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Mario Draghi e il potere religioso

Foto Guido Calamosca/LaPresse 14 Settembre 2021 Bologna, Italia politica Mario Draghi al Forum delle religioni a Palazzo Re Enzo. Presenti sul palco il Cardinale Zuppi e Romano Prodi Photo Guido Calamosca/LaPresse 14 Settembre, 2021 Bologna, Italy news Mario Draghi at the Forum of Religions at Palazzo Re Enzo. Present on stage Cardinal Zuppi and Romano Prodii

I rappresentanti delle religioni di tutto il mondo si sono dati appuntamento in una kermesse organizzata all’insegna del dialogo interreligioso per meglio pianificare e concordare le modalità di interferenza sulle rispettive politiche nazionali.
Hanno soprannominato questo evento “G20 delle religioni”, e hanno scelto come luogo di incontro Bologna, una delle città più significative per l’intreccio tra religione e affari, a differenza di Roma dove l’intreccio è piuttosto tra religione e potere.
Nelle prospettive dichiarate i rappresentanti religiosi hanno elencato una serie di buoni propositi sui quali si sono impegnati a lavorare d’intesa.
Hanno dichiarato di dover intervenire sullo sviluppo e sulla tutela dei diritti fondamentali, sulla promozione di un’autentica parità tra donne e uomini, sulla prevenzione e soluzione dei conflitti, sulla cura dell’ambiente e sulla protezione della salute, e infine sull’accesso all’istruzione.
Ripercorrendo pedissequamente queste intenzioni e facendo il punto sulla condizione umana planetaria a causa delle religioni, non c’è da stare allegri.
Non c’è diritto umano fondamentale sul quale le caste sacerdotali, di qualunque religione, non riescano a porre intralci inaccettabili: la parità tra donna e uomo sconta una arretratezza culturale di derivazione religiosa, le religioni legittimano eticamente le classi politiche che finanziano le operazioni militari, la salute sconta una privatizzazione della cura per mano di organizzazioni religiose che hanno costruito imperi.
Se si prende ad esempio il caso italiano, l’istruzione privata cattolica ha una percentuale di penetrazione nel sistema scolastico e universitario direttamente proporzionale alla percentuale di analfabetismo funzionale della nazione.
Lucrano sulle debolezze e interferiscono sulle libere scelte, soprattutto in tema di diritti di autodeterminazione femminile, e ora dialogano fra di loro perché si creino i presupposti per una azione di potere planetaria condivisa.
Il grande sopravvalutato del momento, ovvero il nostro presidente del Consiglio Mario Draghi, ospite d’onore del circo unionista, ad un certo punto del suo discorso ha pronunciato una esortazione rivolta a tutti i capi religiosi presenti, piuttosto inquietante sia se valutata per come inserita nel contesto del discorso, ma anche se estrapolata: «Richiamate la politica all’azione coerente con il vostro messaggio».
Non ha riflettuto abbastanza sul fatto che la politica coerente con il messaggio religioso in questo momento storico è, ad esempio, quella dei talebani afghani, dei fratelli mussulmani nordafricani, dei guerriglieri di Boko haram nigeriani. Mentre da noi il punto più basso di politica coerente con il messaggio religioso, si è avuto con l’Inquisizione che ha espresso il più sconvolgente femminicidio di massa della storia dell’umanità ad opera dei banditi domenicani.
Ma il presidente del Consiglio i discorsi pubblici se li scrive da solo oppure glieli scrive qualcuno che si è imbucato negli uffici di Palazzo Chigi?

L’autrice: L’avvocato Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea

 

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“Tull quadze”, tutti in piazza con e per le donne afgane

Tull quadze e Magnolia, due nomi che certo non ricorrono nel lessico politico, ma che hanno per noi un forte significato e valore politico.


Tull quadze significa “tutte le donne”, in un dialetto parlato in Afghanistan. E saranno appunto loro, le donne afgane, ad aprire il 25 settembre la manifestazione nazionale che si svolgerà a Piazza del Popolo a Roma e con le loro parole, le loro vite, le loro storie, i loro sogni e paure parleranno a tutte le donne, del nostro Paese e del mondo. Perché l’orrore che avviene in Afghanistan è lo stesso delle morti nel Mediterraneo, delle torture in Libia, degli accampamenti nei Balcani, teatro di efferate violenze sui corpi delle donne. Perché la ferocia dei talebani, che uccide i diritti e la libertà delle donne in Afghanistan, sorride tragicamente alla cultura patriarcale che pervade anche le nostre società più emancipate, dove i numeri dei femminicidi sono divenuti ormai una mattanza, dove la violenza istituzionale scrive sentenze indecenti sulla violenza contro le donne, dove la misoginia e la concezione della famiglia fondata sulla cosiddetta naturalità del ruolo domestico e ancillare delle donne impediscono lo scandalo verso l’arretratezza delle condizioni di lavoro e di vita delle donne. Ma anche dove continuamente ritorna la cultura della colpa per le donne che interrompono una gravidanza, persino terapeutica, come avviene per i cimiteri dei feti.

Magnolia, invece, è il nome che abbiamo dato all’assemblea che si è svolta nel giardino della magnolia della Casa Internazionale delle Donne, subito dopo il lockdown, con i tanti luoghi delle donne e tantissime altre donne, associazioni, singole, donne dei movimenti e delle istituzioni. Diverse ma insieme, riunite per capire cosa era successo e cosa ci era successo, nelle nostre vite e nel nostro modo di pensare. La pandemia è stata un’esperienza umana del tutto inedita, in contemporanea milioni e milioni di donne e uomini hanno sperimentato gli stessi sentimenti ed emozioni, quelli del dolore e del lutto, della paura, della fragilità dei corpi, della interdipendenza. Volevamo quindi capire, ascoltarci, ma anche reagire, riprendere parola pubblica.

“Il Covid ci ha dato ragione” ci siamo dette, ma la lezione del Covid rischia di essere messa ormai tra parentesi. “È stata soprattutto una crisi della cura”, abbiamo riflettuto, ma nel Pnrr questa consapevolezza non c’è. Serve allora un’altra narrazione della realtà, a partire dalla vita delle donne e con un posizionamento radicale e femminista. Contro l’unanimismo imperante serve un’altra visione, servono pensieri lunghi e scelte coraggiose, per non ripetere le vecchie ricette, per non riproporre la follia dello stesso modello di produzione e di consumo, che distrugge l’ambiente e determina lo sfruttamento delle persone e degli animali, per non rilegittimare il fallimento delle politiche liberiste, che hanno costruito disuguaglianze, povertà, smantellato i sistemi pubblici di protezione sociale e di tutela dei diritti del lavoro. Non è più il tempo della retorica, delle parole, delle piccole conquiste. E neppure delle contiguità con il passato.

L’abbiamo chiamata “rivoluzione della cura”, con tutta l’enfasi di una parola evocativa di grandi trasformazioni, che chiamano in gioco politiche ma anche conflitti, capaci di scardinare paradigmi, persino dogmi, fino ad ora considerati intoccabili, per cambiare i meccanismi sociali ed economici che proteggono un sistema di potere fatto di gender pay gap, di cultura della violenza e dello stupro, di cristallizzazione dei ruoli di genere nelle famiglie, di connivenza con la cultura patriarcale.
La cura non è obbligo, né destino naturale per le donne. È un diritto sociale e una responsabilità collettiva, l’opposto dell’ostinazione neoliberista sulla responsabilità individuale. Mette al centro i bisogni delle persone, i legami sociali, il rispetto dell’altro, i diritti e le libertà di tutte e di tutti, a partire dal diritto alla cittadinanza e dal riconoscimento di tutte le soggettività LGBTQ+, una nuova idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione per ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo.

Non è la “care economy” oggi usata per coprire e per “modernizzare” la crisi del welfare, di fatto per rendere inesigibili i diritti che il welfare ha storicamente assunto dalla carta costituzionale. Rivoluzione della cura è strategia per il cambiamento, per riallineare gli obiettivi, i tempi, gli strumenti, a partire dalla prossima finanziaria.
Noi donne – che siamo le più penalizzate dalla crisi, perdiamo il lavoro molto più degli uomini e persino non lo cerchiamo neppure più, che nonostante la retorica di quei mesi siamo state accantonate, anzi rifunzionalizzate come compensazione strutturale alla mancanza dei servizi pubblici essenziali alla vita – chiediamo non politiche di conciliazione, ma investimenti nelle infrastrutture sociali, non nelle infrastrutture previste dal Pnrr, quelle delle autostrade e dell’alta velocità. Mentre l’obiettivo del Pnrr è la modernizzazione, non fa scandalo che il nostro Paese su 153 Paesi valutati sia ancora al 76° posto per politiche di genere e al 125° per Pay Gender Gap. Non servono allora i bonus ma un piano straordinario di assunzioni delle donne nella Pubblica amministrazione e garantire che, a partire da qui e dai servizi dati in appalto, si elimini la precarietà, secondo il principio che a lavoro stabile deve corrispondere una lavoratrice stabile, non più a tempo determinato, o a partita Iva, o persino con voucher. Occorre sanzionare il part time obbligatorio, causa non solo del lavoro ma anche della futura pensione povera delle donne , pensare ad ammortizzatori sociali veramente universali e anche a un “reddito di autodeterminazione”, come chiedono le femministe per aiutare le donne ad uscire dalla violenza. Produzione e riproduzione continuano ad essere gli ambiti di un conflitto antico e modernissimo, politico e culturale, per la libertà femminile.

Tull Quadze / Tutte le donne. Come ci ha insegnato il Covid, il cambiamento, profondo e radicale, è necessario. Ma non c’è né ci sarà senza le donne. Per questo oggi è l’ora della forza, dell’unità e della mobilitazione delle donne. Scenderemo in piazza per questo, con le donne afghane e con le lavoratrici della Gkn, con le donne precarie della scuola, della sanità, del mondo dello spettacolo, con le giovani di “Friday for future” e di Black lives matter”, con le donne che hanno promosso l’assemblea della Magnolia ma anche con le decine e decine di associazioni di donne che hanno aderito, con le donne dei coordinamenti della Cgil e della UIL, con artiste, giornaliste e tantissime altre. Scenderemo in piazza certo con le donne, ma anche con tutti quelli che sono consapevoli che la rivoluzione della cura è una necessità per il mondo, per le nostre società, per le nostre vite. E che il tempo è già scaduto.

Nella foto: le donne a Kabul reclamano i propri diritti, 3 settembre 2021

 

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Per approfondire, Left del 27 agosto 2021

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SOMMARIO

Armi di migrazioni di massa

Il 30 agosto del 2010 il Colonnello Muhammar Gheddafi a Roma presso la caserma Salvo D’Acquisto tenne un intervento fiume di oltre quaranta minuti tutto incentrato sulla pagina del colonialismo e su inquietanti scenari disegnati dall’avanzata dell’immigrazione africana. Ad ascoltarlo c’è il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si festeggiava il secondo anniversario del Trattato di Amicizia italo-libico. Gheddafi parlò della Libia come «ponte» privilegiato tra l’Africa e l’Europa. Chiese 5 miliardi di euro perché, disse, «l’Europa un domani potrebbe non essere più europea e diventare addirittura nera perché in milioni vogliono venire in Europa».

La Storia è ciclica e noi continuiamo a dimenticarcene. Avere una classe dirigente superficiale e ignorante significa fare riaccadere fatti già visti come se fossero nuovi, stupirsi ogni volta per lezioni che invece avrebbero dovuto essere mandate a memoria. Se non si impara dalla Storia si ricade negli stessi errori e oltre all’immorale peccato di non avere l’esperienza per leggere il presente accade anche l’umiliazione di meravigliarsi.

Jelly M. Greenhill è una studiosa e ricercatrice americana della Kennedy School of Government, a Harvard, e le sue ricerche sono finite pubblicate in un libro per i tipi della Cornell University Press, disponibili in Italia grazie alla Leg, la Libreria Editrice Goriziana, dal titolo Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera. Greenhill prende in considerazione 56 casi di migrazioni usate come armi per esercitare pressione politica su altri Stati. Secondo Greenhill dal 1951 al 2016 si sono verificati almeno 75 episodi di “migrazione ingegnerizzata” (questa è la definizione che usa nei suoi studi) per persuadere non militarmente alcuni Stati vicini a compiere determinate azioni o comunque per influenzarne le scelte politiche.

L’anno scorso, solo per citare un caso, la Turchia (dopo avere incassato l’impegno dell’Europa di versarle qualcosa come 6 miliardi di euro per “contenere” il flusso migratorio con un accordo considerato piuttosto controverso da molti giuristi internazionali) aprì le frontiere, era il 27 febbraio dell’anno scorso, per esercitare pressione sull’Europa. La stessa Libia negli ultimi anni ha utilizzato il rubinetto dei migranti per ottenere, aprendolo e chiudendolo secondo la necessità, soldi e protezione dall’Europa.

Nel caso di Gheddaffi più del terrorismo o dell’instabilità del mercato petrolifero, egli, scrive Greenhill, riuscì a «esercitare una valida, seppur non convenzionale forma di coercizione nei confronti della più grande unione politica ed economica del mondo» basata su tre punti di pressione deliberata: 1) la creazione, 2) la manipolazione, 3) lo sfruttamento dei migranti e dei rifugiati. Migranti e rifugiati che, letteralmente presi nel gioco di equilibrio e pressione fra Stati canaglia e Stati bersaglio, sono le vere vittime di quelli che Greenhill non esita a definire «disastri innaturali».

Come spiega Greenhill servono almeno tre attori perché la migrazione ingegnerizzata funzioni: i generatori (coloro che innescano crisi sistemiche migratorie come Gheddafi), gli agenti provocatori (soggetti terzi rispetto agli Stati, che possono trasformare una crisi limitata in una crisi di ampie proporzioni facendo pressione e orientando l’opinione pubblica e le azioni umanitarie) e gli opportunisti (coloro che minacciano di chiudere i confini). Insomma, quello che stiamo vivendo ora è stato analizzato e teorizzato anni fa.

Mentre quasi tutti non se ne accorgono la Bielorussa sta usando in questi giorni lo stesso sistema per vendicarsi delle sanzioni imposte dall’Europa spingendo migliaia di migranti (soprattutto afghani e iracheni) verso la Polonia e la Lituania. Chi paga le conseguenze di questo gioco? I migranti, ovviamente. L’altro ieri al confine tra Polonia e Bielorussia ne sono morti 4 (muoiono spesso per congelamento) tra cui una donna che ha lasciato tre figli.

Mentre si tenta di instillare almeno il senso minimo di umanità e accoglienza (che starebbero scritti tra le carte del diritto internazionale) noi ci ritroviamo a uno stadio successivo in cui le migrazioni vengono usate come armi bianche. Se i disperati diventano armi significa che sono strumenti di morte, quindi niente a che vedere con i vivi, più morti dei morti. E solo la consapevolezza di questo terribile passaggio ci permette di progettare (o almeno sperare o combattere per) un ritorno alla giustizia sociale.

I costi dell’ignoranza e dell’ipocrisia, lo scrive sempre Greenhill, «sono quei costi politici e simbolici che possono essere inflitti quando esiste una disparità reale o percepita tra un impegno dichiarato verso valori e norme liberali e azioni che invece contraddicono tale impegno».

A volte basta un po’ di studio, di memoria e di cultura per scoprire la banalità dell’inganno. Chissà che qualcuno non tenga a mente questa lezione e che ne renda conto alla cosiddetta classe dirigente. Chissà.

Buon mercoledì.

 

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Insorge il sole sulla Gkn

Intanto ci è arrivato il tribunale. Il Tribunale del Lavoro di Firenze ha revocato l’apertura dei licenziamenti collettivi dei 422 dipendenti della Gkn di Campi Bisenzio, la multinazionale controllata dal fondo finanziario Melrose. Il Tribunale certifica che l’azienda ha provato a scavalcare il sindacato tenendo all’oscuro i lavoratori delle reali intenzioni programmando una finta chiusura temporanea lo scorso 9 luglio adducendo inesistenti motivazioni legati alla produzione quando sapevano che i dipendenti non sarebbero più rientrati. Secondo il giudice la multinazionale ha violato l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori mettendo in atto comportamenti anti sindacali e perfino l’accordo del giugno 2020 tra le Rsu e l’azienda. Dopo la sentenza l’azienda ha comunicato di aver dato «immediata esecuzione» a quanto stabilito dal giudice revocando la procedura «senza che ciò possa considerarsi acquiescenza» e «con ogni più ampia riserva di impugnazione».

Addirittura, secondo la ricostruzione del tribunale, la decisione sarebbe stata presa l’8 luglio in un consiglio di amministrazione in cui si era deciso di delocalizzare la produzione di assi e semiassi (l’attività che si svolgeva nel sito fiorentino) in Polonia. Per il giudice, nel comunicare i licenziamenti collettivi con una email, il 9 luglio scorso, la Gkn è venuta meno al «democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti». «Pur non essendo in discussione la discrezionalità dell’imprenditore rispetto alla decisione di cessare l’attività di impresa (espressione della libertà garantita dall’art. 41 Cost. ), nondimeno la scelta imprenditoriale deve essere attuata con modalità  rispettose dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, nonché del ruolo e delle prerogative del sindacato», scrive il giudice del Lavoro di Firenze, Anita Maria Brigida Davia. Gkn «nel decidere l’immediata cessazione della produzione – si legge nel decreto –  ha contestualmente deciso di rifiutare la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti (il cui rapporto di lavoro prosegue per legge fino alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo), senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto, il che sicuramente contrario a buona fede e rende plausibile la volontà di limitare l’attività del sindacato». «Quanto al rispetto del ruolo del sindacato stesso – chiarisce il giudice – appare significativa la chiusura di 24 ore per “par collettivo” (permesso annuo retribuito), concordata con motivazione rivelatasi successivamente pretestuosa e artatamente programmata per il giorno successivo a quello fissato per decidere la cessazione di attività, in modo da poter comunicare la suddetta cessazione ai lavoratori e al sindacato con lo stabilimento già chiuso».

È una prima vittoria, certo, ma che sia stato un tribunale a ribadire alcuni diritti fondamentali dei lavoratori (grazie anche a quello Statuto dei lavoratori che molti vorrebbero smantellare) su un ricorso della Fiom dà l’idea dell’assenza della politica, di una visione politica del mondo del lavoro e di una chiara interpretazione del mondo. Enrico Letta ieri twittava: «Avevano ragione i lavoratori, avevano ragione i sindacati e avevamo ragione noi ad accusare la #GKN di aver violato ogni regola. Il Tribunale di Firenze l’ha sancito. Ora si fermino e si volti pagina». Benissimo certo ma per voltare pagina basterebbe che il partito di Letta (che sta al governo) decida di prendere in mano ad esempio il documento che proprio i lavoratori della Gkn con l’aiuto dei Giuristi democratici hanno scritto in otto punti per la stesura di una legge contro le delocalizzazioni. Un documento che parte dalla considerazione che «delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione».

Come scriveva ieri Deborah Lucchetti su Il Manifesto: «L’idea che la contesa si gioca sulle regole e sulla capacità dello Stato di tornare ad essere protagonista e regolatore dell’economia: la chiamata dei giuristi a scrivere la legge contro le delocalizzazioni selvagge davanti ai cancelli insieme agli operai, sovverte la prassi di un diritto sempre più ammorbidito, scritto per le imprese e il mercato sotto la pressione di migliaia di lobbisti, lontano dal dettato costituzionale e dal bene comune, secondo il fallimentare principio neoliberista dello Stato minimo in un mercato autoregolato».

In tutto questo tra l’altro, come fa notare Marta Fana, «il Fondo Melrose – i proprietari della Gkn- perde in meno di tre ore il 4,3%. A conferma che questi fondi non sono altro che entità finanziarie che speculano sulla morte dell’attività produttiva e sui licenziamenti di massa».

Per questo la lotta della Gkn riguarda tutti: si tratta di decidere che priorità dare ai diritti dei lavoratori, se davvero c’è la voglia di rimettere in equilibrio il lavoro inteso come diritto dei lavoratori e non solo fatturato e utili. Vale la pena leggere con attenzione il comunicato del collettivo di lavoratori del sito di Campi Bisenzio: «Ci dicono che abbiamo vinto il ricorso per condotta antisindacale. Vedremo le conseguenze pratiche. La palla ripassa ancora più pesante al governo. Non osate far ripartire quelle lettere. Cambiate la legge subito», scrivono i lavoratori su Facebook. «La mobilitazione continua perché non c’è salvezza fuori dalla mobilitazione. E perché ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare. Stiamo imparando tante cose in questa lotta. Iniziamo anche a masticare qualcosa di finanza. E quindi, fossimo un azionista Plc Melrose, inizieremmo a pensare che forse i nostri soldi non sono proprio in buone mani. Inizieremmo a diversificare il portafoglio. È una semplice opinione, sia chiaro. Noi non siamo azionisti del resto. Siamo gli operai Gkn. E questo è quanto. Noi non giochiamo in Borsa. Facciamo semiassi. E insieme a tutti voi, noi #insorgiamo».

Buon martedì.

(foto di Andrea Sawyerr dalla pagina Fb del Collettivo di fabbrica lavoratori Gkn)

 

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SentenzaCC 921

Roberto Gualtieri: Roma non sarà più la capitale delle disuguaglianze

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 02 Settembre 2021 Roma (Italia) Cronaca : Ada Colau , Roberto Gualtieri e Francesca Bria presentano il piano per la città del centro sinistra Nella Foto : Ada Colau , Roberto Gualtieri , Francesca Bria Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse September 02 , 2021 Rome (Italy) News : Ada Colau, Roberto Gualtieri and Francesca Bria present the plan for the center-left city In the Pic : Ada Colau , Roberto Gualtieri , Francesca Bria

«Vado tutti i giorni nei mercati, nelle strade, nelle piazze, per parlare con le persone: a Magliana, San Basilio, Montagnola, Torre Maura, Tor Bella Monaca, Ostia… Parlo con centinaia di cittadini, e avverto principalmente due sentimenti», racconta l’ex ministro Roberto Gualtieri candidato a sindaco di Roma del Pd. Il primo è l’esasperazione per l’abbandono e l’incuria della città: le strade sporche, il verde non curato, i trasporti inefficienti, molto spesso l’assenza di servizi nei quartieri. Uno stato d’animo che spesso sfocia nella sfiducia che tutto questo possa cambiare.

I romani si avvicinano all’appuntamento elettorale del 3 e 4 ottobre senza farsi troppe illusioni?

In realtà, accanto alla sfiducia, c’è un secondo sentimento, che vedo crescere ogni giorno, è la speranza. Mi scrutano per capire: potrà lui migliorare le cose? E soprattutto mi chiedono vicinanza, ascolto, presenza, partecipazione. Per me è un’esperienza straordinaria anche sul piano umano, e mi convince ancora di più del fatto che la buona amministrazione e il recupero di un vero radicamento sociale e territoriale devono marciare di pari passo. E che il coinvolgimento delle reti associative, sarà centrale per la rinascita di Roma.

Lei ha detto che il governo cittadino di Virginia Raggi ha avuto una deriva di destra. Quali sono stati a suo avviso gli aspetti più deleteri?

Il voto massiccio delle periferie è stato completamente tradito. Non c’è stata solo l’inefficienza nell’amministrazione e nell’erogazione dei servizi, che viene pagata in primo luogo dalle persone e dai territori più deboli, ma precise scelte politiche di stampo conservatore. Penso ai tagli alla spesa sociale, all’assenza totale di una politica per la casa, alla politica dei bandi e alla chiusura nei confronti del mondo dell’associazionismo sulla gestione dei beni comuni, al minimo storico toccato dalla spesa per investimenti, e potrei continuare a lungo. È un approccio che peraltro non mi sembra in linea con le posizioni assunte dal M5s a livello nazionale e che infatti, come è noto, ha visto dissociarsi diversi esponenti romani. Per noi la ricucitura fra le varie parti della città e la riduzione delle distanze e delle diseguaglianze è una assoluta priorità.

A Roma la destra è molto forte e radicata. Formazioni di estrema destra si sono infiltrate nei quartieri più disagiati fingendo di fare quel lavoro di aiuto sociale che una volta faceva il Pci. Come si contrasta tutto questo?

Questi fenomeni sono anche responsabilità della sinistra, che per una certa fase ha smarrito alcune dimensioni fondamentali della propria funzione. Da ministro credo di aver dimostrato concretamente che l’attenzione all’equità sociale, al lavoro e al welfare è non solo compatibile ma necessaria per il sostegno alla crescita e allo sviluppo. Noi a Roma ripartiamo da qui, e stiamo finalmente recuperando la nostra dimensione e il nostro radicamento popolare. In alcune parti della città ci sarà molto da lavorare, penso a zone come Tor Bella Monaca dove la criminalità organizzata non gestisce solo lo spaccio ma anche le case e forme di “welfare mafioso”. Dall’altra parte però ci sono associazioni che fanno un lavoro straordinario e che vanno sostenute, nel quadro di una politica integrata per il lavoro, la casa, i servizi di prossimità, la partecipazione sociale e culturale, la legalità.

Roma è Capitale delle disuguaglianze documentano molti studi e nuove pubblicazioni. Cosa fare per combatterle?

Innanzitutto due cose. Un grande patto per il lavoro e lo sviluppo con le forze sociali e produttive per aprire una nuova stagione di concertazione territoriale con una forte attenzione alla riduzione delle diseguaglianze socioeconomiche: marchio di qualità del lavoro, attenzione alle piattaforme digitali, piano di azione per territori a disoccupazione zero, agenzia del lavoro e della formazione. In secondo luogo investiremo sulla città dei 15 minuti, che non significa solo realizzare, anche con le risorse del Pnrr, servizi vicini ai cittadini in tutti i quartieri, ma anche sostegno a un’idea di città della cura e della nuova economia della prossimità, capace di produrre comunità. Particolare importanza poi deve avere il rilancio di una politica per la casa.

Durante un incontro pubblico in uno spazio occupato e molto attivo culturalmente come Spin Time lei ha proposto un piano chiamato “Da casa a casa” per far trovare un alloggio a chi vive nelle occupazioni. Si tratta comunque di sgomberi, però fatti senza lasciare gente per strada?

Innanzitutto bisogna potenziare in modo significativo l’offerta di edilizia residenziale pubblica oggi del tutto inadeguata. In secondo luogo occorre far scorrere le graduatorie ripristinando la legalità e distinguendo tra chi ha diritto ad un alloggio e deve trovare una sistemazione alternativa, e chi, spesso famiglie e organizzazioni criminali, occupa e gestisce il racket delle case pur avendo notevoli disponibilità economiche. Inoltre, bisogna superare il modello di edilizia sociale verticale che concentra le situazioni di disagio in alcune zone e passare a un modello “orizzontale” che distribuisca gli alloggi pubblici in modo più omogeneo in tutta la città. Infine, creeremo un’Agenzia per le politiche abitative di Roma Capitale, incaricata di coordinare l’intero nostro piano per la casa e di prevedere sostegno agli affitti per le fasce di giovani e di precari.

Qual è il suo piano per rafforzare la sanità pubblica?

Roma deve mettere al centro l’assistenza domiciliare, di prossimità e la telemedicina. Con le risorse del Recovery realizzeremo sessanta case di comunità, 15 ospedali di comunità, 15 centrali operative per la telemedicina e il tele monitoraggio. Al tempo stesso coinvolgeremo tutti gli attori in campo, a partire dai medici della medicina territoriale e dalla rete diffusa delle farmacie. Altro aspetto fondamentale è l’integrazione sociosanitaria, che deve coinvolgere le Asl, i municipi e la rete del Terzo settore e del volontariato.

Lei ha incontrato di recente la sindaca di Barcellona Ada Colau che ha lavorato molto per il rafforzamento della coesione sociale pensando a una città a misura di donne, bambini, anziani, investendo molto su servizi di cura, anche della malattia mentale. È un modello che la ispira?

Certamente. La città dei 15 minuti è la frontiera dell’innovazione urbanistica, ambientale e sociale da Parigi a Barcellona a tante altre metropoli internazionali. È il punto centrale del nostro programma per cambiare la qualità della vita a Roma. Significa migliorare i trasporti e l’accessibilità investendo su trasporto pubblico, mobilità dolce e isole verdi, significa servizi di prossimità in tutti i quartieri: asili, biblioteche, parchi, aree sportive, spazi di co-working, assistenza sociosanitaria, luoghi di cultura. Significa valorizzare le reti sociali e territoriali, dando un ruolo anche ai negozi di quartiere, alle edicole, alle associazioni, al volontariato, valorizzare la dimensione collaborativa dei servizi. Anche grazie alle risorse del Pnrr tutto ciò è possibile. A Barcellona ho studiato in particolare la realizzazione delle superilles, “superblocchi” di edifici dove sono privilegiati gli spazi pedonali, il verde, la vita di relazione.

Commentando su Left la proposta di Calenda di un museo unico per Roma Salvatore Settis notava quanto di rado i politici italiani mettano la cultura al centro dei loro programmi. E anche quando vi pongono attenzione lo fanno senza informarsi, senza lungimiranza, considerando il patrimonio d’arte solo nei valori economici e non culturali. Che ne pensa?

Il patrimonio storico culturale e artistico di Roma deve essere centrale nelle politiche pubbliche. Ciò richiede però l’ascolto e il coinvolgimento della ricca e qualificata comunità scientifica che studia e conosce a fondo l’archeologia, la museologia, la storia dell’arte etc., altrimenti si rischia di presentare proposte approssimative e sbagliate come quella del museo unico. Roma ha una storia museale stratificata e diffusa che va protetta, ma anche valorizzata e messa in rete, integrando e coordinando la gestione e la fruizione di musei e aree archeologiche appartenenti a diversi soggetti per potenziare la fruizione dell’intero patrimonio della città in tutte le sue epoche, nel rispetto delle collezioni storiche e creando sinergie, reti e percorsi museali. Noi proponiamo poi di istituire il Museo della Storia di Roma come “porta di accesso” ai musei e alle aree archeologiche e artistiche di Roma e la Città della Scienza. Più in generale, creeremo il Consiglio della cultura di Roma, presieduto dal sindaco e aperto ai diversi attori istituzionali e protagonisti del mondo della cultura per disegnare un piano di azione strategico e accrescere qualità, libertà e diversificazione delle iniziative e dell’offerta culturale. Infine, sarà centrale il rapporto col mondo dell’Università che costituisce una risorsa fondamentale di Roma che deve essere una vera capitale della cultura e della conoscenza.

* L’appuntamento: Il 22 settembre alle 20 a Roma (luogo in via di definizione mentre scriviamo) incontro con il candidato a sindaco di Roma Roberto Gualtieri (Pd), Valdo Spini, Kwanza Dos Santos e altri. Modera Simona Maggiorelli, direttrice resp. Left


L’articolo prosegue su Left del 17-23 settembre 2021

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SOMMARIO

Intanto, il mondo reale

Non ha il fremito giornalistico delle manifestazioni di sparuti partecipanti buoni per essere intervistati con la sicurezza che diranno qualche cretinata buona da rilanciare in qualche video che sicuramente farà qualche clic e quindi la manifestazione di ieri a Firenze, qualcosa come 25mila persona almeno a sfilare per le strade della città, probabilmente finirà solo tra le pagine di chi si occupa di lavoro da anni, di chi si sforza di proporre una fotografia del momento attuale che non sia semplicemente uno spot confindustriale.

A sostegno dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, fabbrica da sempre portatrice di eccellenza italiana che è finita sotto la scure del fondo finanziario Melrose, il corteo autorganizzato dalla Rsu e dal Collettivo della fabbrica ha visto sfilare le bandiere partigiane della Brigata Sinigaglia e dell’Anpi Oltrarno e di Campi Bisenzio, protagoniste della liberazione della città dal nazifascismo nel 1944. Perché non si tratta semplicemente di una crisi aziendale: è una discussione molto più larga di natura democratica.

Quel 9 luglio i 422 lavoratori si erano ritrovati liberi per uno strano “permesso collettivo”. Qualcuno se n’era andato al mare con la famiglia, qualcuno provava a informarsi. Un calo di lavoro, si diceva, solo un piccolo calo di lavoro, rassicuravano dall’azienda. Lo stabilimento di via fratelli Cervi a Campi Bisenzio produce materiali (assi e semiassi) di alta qualità e soprattutto è situato in una posizione strategica per il suo principale cliente, Stellantis-Fca, la multinazionale di cui fanno parte Fiat Chrysler Automobiles e il francese Psa Group. E invece alle 10 del mattino arriva la comunicazione terribile del licenziamento per tutti.

Ieri i drappi rossi con la scritta “insorgiamo” erano tra le persone e perfino alle finestre. C’erano gli striscioni dell’Embraco di Torino e della Whirlpool di Napoli, una rappresentanza della Rsu della Piaggio di Pontedera, gli operai della Sanac di Massa Carrara e quelli del distretto tessile di Prato. Non c’era in piazza semplicemente una categoria ma una composizione incredibile che sa bene, come scrive Naomi Klein in The Shock Doctrine, che il Potere approfitta dei momenti di crisi, per spingere ancor più l’acceleratore su speculazioni e aumento del profitto per pochi ai danni dei più che si concretizzano in politiche di stampo neoliberista. Del resto qui da noi ci si dimentica spesso che tra il 2000 e il 2019 in Germania e in Francia si è registrato un aumento del salario lordo annuale del +18,4% e +21,4%, mentre in Italia del +3,1%. Tra il 2007 e il 2019 in Italia lo stipendio annuale lordo è passato da 30.172 euro a 30.028. Per capirsi basta sapere che la Germania ha segnato un +6.000 euro.

Come disse Dario Salvetti, delegato Rsu Fiom Gkn Firenze, lo scorso 11 agosto: «Loro hanno calcolato tutto e se dobbiamo vincere dobbiamo uscire dal loro calcolo». E uscire dal calcolo è un’esigenza urgente, di cui la politica dovrà prima o poi farsi carico, non potendo fingere troppo a lungo di non saperne nulla.

Ieri si è assistito a una piazza perfino festosa, fiera di rivendicare il diritto al conflitto (che è una parola che qualcuno ha voluto trasformare in spaventosa eppure sta alla base della difesa dei diritti da sempre). E non sarà un caso che proprio ieri si è voluto ricordare che proprio lì vicino, a Campi Bisenzio, qualche ora prima un operaio di 48 anni, Giuseppe Siino, è morto sotto un rullo.

La posta in gioco, ha dichiarato Nicola Fratoianni, è «difendere i diritti del lavoro minacciati in tutto il Paese da un’idea malsana di ripresa della nostra economia, che rischia di fare il ritorno allo sfruttamento la cifra dominante. Uno scenario che non può essere accettato». Sarà una battaglia difficile e lunga, ma è un battaglia ogni giorno più necessaria.

Buon lunedì.

 

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SentenzaCC 921

No green pass? Caro Barbero, qualcosa non torna…

Quel che francamente più mi ha stupito dell’appello firmato da alcune centinaia di professori universitari contro l’introduzione dell’obbligatorietà del green pass per accedere alle sedi universitarie sono le contestuali dichiarazioni rilasciate dal suo sottoscrittore più noto, lo storico Alessandro Barbero. Costui, come è noto, sostiene di non appartenere alla schiera dei no vax, tanto da aver detto di essere non solo vaccinato ma, pur con qualche dubbio, disposto a schierarsi a fianco del governo nel caso in cui quest’ultimo vari l’obbligo vaccinale.

Il mio stupore nasce dal fatto che in apparenza tra il testo dell’appello e le dichiarazioni di Barbero che ho appena sintetizzato sembra esserci uno iato enorme. Nel primo si legge infatti che il green pass discriminerebbe gravemente una minoranza, violerebbe la Costituzione e i regolamenti dell’Unione europea, amputerebbe studenti e docenti non vaccinati del diritto fondamentale di accedere alle aule universitarie introducendo un’intollerabile separazione tra cittadini di serie A e di serie B e riporterebbe alla mente non meglio precisati «precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere».

È del tutto evidente che, vista dalla prospettiva dei firmatari dell’appello, la vaccinazione obbligatoria non farebbe che peggiorare la situazione, dal momento che costringerebbe lo Stato a sospendere, in una situazione di emergenza e al fine di tutelare la salute collettiva, il diritto di ciascuno di rifiutare l’esecuzione sul proprio corpo di un trattamento sanitario. E allora perché prof più televisivo di tutti insiste a dichiararsi favorevole a quest’ipotesi? Qual è la logica di Barbero?

A sentir lui, la motivazione di questa opzione sarebbe la seguente: la vaccinazione obbligatoria comporterebbe, da parte dello Stato, una piena assunzione di responsabilità e la rinuncia a ogni forma di ipocrisia sulla necessità della vaccinazione. Si tratta di un ragionamento piuttosto stravagante spiegabile, a mio modesto parere, solo aggiungendovi una parte che Barbero non esplicita, ma a che me sembra inevitabilmente sottesa alle sue parole e che suona così: se lo Stato varasse la vaccinazione obbligatoria e si impegnasse a stanare i no vax e a inoculare loro il vaccino con la forza mostrerebbe finalmente il suo vero volto, la sua ferocia autoritaria, la sua attitudine a calpestare ogni diritto e ogni libertà in nome di un interesse del tutto arbitrario e parziale.

Chiunque abbia a cuore la sconfitta della malattia e al tempo stesso la salute della democrazia spera che il numero di vaccinati aumenti in queste settimane sino a raggiungere l’immunità di gregge, che non sia necessario per lo Stato italiano ricorrere all’obbligo tout court, che il green pass (esteso ora alle aziende private) si riveli una misura sufficiente per indurre buona parte degli scettici finalmente a vaccinarsi.

Barbero non appartiene a questa schiera, ma piuttosto a quella di coloro che preferirebbero una misura estrema a quelle più moderate, in modo che risulti evidente una volta per tutte la natura violenta e discriminatoria del potere statale. Questo è, ne sono convinto conoscendone un buon numero, un argomento gradito a molti dei firmatari dell’appello, anarchici di sinistra che, accanto a tante difformità, condividono con gli anarcoliberisti alla Sgarbi e alla Borghi l’insofferenza per le decisioni collettive, per il potere pubblico, immancabilmente ritratto come oppressore e nemico delle libertà degli individui.

Le due versioni dell’anarchismo si toccano mostrando una solidissima radice comune, forse più profonda di tante differenze. La domanda che viene da farsi è perché, divenendo professori, costoro si siano messi al servizio di quel Leviatano che tanto avversano, perché non risolvano la contraddizione di servire un ente che detestano saltando il fosso e cambiando datore di lavoro. Perché non lo fanno? L’università pubblica non è certo l’unico luogo nel quale si può produrre ricerca e cultura.

L’autore: Marco Marzano è saggista e professore ordinario di Sociologia all’Università di Bergamo

 

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L’ombra di Alighiero: Salman Ali

C’è stato un tempo, un lungo tempo, durante il quale Salman Ali era sempre dietro Alighiero Boetti e, come la sua ombra, non si allontanava mai da lui. Il destino poi aveva voluto che il nome di Alighiero includesse anche quello di Ali che magicamente così lo portava con sé anche quando Salman, rendendosi provvidenziale, aiutava Annemarie e si dedicava ai loro figli, Matteo e Agata. Per comprendere cosa fosse Salman per Alighiero, basta che evochi alcuni episodi di cui fui testimone e che restano vivi nella mia memoria come se fossero accaduti solo poche ore fa.

Uno di essi risale a quando Alighiero fu protagonista miracolato di un salto notturno nel vuoto, fuori strada, con la sua automobile in località San Bernardino, presso le Cinque Terre in Liguria, precipitando per decine e decine di metri, investendo e spezzando insieme agli alberi, gran parte dei suoi arti, riportando così fratture multiple ma salvando la propria vita. Dopo qualche giorno dall’incidente, per fargli visita mi recai in un ospedale laziale, dove intanto era stato trasferito, e in quell’ora calda dell’estate romana trovai accanto al letto di Alighiero il fedelissimo Salman che, incessantemente, con estrema delicatezza, leniva i molteplici dolori avvertiti da Alighiero in ogni parte del suo corpo, con sapienti e accurati massaggi, come avrebbe potuto fare solo una madre con un figlio.

Salman aveva per Alighiero un’autentica devozione e d’altronde Alighiero lo ricambiava considerandolo non solo come assistente di molteplici mansioni, ma un vero componente della sua famiglia. In quegli anni Settanta trascorrevo molte ore insieme con Alighiero e ne seguivo il lavoro, le iniziative e anche talune ore nello studio e in casa, dove incontravo anche Salman che mi mostrava spesso alcuni tappeti tradizionali (che ancora posseggo) portati dai suoi viaggi nella sua Kabul, quando tornava a far visita ai suoi familiari e amici come Dastaghir Gholam, manager impegnato nel condurre il celebre One Hotel ideato e aperto da Alighiero nel 1971 nel centro di quella città. Un altro episodio memorabile si…

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La mostra e il libro

Una storia per immagini di 23 anni di amicizia e collaborazione con l’artista Alighiero Boetti (1940-1994) quella raccontata dal suo storico collaboratore afgano Salman Ali nell’autobiografia edita da Forma per Tornabuoni Arte, nei cui spazi a Milano fino al 17 ottobre è aperta una esposizione che presenta la collezione privata di Ali con opere donategli dall’artista.

(nella foto di Giorgio Colombo Alighiero Boetti e Salman Ali)


L’articolo prosegue su Left del 17-23 settembre 2021

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Civiltà sepolte (dall’Occidente)

Old ruins in Tell es-Sultan better known as Jericho the oldest city in the world

Nel drammatico momento che sta vivendo l’Afghanistan, potrebbe sembrare quasi sfacciato affrontare la questione da un punto di vista che non sia quello delle persone, dei diritti umani, delle atrocità dei talebani.
Eppure provare ad allargare la riflessione, gettando uno sguardo sulla storia e la cultura del Vicino e del Medio Oriente, può forse suscitare l’interesse verso una parte del mondo nei confronti della quale l’Occidente ha delle responsabilità che non sono solo politiche.

La prospettiva da cui partire in questa riflessione, l’archeologia, è piuttosto insolita, ma permette di scoprire, strato dopo strato, che sotto le responsabilità politiche, si nascondono responsabilità ideologiche, religiose, storiche e culturali. Quando verso la fine dell’Ottocento nasce l’archeologia del Vicino Oriente, in ritardo rispetto alle altre branche, è sostanzialmente strumento politico nelle mani delle grandi potenze europee: il colonialismo, una delle grandi colpe dell’Occidente, è in Oriente anche colonialismo archeologico. Terminata la Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano sconfitto perde il proprio controllo sui territori arabi; la Società delle Nazioni affida quindi ai britannici l’amministrazione provvisoria della Mesopotamia; il Regno Arabo di Siria, formatosi dopo il ritiro turco, viene invece diviso in due diversi mandati: la parte settentrionale viene affidata alla Francia e la parte meridionale al Regno Unito.

Iniziano così gli scavi francesi in Siria e Libano e quelli inglesi in Mesopotamia, Palestina e Transgiordania, ma sono fortemente condizionati da un diktat ideologico-religioso. Si scava in Oriente solo per dimostrare che “La Bibbia aveva ragione”, per citare il famoso libro di Werner Keller, per trovare cioè le prove, i dati scientifici che confermino l’ambientazione storica di quanto narrato nell’Antico Testamento. Così John Garstang negli anni Trenta arriva a forzare le interpretazioni cronologiche, postdatando le mura di Gerico per far coincidere i suoi ritrovamenti con l’episodio biblico della tromba di Giosuè. In tempi più recenti la situazione non è migliorata granché: se ci riferiamo, per esempio, ai retroscena di quel terribile ed infinito conflitto che è la questione israelo-palestinese, scopriamo che alcuni scavi in questi luoghi “privilegiano” determinati periodi storici a discapito di altri, privilegiano gli strati dell’età del Ferro rispetto a quelli più antichi dell’età del Bronzo, per aggiungere prove circa la presenza degli Ebrei in Palestina nell’età del Ferro.
Oltre a questo approccio ideologicamente tarato, l’Oriente è stato vittima di vari pregiudizi nel corso della storia: un pregiudizio greco-romano, per il quale il resto del mondo, “i barbari”, sono esseri inferiori ed un pregiudizio ebraico-cristiano per cui chi non professa quella religione è moralmente depravato, privo di valori.
Ma c’è anche un’altra colpa che ha l’Occidente, forse ancora più grave di quanto raccontato fin qui. Le…

*-*

L’autrice: Gaia Ripepi è archeologa. È stata tra i relatori all’incontro “Afghanistan, siamo tutti coinvolti” organizzato da Left il 3 settembre a Casetta Rossa a Roma. La registrazione è disponibile sul canale Youtube di Left


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Gap Capitale

Foto Cecilia Fabiano - LaPresse 05-02-2019 Roma ( Italia ) Cronaca: Unita di strada notturna della croce rossa distribuisce pasti e coperte ai senza tetto Photo Cecilia Fabiano - LaPresse february 05, 2019 Rome ( Italy ) News: Street emergency unity of the red cross helping homeless during the night in Rome

Alla vigilia delle elezioni amministrative, Roma si presenta sempre più come una città profondamente diseguale. La grande crisi del 2008 prima e la pandemia più recentemente non hanno fatto altro che evidenziare una tendenza in corso ormai da trent’anni. Il ministero dell’Economia e delle finanze, sulla base dei dati dell’Agenzia delle entrate, ha da poco pubblicato i redditi dichiarati dai contribuenti romani per il 2019 suddivisi per la prima volta secondo i codici di avviamento postale (Cap) di residenza, e non più solo secondo i municipi. Questi dati non si discostano molto da quanto emerge con le domande di reddito di cittadinanza o gli altri indicatori di fonte Inps, analizzati nel nostro libro Le sette Rome (Donzelli, 2021). Permettono però per la prima volta di analizzare con un buon dettaglio territoriale le disuguaglianze economiche all’interno della città, tra centro e periferie, sia in termini di reddito medio che di concentrazione del reddito stesso, su cui ha impattato la crisi dovuta alla pandemia del Covid-19.

A Roma i redditi confermano e rafforzano il quadro delle disuguaglianze di salute, istruzione, occupazione e opportunità esistenti tra centro e periferie, che mostrano il maggiore disagio nel quadrante est della città (IV, V e VI Municipio) e sul litorale di Ostia (X), e da cui deriva un indice di sviluppo umano differenziato tra i municipi centrali ricchi, istruiti e “sani” e quelli periferici con reddito, livelli di istruzione e salute peggiori. Tra i Cap di Roma il reddito medio per contribuente (mappa in alto a sinistra) è maggiore nel I e II Municipio, in particolare Parioli con 68mila euro e Quirinale-Spagna-XX Settembre con 67mila, seguiti con 55-58mila da Centro storico, Pinciano-Trieste e Prati-Borgo, e più a distanza con 44-49mila da Fleming-Tor di Quinto, Monti-Celio, Nomentano-Policlinico, Mazzini-Della Vittoria e Flaminio-Villaggio Olimpico.

Ovviamente tutti i primi Cap in classifica appartengono alla città storica o alla città ricca di cui parliamo nel libro Le sette Rome. Allo stesso modo, non è sorprendente che il reddito medio più basso sia tipico della…

* Gli autori: Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi sono gli animatori di www.mapparoma.info. Insieme hanno pubblicato due libri per Donzelli su Roma: Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana (2019) e Le sette Rome. La capitale delle disuguaglianze raccontata in 29 mappe (2021)


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