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«Ribaltiamo la città: nuovo sindaco di Roma, ecco dov’è la vera alternativa»

Virginia Raggi ha prodotto grande delusione in tutti coloro che hanno creduto alle chimere di cambiamento, alle promesse di una larga partecipazione, a un modello di gestione pubblica della città. Abbiamo deciso di candidarci al Consiglio comunale di Roma con Sinistra civica ecologista (Sce) per Gualtieri sindaco con l’ambizione di parlare a questi mondi, senza accontentarci di parlare solo a casa nostra: lo spirito da cui nasce la nostra candidatura nelle fila di Sce è quindi animato dalla volontà di rivolgerci anche alle romane e ai romani che nel 2016 hanno scelto Raggi, perché delusi dalle stagioni politiche precedenti.

Siamo convinti che nella sinistra diffusa della nostra città ci sia una domanda inevasa di democrazia, che aspira ad aggregarsi, a unirsi, a mettersi insieme per costruire un contrappeso politico nei confronti del Pd, una sinistra che sia in grado di costruire un cambiamento sostanziale per Roma. Abbiamo accettato la sfida di partecipare alle elezioni comunali del prossimo 3 e 4 ottobre per aiutare a far emergere quella città spesso “invisibile” e non ascoltata che è già portatrice di alternative. Pensiamo a tutte le realtà impegnate nelle pratiche di mutualismo, di solidarietà, di economia circolare, di consumo alternativo. Più nel profondo, c’è un fermento che in città ci interroga su come cambiare i nostri stili di vita per fare i conti con i limiti del modello di sviluppo attuale. Per questo sentiamo urgente e necessario che Sinistra civica ecologista faccia della rigenerazione sociale e urbana della città e dell’ecologia integrale, i due binari su cui costruire una proposta utile alla città.

Qui vogliamo ribadirlo: in queste elezioni romane, il “voto utile” è davvero quello a Sinistra civica ecologista. Perché il nostro è l’unico progetto ecosocialista che ricostruisce unità a sinistra, che prova a congiungere le forze per non lasciare solamente al Pd il timone della coalizione. Perché la nostra è l’unica forza politica in campo, oltre al Pd, in grado di eleggere una squadra di donne e uomini in Assemblea capitolina e nei Consigli municipali. Noi sosterremo lealmente Roberto Gualtieri e saremo in campo fino all’ultimo minuto disponibile affinché a Roma il centrosinistra possa tornare ad affermarsi.
La storia recente ci dice che le stagioni migliori del Comune di Roma sono state quelle in cui nella coalizione di centrosinistra hanno trovato posto le innovazioni sociali e culturali sperimentate spesso nel rapporto con gli ultimi e nelle periferie. Non dunque le ragioni e i torti del “modello Roma”, ma la spinta innovatrice che le nostre istanze possono imprimere allo sviluppo cittadino se inserite in un quadro di governo. Vogliamo perciò chiarire che scegliere Sinistra civica ecologista vuol dire davvero esprimere un voto per cambiare la città ed impedire un ritorno a ricette del passato.

Lo diciamo a tutti i nostri alleati: a Roma il buon governo non basta. Non possiamo accontentarci di una buona amministrazione che parli solo ai poteri forti, a chi sta bene, senza affrontare di petto una battaglia contro le disuguaglianze e la povertà. Con tutti gli strumenti a disposizione, provando anche innovazioni come quella del “reddito municipale”, già sperimentato da altre città europee come Barcellona. Scegliere Sinistra civica ecologista, insomma, vuol dire scegliere la città accogliente che ospita chi è in fuga verso una vita degna. Vuol dire scegliere la città che ha a cuore i beni comuni. Vuol dire scegliere la città della sanità e della scuola pubblica. Vuol dire scegliere la città di chi non arretra sui valori democratici e antifascisti.
Nei mesi più duri della pandemia e ancora oggi, abbiamo assistito a una straordinaria prova di autorganizzazione dal basso: pratiche di mutuo aiuto innescate nel completo silenzio dell’amministrazione comunale. Ecco, la solidarietà che è scesa in campo non è rappresentata nel dibattito politico odierno. Noi vogliamo provare a dare voce a queste esperienze. Soprattutto perché è da queste esperienze che scaturisce la necessità di una nuova “architettura istituzionale”, un sistema di welfare di comunità incentrato sulla valorizzazione e la partecipazione dell’associazionismo e della cittadinanza al miglioramento della qualità di vita della città. Le idee e le innovazioni in tema di politiche sociali, abitative, culturali, di accoglienza, sono un patrimonio di una parte della nostra metropoli che da tempo è esclusa da ogni forma di partecipazione politica: comitati, movimenti, associazioni, mondo cattolico, terzo settore, sindacati. Un’ancora di salvezza per affrontare anche la transizione ecologica garantendo a tutti i diritti fondamentali.

Vogliamo metterci al servizio della nostra comunità per costruire una città più giusta e più equa di quella conosciuta prima della pandemia di Covid-19.
Lo abbiamo detto vogliamo ribaltare la città e mettere in evidenza le esperienze di chi ha lavorato in questi anni nel silenzio. Le nostre biografie parlano chiaro: parlano di autogestione, di autodeterminazione, di lotte costruite dal basso, di attivismo per i beni comuni e di femminismo. Partendo da qui vogliamo costruire la sfida per rimettere insieme le energie migliori di Roma, di tornare a “pesare” nella politica che conta e, non da ultimo, vogliamo provare a vincere le battaglia nate dal basso anche grazie all’attraversamento corsaro delle istituzioni cittadine. Non ci sfugge, infine, il fatto che se vinceremo nelle città, con il contributo di una sinistra autonoma combattiva capace di accettare la sfida del governo, potremmo riaprire una discussione significativa anche a livello nazionale.
Proviamoci fino in fondo. Proviamoci insieme.

Gli autori: di Michela Cicculli e Sandro Luparelli sono candidati al Consiglio comunale di Roma per Sinistra civica ecologista


Per approfondire, leggi lo SPECIALE ROMA 2021 su Left del 17-23 settembre 2021

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SOMMARIO

E ora smuriamo i crocifissi dalle aule

Nessun insegnante sarà più obbligato a esporre in aula il crocifisso, la scuola decida in autonomia ma senza obbligo. È questa in sintesi la sentenza per certi versi storica che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno depositato il 9 settembre scorso in merito alla sospensione avvenuta nel 2015 del professore Franco Coppoli per aver appunto smurato dalla sua aula il simbolo religioso dei cattolici. Una sentenza che ha reso una prospettiva poliedrica, con più facce per ogni specchio che le riflette, ma con un nucleo centrale che nessuno potrà più disattendere. E di cui ora parleremo.

Prima però di entrare nel merito vale la pena segnalare una curiosità che si è consumata attorno al quotidiano l’Avvenire, organo di stampa della Conferenza episcopale, che ha pubblicato un commento lasciando intendere di conoscere il contenuto della sentenza già dal giorno 8 settembre, mentre la sentenza è stata pubblicata il 9 settembre.
Ma questi restano misteri cattolici a cui nessuno dà più seguito ormai dal 1929.

Torniamo alla sentenza. La cassazione ha dato una definitiva vittoria al ricorrente, Franco Coppoli, un professore sanzionato dal suo dirigente scolastico per essersi opposto all’affissione del crocifisso nell’aula ove insegnava, e questo è sicuramente un passaggio significativo che premia non solo la pazienza con la quale il professore ha lottato per vedere affermato un diritto umano universale, ma premia anche l’Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che lo ha accompagnato e sostenuto in questa vicenda che resta comunque paradossale.

Non è a discutersi il punto di civiltà insito nell’esito favorevole al ricorrente, come pure si tira un sospiro di sollievo davanti alla affermazione, finalmente pronunciata, che non si potrà più consentire a nessun dirigente scolastico di imporre il crocifisso ad alunni ed insegnanti.

Sorte diversa era stata subita invece dal giudice Luigi Tosti quando la Cassazione aveva ritenuto legittima la sua rimozione dalla magistratura perché si era rifiutato di tenere udienza in un’aula ghetto, allestita appositamente per lui, priva di simboli, perché in questa soluzione, che evidentemente la Corte continua a ritenere «accomodante» e dunque legittima, non era stata colta la potente carica discriminatoria che consentiva l’allestimento di aule per cattolici e aule per atei, le quali rimandavano, nella memoria, agli autobus per i bianchi e agli autobus per i neri.

Da una attenta lettura della sentenza (vedi pdf a fine articolo, ndr) sembra dedursi che gli Ermellini, chiamati a decidere sulla obbligatorietà del crocifisso, non avessero alcuna intenzione di ledere l’indiscutibile influenza che sulla questione ha da sempre esercitato lo Stato teocratico extracomunitario confinante, e questo emerge prepotentemente da alcune affermazioni che non hanno fondamento giuridico ma che vengono rese per ricordare cosa significhi questo simbolo per i credenti, «a uffa» come direbbe il Belli nei suoi sonetti quando voleva indicare i benefici che il clero riceve(va) gratuitamente.

Ciononostante la Corte non ha potuto sottrarsi ad una affermazione di diritto semplice, ovvero che un simbolo religioso non può essere addobbato nei luoghi pubblici in via autoritativa.

Prima di assumere questa decisione, i consiglieri della Corte, si sono avvalsi della struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione che ha organizzato un convegno ad aprile, chiedendo a magistrati e professori di esprimere un pare di cui le Sezioni unite avrebbero tenuto conto.

E in effetti c’è un passaggio nella sentenza che dà conto della acquisizione di questi pareri che rendono la pronuncia non più espressione di interpretazione in diritto ma «accomodamento» rispetto ad esigenze ulteriori, e per le quali la Corte rivendica di svolgere il proprio ruolo con una «prudenza mite».

Il passaggio della «prudenza mite», più volte richiamata dalla Corte, è preoccupante perché se per un verso si qualifica come dinamica di equilibrio, dall’altra lascia margine al timore che potrà strumentalmente essere richiamato per altri simboli religiosi o per altri «accomodamenti», la cui prepotente imposizione che vige in altri Stati non tarderà ad affacciarsi anche nel nostro, visto il servilismo di cui si sono già resi protagonisti i nostri politici quando, ad esempio, per «prudenza mite» hanno coperto le nostre statue per tutelare i limiti di chi non apprezzava i nudi artistici.

C’è da chiedersi, a questo punto, quando tempo passerà prima che la «prudenza mite» possa costituire parametro guida per trovare un «accomodamento» ad esempio in tema di diritto familiare con la «sharia».

A tutto voler concedere le soluzioni di equilibrio e le mediazioni sono auspicabili quando vi sono in contrapposizione diritti soggettivi, quando c’è una contesa tra due persone, e quindi è encomiabile e pregevole che la magistratura trovi un punto di mediazione.
Ciò non può parimenti dirsi per i diritti umani, per i diritti costituzionali, per i diritti universali.

Non ci sono, in questo caso, posizioni in mediazione, non ci sono accomodamenti.
I diritti di rango superiore si affermano o si negano, e le soluzioni «a metà», le soluzioni che privilegiano le mediazioni, gli accomodamenti, le prudenze miti, rischiano di rendere quegli stessi diritti evanescenti perché li mantengono controversi.
Una mediazione su un diritto universale si traduce nel suo affievolimento posto che un diritto primario, per quanto riconosciuto nella sua teorizzazione, se non trova piena attuazione, ma trova una attuazione mediata, diventa un diritto «azzoppato».

La sentenza delle Sezioni Unite per un verso afferma perentoriamente principi assoluti, ma poi cerca di dare un contentino a chi quei diritti assoluti proprio non riesce a digerirli.
Si coglie con assoluto favore l’affermazione, ripetuta in sentenza, secondo la quale «Il crocifisso è un simbolo religioso e la sua esposizione obbligatoria in un’aula scolastica viola il principio di laicità», ed ancora la Corte afferma che «lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria», e merita altresì particolare menzione un ulteriore passaggio della sentenza quando afferma che «La libertà religiosa negativa merita la stessa tutela e la stessa protezione della libertà religiosa positiva» escludendo che possano esserci differenze nella tutela dell’ateismo rispetto alle fedi religiose.

Aggiunge la Corte che la nostra Costituzione «esclude che il crocifisso possa essere un simbolo identificativo della Repubblica italiana» e che «l’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non essendone costituzionalmente consentito imporne la presenza».
Ma poi, quasi facendo un passo indietro dopo aver fatto un passo avanti, la Corte si dilunga in una interpretazione «evolutiva» della norma e arriva a dire che pur non potendo esserci alcun obbligo di esporre il crocifisso, tuttavia rimane una libera facoltà la cui decisione è rimandata alle singole classi a patto che la richiesta arrivi dagli studenti e non escluda l’esposizione di altri simboli.

Con fervida immaginazione già ci prefiguriamo l’assemblea dei bambini di prima elementare mentre discutono con quali simboli religiosi potranno riempire le pareti delle loro aule, nel perimetro di una discussione interreligiosa e interculturale, cercando un accomodamento ragionevole in presenza di sensibilità plurali, nel mentre imparano l’alfabeto e a contare.

A tratti è sembrato di leggere non una sentenza della Cassazione, ma una circolare con raccomandazione emanata dall’Ucas: Ufficio complicazioni degli affari semplici.

Epurando la sentenza dalle argomentazioni sugli accomodamenti, resta un principio semplice sul quale Democrazia atea si è espressa coerentemente da sempre: «L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita».

E ora i crocifissi non potranno più restare negli uffici pubblici, e sarà bene che i dirigenti scolastici, ma anche i presidenti dei tribunali, diano disposizioni per cominciare a smurarli.

L’autrice: Carla Corsetti è avvocato e segretario nazionale di Democrazia atea

Foto di Ernesto Eslava da Pixabay

 

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SentenzaCC 921

 

Que viva Michetti

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 02-09-2021 Roma Politica Amministrative Roma - Enrico Michetti e Giorgia Meloni incontrano i cittadini del 4to municipio Nella foto Enrico Michetti e Giorgia Meloni Photo Roberto Monaldo / LaPresse 02-09-2021 Rome (Italy) Administrative elections Rome - Enrico Michetti and Giorgia Meloni meet the citizens of the 4th district In the photo Enrico Michetti e Giorgia Meloni

Nella campagna elettorale per le amministrative a Roma Enrico Michetti, candidato per il centrodestra, riesce a stupire ogni giorno per l’impressionante collezione di figure barbine, una dopo l’altra, con una continuità che rischia seriamente di incoronarlo come testimonial di un centrodestra che pur essendo maggioranza nel Paese (secondo i sondaggi) rischia di riuscire a fallire in tutte le città che contano.

Ha iniziato la sua campagna elettorale insistendo su Giulio Cesare, su Ottaviano Augusto, sulla superiorità degli acquedotti rispetto alle Piramidi e altre amenità storiche. Tutto interessante, per carità, il problema si pone ogni volta che si affronta un tema d’attualità: qualche giorno fa alla sede romana della Cisl si parlava di rifiuti e trasporti e Michetti deve avere pensato che sia davvero noioso parlare di questa angusta contemporaneità così dopo qualche minuto ha deciso bene di alzarsi e di andarsene. Fulminante la battuta di Calenda: «Aveva la biga in seconda fila».

Ma il capolavoro Michetti l’ha fatto a Ostia dove Giorgia Meloni è arrivata per sostenerlo e in mezzo a un bagno di folla ha cominciato a salutare tutti i presenti in attesa del suo candidato sindaco che nel centrodestra sembrano già avere scaricato quasi tutti. Lui, Enrico Michetti, ha pensato bene di non presentarsi adducendo “motivi di agenda”. Che impegni aveva? Era a Prati a stringere mani. Un capolavoro. A questo aggiungete la sua dichiarazione sui vaccini («non sono un tecnico, non posso occuparmi di un farmaco di cui non conosco la composizione per cui non posso invitare qualcuno alla somministrazione», ha dichiarato) e poi allo stesso modo ha deciso di non occuparsi di termovalorizzatori (prima contrario, poi favorevole), Pnrr, trasporti. Insomma, Michetti è candidato sindaco a sua insaputa, par di capire, nella migliore tradizione del centrodestra.

A questo aggiungete che, nella migliore tradizione del centrodestra recente, Michetti ha imbarcato al solito qualche candidato con nostalgie fasciste (con tanto di tatuaggi inneggianti al Duce e braccio teso), una candidata complottista e negazionista (di cui non scrivo il nome per non regalarle nemmeno la pubblicità di sponda della vergogna) e un ex bancarottiere.

Viva Michetti, davvero, l’uomo che potrebbe riuscire nella grande impresa di perdere nella città in cui il centrodestra poteva aspirare a vincere. Intanto Salvini e Meloni sulla sua testa continuano a duellare, peggiorando la situazione. E con candidati così viene quasi la tentazione di sperare nel futuro, nonostante i sondaggi, anche sul piano nazionale.

Buon mercoledì.

 

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SentenzaCC 921

Falla girare, la firma per il referendum

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 11-06-2021 Roma , Italia Cronaca Antiproibizionisti - cannabis meglio legale Nella foto: momenti dell’iniziativa in Piazza Vittorio con la vendita di piantine di cannabis legale per lanciare un appello al Parlamento sulla legalizzazione della cannabis Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 11, 2021  Rome, Italy News Antiprohibitionists - better legal cannabis In the photo: moments of the initiative in Piazza Vittorio with the sale of legal cannabis seedlings to launch an appeal to Parliament for the legalization of cannabis Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 11-06-2021 Roma , Italia Cronaca Antiproibizionisti - cannabis meglio legale Nella foto: momenti dell’iniziativa in Piazza Vittorio con la vendita di piantine di cannabis legale per lanciare un appello al Parlamento sulla legalizzazione della cannabis Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 11, 2021  Rome, Italy News Antiprohibitionists - better legal cannabis In the photo: moments of the initiative in Piazza Vittorio with the sale of legal cannabis seedlings to launch an appeal to Parliament for the legalization of cannabis

Le 220mila firme in 48 ore per il referendum di depenalizzazione della cannabis sono un risultato politico spaventoso, in netta controtendenza con la narrazione che descrive i cittadini lontani dalla partecipazione politica e disinteressati. Se fossimo un Paese normale al posto di sentire Giovanardi o Santanché cianciare di pericolosi scenari (che come al solito non sono supportati da nessun dato ma semplicemente da un miope perbenismo che attanaglia i conservatori) staremmo discutendo di come alla politica probabilmente manchino i temi e gli strumenti per favorire la partecipazione. La firma attraverso l’identità digitale (Spid) ad esempio ha improvvisamente rinvigorito lo strumento referendario che ultimamente appariva sempre di più anacronistico e apre scenari molto interessanti per nuovi modelli di partecipazione.

Ma il referendum sulla cannabis è un tema che ne tocca molti altri e che permette di porre l’accento su aspetti che per anni sono stati sottaciuti (mentre alcuni partiti, dai Radicali a Possibile, hanno continuato a tenere la barra dritta e a fare costante e informata sensibilizzazione). Sulla giustizia, ad esempio, che è un tema che sembra interessare praticamente tutti, ci si potrebbe confessare che il 35% dei detenuti ha violato le leggi sulle droghe e il 25% di chi si trova in carcere è tossicodipendente: la risposta penale alle droghe non solo non funziona ma costa moltissimo. La regolamentazione del mercato porterebbe dei benefici diretti su molti fronti, non solo in termini di sovraffollamento ma anche in termini di riduzione delle spese di repressione e di ordine pubblico e sicurezza. Per avere un’idea di quanto si risparmierete basti pensare che il professor Ferdindando Ofria, professore associato all’Università di Messina e il suo team, ha calcolato in 541,67 milioni la diminuzione per le spese di magistratura carceraria (calcolata sul numero di detenuti arrestati per possesso di droga leggera e detenuta in carcere) e 228,37 milioni di euro per spese legate ad operazioni di ordine pubblico e sicurezza. Questi sono i numeri, è possibile ragionarci senza troppi pregiudizi?

Intanto partono i soliti slogan di chi sul tema insiste proponendoci pregiudizi che sembrano comunque funzionare. Ci si dice, ad esempio, che il consumo di cannabis favorisce poi il passaggio a droghe più pesanti. È uno dei ritornelli che ritorna praticamente sempre: eppure numerosi studi hanno dimostrato che l’uso di cannabis non facilita il passaggio a sostanze più pericolose, addirittura l’uso frequente lo inibisce. Secondo uno studio pubblicato nel 2014 su Jama (Journal of the American Medical Association) gli Stati che hanno legalizzato la cannabis terapeutica hanno un tasso medio annuo di mortalità da oppioidi inferiore del 24,8% rispetto agli Stati che non l’hanno regolamentata. L’unico reale collegamento fra sostanze che hanno usi personali e sociali differenti rimane il mercato illegale. Sapete qual è l’unico reale collegamento? Il mercato illegale che spinge a passare a altre sostanze, esattamente quel mercato che con la legalizzazione si vorrebbe finalmente disarticolare, tra l’altro togliendo soldi alle mafie che tengono in mano le redini di quel mercato. Come scrive benissimo Civati (che sul tema lavora da anni) la legalizzazione peraltro aumenta (non diminuisce) la distanza da altre sostanze, che rimarrebbero illecite e non sarebbero certo vendute da chi offre cannabis, come accade ora. La legalizzazione distingue la cannabis da altre sostanze più nocive, in termini di impatto sull’organismo e di dipendenza.

A proposito di soldi: che il mercato della droga sia il cuore degli affari delle mafie in Italia è roba che ormai sanno anche i sassi (forse perfino Salvini e Giovanardi): la legalizzazione è una manovra economica che vale miliardi di euro (tra risparmi e entrate fiscali, dirette e indirette), decine di migliaia di posti di lavoro (legali) nelle stime più prudenti, la riduzione della liquidità della mafia e del suo raggio di azione, in contatto con la popolazione, la possibilità di utilizzare le ingenti risorse recuperate per la prevenzione e per la sanità. La criminalizzazione di comportamenti di minimo impatto sociale (mentre rimangono impuniti reati e comportamenti ben più rilevanti dei colletti bianchi e delle mafie) è la strada sbagliata e i risultati lo dimostrano.

Legalizzare, controllare, tassare è l’unica strada sensata. Un giorno riguarderemo questi tempi con gli stessi sorrisi quasi stupiti che riserviamo al  proibizionismo statunitense degli anni 20 in cui la gente rivendicava il diritto di bersi una birra (a proposito di danni, andatevi a vedere gli studi sull’alcol, sempre a proposito di proporzioni). Resta da decidere se si vuole abitare nel passato o nel futuro.

Fatela girare, insomma, quest’idea di firmare il referendum.

Buon martedì.

 

 

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Luca Serianni: Scuola, la parola chiave è cambiamento

+++ Aggiornamento del 21 luglio 2022 +++
Luca Serianni ci ha lasciato. Desideriamo ricordarlo riproponendo in versione integrale questa intervista di Pierluigi Barberio, dove il linguista e filologo riflette su come innovare l’insegnamento in una scuola in cui le disuguaglianze sono aumentate anche a causa della pandemia

«Da linguista ho sempre sentito l’esigenza dell’impegno civile», mi dice Luca Serianni. In una calda giornata di fine estate il professore mi accoglie con la solita cordialità e pacatezza nello studio di casa sua, e subito iniziamo a parlare di scuola, di Costituzione, di ius culturae e di tanto altro.

Ricordo ancora le belle parole di congedo da La Sapienza di Roma rivolte ai suoi studenti: «Sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate. Voi rappresentate lo Stato». Professore le manca l’università?
Sì, in quell’occasione citai anche l’articolo 52 della Costituzione con riferimento al lavoro che i funzionari dello Stato a qualunque livello sono tenuti a svolgere con disciplina e onore. L’università mi manca perché l’insegnamento mi è sempre piaciuto molto, ma ero preparato; a una certa età è normale lasciare. Mi è mancato in generale il contatto con gli studenti ma anche con gli insegnanti durante la fase della pandemia perché non è assolutamente la stessa cosa fare lezioni e conferenze a distanza e farle in presenza.

A proposito di pandemia, a detta di molti questo periodo ha messo a nudo le fragilità del nostro sistema educativo e le disuguaglianze sono aumentate, anche a scuola. È un momento obiettivamente difficile.
Sono fragilità ben note. C’è una fascia di studenti di per sé più vulnerabili, sono ragazzi di estrazione socioculturale svantaggiata o straniera, e sono loro che hanno sofferto di più. Sono stati penalizzati anche dal fatto che a scuola non ci fossero computer personale a disposizione di studentesse e studenti, Perlopiù a casa hanno dovuto condividerlo con altre persone della famiglia in una stanza comune. La didattica a distanza può funzionare anche molto bene per trasmettere determinati contenuti, in particolare quanto è legato a verifiche fondate sul meccanismo del test, che può essere somministrato bene anche a distanza. Tuttavia, viene meno un aspetto fondamentale dell’insegnamento: il contatto in presenza. Qualunque insegnante di qualunque materia modula il suo discorso sulla base della reazione degli ascoltatori. Se viene meno questo, ad esempio quando la videocamera è oscurata, l’insegnamento in quanto tale ne soffre. E ne soffre anzitutto l’esigenza della socialità e del confronto in classe che è fondamentale. Non a caso, l’idea che ormai si debba tornare alle lezioni in presenza, in sicurezza, è generale. Tra l’altro, tutti eravamo impreparati a questa modalità, e quindi in alcuni casi insegnare a distanza ha significato fare una normale lezione come accadeva in classe. Così la Dad non può funzionare.

A ogni pubblicazione del rapporto Invalsi si scatena puntualmente una discussione sui risultati delle prove e sul livello di preparazione, soprattutto in italiano e in matematica, delle studentesse e degli studenti, scadendo spesso nel catastrofismo. Lei cosa ne pensa?
I test Invalsi per italiano che ho seguito per un po’di anni sono fatti benissimo, con grande intelligenza, perché mettono in evidenza l’effettiva padronanza linguistica, valorizzando l’aspetto del lessico e della comprensione del testo. Quindi, sono attendibili. Ma la comunicazione in merito all’effettuazione delle prove non è del tutto efficace: molti insegnanti pensano che i test siano un modo per giudicarli. Non è questo lo scopo. Misurano un certo livello di prestazioni degli alunni nel tempo per capire se il lavoro fatto a scuola funziona. Detto questo, certamente i risultati non sono buoni, perché l’indicatore di cui tener conto è il confronto con scuole di altri Paesi Ocse. È un campanello d’allarme che sarebbe sbagliato sottovalutare. Bisogna intervenire certamente, non facendo corsi per preparare ai test, ma insistendo di più sull’effettiva comprensione di testi, e di testi di vario tipo, non solo letterari.

Lei organizza molti corsi di formazione per insegnanti di ogni ordine e grado e all’Accademia dei Lincei. Il ruolo dell’insegnante nella scuola di oggi è sempre lo stesso o è soggetto a cambiamenti?
Il cambiamento è legato al diverso grado di invecchiamento delle singole scienze. È chiaro che una materia come fisica o biologia richiede un aggiornamento per l’insegnante particolarmente forte, perché la situazione è molto cambiata rispetto alle cose studiate, anni prima, all’università. Ma vale un po’ per tutte le materie. Per quanto riguarda l’Italiano c’è la necessità di immettere un’apertura ad altri ambiti, non solo a quello letterario, ma in primo luogo agli ambiti scientifico e giuridico. Quello che un tempo si chiamava tema di attualità, perché non sia un esercizio senza senso, richiede una certa informazione da parte degli studenti e, prima, del docente: aspetto emerso chiaramente in un libretto a cui sono molto affezionato, scritto alcuni anni fa con Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti edito da Carocci, nel quale abbiamo esaminato i compiti di ragazzi di varie parti d’Italia frequentanti il primo anno delle scuole superiori. L’insegnante deve essere più aperto di una volta all’intersezione dei saperi. Comunque, il buon insegnante oggi come ieri è quello che crede nel proprio lavoro.

Lingua e democrazia. Mi torna in mente ciò che scriveva Tullio De Mauro a proposito della nostra Costituzione, con cui l’insegnamento della lingua italiana ha molto a che fare.
De Mauro ha insistito sul fatto che la Costituzione è scritta in una lingua molto trasparente: è vero. Tuttavia, nell’articolo 1 troviamo scritto «la sovranità appartiene al popolo», una frase in apparenza semplice ma in realtà tutt’altro che ovvia. Chi è il popolo? Ne fanno parte i compagni di classe che però non sono cittadini perché sono stranieri? E anche restando nell’ambito degli italiani, un sedicenne non è  sovrano’ nel senso che ovviamente non ha il diritto di voto. Commentare gli articoli fondamentali è un esercizio anche linguisticamente molto importante. Poi, ora si parla molto, giustamente, della parità di genere, e la Costituzione ci permette di verificare con quale ritardo il principio sia stato applicato realmente. Per esempio, nonostante l’articolo 3 sancisca solennemente l’uguaglianza, le prime donne magistrate sono state nominate solo negli anni Sessanta, un dato che gli studenti non conoscono e che invece devono sapere. Un’altra riflessione interessante da fare a scuola, tenendo conto che molti ragazzi hanno i genitori separati o divorziati, è che nel diritto di famiglia è esistita fino a tutti gli anni Sessanta una clamorosa discriminazione uomo-donna per quanto riguarda il reato di adulterio, che ora non esiste più. La donna lo commetteva semplicemente tradendo il marito; l’uomo per ricadere in una fattispecie penale doveva fare molto di più, cioè tenere una concubina a casa o notoriamente in una casa da lui pagata. C’era una discriminante assurda. Tutto ciò è cambiato, però può essere utile far riflettere su questi aspetti dal punto vista della coscienza civile.

Le viene generalmente riconosciuta una modernità di sguardo anche per quel che riguarda la didattica. Che pensa dell’uso della tecnologia a scuola, visto che i bambini e gli adolescenti hanno grande familiarità con i dispositivi digitali?
Credo sia uno strumento in più. Il rischio non è certo legato alla lingua o ad aspetti specifici, ma banalmente ai pericoli per gli adolescenti di passare troppo tempo a “smanettare” sullo smartphone: lo dico sulla base del buon senso, bisogna fare altre cose in una giornata che deve essere ricca di tanti aspetti: relazioni umane, esperienze di lettura. Il danno può esser questo; però, in sé è un’occasione di scrittura che non si poteva immaginare anche cinquanta o sessanta anni fa, quando un grande intellettuale scomparso da poco, Steiner, scriveva che si sarebbe affermata una civiltà dell’immagine senza più scrittura. Non è stato così; la scrittura è ancora largamente presente. Fare previsioni è sempre difficile.

Lei che è stato consulente del ministero dell’Istruzione, ritiene necessaria una riforma della scuola?
Io non credo a una riforma generale, anche perché la scuola non può permettersi come altre istituzioni un ribaltamento totale: si fonda sulla continuità della trasmissione del sapere. Ritengo invece che la scuola superiore di secondo grado debba rimanere legata ai cinque anni, e non ridotta a quattro. I cinque anni sono indispensabili. Faccio un esempio molto specifico: l’insegnamento dell’italiano. Ho molte volte insistito sull’opportunità di far fare esercizi su testi come l’editoriale e il saggio. Questi si possono fare solo con i ragazzi più grandi per ovvie ragioni di orizzonte cognitivo, e poiché nel triennio delle superiori si dà come è giusto molto peso alla letteratura, con quattro anni il tempo per fare questo allargamento non ci sarebbe.

Nelle scuole italiane studiano tante bambine e tanti bambini figli di genitori stranieri. Come è possibile non considerarli cittadini italiani? Lei si è espresso a favore dello ius culturae, che per alcuni non è una priorità.
Io sono convinto che lo sia. Giacciono in Parlamento ben tre proposte di legge di politici di orientamento diverso: Boldrini, Orfini e Polverini; e sono in gran parte sovrapponibili. Si può discutere sulle modalità di richiesta di cittadinanza, ma il principio in sé mi sembra decisamente giusto. Dispiace che invece ci sia una corrente contraria fondata su un clamoroso equivoco che temo intenzionale, e cioè mettere in relazione l’acquisizione della cittadinanza con gli sbarchi dei migranti. Sono due cose che non hanno nessun legame. Considero sensato che completato un determinato ciclo di studi si consegua quella cittadinanza, che direi è stata già verificata sul campo, poiché i ragazzi parlano la stessa lingua, hanno gli stessi gusti, ascoltano la stessa musica. Questo rappresenta di fatto un’italianizzazione reale.

 

* L’autore: Pierluigi Barberio è insegnante di scuola secondaria di secondo grado. Con Enrico Terrinoni nella primavera 2021 ha scritto su Left un Dialogo sulla scuola a puntate

 


L’articolo è tratto da Left del 10-16 settembre 2021

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E i genitori come tornano a scuola?

Relatives and parents look at students entering the San Policarpo parish as Italian schools reopened, in Rome, Monday, Sept. 14, 2020. Primary school "Acquedotti" reopened Monday, with four of its classes moved to a parish to increase spaces and guarantee social distancing between pupils. Italian schools closed nationwide on March 5 and never reopened as Italy became the epicenter of the pandemic in Europe. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Si torna a scuola e, assieme all’ambito organizzativo di prevenzione Covid, si mette di nuovo in movimento un intero sistema di relazioni umane essenziali quanto delicate fra cui il rapporto tra i bambini e i ragazzi con i loro insegnanti. L’interesse per la scuola, come luogo di sviluppo psichico, sociale e culturale degli alunni, si è perlopiù da sempre concentrato, oltre che sul rapporto con i compagni, sulla relazione che si instaura fra docenti e allievi. Dalla materna alle superiori. Da ricerche empiriche è confermato ciò che può essere intuitivo: più la relazione che unisce un bambino o un ragazzo al proprio insegnante è valida, maggiori sono i livelli di interesse e di motivazione allo studio con conseguente relativo incremento di apprendimento e successo scolastico. Sappiamo anche che una buona relazione fra docente e alunno, oltre ad incidere sul benessere psicologico e sulla qualità del lavoro dell’insegnante, promuove nel ragazzo l’autostima, riduce il livello di stress in caso di situazioni familiari problematiche e costituisce un fattore protettivo sia contro i comportamenti a rischio sia contro la dispersione scolastica perché attenua i momenti critici di passaggio da un ordine di scuola all’altro.

Tali aspetti, comprovati dalla letteratura psicologica, sono gli elementi che teniamo presenti quando lavoriamo, come psicologi e psicoterapeuti, assieme a maestri e professori all’interno delle scuole nei progetti di prevenzione primaria. Oltre alla conduzione di sportelli di ascolto, è particolarmente proficuo organizzare incontri interattivi con i docenti interessati a conoscere più a fondo il mondo psicologico di bambini e adolescenti e il loro sviluppo. Incontri interattivi che siano di arricchimento reciproco perché anche per noi specialisti che cerchiamo di prevenire il malessere psichico, è essenziale comprendere sempre più e meglio le difficoltà che possono incontrare i docenti nella relazione con gli alunni. Lavorando con il fine di promuovere un clima sempre più positivo e ascoltando chi insegna ogni giorno nelle classi, riceviamo nel corso del tempo un quadro aggiornato delle dinamiche, più o meno palesi, che si muovono all’interno della scuola come microcosmo sociale.

Scopriamo che gli insegnanti, per quanto sia talvolta complesso se non problematico il rapporto con gli allievi, chiedono piuttosto di…


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Intanto la Lega implode

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 14–07-2021 Roma, Italia Politica Palazzo Chigi - incontro Draghi Salvini Nella foto: Il Segretario della Lega Matteo Salvini esce dalla sede del Governo dopo l’incontro con il Presidente Draghi Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 14, 2021  Rome, Italy Politics Palazzo Chigi - Draghi Salvini meeting In the photo: League Secretary Matteo Salvini leaves the government seat after meeting with President Draghi

Come va dalle parti della Lega di Matteo Salvini? Va male, va molto male, e questa volta non si tratta di una semplice opinione ma basta mettere in fila i fatti che stanno imbarazzando gran parte del partito.

Presidenti di regione, sindaci e i militanti più ortodossi stanno preparando un’offensiva contro il loro leader Salvini per chiarire una volta per tutte i danni di questa schizofrenica tattica di stare contemporaneamente al governo e all’opposizione. Sono in molti che non gradiscono (per usare un eufemismo) le strizzate d’occhio ai No Vax e anche l’aver votato gli emendamenti di Fratelli d’Italia ha innervosito gente che nella Lega conta parecchio. Oltre tutto a Salvini si contesta anche di non avere ottenuto nessun risultato politico riuscendo a farsi superare da tutti: troppo altalenante per essere ritenuto “responsabile” e troppo remissivo con Draghi per poter essere considerato davvero “un oppositore”.

Di sicuro ci sarà un congresso. La data sarà fissata subito dopo le amministrative (dove il centrodestra, ai sondaggi di oggi, non sembra essere messo troppo bene in nessuna della città che contano) e a Salvini verrà chiesto di dare conto dell’enorme consenso che aveva alle europee e che è riuscito a disperdere in pochi mesi (a favore dell’avversaria interna Giorgia Meloni).

Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana (solo per citare i più importanti) non sopportano la deriva neofascista, complottista e piena di personaggi improbabili dell’ultim’ora (come Claudio Borghi e Francesca Donato) che imperversano con le loro uscite a dir poco pittoresche. Gli amministratori della Lega temono che la loro fatica venga sprecata, in termini di credibilità, da chi cerca di infiammare i social per ottenere in cambio un po’ di visibilità.

«Questo è un partito da due anni commissariato a tutti i livelli: dobbiamo fare i congressi – dice Roberto Marcato, assessore regionale veneto e “fedelissimo” di Zaia, che aveva già tuonato contro i fascisti nel Carroccio – Lo reclamano migliaia di militanti, è un fatto di democrazia»: la frase è molto più pesante e significativa di quello che sembri.

Poi c’è la grana Durigon: l’ex sottosegretario al Mef si era dimesso con la promessa di Salvini di diventare vicesegretario con la delega del Sud ma Giorgetti in primis (e poi molti altri) si è messo di traverso e non se n’è fatto niente. Una persona molto vicina a Salvini dice letteralmente che «Durigon si è messo a fare il pazzo» e circola voce (l’ha scritto qualche giorno fa anche Il Fatto Quotidiano) che possa esserci addirittura una trattativa di Durigon per approdare in Fratelli d’Italia, proprio alla corte di quella Giorgia Meloni che è sempre più convinta di essere la prossima leader del centrodestra.

A questo aggiungete che proprio Salvini qualche giorno fa è riuscito per l’ennesima volta a rimediare una figura barbina dicendo che «le varianti nascono come reazione al vaccino, è il mestiere del vaccino» (e allora verrebbe da chiedergli perché si sia vaccinato, tra l’altro) quando l’Oms (ma praticamente tutto il mondo della scienza) dice chiaramente: «Più persone vengono vaccinate, più ci aspettiamo che la circolazione diminuisca, il che porterà ad avere meno mutazioni».

Avanti così. Daje Matteo.

Buon lunedì.

 

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A colpi di storia contro la negazione della violenza del colonialismo italiano

Il velo calato sul colonialismo italiano va lacerato, lo scriviamo spesso. L’immenso lavoro di ricostruzione di una memoria negata e annullata fatto in decine di anni da Angelo Del Boca, scomparso di recente, e da pochi altri storici ha dato però i suoi frutti. Esiste nel Paese un cospicuo nucleo di giovani che ha proseguito i loro lavori e continua a far riemergere il passato. Fra questi Matteo Dominioni, che di Del Boca è stato allievo, ha pubblicato recentemente per Mimesis I prigionieri di Menelik, storie di soldati italiani nella guerra d’Abissinia. Il volume parte dalla sconfitta italiana di Adua (primo marzo 1896) ma non si sofferma sulla battaglia che rappresentò un’onta per il Regno d’Italia. A Dominioni interessa indagare le storie di coloro che furono fatti prigionieri e le ripercussioni in patria di quella sconfitta. L’inferiorità numerica, l’aver sottostimato le capacità dell’avversario, gli errori, portarono ad una disfatta con 4.424 perdite da parte italiana. Inoltre, 1.744 militari italiani vennero presi e condotti ad Addis Abeba o in altre città etiopi restando per quasi un anno prigionieri. Da quest’ultimo aspetto parte la ricerca di Dominioni che compone un mosaico complesso, scomodo alla retorica nazionalista.

«Ho lavorato su fonti di archivio, attingendo ai verbali redatti dai carabinieri che, già sui piroscafi che riportavano a casa i prigionieri rilasciati, li interrogavano – racconta Dominioni a Left. La prima cosa da dire è che, nonostante il loro numero non fosse rilevante, le loro vicende ebbero un forte impatto sulla vita politica e sociale del Paese. Vi sono state manifestazioni contro la guerra, gruppi di aiuto e missioni umanitarie per i sopravvissuti. Al loro ritorno sono usciti solo alcuni memoriali. Io ho potuto trovare le fonti primarie, dall’ufficiale che si esprimeva in modo colto al soldato che scriveva come poteva. Ho scoperto addirittura dopo l’uscita del libro, che il primo allenatore della Lazio era stato ad Adua, come mi hanno riferito da un’associazione di tifosi. Questa storia ha un significato particolare. Oggi i prigionieri di guerra, pensiamo ad esempio ai recenti conflitti in Iraq o in Afghanistan, si liberano con le forze speciali, allora erano considerati traditori. Con Adua lo schema si rompe, molti hanno combattuto fino alla fine, sono stati feriti e non potevano che arrendersi. In questa vicenda nasce anche il mito, amplificato dal…


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Borja Valero, un nuovo ultras per il Lebowski

Quella del Centro storico Lebowski è una storia di calcio. E una storia politica. Romantica, per favore, no. Quasi tutti in queste settimane l’hanno raccontata così: la squadra di dilettanti in cui va a giocare il campione che fino a due mesi fa giocava in Serie A, la società in mano ai tifosi, i valori di una volta, un quadretto virato seppia in cui ogni cosa sta nel posto in cui dovrebbe stare. Borja Valero Iglesias, trentasei anni, spagnolo di Madrid, il calciatore che dopo quasi un decennio in Serie A tra Fiorentina e Inter ha deciso di continuare a tirare calci a un pallone accettando una proposta che alle stesse persone da cui era stata concepita sembrava nient’altro che una magnifica visione, ha in effetti sembianze da uomo d’altri tempi. La lunga barba scura che pende da un cranio spoglio, la faccia scavata, occhi scaltri, un fisico e un’attitudine da filosofo quasi più che da atleta. Real Madrid, la cantera e tre presenze in prima squadra, Maiorca, West Bromwich, Villareal. Poi la Fiorentina, cinque stagioni di fila, le tre all’Inter, un’ultima, quella chiusasi a maggio, ancora con i viola. Pensava di rinnovare per un altro anno, Borja, e invece la Fiorentina ha preferito di no. Ma lui e sua moglie Rocío avevano già deciso di rimanere a vivere a Firenze. E quando è arrivata la chiamata del Lebowski non ci hanno pensato troppo. Nell’estate in cui hanno cambiato maglia Messi, Cristiano Ronaldo e Lukaku, l’ha fatto anche Borja Valero. Da quella viola dei gigliati a quella grigio-nera del Lebowski, dallo stadio Artemio Franchi all’Ascanio Nesi di Tavarnuzze. Dalla Serie A alla Promozione.

Il Lebowski non è una società di dilettanti qualsiasi. «Ho visto entusiasmo, organizzazione e soprattutto mi sono riconosciuto nei loro valori», ha detto Valero in un’intervista rilasciata il 19 agosto alla Nazione. Un pezzo firmato da Benedetto Ferrara, e questo non è un dettaglio. Perché chi ha reso possibile l’operazione è stato proprio lui. Giornalista, scrittore, autore teatrale. E a fare teatro con lui c’è anche Giovanni Concutelli. Uno del Lebowski. La prima visione di Borja Valero in grigio-nero è stata sua, anni fa. Ferrara ha fatto da tramite, e quest’estate è scoccata la scintilla.
Il Centro storico Lebowski nasce nel 2010, ma i ragazzi del Lebowski c’erano già dal 2004, quando facevano ancora le superiori (v. L. Fargnoli su Left del 18 gennaio 2019, ndr). E in Terza categoria, a Firenze Nord, c’era una squadra che perdeva sempre. Si chiamava Ac Lebowski, come il protagonista del film dei fratelli Coen, aveva una casacca grigia e nera. Questo gruppo sparuto di adolescenti fiorentini cominciò ad andare a vederla giocare tutte le domeniche. All’inizio i calciatori si innervosirono, pensavano che volessero prenderli in giro. Invece no. Quei ragazzini volevano divertirsi, volevano fare casino. Volevano essere gli…

*-* L’autore: Giovanni Dozzini è giornalista,  traduttore e autore di diversi romanzi tra cui “Qui dovevo stare” (Fandango), “E Baboucar guidava la fila” (Minimum fax)


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Salvatore Settis: Non si può costruire il futuro se si distrugge il passato

©LAPRESSE 19-02-2002 BAMIYAN, AFGHANISTAN ESTERO LA STATUA DEL BUDDHA DISTRUTTA NELLA FOTO: UNA DONNA AFGANA NEI PRESSI DEI I RESTI DELLA STATUA DEL BUDDHA MESSI SOTTO PROTEZIONE DALL' UNESCO

I talebani a Roma. Saldi di fine stagione. Così titolava il Frankfurter Allgemeine Zeitung nel 2002 denunciando la svendita del patrimonio artistico italiano, ridotto dai suoi governanti a mero bene economico. L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis lo riportava in un suo coraggioso libro dal titolo Italia s.p.a. (Einaudi) che ci è tornato in mente in vista della conferenza che il professore terrà il 12 settembre alle 19 a Carrara al festival Con-vivere  dedicata al tema dell’incuria, e che avremo il piacere e l’onore di introdurre.

Professor Settis quanti danni hanno fatto in questi venti anni i talebani nostrani?

Allora il tema era la trasformazione del patrimonio demaniale dello Stato in una società dello Stato, la Patrimonio S.p.a. che poteva privatizzare tutto e dunque si parlava della riduzione del patrimonio a mero valore economico. A rendere possibile tutto ciò era la legge Tremonti. Lui stesso anni dopo ha dovuto riconoscere che era stata un errore. Quella legge fu ritirata ma la privatizzazione è continuata in varie altre forme. Si è imposto in Italia – e un po’ in tutto il mondo – il pregiudizio secondo cui se un edificio storico, il Pantheon o il quadro di Raffaello, valgono qualcosa è in termini economici che vanno calcolati. Si continua però a combattere e io sono solo uno dei tanti che lo fa per affermare il valore immateriale delle opere d’arte, della letteratura, del musica, del teatro, del cinema, che va molto al di là del loro valore materiale.

Questo è uno scontro che c’è sempre stato, ma nel nostro tempo è al calor bianco perché ad ogni crisi economica c’è qualcuno che dice “vendiamo il Partenone, vendiamo il Colosseo, vendiamo questo o quell’altro”. Che quella legge sia stata ritirata da parte dello Stato e  dalla parte dello stesso ministro Tremonti che l’aveva proposta è stato un buon segno. Vuol dire che queste battaglie a qualcosa servono. A mio avviso non si deve mai cessare di combattere.

E oggi dove vede i segni dell’incuria nella responsabilità dei politici?

Io vedo una responsabilità notevole della politica in generale e dei governi degli ultimi anni nell’avere ridotto in modo molto significativo i ranghi del nostro personale di tutela, perché è vero che la nostra Costituzione dice all’articolo 9 che la Repubblica tutela il patrimonio artistico della nazione, ma la Repubblica non può tutelare proprio nulla se non ci sono degli esperti che badano a questa cosa. Sarebbe come dire in questo ospedale vi cureremmo ma non ci sono medici. Di questa riduzione del personale sono colpevoli politici di ogni segno.

Come valuta l’operato del ministro Franceschini sotto questo riguardo?

L’attuale ministro Franceschini è stato in realtà l’unico negli ultimi anni ad essere riuscito a immettere nuove unità nel ministero dei Beni culturali oggi ministero della Cultura. Lui stesso ha dichiarato che oggi ce ne vorrebbero altri 6mila. Ma questi 6mila non arrivano, mentre i pericoli sul paesaggio e sull’ambiente crescono ogni giorno il numero delle persone che dovrebbero occuparsene cala, perché gli attuali funzionari vanno in pensione. Il ministro ha anche spostato un numero considerevole di funzionari dando la priorità ai musei.

Questo è giusto o sbagliato?

Potrebbe essere anche stato giusto se fossero stati sostituiti da quelle seimila persone che mancano. Occorrerebbe una campagna di assunzioni molto importante e tanto più perché il numero dei disoccupati fra i laureati già addottorati è molto superiore ai seimila. Ci sono moltissime persone che hanno una laurea in storia dell’arte o in archeologia che continuano a lavorare in questo campo scientificamente ma che si devono accontentare di fare il controllore ferroviario o l’impiegato postale. Se trovano una supplenza di due mesi è già tanto. Questa è una situazione drammatica di cui io credo troppo pochi italiani si rendano conto. Ma il punto è che se ne dovrebbero rendere conto i politici poiché è il loro mestiere.

Le date delle amministrative di ottobre si avvicinano ma nelle campagne elettorali si fatica a trovare punti che riguardino la cultura e il patrimonio di arte. Perché la cultura affrontata con competenza non è fra i primi pensieri di chi si candida a governare le città?

Questo dimenticarsi della cultura e del patrimonio è una solida tradizione della politica italiana di ogni colore e segno. È successo regolarmente a livello nazionale in tutte le ultime elezioni e sta succedendo nelle amministrative. Non sono affatto sorpreso da questo.

Lei è intervenuto su La Stampa commentando criticamente la proposta di Calenda di un museo unico per Roma. Come si colloca in questo quadro?

Va a suo merito che abbia almeno pensato a un tema culturale. A suo demerito va il fatto che i dati che offre e la proposta che fa sono completamente fuori registro. Nulla di quello che dice è minimamente attuabile. Allora io mi chiedo perché, è mai possibile che questi nostri politici anche quando affrontano questi temi lo facciano senza ragionarci abbastanza e senza rivolgersi a esperti che possano evitare gli errori più clamorosi? Questo è un pessimo segno e si lega a ciò che dicevamo prima. Ovvero al fatto che il nostro patrimonio viene considerato solo nei valori economici e non in quei valori culturali che richiedono invece una visione lungimirante. Il patrimonio non è un peso, una palla al piede che viene dal passato, ma è un “conto in banca” per costruire il futuro se proprio vogliamo usare una metafora economica.

L’Italia che per prima ha costituzionalizzato la tutela ora- come molti altri Paesi – deve affrontare problemi nuovi, come eventi meteorologici avversi e improvvisi. Come saldare questi due fronti, come fermare il climate change e mettere in sicurezza il patrimonio? I giovani dei Fridays for future da tempo hanno lanciato l’allarme. Nella politica vede sufficiente attenzione a questa emergenza?

Purtroppo vedo una attenzione del tutto insufficiente, basti pensare alle dichiarazioni ripetute del nostro ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani e dei suoi collaboratori: sono giustamente molto preoccupati dei cambiamenti climatici, però quando qualcuno gli dice che le pale eoliche, le distese di pannelli solari non devono distruggere il paesaggio, non devono distruggere l’agricoltura, che non si possono trasformare preziose distese di olivi nelle Marche o in Puglia in enormi distese di pannelli solari, si innervosiscono. Purtroppo c’è anche qualche ecologista che li accompagna e li aiuta in questo dicendo che l’emergenza climatica è così grande che i valori del paesaggio passano in secondo piano. Invece io credo che sia obbligatorio, è anche la Costituzione che ci obbliga a farlo. È obbligatorio cercare di creare delle priorità sulla base della tutela del paesaggio e anche della tutela dell’ambiente e del clima. Però bisogna conciliare tutte queste cose. Non vedo nell’attuale governo nessuna traccia di un tentativo non di mediare, ma di conciliare queste cose.

Cosa si potrebbe fare concretamente?

Per dirne soltanto una basterebbe promuovere anche con incentivi economici l’uso di tegole speciali che assomigliano molto alle tegole storiche ma che possono anche fungere da captatori di energia solare. Sono un sostituto dei pannelli solari che si dovrebbero mettere anche sui tetti delle case senza devastare il paesaggio. Più in generale se siamo così preoccupati dell’emergenza climatica perché non promuoviamo continue ricerche? Non siamo affatto ai primi posti nel mondo fra quelli che fanno ricerca in questo campo.

Secondo i climatologi potrebbe accadere che nel 2050 Venezia sia sommersa e intanto non studiamo soluzioni?

Quanto al caso di Venezia io non direi che potrebbe essere sommersa nel 2050. Sarà sommersa, purtroppo. Non lo sarà del tutto, ma ci sarà un certo livello di sommersione. Non solo a Venezia. Anche a Pisa che è la città in cui vivo. Non possiamo ignorare che fra alcuni decenni accadrà questo. Non possiamo starcene con le mani in mano. Dovremmo fare molto di più invece di ricorrere alla retorica, come fa Cingolani, immaginando che nuove forme di reattori nucleari possano risolvere tutti i nostri problemi. Io francamente non me ne intendo e non ho una opinione scientifica ma dubito assai che quella sia la strada.

Nel suo nuovo affascinante libro Incursioni (Feltrinelli) che getta uno sguardo ampio sull’arte contemporanea, lei dedica un capitolo a Mimmo Jodice, maestro della fotografia anche nel raccontare il fascino delle rovine. Quelle prodotte dal tempo continuano a produrre senso e emozioni. Sono cosa ben diversa dall’incuria di cui parlavamo prima.

Le rovine hanno avuto un ruolo importante nella storia culturale dell’Europa e in particolare dell’Italia. Roma è il più grande campo di rovine dell’Occidente europeo. Hanno avuto una funzione molto interessante. Le rovine di Roma sono state il prodotto della crisi e poi della caduta dell’impero romano. Con il calo drastico della popolazione gli edifici venivano abbandonati, cadevano in rovina, venivano usati come cava di materiali ecc. Però da un certo punto in poi queste rovine sono servite come monito di ciò che era accaduto nel passato, ma errano anche il ricordo di una bellezza che era stata in parte distrutta e che in parte sopravviveva. Sono state un lievito per il futuro. Il momento in cui questo è accaduto si chiama Rinascimento ed è l’alba di quella età moderna nella quale sono successe tante cose sul piano culturale, artistico. Dunque le rovine possono essere anche il lievito di un mondo migliore di quello in cui viviamo. Anche negli altri saggi del mio libro scrivo che lo studio e le emozioni davanti all’arte del passato, di quello recente o di quello più remoto, devono essere un momento della nostra vita attuale per costruire il nostro futuro. Non sono solo uno sguardo retrospettivo, c’è una simmetria perfetta fra lo sguardo all’indietro nella storia e lo sguardo in avanti verso il futuro delle nuove generazioni. Anzi io direi anche che non può costruire il futuro chi pretende di ignorare o addirittura di distruggere il passato.

Abbiamo parlato di talebani all’inizio, vorrei concludere con un suo pensiero per l’Afghanistan e per il suo millenario patrimonio artistico anche sincretico di incontro di culture diverse, che però è stato distrutto sistematicamente prima dai sovietici poi dagli american  fino ad essere minacciato di nuovo oggi dai talebani che hanno proibito perfino la musica. I fondamentalisti sono sempre un rischio per il patrimonio ma lo sono state anche le invasioni occidentali?

Il patrimonio artistico dell’Afghanistan è di primissimo ordine. Non so quanti italiani sappiano che riguarda anche noi. L’arte del Gandhāra si sviluppò in un pezzo dell’attuale Afghanistan, occupato da regni indo-greci dopo la grandiosa spedizione di Alessandro Magno. C’erano re macedoni che regnavano su popolazioni non greche, producevano un’arte che era intrisa di arte greco-romana. C’erano straordinari rilievi che rappresentano la vita di Buddha con lo stesso linguaggio che vediamo, per fare un esempio, sulla colonna Traiana a Roma. Parliamo di un patrimonio che è molto celebrato, dai musei del Giappone al British Museum di Londra, ma anche in collezioni italiane. Distruggere un patrimonio così prezioso, di un Paese come è questo, è di eccezionale gravità. temiamo la distruzione attiva dei talebani che addirittura la teorizzano con il preteso divieto delle immagini del Corano, che non trova riscontro in altre letture.

Non tutto l’Islam è aniconico e tanto meno iconoclasta, come sappiamo

Nei grandi Paesi di religione islamica le immagini non sono affatto bandite, basta pensare all’Iran. Va detto però che accanto alla distruzione attiva dei talebani c’è stata anche la distruzione passiva dell’esercito nordamericano. Non si sono messi a distruggere le opere, non hanno commesso un crimine pari a quello di distruggere i Buddha di Bamyan, però hanno lasciato che accadessero traffici, hanno permesso che fossero smembrate intere collezioni, hanno protetto ben poco. Notiamo quanta differenza c’è con la cultura americana della seconda guerra mondiale quando gli americani via via che occupavano l’Italia si preoccupavano subito di proteggere le opere d’arte, i musei. Questo ci dice immediatamente della decadenza della cultura americana nelle sue aspirazioni universalistiche, che gli Usa stanno abbandonando gradualmente. È sotto gli occhi di tutti la decadenza della cultura Usa degli ultimi vent’anni. È colpa di Trump ma non diamo tutta la colpa a lui. È responsabilità anche di molti altri. Evidentemente gli intellettuali americani che combattono contro questo degrado sono moltissimi e di primissimo ordine, ma in questo momento sono ancora una minoranza.

L’appuntamento: L’archeologo, storico dell’arte e accademico dei Lincei Salvatore Settis interviene il 12 settembre al Festival Con-vivere a Carrara (Corso Rosselli, ore 19) con una conferenza dedicata al tema dell’incuria


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