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La sanità pubblica o è laica o non è

Foto: Cecilia Fabiano - LaPresse 28-09-2019 Roma( Italia) Cronaca : flash mob assemblea di donne per l'aborto libero Nella foto: non una di meno a piazza san cosimato Photo: Cecilia Fabiano - LaPresse September,28, 2019 Rome ( Italy ) News: demonstration of women's organization in Trastevere In The Pic : the demonstration for free abortion

Roma è una delle metropoli più grandi e importanti del mondo. Le amministrazioni degli ultimi anni, di centrodestra, di centrosinistra, e l’ultima dei Cinque stelle, votata dai cittadini romani nella disperata speranza che facessero qualcosa, hanno semplicemente rinunciato a governare lasciando totale libertà di manovra a gruppi e interessi privati.

Le aziende municipali o sono state privatizzate, come Acea, che distribuisce i dividendi agli azionisti, ma lascia in malora gli impianti pubblici, dichiarando nel 2017 una vittoria la perdita del «solo» 38% di acqua dalle condotte. Acea, che vuole potabilizzare l’acqua del Tevere, con impianti tecnologici, ma appalta le riparazioni, a chi appalta e poi riappalta, di modo che tutta la propaganda “segnalami una perdita o un guasto” sia appunto solo propaganda e sia testimonianza comune vedere acqua che scorre sul territorio romano. Oppure sono state depauperate come Ama, che non avendo personale a sufficienza per dare un nuovo impulso alla raccolta differenziata, ha semplicemente rinunciato a farla, portando i cittadini a chiedere qualunque cosa purché vengano svuotati i cassonetti. Nessun piano, nessuna volontà: la sindaca Virginia Raggi dopo cinque anni è ancora lì a cercare un buco dove dare fuoco ai rifiuti indifferenziati. Noi non vogliamo nuove discariche, noi vogliamo che si lotti contro gli imballaggi, che si riduca la produzione di rifiuti, e che vi siano piccoli impianti distribuiti per ciò che va smaltito inevitabilmente. Che la differenziata sia una realtà che dà ricchezza non una…

* L’autrice: Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente dell’Associazione Vita di Donna Onlus, è candidata sindaca di Roma per Potere al popolo


L’articolo prosegue su Left del 17-23 settembre 2021

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La mano invisibile sulla città di Roma

Ernesto Nathan, sindaco di Roma tra il 1907 e il 1913, a capo dello schieramento socialista e progressista, dovette affrontare tre emergenze. La mancanza di case popolari conseguenza della grande immigrazione nella capitale. L’esigenza di costruire il primo welfare urbano a partire dai trasporti, fino ad allora lasciati all’iniziativa privata. La mancanza di un sistema scolastico universale che guardasse alle condizioni della parte più povera della società. Nathan diede impulso alla costruzione di case popolari e, per dare un tetto a chi casa non l’aveva, fu costretto anche a costruire in tempi rapidi due nuclei di case “provvisorie” per i senza tetto, a porta Metronia e Santa Croce. Altrettanto straordinario fu l’avvio della pubblicizzazione dei servizi pubblici, intrapreso grazie all’opera del suo assessore Giovanni Montemartini. Furono create le società per il trasporto pubblico e anche in altri settori produttivi il Comune ebbe un ruolo decisivo. L’istruzione di massa, infine, dove grazie all’opera di Sibilla Aleramo fu avviata la costruzione di scuole anche nei posti più sperduti della campagna romana.

Nella capitale, dunque, venne a formarsi un vero e proprio “laboratorio” politico e sociale che tentò – con successo – di governare le trasformazioni urbane di quel momento. Le emergenze servirono per costruire un intervento organico fondato sull’inclusione e sull’allargamento dei diritti di tutti i cittadini. La sinistra si dimostrò in grado di saper analizzare le contraddizioni create dall’economia e di trovare efficaci soluzioni.

Oggi, dovremmo riprendere quella grande lezione politica e sociale. Le contraddizioni create dal…

* L’autore: Paolo Berdini, urbanista e saggista, è candidato sindaco della Capitale per la coalizione “Roma ti riguarda”, partecipata da Rifondazione comunista, Partito del Sud e Roma per l’ecologia integrale


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Così Bolsonaro spinge il Brasile verso la teocrazia

An Indigenous woman holds a baby wearing a "Get out Bolsonaro" headband during an Indigenous women's march to protest the policies of Brazilian President Jair Bolsonaro and in favor of women's rights and the demarcation of Indigenous lands in Brasilia, Brazil, Friday, Sept. 10, 2021. (AP Photo/Eraldo Peres)

La prefazione della Costituzione brasiliana recita che è stata promulgata da un’Assemblea riunita «sotto la protezione di Dio». L’art. 5 sancisce il rispetto universale delle religioni e dei culti «nella misura della legalità»; l’art. 150 concede l’immunità fiscale per i templi religiosi; l’articolo 210 stabilisce l’obbligatorietà delle materie religiose nella scuola elementare e l’articolo 226 gli effetti civili del matrimonio religioso.

Il 18 agosto scorso, il presidente Bolsonaro ha appoggiato la nomina di André Luiz de Almeida Mendonça, avvocato e pastore presbiteriano, per il seggio vacante nella Corte suprema (Stf) sin da luglio. Ora la conferma del nuovo membro della Corte suprema dipenderà dall’approvazione della Comissão de constituição e justiça (Ccj) e, successivamente, dal voto favorevole di almeno 41 senatori. Si deve risalire al 1894 per ritrovare l’ultimo caso in cui un nome scelto dal presidente della Repubblica per la Corte suprema venisse respinto.

Non ci si deve invece spostare nel tempo, ma solo di latitudine per ritrovare un esempio similare, in cui Donald Trump scelse la giurista cattolica ortodossa Amy Coney Barrett per la Corte suprema. Bolsonaro con questa azione assesta un altro colpo all’idea di Stato laico difeso dai movimenti sociali, ma combattuto da ogni schieramento politico timoroso di perdere i voti dell’elettorato cristiano evangelico.

Introducendo nella Corte suprema un fanatico religioso come Mendonça, per il quale non è possibile «inchinarsi a nessun potere se non a quello di Dio», Bolsonaro vuole emulare l’idolo Trump e lo fa non solo nelle parole, ma nei fatti. A parole Bolsonaro lo aveva già fatto nel 2019 davanti al corpo diplomatico di entrambi i Paesi all’Assemblea generale dell’Onu, quando dichiarò quel “I love you” a Trump che sarebbe andato ben oltre le sconfitte elettorali dell’amato omologo.
Il 9 aprile 2021, Mendonça…

*-*

L’autrice: Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e avvocata specializzata in Tutela internazionale dei diritti umani e in Mediazione familiare. Ha da poco pubblicato per Dissensi “Fascismo tropicale. Il Brasile tra estrema destra e Covid-19″


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Il paradosso del Consiglio nazionale delle ricerche

L’esperienza della pandemia ha posto in luce l’importanza, spesso misconosciuta, della ricerca scientifica per il benessere della società. Non a caso il piano Next generation Eu dedica spazio alla ricerca, la riconosce come decisiva e promette di valorizzarla: affermazioni riprese, almeno in linea di principio, nel Pnrr. Ma il Covid ha fatto anche emergere imprese scientifiche che non riescono a decollare, ricercatori salutati come eroi emigrati all’estero per mancanza di fondi o di opportunità di carriera. Rispetto agli omologhi europei, il sistema della ricerca italiano si caratterizza per la debolezza legata al cronico sottofinanziamento: il nostro 1,35% del Pil 2017 destinato a ricerca e sviluppo è ben lontano dalla media europea del 2,06.

Al Cnr, il nostro maggiore ente di ricerca, il fondo ordinario erogato dal ministero (circa 650 milioni di euro) basta appena per coprire gli stipendi. Ed è solo l’impegno dei suoi ricercatori e tecnologi nel conquistare finanziamenti competitivi all’esterno per una somma quasi equivalente che permette all’ente di svolgere un’attività di ricerca riconosciuta per la sua eccellenza in moltissimi campi, in nulla inferiore a quella delle realtà più avanzate degli altri Paesi. Ma a differenza di queste realtà (p.e. il Cnrs francese o il tedesco Max Plank Institut), e a differenza anche delle altre istituzioni scientifiche italiane (le Università, ma anche altri enti di ricerca come l’Istituto nazionale di fisica nucleare), il Cnr valorizza poco questo impegno.

Si tratta di un problema molto serio che riemerge periodicamente. Di recente è stato sollevato con allarme sulla stampa ed è oggetto di un’interrogazione presentata dal senatore Gianni Pittella il 7 settembre, in attesa (quando andiamo in stampa) di una risposta da parte della ministra dell’Università e della ricerca, Maria Cristina Messa.
«Secondo quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro – rileva Pittella – il Cnr dovrebbe effettuare concorsi interni con una cadenza biennale al fine di dare la possibilità ai ricercatori e tecnologi meritevoli di fare un avanzamento di carriera passando al livello di primo ricercatore o tecnologo o a quello di dirigente di ricerca o dirigente tecnologo. Negli ultimi 10 anni, invece – prosegue il senatore Pd – sono stati effettuati solo due concorsi interni (2010 e 2020), saltando ben 4 bienni, e quindi con un esiguo numero di posti, decisamente inferiore alle “accumulate” esigenze del personale ricercatore e tecnologo. Ciò ha prodotto, in questo ultimo decennio, un’enorme disparità della distribuzione di livelli tra il Cnr, l’università ed altri enti quali l’Infn».

L’entità del divario si coglie a colpo d’occhio dai grafici a corredo di questo articolo. Al Cnr come in altre strutture scientifiche, il personale di ricerca è distribuito su tre livelli. Ma mentre altrove più della metà si colloca nei primi due livelli, e almeno un quinto in quello di maggiore responsabilità, al Cnr questi numeri sono incredibilmente ridotti, anche rispetto alla normativa del Dpr 171/91, che prevedeva di riservare 20% dell’organico ai ruoli apicali dei dirigenti e un altro un 40% a quello intermedio dei primi ricercatori e primi tecnologi. Avere invece solo il 10% nel primo livello e il 19% nel secondo (quando l’università, per intenderci, ha rispettivamente un 30% di professori ordinari e un 48 di associati), non crea soltanto disagio ai ricercatori, che vedono mortificate le proprie capacità. Certo, questa ridottissima possibilità di carriera disconosce la qualità scientifica maturata negli anni, demotiva le persone migliori, talora le spinge a cercare opportunità altrove. Cioè, spesso, all’estero.

Chi dunque ci perde è innanzitutto il nostro sistema nel complesso, e in un momento in cui servirebbe tutt’altra determinazione. Che i Paesi con maggiore impegno finanziario in Ricerca scientifica e innovazione tecnologica siano quelli con maggiore Pil e migliore qualità della vita, è cosa nota a tutti. Ed è con questi che il nostro Paese collabora e compete sulla scena globale. In ambiente internazionale, quando ci si rapporta con ricercatori di altri enti, si partecipa al bando per un finanziamento o a un progetto europeo, essere in grado di schierare un buon numero di ricercatori di primo livello aiuta a presentarsi forti, non meno qualificati degli altri. Nelle relazioni scientifiche, nelle relazioni istituzionali, ma anche in quelle con il mondo produttivo, spesso la posizione dell’interlocutore è determinante per la propria credibilità, e anche per la propria capacità di attrarre finanziamenti.

L’esigenza di garantire continuità all’avanzamento dei ricercatori è riconosciuta dallo stesso contratto nazionale del Cnr, che prevede di tenere ogni due anni dei concorsi interni destinati alle progressioni di carriera. Questo in teoria: in pratica, viceversa, negli ultimi dieci anni, come rilevato anche da Pittella, ci sono stati solo due bandi, nel 2010 e nel 2020, a causa della mancanza di risorse destinate a questa voce.

L’ultimo concorso, quello bandito nel 2020, è stato fortemente selettivo. La stessa preparazione della domanda richiedeva non poco impegno: giornate intere sottratte agli impegni di ricerca e dedicate a compilare una modulistica farraginosa. Molti ricercatori hanno preferito non partecipare. La valutazione delle commissioni è stata severa e la maggior parte dei candidati non ha conseguito l’idoneità; ma anche di quel terzo che ha passato la selezione (1.334) meno di uno su tre soltanto (520) ha potuto effettivamente conquistare i pochi posti di dirigente di ricerca o di primo ricercatore messi a disposizione. Circa 800 scienziati, selezionati accuratamente in base alle loro pubblicazioni, ai progetti che dirigono e ai finanziamenti che hanno ottenuto, sono rimasti esclusi, spesso a pochi decimi di punto di distanza dai vincitori. Idonei, cioè riconosciuti dalle rispettive commissioni in grado di assumere responsabilità più importanti, e però nell’impossibilità di farlo. Un loro passaggio di ruolo contribuirebbe a ridurre lo squilibrio fra i livelli (si calcola che porterebbe le percentuali dei primi due rispettivamente al 13 e al 27%), rafforzando la posizione della ricerca italiana nel panorama globale,

Da un lato, dunque, abbiamo un ente fortemente penalizzato dallo schiacciamento del proprio personale scientifico. Dall’altro una platea di persone molto qualificate, già valutate in grado di assumere le responsabilità necessarie. La soluzione, in attesa di un prossimo concorso che non sembra alle porte e che comunque sarebbe già ampiamente in ritardo rispetto alla cadenza biennale, parrebbe ovvia. Tanto più che in passato, in situazioni analoghe, è stata già praticata, attingendo alle liste degli idonei e immettendoli nel ruolo superiore. L’incremento di spesa per gli stipendi sarebbe modesto, poiché molti degli interessati hanno già maturato una lunga anzianità di carriera: il costo di un totale scorrimento della graduatoria degli idonei è valutabile in 5,5 mln/anno, e sarebbe compensato dal rilancio di efficienza e autorevolezza che l’ente guadagnerebbe, anche nel concorrere a finanziamenti esterni. Ci sono dei precedenti appunto. Lo si è fatto anche nelle due precedenti tornate concorsuali. E ci sarebbero, se si vuole, le risorse. Ma proprio di recente circa 4 milioni di euro, residuati proprio dallo stanziamento previsto per il concorso, sono stati invece allocati dall’ente sul proprio fondo di tutela dai contenziosi. Conservarli nella destinazione originaria, segnala l’interpellanza sopra citata, avrebbe consentito la progressione di carriera di almeno un centinaio di idonei.

Siamo in un momento cruciale, in cui si decide del nostro futuro. La recente nomina di Maria Chiara Carrozza al vertice del Cnr, nel ruolo che fu di Guglielmo Marconi e di Vito Volterra, è stata accolta con favore dalla comunità scientifica. Non sprecare un patrimonio di persone selezionate, motivate, pronte ad impegnarsi con rinnovato entusiasmo non è certamente ciò da cui tutto dipende. Ma tutto dipende in effetti anche da scelte di questo tipo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’articolo è tratto da Left del 17-23 settembre 2021

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Ne usciremo ricchissimi

https://www.youtube.com/watch?v=dYwZ6JR4fKI

Per una indomabile inclinazione verso quelli che dicono le cose senza troppi inutili condizionamenti non ho potuto non apprezzare il comunicato che hanno confezionato Oxfam e Emergency in vista dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e del summit virtuale sul Covid che il presidente Usa Joe Biden intende convocare in concomitanza con l’assemblea Onu, mentre tutti si preoccupano di grattare sulla superficie dei retroscena o si rincorrono per conoscere in anticipo il menu.

Oxfam e Emergency raccontano senza troppi giri di parole che: «Grazie ai monopoli sui vaccini anti-Covid19, Moderna, Pfizer e BioNTech stanno realizzando profitti astronomici, con i due colossi americani che inoltre stanno pagando imposte irrisorie. A fronte di un investimento pubblico complessivo nel 2020 di oltre 8,3 miliardi di dollari a carico dei contribuenti americani ed europei per lo sviluppo dei vaccini, le 3 aziende hanno registrato nel primo semestre dell’anno ricavi per 26 miliardi di dollari, con un margine di profitto superiore al 69% nel caso di Moderna e BioNTech, mentre resta non formalmente verificabile quello di Pfizer. I ricavi sono da capogiro, grazie alla vendita di oltre il 90% delle dosi prodotte al miglior offerente tra i paesi ricchi e rincari del prezzo per dose, fino a 24 volte il costo stimato di produzione».

Non solo: «A fronte di livelli di redditività esorbitanti nel primo semestre dell’anno in corso, le 2 aziende americane, Pfizer e Moderna, hanno mostrato un profilo contributivo difficilmente definibile come congruo: Moderna ha versato nel primo semestre 2021 un’aliquota effettiva di appena il 7% e Pfizer del 15%. Aliquote così basse sono sintomatiche di un sistema fiscale distorto ed iniquo, che consente a corporation con ricavi miliardari di pagare, in proporzione, molto meno di quanto versano al fisco famiglie, che hanno il lavoro come unica fonte di reddito».

«Sulla base dei dati nei rendiconti trimestrali del 2021 – prosegue la nota – la People’s vaccine alliance stima che Moderna abbia registrato, nel primo semestre 2021, ricavi dalle vendite del suo vaccino per oltre 6 miliardi di dollari, con profitti per 4,3 miliardi. La società prevede di realizzare vendite di dosi di vaccino per 20 miliardi di dollari nell’arco dell’intero 2021. Nel frattempo ha versato su scala globale un’aliquota fiscale a una cifra (7%), contribuendo per appena 322 milioni di dollari».

I vaccini, insomma, sono una manna dal cielo per le casse delle aziende farmaceutiche che hanno goduto di straordinari aiuti di soldi pubblici. Ci si aspetterebbe perlomeno un’etica anche morbida per quello che riguarda i profitti e soprattutto ci si aspetterebbe la responsabilità di non creare un monopolio su ciò che oggi riesce a sbloccare la vivibilità e l’economia. E invece niente. Come notano Oxfam e Emergency «i Paesi ricchi che iniziano la somministrazione delle terze dosi mentre la maggior parte dei Paesi fatica a garantire le prime dosi al proprio personale sanitario, evidenziano la drammatica iniquità nel modo di condurre la nostra battaglia contro il virus».

Di fronte a tutto questo, per mera utilità politica, tace la destra che dovrebbe accostarsi al tema della responsabilità e della solidarietà (due temi di cui non conoscono nemmeno il vocabolario) ma tacciono anche quegli altri che sono terrorizzati dal rischio di apparire No vax e preferiscono abbracciare la via della banalità.

Così i poveri muoiono, i ricchi si salvano pagando lautamente e i cosiddetti “salvatori” si arricchiscono in modo smisurato. Ed è una perfetta fotografia del mondo disuguale in cui viviamo. Ed è anche la perfetta testimonianza della codardia con cui continuano a subirlo.

Buon venerdì.

 

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SentenzaCC 921

Yvan Sagnet: «Così diciamo No al caporalato»

Dieci anni fa, a Nardò, uno sciopero durato settimane organizzato da braccianti africani che dormivano presso la Masseria Boncuri e le sue vicinanze impresse una svolta decisiva nella storia della lotta al caporalato. L’Italia finalmente iniziava ad aprire gli occhi sul fenomeno. E pochi giorni dopo l’allora governo Berlusconi fu “costretto” a introdurre via decreto il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, la base normativa su cui si è strutturata negli anni successivi la battaglia contro lo sfruttamento lavorativo nelle campagne italiane. Ad organizzare quei braccianti c’era anche Yvan Sagnet. Originario del Camerun, arrivato in Italia nel 2008 per studiare Ingegneria all’Università di Torino, nell’estate del 2011 scende al Sud per mettere da parte qualche soldo durante la stagione di raccolta del pomodoro. Lì, in Puglia, incontra persone che lavorano in condizioni agghiaccianti. Dopo aver contribuito alla loro sollevazione, Sagnet si è attivato nel sindacato con la Flai-Cgil e ha raccontato la propria esperienza di attivismo in più libri.

A dieci anni di distanza dalla protesta che ha cambiato la sua vita e quella di molti altri lavoratori e lavoratrici – e dopo la nomina a Cavaliere dell’Ordine al merito da parte di Sergio Mattarella – il suo impegno in difesa dei braccianti non è certo terminato. Grazie all’associazione No cap, di cui è fondatore, è passato “dalla protesta alla proposta”. Come? Attraverso la creazione di una filiera virtuosa di prodotti agricoli “caporalato free”, dotati di un bollino No cap, «per valorizzare e premiare l’impegno delle aziende che con noi condividono principi e valori basati sul rispetto dell’uomo e dell’ambiente – si legge sul sito della associazione – ma anche e soprattutto per i consumatori per sensibilizzarli e accompagnarli verso scelte etiche affinché non siano inconsapevolmente co-responsabili di un sistema di sfruttamento dei lavoratori». Con Yvan Sagnet abbiamo fatto il punto sul progetto No cap e non solo.

Nei giorni scorsi l’Ispettorato del lavoro di Cosenza ha verificato 45 aziende agricole e 42 son risultate irregolari. Nel foggiano su 394 braccianti di cui è stata controllata la posizione, 85 erano irregolari, 42 in nero. Perché dopo anni di lotta al caporalato non siamo ancora riusciti a compiere un vero salto di qualità?
Non è accaduto perché l’approccio è sbagliato. Noi come No cap abbiamo messo in campo un sistema innovativo e molto efficace di lotta allo sfruttamento, che ci permette di raggiungere risultati in modo più veloce rispetto agli strumenti adottati dallo Stato. La repressione, certo, è importante. Sono tra i primi a sostenerlo, abbiamo ottenuto la legge sul caporalato dopo decenni di sfruttamento e di vuoto normativo, e ora finalmente gli inquirenti possono fare indagini, arrestare caporali e colpire le aziende che li utilizzano. Ma l’approccio repressivo è…

*-*

L’appuntamento ai Dialoghi di Trani

Quali sono le condizioni per promuovere un’alimentazione sostenibile e consapevole, in grado di rispettare salute, ambiente e diritti dei lavoratori con un accordo economico fondato su dialogo, trasparenza e rispetto? L’attivista e scrittore Yvan Sagnet ne discute ai Dialoghi di Trani il 16 settembre alle ore 19. Con lui dialogano Simona Maggiorelli e Francesco Pomarico, dirigente del gruppo Megamark. Nella stessa giornata alle 18 “Svolte a sinistra”, dialogo fra Luciano Canfora e Ezio Mauro, moderato da  Simona Maggiorelli direttrice di Left. Il settimanale Left è partner del festival che prosegue fino a 20 settembre. Il programma completo è sul sito www.idialoghiditrani.com

Femminicidi: che differenza c’è, nella sostanza, con i talebani?

29 April 2021, Lower Saxony, Hanover: Red shoes stand in front of the Lower Saxony Parliament during the "Red Shoes" campaign against Turkey's withdrawal from the Istanbul Convention. Each pair of shoes stands for a woman who died through violence. The color red stands for the spilled blood. The form of action goes back to the Mexican artist Elina Chauvet, who launched the project "Zapatos Rojos" ("Red Shoes") in 2009 and has already carried out actions with red shoes in various countries to commemorate missing, abused, raped and murdered women. Photo by: Ole Spata/picture-alliance/dpa/AP Images

Anche in questo ultimo mese, come in tutti i mesi di tutti gli anni, è stato un susseguirsi di uccisioni di donne. Qualche storia si somiglia, molti elementi si ripetono, ma ogni donna è una persona diversa, ognuna ha un volto, ognuna ha la sua storia. Le cronache giornalistiche possono solo accennarle; noi possiamo solo provare a pensare qualcosa, per non far scivolare via questa che sembra una terribile “tassa” da pagare ancora dalle donne, per l’emancipazione e la libertà.

Non sono casi isolati, ribadiamolo, ma si ripetono stabilmente e, nonostante l’andamento generale della criminalità e degli omicidi in toto tenda a ridursi, i femminicidi non diminuiscono. L’ultima uccisa, al momento in cui scrivo e sperando che non ce ne siano altre, è Rita: 31 anni, freddata dal marito a colpi di pistola sul piazzale dell’azienda dove lavorava, in provincia di Vicenza il 10 settembre. Da qualche giorno si era allontanata dalla casa coniugale, ospite di una amica, per le violenze di lui. Lui è un italiano già condannato per minacce e lesioni verso una ex, senza occupazione. Lo scrivo perché di lei si è rimarcato che fosse nigeriana e molto più giovane di lui, ma “una brava ragazza e grande lavoratrice”. L’assassino è stato trovato da poco, sembra si fosse nascosto in un pollaio.
Ada, 46 anni, uccisa in provincia di Catania l’1 settembre per la strada, il giorno in cui doveva separarsi ufficialmente dal marito, con una decina di coltellate; lui poi si ferisce all’addome, forse tentando il suicidio. Circa tre settimane fa Vanessa di 26 anni viene uccisa dall’ex mentre è a passeggio sul lungomare di Aci Trezza con degli amici: colpita da un intero caricatore di pistola. Lui poi fugge e si impicca.

Angelica 60 anni, il 2 settembre in provincia di Cagliari uccisa dal marito a coltellate, di cui l’ultima al collo. Il giorno prima era scesa in strada chiedendo aiuto perché picchiata.
Piera di 48 anni, ferita gravemente con colpi di arma da fuoco l’8 settembre in provincia di Sassari, dal fidanzato che poi si è impiccato. Lei è in prognosi riservata.
In tutte le situazioni sembra ripetersi la dinamica di moltissimi femminicidi: la donna si allontana, fa un rifiuto o lo tenta; l’uomo non accetta la separazione, meglio non accetta l’idea che la donna lo possa rifiutare, non accetta altre possibilità di vita e agisce quello che ha dentro. Uccide. Sempre programmando il gesto. Non di rado l’uomo poi si uccide o tenta il suicidio. Delle motivazioni e dinamiche profonde che muovono gli assassini molto si è scritto anche in questo settimanale e va detto che per la comprensione ogni caso va analizzato a sé, perché diverse sono le persone anche se le dinamiche malate sono ripetitive. Nel caso del suicidio, nello specifico di ogni caso, non possiamo sapere quanto giochi la consapevolezza del personale fallimento e/o dell’irreparabilità del gesto o piuttosto quanto ci sia un…

L’autrice: Irene Calesini è psichiatra, psicologa clinica e psicoterapeuta. Ha scritto con Viviana Censi e Massimo Ponti La violenza contro le donne. Storia di un’identità negata (L’Asino d’oro ed.)


L’editoriale prosegue su Left del 17-23 settembre 2021

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La sai l’ultima?

La politica come arte della banalizzazione è una moda che non smette di scivolare sempre più in basso, rappresentando degnamente questo tempo in cui la complessità è vissuta come inutile fardello, una sorta di burocrazia morale e intellettuale che appesantisce questi tifosi della semplicità nella sua accezione povera, quella veloce e senza spessore.

Roma come sempre è il salotto che raccoglie l’antologia delle storture politiche, un po’ perché è il centro geografico dei palazzi che tutti aspirano ad abitare e un po’ perché le telecamere e i microfoni su Roma inseguono anche le pulci quando tossiscono pur di riempire una cronaca che ogni giorno vorrebbe essere letteratura.

Così si passa dall’incredibile carrellata di tipi umani candidati (dal ragazzino con il Rolex che sfida i comunisti con il Rolex in una battaglia politica interessante come un cinturino, alla candidata complottista da cui tutti prendono le distanze ma che ormai è irremovibile in lista, dal solito fascista imbarcato all’insaputa di tutti eppure così comodo per rendere potabili i fascisti, a Sgarbi promesso assessore e così via) alla guerra di chi spara la cretinata più cretina per ritagliarsi un briciolo di visibilità, i suoi 5 minuti di celebrità.

Ieri poteva essere la giornata in cui il candidato Calenda ci fa sapere che la prima cosa che farebbe per Roma sarebbe una telefonata a Bertolaso come suo vice (del resto il mondo ideale di Calenda è un popolo di suoi vice che così sarebbero troppo comodi per osare contraddirlo) e invece alla ribalta è salito Pippo Franco. Ora, sul serio, scrivere un editoriale su vaccini e politica che abbia come focus Pippo Franco è la sindone dell’era grottesca che stiamo attraversando, chissà i posteri che mal di testa proveranno mentre si impegnano a decifrare questi tempi eppure pensate che in questa incessante sfilata su vaccini e virus in fondo di artisti decaduti se ne sono visti parecchi, gente che pur di avere l’illusione di scaldare ancora un pubblico è persino disposta a scoreggiare in pubblico per non sentirsi decadente.

Pippo Franco è stato ospite di Myrta Merlino nella trasmissione L’Aria che tira per dirci la sua sui vaccini. Virologi che fanno gli artisti e artisti che fanno i virologi, che delizia. Pippo Franco è candidato con Michetti, quello stesso Michetti che due giorni fa aveva dichiarato di non poter «invitare» i cittadini a vaccinarsi contro la Covid-19 – dicendo che i vaccini sono ancora «sperimentali». Dice Pippo Franco: «Stiamo parlando di una cosa che sappiamo è notoriamente sperimentale. Mi basta solamente una persona che è morta per il vaccino per renderlo sperimentale». E via.

La frase funziona parecchio in certi ambienti eppure è falsa. «Gli studi che hanno portato alla messa a punto dei vaccini Covid-19 non hanno saltato nessuna delle fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza previste per lo sviluppo di un medicinale, anzi, questi studi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari, circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini», spiega per esempio l’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa) sul suo sito ufficiale. Come scrive nel dettaglio Facta, i vaccini contro la Covid-19 sono stati sviluppati in tempi particolarmente rapidi non perché siano stati abbassati gli standard di sicurezza, ma perché si è accelerato grazie ai grandi investimenti economici messi in campo anche dai governi nazionali.

Ormai però Pippo Franco è il nuovo idolo. Ora ci manca Martufello che ci spiega la composizione dei vaccini, poi Alvaro Vitali che in tv ci delizia con una lezione di ginecologia e infine Bertolaso che ci viene proposto come soluzione operativa per sistemare Roma. Magari aggiungeteci anche l’Arabia Saudita come esempio di diritti e di democrazia e la povertà come freno dell’imprenditoria e tanto che ci siete anche i femminicidi come invenzione dei poteri forti femministi e pure l’Afghanistan come esempio della fulgida esportazione della democrazia.

E in una situazione così viene quasi paura a svegliarsi domani e chiedere: “la sai l’ultima?”. Siamo pronti a tutto.

Buon giovedì.

 

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SentenzaCC 921

Sulle tracce di un femminicida

TOPSHOT - Activists of the "Declic" movement for women's rights hold printed half face pictures showing victims of domestic violence during a protest in Bucharest on March 4, 2020, to draw attention to the lack of monitoring bracelets on the aggressors once a restraining order was issued. - On Thursday, March 5, the draft law on electronic monitoring of the offenders should receive the advice of the Legislative Council of Parliament. Over 14,000 members of the "Declic" community, a civil society NGO, call on parliamentarians to speed up the adoption of the draft law for electronic monitoring of the agressors. In Romania, 30% of women say they have been affected by physical or sexual violence at some point in their lives. In 2018, nearly 18,000 women were hit by family members. The rate of women killed in Romania is above the average registered in the EU member states. (Photo by Daniel MIHAILESCU / AFP) (Photo by DANIEL MIHAILESCU/AFP via Getty Images)

Sonia Lattari, Giuseppina Di Luca, Rita Amenze, Angelica Salis, Ada Rotini, Chiara Ugolini. Sono le ultime sei vittime di altrettanti mariti o ex, compagni o ex, o conoscenti che queste donne avevano respinto o rifiutato di continuare a frequentare. Sei tragici epiloghi di vicende di persecuzione, offese, maltrattamenti, stalking, limitazione della libertà personale e così via. Sei storie dolorosamente simili a quelle degli altri 64 femminicidi avvenuti nel 2021 in Italia, talmente simili che portano a chiedersi: ma le istituzioni che dovrebbero garantire l’incolumità, che fine hanno fatto? Per provare a dare una risposta a questa e altre domande sulla possibilità di sradicare definitivamente questo fenomeno criminale ci siamo rivolti a Francesco Dall’Olio, sostituto procuratore del Tribunale di Roma.

Dall’Olio, lei è d’accordo con chi dice che in Italia le leggi ci sono e che non è che i femminicidi aumentino perché le norme non sono efficaci?
Io sono d’accordo. I femminicidi non avvengono perché le leggi sono inadeguate. Direi che a tal proposito i piani da distinguere sono sempre tre.

Cioè?
Formazione, prevenzione, repressione. La formazione al riconoscimento e al rispetto dell’identità/volontà dell’altro diverso da sé è un aspetto culturale e comincia dalla famiglia, passa dalla scuola e si diffonde nella società civile. La prevenzione chiama in causa lo Stato ma anche i media. Attraverso un linguaggio e una informazione adeguata si deve sensibilizzare l’opinione pubblica: nessuno può far finta di nulla.

Questo aiuta a creare una sorta di rete protettiva intorno alle situazioni a rischio?
Esattamente, la società civile deve fare la propria parte. Le donne vittime di violenza non devono restare isolate. E in questo caso c’è il prezioso lavoro delle associazioni che si occupano della tutela dei loro diritti, che le aiutano a cogliere i segnali della violenza prima che sia troppo tardi, che le incoraggiano a segnalare e a denunciare. In tal senso la prevenzione può essere fatta anche dalle potenziali vittime “riconoscendo” situazioni e rapporti che sono palesemente pericolosi. Quanto alla repressione, questa ovviamente arriva a fenomeno accaduto e deve essere molto chiara, molto netta. Una volta che è successo un fatto criminale l’autore va punito. Ma qui le leggi ci sono. Non credo che ci sia un vuoto normativo.

La repressione riesce a dissuadere?
La pena è un deterrente. Se la irroghi sistematicamente e correttamente in tutti i casi di violazione, è un forte deterrente.

Ritorniamo sull’aspetto della formazione.
In questo caso ci si deve riferire a un modello “educativo”. Quando si fa educazione civica per esempio ci si rifà alla Costituzione. Quando si fa formazione sul rapporto con l’identità femminile si deve fare riferimento a dei modelli valoriali. Cioè l’uguaglianza, la reciprocità, la tolleranza, il rispetto. Questi sono modelli fondamentali che devono essere proposti già durante la crescita in ambito familiare. È chiaro che se i genitori si…


L’articolo prosegue su Left del 17-23 settembre 2021

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Il Piano antiviolenza c’è, mancano i soldi

TOPSHOT - A girl puts flowers at an installation of women's red shoes displayed on staircase, as a symbol to denounce violence against women, at Durresi main square in Tirana, on International Women's Day, on March 8, 2021. (Photo by Gent SHKULLAKU / AFP) (Photo by GENT SHKULLAKU/AFP via Getty Images)

Il femminicidio, una questione politica, culturale, sociale, la più grave e diffusa violazione dei diritti umani. Inizio a scrivere questo articolo e contemporaneamente arriva l’informazione dell’ennesimo femminicidio in Italia: nel Bresciano una donna di 46 anni uccisa con dieci coltellate dall’ex marito. Lei aveva deciso di separarsi da un mese. Lascia due figlie di 21 e 24 anni. Una delle figlie ha assistito al delitto da parte del padre contro la madre. Una tragedia che termina nel peggiore dei modi. Una tragedia annunciata da 70 femminicidi già avvenuti questo anno in Italia, messa in atto, come sempre, da un uomo quando una donna decide sulla sua autonomia e libertà.

Mi trovo a via Tacito all’arrivo di questa notizia, sede di Differenza Donna. La notizia si diffonde e iniziamo a scriverci per reagire subito perché se c’è una cosa che non possiamo permetterci è rimanere ferme, impotenti. Senza intervenire radicalmente nel contrasto alla violenza di genere saremo una democrazia a metà e ci priveremo delle competenze, dei saperi e delle abilità di milioni di donne. Molte di noi attiviste sono in contatto con le donne, bambine e bambini che stanno vivendo situazioni di violenza maschile e di sopravvissute e sopravvissuti al femminicidio della madre, della sorella, della amica e quello che vi diciamo è che tutto ciò non può vederci ferme/i. Abbiamo bisogno di comprendere, di sentire insieme questa tragedia e quindi di reagire.

Molto abbiamo ottenuto a seguito di lotte del movimento delle donne in un…

* L’autrice: Elisa Ercoli è presidente dell’associazione Differenza Donna costituita a Roma nel 1989


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