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Il diritto collettivo all’istruzione e al sapere critico

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 14-09-2020 Roma , Italia Cronaca Riapertura delle scuole dopo emergenza covid 19 Nella foto: momenti all' esteno di alcuni istituti scolastici in un' atmosfera di contenuta apprensione di genitori e personale scolastico Photo Mauro Scrobogna /LaPresse September 14, 2020  Rome, Italy News Reopening of schools after Covid 19 emergency In the photo: moments outside some schools in an atmosphere of contained apprehension of parents and school staff

Che differenza c’è oggi tra parlare della scuola o di treni oppure di ristoranti? Nessuna, si tratta di stabilire come ci si arriva, da dove si entra e si esce e in quali orari, chi controlla il Green pass, che si fa con chi non ce l’ha. Come usciremo da questa situazione, e quando, non è dato saperlo, certo è sicuro che dovremo, il prima possibile, ricominciare a pensare in ciascuno specifico perché c’è differenza tra servizi alla persona, importanti, e funzioni dello Stato che formano quella persona, fondamentali. Bisognerà interrogarsi su cosa chiede il senso comune alla scuola e come possiamo cambiarlo, perché se non cambia l’idea di scuola dominante gli unici cambiamenti possibili assumono il carattere di pure restaurazioni.

La Rai per l’inizio dell’anno scolastico ha intervistato a Firenze il preside Ludovico Arte del Marco Polo, un istituto superiore da anni impegnato per un cambio sostanziale degli ambienti e modi di vita scolastici. Il preside ha proposto di accomodarsi nella nuova biblioteca, ma il cronista gli ha detto che quella era troppo bella, non sembrava scuola, meglio stare in un corridoio… Tutto sommato il giornalista aveva ragione: nell’immaginario del Paese le scuole sono non-luoghi, asettici e anonimi, dove la bellezza viene lasciata fuori per poi andare a ricercarla nelle illustrazioni dei libri di testo. Uscire da questo repertorio di luoghi comuni è difficile, ancora di più in questo momento dove l’intero dibattito lascia in ombra il più: le parole della scuola, la qualità del dialogo, a prescindere se con o senza mascherina, i suoi contenuti.

Eppure uscirne bisogna perché ne va della salute non solo della scuola e di chi vi cresce, ma anche della nostra democrazia. Tra società e scuola c’è una membrana semipermeabile, una di quelle fondamentali in natura perché…

* L’autore: Giuseppe Bagni è insegnante e presidente del Cidi, Centro di iniziativa democratica degli Insegnanti. Con Giuseppe Buondonno ha scritto Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e sulla democrazia (PM edizioni, 2021)


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«Niente di noi, senza di noi»

An indigenous woman listens to a speech during a protest outside the Supreme Court Building in Brasilia, on August 24, 2021. - Over 1000 indigenous protestors have converged on Brasilia to take part in a week of protests organised by Articulacao dos Povos Indígenas do Brasil (Apib). The main focus of the protests is a forthcoming judgment at the Supreme Court (STF) on August 25, 2021 which may define the future demarcation of Indigenous Lands. (Photo by CARL DE SOUZA / AFP) (Photo by CARL DE SOUZA/AFP via Getty Images)

Partecipazione alla politica, impatto della violenza sulle comunità e difesa dei territori. Sono questi i temi di cui si è parlato durante la seconda Conferenza globale delle donne indigene. L’evento ha riunito, in forma virtuale a causa della pandemia, 500 leader di donne indigene originarie di regioni diverse e provenienti da esperienze diverse – parlamentari, artiste, donne delle Nazioni Unite, sindache e attiviste sociali – per dialogare e rafforzare il loro movimento globale. Con l’obiettivo di riscrivere e definire una nuova tabella di marcia per tutto il mondo indigeno. Dalla metà di agosto ai primi di settembre un calendario fitto di dibattiti e workshop con un orizzonte comune: “Niente di noi, senza di noi”, per ottenere visibilità e scrivere una agenda politica globale. Dalle maori della Nuova Zelanda alle ambientaliste delle Filippine, dalle comunità del Burundi e dalle donne Twa del bacino del Congo alle nepalesi e alle donne Sami della Norvegia, alle donne Quechua, le Maya, le Mapuche, le Yucateco e le Otom delle tante realtà indigene dell’America latina.

Venticinque anni dopo la Dichiarazione e la Piattaforma d’azione di Pechino, considerata un punto di svolta per l’agenda mondiale sulla parità di genere, donne e ragazze indigene, seguite da poche osservatrici esterne, si sono date appuntamento per dire quello che vogliono, con l’idea di rafforzare l’organizzazione per il riconoscimento dei loro diritti, perché ancora si ritrovano a dover combattere la violenza strutturale e la discriminazione e l’emarginazione che le colpisce, spesso costrette da sole a contrastare l’espropriazione delle terre che abitano, la violenza ambientale, il cambiamento climatico e l’imposizione di progetti di sviluppo decisi per loro da altri. Con i loro sistemi di vita e cultura sempre sotto assedio e delegittimati dagli stati egemoni, provenienti da quei sistemi coloniali economicamente dipendenti dal saccheggio delle risorse naturali e oggi politicamente organizzati dal neoliberismo e dalla politica di mercato. Come si legge nelle conclusioni dello Studio globale sulla situazione delle donne e delle ragazze indigene, allegato al kit di lancio della conferenza.
Secondo le informazioni raccolte dalle organizzazioni partecipanti, le popolazioni indigene rappresentano il 6,2% della popolazione mondiale, ma costituiscono il 15% delle persone più povere del mondo. Inoltre, mentre c’è stato un miglioramento nell’accesso all’istruzione per le donne e le ragazze in tutto il mondo, le donne indigene si trovano ancora a dover lottare per l’accesso all’istruzione di base in particolare in Africa e nella regione Asia-Pacifico, così come all’istruzione secondaria e terziaria in tutte le altre regioni dove vivono, una difficoltà legata alle gravidanze infantili, ai matrimoni forzati, all’imposizione di svolgere un lavoro anche se minorenni o spesso una discriminazione vera e propria, legata al razzismo.
In più per…


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Non chiamiamole classi pollaio

After more than six months, schools in Italy reopen, the first day of school in Bergamo. (Photo by Luca Ponti/Pacific Press/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 30792949

Nel novembre 1989 la caduta del muro di Berlino, ultimo baluardo della Guerra fredda, segnò anche l’inizio della “svolta” che, due anni dopo, portò allo scioglimento del Partito comunista italiano. In quei giorni mi trovavo con una classe di un liceo fiorentino in Polonia, per uno scambio culturale con studenti del più antico liceo di Varsavia. Ogni ragazzo era ospite della famiglia di un compagno, noi accompagnatori nella foresteria dell’Università Copernico. La primavera successiva studenti e docenti polacchi arrivarono a Firenze. Fu un’esperienza memorabile, ed allo stesso tempo conclusiva di un mondo, e di un modo “integrale” di vivere la scuola che sarebbe presto tramontato.

Trent’anni sono trascorsi, e da allora pressoché nessun governo ha trascurato di apportare una qualche modifica all’ordinamento della scuola e dell’università, a partire dalla riforma di Luigi Berlinguer, che istituì la laurea triennale, destinata a mutare radicalmente anche la formazione del personale insegnante. Il principio guida allora dichiarato fu quello di favorire la continuità tra scuola e lavoro. Ma l’impressione era che la scelta politica tendesse anche alla progressiva dequalificazione della pubblica istruzione a favore della scuola privata o parificata che, composta per lo più di istituti cattolici o comunque improntati su principi liberisti, fu poi definita paritaria. Impresa economica foraggiata dallo Stato, che ad esempio pagava interamente le commissioni esterne della maturità, era riservata alle classi abbienti, destinate a dirigere la società: anche molti rampolli della sinistra si sono formati in quei rinomati collegi. Chi ha fatto esperienza di quegli esami sa di che cosa sto parlando. Poi venne Berlusconi, che istituendo il Miur volle cancellare l’inviso aggettivo, tuttora scolpito a lettere cubitali sulla facciata del ministero in Trastevere, peraltro inaugurato nel 1928 da Mussolini.

L’idea gramsciana di una formazione scolastica che Marx definiva «…


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«Daniel Banfi, mio marito, la prima vittima dei fascisti del Plan Condor»

Nel novembre del 1975 i vertici di otto dittature fasciste sudamericane siglano un patto segreto per catturare i militanti esiliati in altri Paesi: nasce “ufficialmente” il Plan Condor. In realtà la “collaborazione” tra le polizie di alcuni Paesi del Cono Sur era già attiva da oltre un anno. Tra le prime vittime di questa internazionale nera del terrore c’è Daniel Banfi, un ventenne italouruguaiano che si era rifugiato a Buenos Aires insieme alla moglie Aurora Meloni e alle due figlie di poco più di un anno, per sfuggire alla persecuzione della dittatura di Bordaberry. L’omicidio di Daniel è stato ricostruito al Processo Condor di Roma che si è concluso nel 2021 con la condanna definitiva all’ergastolo degli assassini. Oggi Aurora Meloni ci racconta la sua storia. La sua intervista fa parte del progetto giornalistico “Archivio desaparecido” del Centro di giornalismo permanente.

L’Archivio desaparecido è un progetto di memoria attiva del Centro di giornalismo permanente (collettivo di giornalisti freelance nato a Roma nel 2018) che raccoglie le storie dei desaparecidos delle dittature sudamericane di origine italiana e degli esuli rifugiati nel nostro Paese. Iniziata nel 2019, l’inchiesta è stata finanziata da Etica Sgr, con un crowdfunding realizzato su Produzioni dal Basso e con il supporto della Fondazione Basso.

Durante le dittature sudamericane degli anni ’70 migliaia di persone sono state arrestate, detenute illegalmente nei centri clandestini di sterminio, uccise e fatte sparire. Quelle dei desaparecidos sono storie di coraggio e ribellione. Molti di loro erano italiani. Chi erano? Che cosa ne è stato di loro? Per la prima volta le loro biografie sono state ricostruite grazie a documenti giudiziari e a testimonianze dirette dei familiari.

L’Archivio, in uscita l’11 settembre, sarà un libro pubblicato da Nova Delphi, un podcast prodotto da Radio Tre e un archivio multimediale, libero e gratuito, che raccoglie oltre 30 interviste realizzate in Italia, Argentina e Cile. Fra gli intervistati: Enrico Calamai, Vera Vigevani Jarach, Aurora Meloni, Maria Paz Venturelli, Mariana Maino, Jaime Donato e Alejandro Montiglio.

Archivio desaparecido è un progetto a cura di Elena Basso, Marco Mastrandrea e Alfredo Sprovieri. Le video-interviste dall’Argentina e dal Cile sono state realizzate da Erica Canepa e Luis Clarismino Alve Junior. Il progetto grafico è di Stefano Sbrulli. L’11 settembre sarà presentato presso la Casa Argentina a Roma durante una serata di dibattito con gli autori, Giulia de Luca (giornalista di Radio3) e Franco Ippolito (presidente della Fondazione Basso).

11/9, vent’anni di memoria selettiva

Quasi tutti ricordiamo più o meno esattamente dove eravamo e cosa stavamo faceva l’11 settembre di 20 anni fa, quando le terribili immagini delle twin towers abbattute irrompevano nella nostra vita. Ma chi ha ricordo del 7 ottobre, quando la vendetta Usa piombò soprattutto sulla popolazione civile di uno dei Paesi più poveri del pianeta? Ci riferiamo all’Afghanistan reo di non aver consegnato agli Stati Uniti, la mente dell’attentato. Quell’Osama Bin Laden, fondatore e capo di Al Qaeda, le cui milizie erano state a libro paga di Washington fino a poco prima dell’attacco. A settembre 2001 i taliban, col sostegno occidentale, avevano già da 5 anni preso pieno possesso del Paese, imponendo la sharia e rendendosi responsabili dei peggiori crimini, soprattutto verso le donne. Il loro regime non aveva accettato di consegnare il fondatore di Al Qaeda, in assenza di prove certe per gli attentati di New York. Un pretesto per proteggere il pericolo pubblico numero uno? Molto probabilmente. Un motivo sufficiente per scatenare un dispiegamento militare di tale portata? Beh difficilmente giustificabile.

Come mai già allora la famigerata intelligence Usa non provò neanche ad intervenire come avrebbe poi fatto nel 2011 quando attaccò e uccise il ricco saudita con una operazione militare chirurgica ad Abbottabad, in Pakistan, a quasi 200 km dal confine afghano? Eppure mentre l’11 settembre è data simbolo di una guerra asimmetrica che avrebbe visto coinvolte soprattutto vittime innocenti nelle città di mezzo mondo – c’erano già stati in realtà le stragi del 1998 alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salam per complessivi 224 morti e nel 2000 l’attacco alla Uss Cole, cacciatorpediniere della marina americana – il 7 ottobre segna l’inizio di una guerra infinita ben presto scomparsa dalle cronache dei mezzi di informazione. Soltanto nell’Afghanistan riconsegnato il 15 agosto 2021, con anticipo rispetto al previsto, dopo l’impostura degli accordi di Doha del 2018 e senza colpo ferire, ai taliban, sono morte quasi 250 mila persone, milioni sono gli sfollati interni e i profughi (il 90% si trovano in Pakistan e Iran).

In questi 20 anni di occupazione militare mentre gli Usa spendevano 2.300 miliardi di dollari, la Germania 19 miliardi di euro e l’Italia 8,7 miliardi in Afghanistan è accaduto di tutto: Al Qaeda, ha realizzato proprie strutture in altri Paesi per poi veder lentamente diminuire il proprio potenziale economico e militare; è cresciuta a dismisura la produzione di oppiacei, in particolare eroina – oggi l’Afghanistan è il maggior produttore – è cresciuta la tossicodipendenza, sono aumentate le violenze mentre l’assenza di qualsiasi forma di ripresa economica ha fatto ancor più aumentare il tasso di povertà.

Nella guerra condotta dal 2006 con gli alleati Nato – dove eravamo mentre venne presa tale decisione? – si ebbe l’arroganza di dire che si andava a «liberare le donne dal burka e a esportare democrazia». L’87% di analfabetismo femminile, la corruzione dilagante che ha visto coinvolti i governi sostenuti militarmente ed economicamente dall’occidente, hanno impedito di fatto la realizzazione di qualsiasi infrastruttura che non fosse legata a quella splendida parte della società civile e laica afghana in cui le donne hanno occupato e occupano un ruolo determinante.

Ma nel frattempo quanti altri giorni da terrore sono trascorsi e spariti nella memoria? Ci ricordiamo – ed è giusto – del 12 novembre 2015 (strage del Bataclan) ma di quando, il 20 marzo 2003, in nome di mai ritrovati armamenti chimici e sempre per esportare democrazia, tramite cacciabombardieri, la “alleanza dei coraggiosi”, invase l’Iraq. Obbiettivo la cacciata del dittatore Saddam Hussein – con cui fino a poco tempo prima si erano fatti affari in chiave anti iraniana. E anche in questo caso il risultato si misura in centinaia di migliaia di morti, in un Paese diviso e tutto da ricostruire e, da ultimo, nella nascita di un ennesimo strumento di terrorismo, il sedicente Stato Islamico, dato mille volte per sconfitto ma poi in grado di produrre azioni criminali dal continente africano all’Afghanistan, all’Indonesia, al cuore dell’Europa.

Uno Stato Islamico sconfitto politicamente e militarmente soltanto dalle laiche forze kurde a loro volta poi represse dal regime turco di Erdogan. E a proposito di Isis (uno degli acronimi di detto Stato), chi si ricorda cosa accadeva il 13 aprile del 2017? Presto detto. In una remota provincia afghana veniva sganciata la Moab (Mother Of All Bombs) il più potente ordigno convenzionale mai costruito con l’equivalente di 11 tonnellate di dinamite e il costo di 16 milioni di dollari. Si sono bombardati tunnel utilizzati da terroristi dell’Isis, si disse. In realtà l’onda d’urto prodotta portò alla morte di numerosi e mai contati civili e alla perdita dell’udito per chiunque si trovò a venire colpito dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Un esperimento riuscito, dissero dal Pentagono. Di date da ricordare ce ne sono molte, troppe e molte di queste probabilmente non finiranno mai nei libri di storia in occidente.

Oggi, 11 settembre, una parte di società civile italiana, chiamata dal Cisda, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, proverà a far sentire la propria voce in alcune città italiane come Trieste, Milano, Monselice, Bologna, Fano, Roma, Fiumicino, Messina. Il 25 settembre prossimo, promossa da Rawa (L’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) rimaste a combattere contro l’oscurantismo e la violenza taliban, ha chiesto di mobilitarsi nel mondo occidentale e anche in Italia ci saranno iniziative di cui daremo conto. Piccoli segnali di rivolta per ricordare questa data terribile come l’inizio di un ventennio di terrore che in tanti dobbiamo far terminare. Ma c’è un’ultima data da ricordare per ricominciare.

Il 15 febbraio 2003, in tutto il mondo, contemporaneamente 110 milioni di persone si mobilitarono contro le guerre e contro i terrorismi. Il corteo nazionale di Roma portò in piazza quasi 3 milioni di uomini e donne. La frammentazione, le scelte oscene della realpolitik, operate da molti governi, anche apparentemente di colore politico diverso, hanno fatto sparire quell’immensa e pacifica potenza. Questo ricordo chiude con una domanda: dove sono finiti i tanti e le tante che nella bandiera arcobaleno si riconoscevano senza se e senza ma? Avremo tutti bisogno di risentire le loro voci.

 

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La romana Fenice

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 01-04-2015 - Roma - Italia Cronaca Street art. Nella foto i murales di Tor Marancia, realizzati nell'ambito del progetto Big City Life Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 01-04-2015 - Rome - Italy News Street art. In the pic Tor Marancia's murales

Si respira un’aria un poco più pulita, nell’Urbe: dopo la deplorevole cacciata di Marino a suon di carte notarili e superata la sbornia del “voto di protesta”, Roma si avvia necessariamente a passi decisi verso una nuova stagione. Il confronto non è mai stato così aperto ed incerto, un nuovo brio solca l’aria: ognuno di noi spera in una romana fenice, che risorga dalle sue ceneri pandemiche, scacciando corruzione e malagestione. Di lacrime, del resto, se n’è versate a sufficienza. La chiave è la discontinuità: forse è per questa ragione che i sondaggi – di cui non fidarsi, mai – danno la Sindaca uscente in lieve svantaggio. Il suo punto di forza era la diversità, ed oggi ancora di alterità c’è bisogno, per restituire ricchezza e luce a questa città stanca. La discontinuità dev’essere anche nelle idee, nelle proposte, e nei volti.

Noi come Sinistra civica ecologista ci abbiamo lavorato tanto. Guardando al recente passato, ritengo incompleta la “bonifica” del Partito democratico rispetto alle storture dell’era renziana, ma comunque sufficiente a dare credito ad una nuova coalizione convincente, progressista ed inclusiva, per il destino dei romani. Una città che migliori la condizione delle romane soprattutto, che curi chi soffre e difenda le fragilità. Una città in cui si parli della condizione della donna e sia facile accedere ai consultori, a degli sportelli di psicoterapia, e sia possibile abortire se necessario. Una città piena di Lucha y Siesta, Case delle Donne, centri d’aggregazione, di cultura e solidarietà. Spazi collettivi di esercizio della partecipazione e della democrazia, capaci di autodeterminarsi ed offrire arte, bellezza e svago a una metropoli in affanno; che riesca così a guardare il futuro senza angoscia, in cui ognuno senta con fiducia di vivere nel luogo giusto. Una città del lavoro (stabile!), ma anche della cura e soprattutto bella, gioiosa ed adatta ai giovani, stanchi di veder sgomberati, abbandonati o chiusi i luoghi dove hanno costruito la loro socialità, ormai intrappolata in uno smartphone. Una città che riduca le distanze, fisiche e non solo, tra i quartieri. Una città che riduca le disuguaglianze, che combatta la povertà e non i poveri, dalla parte degli ultimi ed antitetica al triste ideale del “decoro” della destra, che di fronte all’emarginazione ed al dolore preferisce nascondere la testa sotto la sabbia, abbandonando e finanche incolpando chi non ce la fa: se la società è drogata, ben venga il metadone di Stato, a disintossicarci poco a poco.

Nel ginepraio di queste elezioni autunnali, Sinistra civica ecologista rischia di essere l’ago della bilancia nel determinare l’accesso al ballottaggio di Roberto Gualtieri, ma sarà in ogni caso un fulcro politico: crediamo di dover spostare a sinistra l’asse della coalizione non solo per la correttezza della nostra visione ecosocialista, ma soprattutto per dare nuova linfa e credibilità ad una compagine che risulti accattivante anche a chi non ci sceglierà dal primo turno, unendo coerenza e strategia. La nostra lista non ha un capolista, ma cinque teste di lista, di cui ben tre sono donne: io sono il più giovane (31) tra queste. Buon segno? Beh, la pluralità è ricchezza, e la gioventù è energia. Provengo dalla storia di LeU, di Sinistra Italiana e Sel prim’ancora, ma oggi questo non conta molto. Una politica migliore, dinamica e giovane è non solo possibile, ma necessaria, e daremo il nostro apporto: credo nel rilancio delle periferie come primo punto. Non solo perché vogliamo una città solidale, unita e coesa dal punto di vista della viabilità, con la cura del ferro, il potenziamento delle metropolitane e delle ciclabili. Abbiamo soprattutto bisogno di periferie belle, vivibili, verdi e pulite, che siano ognuna il centro di sé stessa, piuttosto che un luogo dimenticato, lontano dal centro città. La bussola è questa. Con nuova vita dei quartieri, negli spazi aperti, e specie con la Street Art possiamo restituire quel senso di appartenenza ai cittadini d’ogni quartiere e rione, quel sentimento fiero, di amore per il bello che ci dovrebbe circondare sempre, che ci restituisca la voglia di osservare, criticare e cambiare la realtà a noi intorno, anziché rassegnarsi all’impotenza. Quel sentimento che in fondo è il sale della democrazia, che anche se abiti a Torre Maura ti faccia dire con coraggio “Nun me sta bene che no!”. Mala tempora currunt, ma c’è una gioventù che torna ad impossessarsi della politica, dopo aver sperimentato la sua assenza. A chi si è sentito tradito dalla sinistra dico che per quello che potrò fare con ogni mia forza, non accadrà mai più. Perché la nostra unica forza è la forza della comunità: se non rappresentiamo il nostro popolo, non abbiamo senso di esistere. Invece la destra purtroppo un senso ce l’ha, eccome. Ma è sbagliato.

*-* L’autore: Fabio Perrone è candidato per la lista Sinistra civica ecologista – éviva Roma per Gualtieri sindaco

(nella foto, Street art a Tor Marancia)

È l’ora di ricreazione della scuola

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 21 Ottobre 2020 Roma (Italia) Cronaca : La scuola resta aperta per combattere la dispersione Nella Foto :Il lavoro delle insegnanti nell’istituto Melissa Bassi a Tor Bella Monaca Photo Cecilia Fabiano/LaPresse October 21 , 2020 Roma (Italy) News : The school remains Oper to fight school dropout In The Pic : Teachers working in the Melissa Bassi Insitute in outskirts of the city

Quel ramo del lago di Como… No, stavolta non è il ramo del celebre incipit manzoniano a “fare scuola”, bensì quello su cui si affaccia Cernobbio, dove si è tenuto anche quest’anno il forum The European house – Ambrosetti. Nella pletora di ministri ansiosi di proscinèsi davanti al mondo confidustriale, non è mancato il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, che con un breve intervento ha illustrato il suo progetto di scuola.

Per una efficace funzionalizzazione della scuola alle politiche industriali italiane e all’uso capitalistico della pandemia, Bianchi propone un reskilling (testuale) della popolazione scolastica e individua nelle “risorse umane” il principale limite alla scuola come “motore” dello sviluppo e del rilancio economico. La ricetta di Bianchi è incentrata sulla scuola come luogo di formazione alla “Data economy”, ai mestieri e alle identità che si costruiscono a contatto con le imprese (in questo senso viene intesa la centralità di Istituti tecnici e professionali). In conclusione, sostiene Bianchi, la scuola serve a “mettere in produzione l’intuizione”: occorre che le imprese siano sempre più coinvolte nella scuola perché la produzione si aumenta attraverso le persone.

Sembrerebbe non esserci nulla di nuovo sotto il sole. Perché alla curvatura produttivista e aziendalistica della scuola avevano già lavorato la Buona scuola di Renzi, i tagli costituenti di Tremonti e Gelmini, e si potrebbe continuare lungamente a ritroso almeno fino all’“autonomia scolastica”…

E invece siamo, a mio avviso, dentro uno snodo cruciale per l’istruzione pubblica. Il tornante storico della pandemia ha avuto un impatto trasformativo potentissimo anche sulla scuola. L’accelerazione del tempo postpandemico produce mutazioni che rapidamente da quantitative diventano qualitative. La faglia che si è aperta nel realismo neoliberista può…


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Francesco Sinopoli: Basta con la solita logica del risparmio sulla scuola pubblica

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 02-09-2020 Roma Cronaca Manifestazione dei docenti precari Nella foto Un momento della manifestazione a p.zza Montecitorio Photo Roberto Monaldo / LaPresse 02-09-2020 Rome (Italy) Demonstration of precarious teachers In the pic A moment of the demonstration

«Siamo in un passaggio chiave per la scuola. E il governo deve passare dalle parole ai fatti». Francesco Sinopoli, segretario generale Flc Cgil sintetizza così questi giorni che ci separano dall’apertura delle scuole – dal 13 settembre con calendari diversi a seconda delle regioni. Ricapitoliamo. Due sono stati ad agosto i provvedimenti decisi per l’inizio del terzo anno scolastico segnato dalla pandemia: il decreto legge 111 del 6 agosto che ha stabilito il Green pass obbligatorio per il personale scolastico e il protocollo sicurezza Covid sottoscritto dai sindacati il 14 agosto. Sinopoli quando richiama il governo a realizzare quanto promesso si riferisce a quegli interventi messi nero su bianco nel protocollo Covid. «Fin da quando è iniziato questo tardivo confronto sull’anno scolastico noi abbiamo sempre detto che era indispensabile intervenire con tutte le risorse necessarie per consentire la scuola in presenza e per determinare fin da settembre le condizioni migliori, con classi più adeguate e con un organico di docenti funzionale alle esigenze pedagogiche e didattiche», premette il segretario Flc Cgil che sottolinea come la discussione abbia portato «ad un esito positivo sulla carta».

«Adesso bisogna capire se questi interventi ci saranno veramente. La questione dell’organico aggiuntivo che quest’anno era stata affrontata in modo limitato dal governo con risorse inferiori a quelle del 2020 e solo per i collaboratori scolastici, per noi doveva essere recuperato attraverso l’intervento sulle classi sovraffollate», spiega. Sulle supplenze aggiuntive del cosiddetto organico Covid, finanziate solo fino al 30 dicembre 2021 dal decreto Sostegno bis, nel protocollo il ministero si impegna «ad assicurare l’erogazione dell’offerta formativa in presenza nell’intero anno scolastico 2021-2022». Un altro impegno riguarda «un piano sperimentale di intervento sulle istituzioni scolastiche che presentino classi particolarmente numerose» con più risorse per aumentare il numero dei docenti e del personale Ata. «Bisogna intervenire adesso – dice Sinopoli -, non si può scrivere un testo senza poi applicarlo. Gli impegni ci sono ma non sono stati ancora realizzati. Questi interventi servono per consentire di realizzare il distanziamento dove serve e non fermarsi solo al vaccino, perché il vaccino è fondamentale ma non è l’unico strumento per affrontare la pandemia».

Il problema è, ancora una volta, quello delle…


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Sì vax, ma senza coraggio

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 16-04-2021 Roma Politica Conferenza stampa del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Roberto Speranza, Mario Draghi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 16-04-2021 Rome (Italy) Press conference of the Prime Minister Mario Draghi In the pic Roberto Speranza, Mario Draghi

La politica è l’arte della mediazione ma spesso dietro questo aforisma si cela la tiepidezza di chi non vorrebbe decidere. Le perquisizioni a casa di no vax che diventano barzotti sui loro gruppi Telegram mentre sognano di posizionare il tritolo sotto il Parlamento sono qualcosa che non bisogna sottovalutare ma converrebbe anche ricordare che alla resa dei conti, quando si sono messi in testa di bloccare i treni in tutta Italia, nelle stazioni c’erano perfino più iscritti a Italia Viva.

Di sicuro però c’è che solo il 65,9% degli italiani ha completato il ciclo vaccinale (tenendo conto anche di quelli che sotto i 12 anni non si possono vaccinare) e il numero è ben lontano da garantire una certa sicurezza. Dialogare con i no vax più convinti cercando di convincere gli inconvincibili è una mossa che disvela una certa povertà politica, che si affida alla persuasione piuttosto che alla decisione.

Insomma, per dirsela tutta, sarebbe il caso che il governo governi: Mario Draghi aveva risposto convintamente «sì» alla domanda sull’obbligo vaccinale e ora continua a limare sulle categorie per il green pass. Essere paternalisti non serve per difendersi dal prendere decisioni.

Come scrive giustamente Vitalba Azzolini per Domani (perché qualche volta conviene citare colleghi che ci hanno visto lungo): «Non è chiaro perché, con l’attuale decreto, siano assoggettate all’obbligo di certificazione verde solo alcune categorie di lavoratori, né quali siano i criteri di priorità seguiti. Sul piano del diritto non si comprende perché si ricorra a diversi decreti-legge per disporre estensioni successive a pochi giorni di distanza, creando confusione».

E poi: «Pare che un’estensione ulteriore della certificazione verde ad altre e più numerose categorie di lavoratori sarà sancita la prossima settimana con un nuovo decreto che, insieme a quello appena emanato, andrà ad aggiungersi alle norme dei decreti precedenti in tema di “green pass” e ai relativi emendamenti in sede di conversione. Ciò renderà necessario un coordinamento tra le regole dei diversi provvedimenti, tenendo anche conto – tra le altre cose – della spiegazione data via Faq alle regole stesse, talora in modo non del tutto conforme a una loro interpretazione testuale e sistematica. Il labirinto delle disposizioni in tema di contrasto al Sars-CoV-2 è ormai oltremodo complesso – per usare un eufemismo – con buona pace dell’obiettivo di semplificazione e razionalizzazione normativa messo per iscritto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e a cui il governo si è impegnato nei confronti dell’Unione Europea».

Allora facciamo che il governo dei migliori governi in modo migliore: prenda decisioni, abbia coraggio e la smetta di usare metodi che sono semplicemente una forma di paternalismo insopportabile. Se vuole rendere obbligatorio il vaccino lo renda obbligatorio senza costringere a vaccinarsi di rimbalzo. Meglio una legge che renda obbligatorio il vaccino (ci sono tutti gli strumenti legislativi per poterlo fare) oppure un’applicazione generalizzata del green pass che non penalizzi ingiustamente alcune categorie esentandone altre.

Abbiate coraggio. Forza, su.

Buon venerdì.

 

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Lager per migranti: sarebbe questo il senso per la democrazia degli italiani?

Cosa c’è da nascondere? Viene da rifare e da rifarsi la stessa domanda che – in assenza di cambiamenti – ci si faceva purtroppo in pochi circa dieci anni fa. Allora, governo Berlusconi, al Viminale Roberto Maroni, venne diramata una circolare inquietante che sorprese tanto il mondo antirazzista quanto l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa. Con questa si faceva espressamente divieto di accesso a quelle strutture di detenzione per “migranti da rimpatriare”, gli allora Cie (Centri di identificazione ed espulsione), oggi Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio) per giornalisti ed esponenti di organizzazioni, anche umanitarie, non comprese in un ristretto elenco stilato ovviamente dal ministero dell’Interno. Gli unici ad aver garantito l’accesso, in nome del proprio mandato ispettivo, restavano i parlamentari nazionali ed europei e l’ufficio del Garante per i detenuti. Da tale abuso nacque una campagna nazionale “LasciateCIEntrare”, composta da giornalisti e attivisti del cui operato Left ha dato spesso notizia. La circolare venne “sospesa” dopo la caduta del governo, eppure i suoi effetti nefasti non sono mai cessati.

Dieci anni dopo, infatti, la situazione ahimè non è migliorata e oggi accedere ai Cpr, complici le misure adottate durante la pandemia, è spesso una mission impossible. Proprio per questo motivo, lo scorso luglio, la sezione italiana dell’agenzia Pressenza, ha lanciato l’idea di proporre per il 15 settembre prossimo la richiesta di numerosi giornalisti di poter entrare nei centri e in molti hanno aderito presentando anzitempo regolare domanda di visita, fornendo tutta la documentazione necessaria. Si sono intanto ricostruite piccole reti di attivisti soprattutto a Milano, in Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna ma con connessioni nelle altre città che ospitano tali strutture chiedendo di accedervi.

Nel frattempo, un piccolo ma interessante gruppo di deputati e senatori ha cominciato ad interessarsi a centri e di portare con se propri consulenti esperti in una materia affatto semplice. Fra i primi il senatore Gregorio De Falco. Prima un ingresso con una propria consulente – attivista di LasciateCIEntrare al Cpr di Ponte Galeria a Roma, poi un successivo tentativo andato a vuoto in quanto era stato impedito l’accesso alla consulente. A detta dei responsabili della vigilanza del centro la suddetta non risultava fra i collaboratori del senatore e in quanto tale non poteva entrare. De Falco è poi andato nel Cpr di Milano, restandoci, con due esperte in materia, in un week end ad inizio giugno. Dalle complessive 13 ore di visita è scaturito un dossier dal titolo Delle pene senza delitti, estremamente puntuale di cui si sta curando la distribuzione. Il titolo è in riferimento al famoso testo di Cesare Beccaria, con l’aggravante che, nel caso della detenzione amministrativa, si privano le persone della libertà personale senza che queste abbiano commesso reati. Si tratta di un testo corposo, 90 pagine, pieno di dati, storie e che offre uno spaccato analitico di quelle che sono le criticità del centro. Il testo è stato presentato ufficialmente in Senato, nella Sala Nassirya, giovedì 9 settembre.

Due giorni prima, martedì 7, si è tenuta una conferenza stampa alla Camera organizzata da Rifondazione comunista che ha visto la presenza del senatore De Falco e della collega Paola Nugnes e delle parlamentari del gruppo misto Doriana Sarli e Yana Ehm. L’onorevole Ehm ad inizio agosto, preavvisando con anticipo, era andata in visita nell’altro nuovo Cpr, quello realizzato utilizzando l’ex carcere mandamentale di Macomer (Nu). La situazione che ha visto e descritto, estesa all’intero sistema è netta: «I problemi sono chiari, limpidi, agghiaccianti. Li conosciamo, li sappiamo? Fin troppo bene, sapendo altresì che non abbiamo creato una soluzione. E non lo dico io, ma lo stesso garante nazionale, che in un rapporto dettagliato sui Cpr ne mostra le immense lacune, le inefficienze del sistema, i rischi sui diritti degli “ospiti” detenuti. […] Un sistema insostenibile dal punto di vista umano, sociale, ma anche economico. Le spese di gestione, per queste carceri del Terzo millennio, sono ingenti, ma i risultati sotto i nostri occhi. Il mio giudizio non può che essere complessivamente negativo e, aggiungo, chi sostiene un simile sistema dovrebbe solo vergognarsi». Mentre scriviamo dalla prefettura di Gorizia è giunto il divieto di ingresso ad un giornalista che intendeva entrare nel Cpr di Gradisca D’Isonzo. La motivazione addotta sono le restrizioni dovute alla pandemia. Attendiamo risposte da Torino, Roma, Macomer e Milano e se le istituzioni non intendono porre l’ennesimo divieto ci auguriamo che i parlamentari che si sono dimostrati sensibili al tema facciano risuonare la propria voce.

Ma quella dei diritti violati nei Cpr, come dicevamo, è una questione annosa. Nei dieci anni trascorsi dalla circolare del governo Berlusconi che ne limitava l’accesso a giornalisti ed attivisti, la possibilità di entrare in tali strutture – per loro natura irriformabili – è stata costantemente limitata da decisioni prese da prefetture e dal ministero competente. Per una fase sembrava che i centri dovessero essere destinati a sparire in quanto dimostratisi fallimentari anche per gli stessi scopi che ne avevano determinato la realizzazione: espulsione degli “irregolari” e limitazioni alle libertà di spostamento nell’area Schengen. Alcuni erano stati chiusi in seguito a rivolte o a casi di gestione indifendibili col risultato che già quando nel 2017 hanno cambiato nome (decisione del ministro Minniti), erano arrivati a contenere complessivamente meno di 500 persone. Negli ultimi anni si è rinvigorita la necessità – tutta propagandistica – di riaprire centri chiusi se non crearne nuovi. È tornato ad essere Cpr (dopo essere stato hotspot) il centro di Trapani, hanno riaperto quelli di Milano, Caltanissetta, Palazzo San Gervasio (Pz), ne è stato inaugurato uno “tutto nuovo” a Macomer, nel nuorese e altri sono in progettazione. In tutto questo percorso la politica è stata pressoché assente. Sono morte nei centri persone (Bari, Torino, Gradisca D’Isonzo) eppure poca o scarsa attenzione è stata riversata sul funzionamento di queste strutture detentive. La pandemia ha poi contribuito a far finire nel dimenticatoio la loro esistenza. Entrare nei centri era diventato pressoché impossibile per evitare i contagi, non solo a chi voleva rendersi conto della situazione ma anche a parenti e avvocati dei trattenuti.

 

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