracciarle anche quando, giovanissima, partecipò alla lotta partigiana. Poi, nel percorso della sua lunga vita, la scelta del pacifismo si fece in lei sempre più radicale: pacifismo inteso come non violenza e insieme come proposta culturale, di cambiamento della mentalità (anche di linguaggio: «non usiamo il verbo combattere, meglio “lottare”. La lotta è nobile», diceva) e al contempo come azione concreta, senza scendere a compromessi.

«Via la guerra dal mondo», diceva da ultimo, rileggendo in chiave internazionalista «L’Italia ripudia la guerra»che è il cardine dell’articolo 11 della Costituzione antifascista. «Bisogna abolire l’esercito e investire in sanità», affermava con grande lungimiranza. Manca fortemente il suo impegno pacifista oggi che venti di guerra spirano in Europa.
L’Italia, obbediente alla Nato, ha già speso 78 milioni per schierare mezzi nelle aree calde dell’Europa dell’Est (vedi Left n.6 dell’11 febbraio) e il ministro della Difesa Guerini ha già raggiunto quota 15 miliardi per missioni di guerra in un anno.
Ritroviamo dunque, più attuali che mai le parole della partigiana pacifista nel film Per Lidia Menapace, appunti di viaggio a Bolzano che ci restituisce una Lidia spiritosa, resistente, come lo è stata fino al 2020 quando il Covid purtroppo se l’è portata via a 96 anni. Il film di Tarducci ci fa ritrovare la sua gioia di vivere, di incontrare, di spostarsi, di conoscere, di ospitare, in un flusso di immagini di partenze e arrivi, di stazioni e treni su cui amava viaggiare sempre rigorosamente in seconda classe.

Scorrono in questo film scorci della sua amata Bolzano, città di confine mitteleuropea, laboratorio di dialogo e di confronto fra culture diverse. Balenano gli spazi dove più amava stare: le piazze, la cucina, lo studio stracolmo di libri.
Lidia Menapace era un’insegnante, una ricercatrice (fu cacciata dall’Università del Sacro Cuore nel 1968 per aver preso posizione con uno scritto dal titolo Per una scelta marxista). È stata donna impegnata in politica e senatrice eletta nelle liste di Rifondazione comunista, partito a cui era iscritta fin dalla sua nascita nel 1991. Ma prima di tutto Lidia Menapace era una partigiana. «Sono una ex insegnante, una ex parlamentare, ma non una ex partigiana», dice perentoria nel film. «Perché essere partigiani è una scelta di vita». E questo suo antifascismo calato nel presente era ciò che…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Terza età, mai più soli

Marianne Duncan works in the rehab room Wednesday, Feb. 3, 2021, at Arbor Springs Health and Rehabilitation Center in Opelika, Ala. Coronavirus cases have dropped at U.S. nursing homes and other long-term care centers over the past few weeks, offering a glimmer of hope that studies and health officials link to various factors, including the start of vaccinations, the easing of a post-holiday virus surge and better prevention. (AP Photo/Julie Bennett)

«A volte penso che sarebbe meglio “morì” prima di mia madre perché il dolore che proverei per la sua perdita sarebbe terribile, ma poi ci ripenso. Come farebbe senza di me?». Sono le parole di Daniela Spadoni, preoccupata per il destino di sua madre nel caso non fosse più in grado di provvedere ai suoi bisogni primari. Daniela è seduta su una sedia nel magazzino di Nonna Roma, un’associazione che gestisce un banco del mutuo soccorso alimentare nella Capitale e più precisamente in viale Togliatti, un confine d’asfalto di quattro corsie tra il quartiere Centocelle – in via di gentrificazione – e la più centrale fra le borgate popolari romane: Quarticciolo. Aspetta il suo pacco alimentare insieme a quello della madre, mentre troneggia con la corporatura possente di un’ex atleta ma il sorriso dolce amaro di chi ne ha viste tante. Da ragazza era cintura nera di judo terzo dan, arrivando a gareggiare persino nella nazionale. Oggi mentre si tiene la schiena per i dolori racconta che nonostante non possa lavorare, e riceva una pensione di invalidità di soli trecento euro mensili, quasi ogni giorno in cui le è possibile si reca a trovare sua madre di ottantasette anni, anche essa invalida al 100%, percorrendo i dieci chilometri che separano il suo quartiere San Basilio dalla casa della mamma.

«Una volta non mi ha risposto per un giorno intero. Mi sono preoccupata tantissimo e sono corsa, con i miei tre cani in braccio, da lei. L’ho trovata sul balcone che prendeva il sole tranquilla, credo che stia diventando sorda o stia perdendo poco a poco la ragione». I pensieri che affliggono questa donna però non assillano solo poche persone nel nostro Paese, anzi. È stato calcolato da uno studio Istat che il 30,3% degli over 65 ha grandi difficoltà nell’essere autonomo: non riesce a usare il telefono, prendere le medicine, gestire le risorse economiche, preparare i pasti e fare la spesa. Il Censis invece dichiara che in Italia vivono oltre 2,8 milioni di anziani non autosufficienti, il 20% del totale degli invalidi e l’81% del totale di chi percorre la Terza età. L’alto tasso di disoccupazione, l’abbassamento delle tutele per i lavoratori e l’alto numero di pensionati – pari al 63% – che ricevono meno di 750 euro di assegno, sono fattori che allargano le fila di chi non possiede le risorse economiche per gestire un anziano non autosufficiente. Più di quattro milioni di famiglie in Italia si misurano con questo problema, quasi quante quelle che percepiscono il reddito di cittadinanza. E, nel secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone, si tratta di numeri necessariamente destinati ad aumentare.

La politica e gli organi di stampa hanno dato però finora, ai problemi della Terza età, un’attenzione quasi del tutto marginale, nonostante gli…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La sempiterna tentazione all’ammucchiata

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 20-02-2022 Roma Congresso di Azione Nella foto Carlo Calenda eletto segretario Photo Roberto Monaldo / LaPresse 20-02-2022 Rome (Italy) Congress of the Azione party In the pic Carlo Calenda

Carlo Calenda è stato eletto segretario del partito Azione. Ha vinto lui nel partito fondato da lui, chi l’avrebbe mai detto. Ma il punto politico è un altro: ogni volta che Calenda si ritrova a proferire parola per uno spazio più largo di un tweet si ha l’occasione di misurarlo in tutta la sua scadente saccenza politica che annebbia tutto il resto. Non sarà un caso che tra lui e Renzi non scorra buon sangue nonostante riconoscano di essere della stessa pasta: proporre come soluzione politica se stessi come leader è il primo punto della loro agenda politica. Poi succede che i punti politici, quelli veri, vengano inevitabilmente sbiaditi dall’auto promozione.

I giorni di congresso di Azione verranno ricordati tra le altre cose per l’irruento ritorno dell’odio antimeridionale, qualcosa di talmente logoro che nemmeno Salvini lo percorre più: dice Calenda che «se il federalismo al Sud non ha funzionato è per colpa degli elettori del sud, che non son in grado di votare persone capaci e competenti». State sicuri che qualcuno di sicuro lo applaudirà convinto, del resto molti liberal di casa nostra non sono nient’altro che la versione edulcorata della destra populista che fingono di voler combattere. Hanno capito perfettamente che se si riuscisse a instillare un po’ di odio sociale senza apparire sgrammaticati ma addirittura competenti si potrebbe rischiare di esse considerati illuminati. Del resto è lo stesso Calenda che dice di ispirarsi al liberalsocialismo di Gobetti e Rosselli, senza avere studiato abbastanza per sapere che il programma politico di Giustizia e Libertà intendeva il liberalismo come mezzo per giungere al socialismo e prevedeva ingenti nazionalizzazioni. Esattamente l’opposto dell’idea calendiana.

Del resto è lo stesso Calenda che propone un salario minimo (e fin qui potrebbe essere una buona notizia) di 7 euro all’ora, sempre sulla linea che ebbe da ministro quando magnificò i salari da fame italiani come mezzo di attrazione degli investimenti esteri. Dice Calenda che è disposto ad allearsi con tutti basta che siano d’accordo con lui e all’appello di Calenda rispondono Giorgetti (quindi la Lega) e timidamente Letta (ponendo dei distinguo). Così il sogno di Carlo è realizzato: fare l’ago di una bilancia che non ha nemmeno le basi per tenere in piedi il piatto. Pensare a un “campo largo” con chi ha idee opposte (almeno sulla carta) è populismo peggiore di quello che Calenda dice di voler combattere. E non è un caso che il marchio doc di “Draghi” sia il fondotinta che serve per coprire un’operazione indigeribile fin dalle intenzioni.

È la solita tentazione all’ammucchiata tutta italiana, quella che puzza da un chilometro di disperato e disperante tentativo di autopreservazione e che contribuirà ancora una volta a infiammare gli estremismi e allontanare gli elettori. Il progetto politico si potrebbe sintetizzare così: una bella ammucchiata, tutti dentro esclusi Meloni e Conte. Noi che qui fuori osserviamo e non aspiriamo a essere né migliori e nemmeno competenti osserviamo che Calenda dice da sempre di non volere mai e per nessun motivo allearsi con il M5s (scelta legittima), Letta ci dice «per vincere le elezioni contro il centrodestra dobbiamo comporre una grande alleanza in cui stia il M5s» e Calenda e Letta promettono di voler vincere insieme le elezioni del 2023.

Buon lunedì.

Così possiamo salvare i capodogli del Mediterraneo dall’estinzione

A sud-est della punta più meridionale dell’Italia, in prossimità della costa greca, vivono gli ultimi capodogli del Mediterraneo orientale, in un’area chiamata Fossa Ellenica. Queste ultime balene sono in grave pericolo: l’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn) classifica tutti i capodogli del Mediterraneo come «in via di estinzione», ma in particolare questa popolazione orientale conta solo da 200 a 300 individui ed è considerata dagli scienziati come la più piccola del Mediterraneo.

Una delle principali minacce per queste balene sono le collisioni con navi commerciali. La rotta della maggior parte delle navi dirette a nord da Creta e dal Peloponneso infatti attraversa direttamente l’habitat dei capodogli. La ricerca condotta da Alexandros Frantzis, direttore scientifico dell’Istituto per la ricerca sui cetacei Pelagos, e sostenuta dal Fondo internazionale per il benessere degli animali (Ifaw) insieme al Wwf Grecia ed a OceanCare, ha identificato la Fossa ellenica – a ovest ed a sud del Peloponneso e a sud-ovest di Creta – come habitat critico per queste balene. I mammiferi marini nuotano in profondità e si trovano qui tutto l’anno, unica area in cui sono stati osservati gruppi familiari nel Mediterraneo orientale. Qui si possono osservare le madri con i loro piccoli, a volte persino durante l’allattamento.

I capodogli – nome scientifico Physeter macrocephalus – hanno una struttura sociale complessa non diversa da quella dagli elefanti: vivono in gruppi familiari guidati da una “matriarca” esperta e possono essere visti “socializzare” e comunicare intensamente. I capodogli comunicano attraverso suoni brevi e rumorosi detti «click» e localizzano le loro prede grazie l’eco-localizzazione, in modo molto simile ai pipistrelli. Questi mammiferi acquatici si concentrano di solito attorno alla curva dei 1000 m di profondità, in zone marine dove il fondale oceanico può scendere ben oltre. Una luogo perfetto per queste balene che possono immergersi fino a 2000 m e rimanere sott’acqua per 60-90 minuti, cacciando la loro preda preferita: i calamari.

Il capodoglio è una delle due sole specie di grandi balene che si trovano regolarmente nel Mar Mediterraneo e si crede che questa popolazione sia isolata dagli altri capodogli nel resto del mondo. L’altra grande specie di balena che si trova qui è la balenottera comune, il secondo mammifero più grande sulla terra dopo la balenottera azzurra. Purtroppo, entrambe queste specie di grandi balene entrano spesso in collisione con le navi, fenomeno che gli esperti chiamano «ship strikes». Con la crescente quantità di merci spedite attraverso l’oceano ed il conseguente aumento del numero di navi nei nostri mari, il rischio che…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Zhai Yongming: Il mondo ha ancora bisogno di poeti

Zhai Yongming è fra le poetesse cinesi più importanti del panorama odierno. Nel 1984, attraverso le istanze avanguardiste e femministe della raccolta Donna, lancia una sfida senza precedenti al tradizionale discorso maschile, divenendo madre della “poesia femminile” cinese, dando vita a quello spazio “tutto per sé” in cui finalmente essere ed esprimersi liberamente. Negli anni Novanta, con uno stile narrativo-teatrale, osserva sia la realtà quotidiana che la storia del passato, soprattutto dal punto di vista dell’immagine della donna. Dagli anni Duemila, scrive poesie sulla società contemporanea, dedicandosi anche all’arte con installazioni e progetti innovativi, in cui fonde poesia e altri linguaggi. Nel 1998 apre il caffè La notte bianca, importante centro artistico-culturale a Chengdu, la città dove è nata nel 1955.
Zhai Yongming ha accettato con grande disponibilità ed entusiasmo a rispondere ad alcune mie domande.

Qual è oggi in Cina la situazione generale della “poesia femminile”? E quali sono secondo lei i cambiamenti maggiori rispetto al passato?
Ho letto il testo di un’importante critica letteraria che apprezzo, in cui diceva che il lato positivo dell’occuparsi di Women’s studies è quello di avere continuamente la possibilità di scoprirsi e di riflettere sulla propria identità; il lato negativo è che in molti pensano che tu sia in grado di occuparti soltanto di questo tipo di studi. Alla fine, però, ha anche rilevato che non c’è una regola fissa e che non è detto che le scrittrici debbano occuparsi necessariamente del proprio essere donne né degli studi di genere. Le sue parole un po’ rattristano perché fin dalla nascita della “poesia femminile” a metà degli anni Ottanta, c’è sempre stato questo tipo di divisione. Riguardo alla questione genere, negli ultimi quarant’anni, non sono stati fatti molti passi in avanti, anzi, sono addirittura stati fatti degli impercettibili ma significativi passi indietro. Molte scrittrici, proprio per evitare questa etichetta maschile del “possono solo occuparsi di studi femminili” (zhi neng zuo nüxing yanjiu只能作女性研究), preferiscono nascondere, svilire, la propria identità di donne. È per questa ragione che molte autrici, oggi, rifiutano l’etichetta di “scrittura femminile” (nüxing xiezuo女性写作). Questa formulazione, dunque, subisce due tipi di discriminazione: da una parte c’è quella di un trito pensiero maschile, dall’altra quella perpetrata dalle donne stesse che mettono da parte la propria identità di genere e scendono a compromessi. Nonostante in generale, in Cina, la questione di genere sia sicuramente migliorata negli anni, la realtà è che a ogni dieci passi in avanti, ne corrispondono cinque indietro, rendendo questo cammino particolarmente impervio. Tuttavia, ciò che mi consola è che…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Vaccini anti Covid, se il brevetto non va all’Africa…

A nurse administers an AstraZeneca vaccination against COVID-19, at a district health center giving first, second, and booster doses to eligible people, in the low-income Kibera neighborhood of Nairobi, Kenya Thursday, Jan. 20, 2022. At least 2.8 million doses of COVID-19 vaccines donated to African countries have expired, the Africa Centers for Disease Control said Thursday, citing short shelf lives as the major reason. (AP Photo/Brian Inganga)

Sono passati ormai oltre due anni dall’inizio dell’emergenza Covid, e più di uno da quando in Occidente sono stati autorizzati i primi vaccini contro il coronavirus, ma l’Africa ancora lungi dall’essere protetta perlomeno a livelli modesti dal contagio. Solo l’11% della popolazione del continente, infatti, risulta attualmente vaccinata con ciclo completo, stando ai dati dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc). Una disfatta che comporta due conseguenze gravi – la persistente vulnerabilità delle fasce più fragili dei cittadini africani rispetto al Covid e il rischio che il virus diffondendosi pressoché indisturbato generi nuove e potenzialmente più pericolose varianti – e che ha due cause principali, l’insufficienza dei programmi internazionali di vaccinazione come Covax (coordinato dall’Oms) e l’ostinazione con cui alcune potenze mondiali continuano ad impedire la sospensione temporanea dei brevetti utili a realizzare i vaccini, Unione Europea, Svizzera e Gran Bretagna in testa.

Per aggirare almeno quest’ultimo fattore che mette in pericolo l’Africa, e provare ad avvicinarsi all’obiettivo del 70% di popolazione vaccinata entro fine anno fissato dai leader dell’Unione africana, una farmaceutica sudafricana è riuscita a realizzare una “copia” del vaccino prodotto da Moderna. L’azienda si chiama Afrigen biologics e ha sede a Città del Capo. La sperimentazione, va detto, è ancora alle prime fasi. Gli scienziati hanno prodotto solamente alcuni microlitri del vaccino, partendo dai dati che Moderna ha utilizzato per realizzare il proprio antidoto.

La ricerca di Afrigen è stata portata avanti grazie anche al sostegno dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che alla fine della scorsa estate ha creato in Sudafrica un hub di trasferimento tecnologico con lo scopo di rafforzare in Africa – ma anche, più in generale, in tutti i Paesi a basso e medio reddito – la produzione di vaccini e in particolare quelli a tecnologia mRna. L’hub è un collettore che ha messo a disposizione delle realtà produttive locali le informazioni indispensabili per creare un vaccino anti Covid. È sostenuto tra gli altri dalla piattaforma Covax, e ne fanno parte centri di ricerca e aziende consorziate, tra le quali – appunto – la Afrigen.

«I vaccini di Moderna e Pfizer-Biontech sono ancora destinati principalmente alle nazioni più ricche» ha dichiarato Martin Friede, il funzionario Oms che coordina l’hub, «il nostro obiettivo è consentire ad altri Paesi di crearne di propri». Proprio l’Oms, secondo quanto ha riportato la rivista Nature, si era inizialmente rivolta alle due big del farmaco quando l’hub veniva lanciato nel giugno 2021, chiedendo un…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Lotta alla pedofilia nella Chiesa, la Spagna laica fa sul serio

Several bishops during the Pilgrim's Mass in the Cathedral of Santiago, one of the activities of the pilgrimage to Santiago de Compostela, on November 19, 2021, in Santiago de Compostela, A Coruña, Galicia, (Spain). On the occasion of the Jubilee Year of Compostela, this Friday, November 19, 63 Spanish bishops, two diocesan administrators and the two vice-secretaries of the Spanish Episcopal Conference (CEE), accompanied by the apostolic nuncio in Spain, have made a pilgrimage to Santiago de Compostela. Upon their arrival in the city, the celebration will culminate with the Pilgrim's Mass. FAMILY PHOTO AND EUCHARIST OF THE BISHOPS' PLENARY ASSEMBLY Álvaro Ballesteros / Europa Press 11/19/2021 (Europa Press via AP)

A bordo del volo di andata del viaggio apostolico a Cipro, nel dicembre scorso, il corrispondente del quotidiano El País ha consegnato a papa Francesco una copia del rapporto con la raccolta organica e completa delle tantissime ricerche realizzate dal quotidiano spagnolo dedicate alla pedofilia clericale nel Paese, oltre 380 pagine. Un’accurata indagine giornalistica iniziata nel 2018 e durata tre anni per stilare una lista di 251 nuovi casi classificati per provincia, in ordine alfabetico e con le iniziali del nome di ogni accusato, nel rispetto della legge sulla protezione dei dati; sono coinvolti 31 ordini religiosi e 31 diocesi. È il primo database di riferimento sugli abusi nella Chiesa cattolica spagnola, classificato in modo esaustivo, consultabile online dal sito del giornale.

Il caso più antico risale al 1943 e il più recente al 2018. I 251 casi indicati dal quotidiano, sommati a quelli che si conoscevano fino ad ora, portano a una cifra totale di 602, ciascuno con riferimento diretto a un religioso coinvolto, per 1.237 vittime accertate. Un numero destinato probabilmente a moltiplicarsi, calcolato in assenza di dati ufficiali da parte della Chiesa o delle autorità, basato su testimonianze dirette degli interessati e dei testimoni. La maggior parte delle storie parla di preti pedofili che hanno violentato e molestato decine di bambini e bambine, e di comportamenti che erano, di fatto, noti, seppure mai divulgati. Finora la Conferencia episcopal española (Cee) ha ribadito di non sapere quanti casi di pedofilia si siano verificati nel Paese, anche se assicura che sono «pochissimi».

Ufficialmente il problema della pedofilia nella Chiesa cattolica spagnola è quasi inesistente, la Spagna sembra essere un’eccezione nel mondo cattolico occidentale, insieme all’Italia. Lo Stato non si è mai preoccupato della questione e il risultato è che non ci sono statistiche che permettono di conoscere la verità.

Il dossier è stato inviato alla…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il Parlamento di cui stiamo parlando

Vedo che in giro c’è questa nuova tesi, piuttosto dopata, per cui non dovremmo preoccuparci della bocciatura dei referendum su eutanasia e cannabis perché «ora tocca al Parlamento». Siamo tutti d’accordo che non siano i referendum a legiferare (leggendo alcuni commenti sembra che molti non sappiano che la legge sull’aborto non fu figlia di un referendum) ma penso che potremo convenire che la montagna di firme su un certo tema sia inevitabilmente una pressione politica per i partiti a cui interessa rappresentare quelle persone lì fuori.

Noto che si insiste nel credere che questo Parlamento (quello che era maggioranza in un governo con la destra, poi che è stato maggioranza con un governo di centrosinistra, poi che è stato maggioranza quasi totale con il governo dei migliori di mister Draghi) abbia davvero i numeri (oltre che la statura morale) per votare una legge qualsiasi su un avanzamento di diritti qualsiasi.

Sfugge forse che stiamo parlando del Parlamento che ha inscenato un orrido rodeo festante per avere affossato la legge Zan fingendo di voler mediare semplicemente per boicottarla. Sfugge forse che stiamo parlando dello stesso Parlamento che continua a finanziare la Libia fingendosi contrito. Stiamo parlando dello stesso Parlamento che nel bel mezzo di una pandemia mondiale sta raggiungendo livelli record nella spesa militare, con il ministro Guerini nel ruolo di cameriere dei signori delle armi. Stiamo parlando dello stesso Parlamento che in questi giorni festeggia il trentennale di Mani pulite dimenticandosi completamente delle responsabilità criminali della politica e focalizzandosi a senso unico su un presunto golpe dei magistrati. Stiamo parlando dello stesso Parlamento che nelle parole e nei fatti sta continuando a criminalizzare i giovani, i poveri, i disoccupati, i sindacati, le proteste. Stiamo parlando dello stesso Parlamento che ha autorizzato una gestione economica della pandemia fingendo di occuparsi di salute quando le priorità sono sempre state i Pil, foss’anche quello del tramezzino sotto gli uffici.

Stiamo parlando del Parlamento che rivende come garantismo il diritto all’impunità, che accetta una transizione ecologica che è un trucco (malfatto) senza nemmeno l’ombra della decarbornizzazione. Stiamo parlando del Parlamento che twitta contro Sanremo, che nega il ritorno del fascismo volendo vedere le 100 ore di girato, che non si sbilancia mai sulla matrice di certi eventi, che trova normale un’ex deportata e senatrice come Liliana Segre a cui tocca girare con la scorta. Stiamo parlando di un Parlamento che ieri ha innalzato la soglia del contante per la gioia di criminali e di evasori. Stiamo parlando del Parlamento che non si acciglia nemmeno per un presidente della Corte costituzionale come Giuliano Amato che si permette di filosofeggiare sulle firme online per i referendum, mischiando giustizia e politica in una conferenza stampa con tutte le caratteristiche dello show.

In un Parlamento così davvero credete che si possa scrivere e votare una legge, una qualsiasi, che ci permetta di fare un passo avanti sui diritti? Davvero?

Buon venerdì.