Home Blog Pagina 369

Falsa ripartenza

Obbligo di mascherine in classe sì o no, Green pass per il personale scolastico sì o no. Sono queste le discussioni che hanno catalizzato il dibattito pubblico a proposito della riapertura delle scuole. Ma si tratta davvero delle questioni più urgenti da affrontare? Secondo ragazze e ragazzi dell’Unione degli studenti, associazione di sinistra impegnata in molte scuole superiori di tutto il Paese, non è così.
«Lo scorso anno il dibattito era tutto schiacciato sui banchi a rotelle, questo anno sul Green pass, senza che si parli di cosa significa davvero tornare a scuola in un periodo di pandemia», dice Antonia Melaragni, studentessa liceale de L’Aquila e coordinatrice Uds per l’Abruzzo.

«Il nostro sforzo è quello di spostare il focus. Si parla solo di “certificazione verde” e di no-vax. Sul tema dell’importanza del vaccinarsi, noi alunne e alunni delle superiori, che non studiamo medicina, abbiamo poco da dire e ci rimettiamo a quanto dice la comunità scientifica. Che il vaccino stia rallentando la pandemia è un dato oggettivo. Per questo riteniamo che concentrarsi sul dibattito sì-vax / no-vax, sia controproducente e dannoso, perché finisce col dare visibilità a questi ultimi e oscura altri problemi», aggiunge Simone Botti, rappresentante dell’Uds di Milano e studente liceale al Parini.

Anche perché, torna a dire Melaragni «i giovani si sono vaccinati, e se alcuni non lo hanno fatto, spesso per volere delle loro famiglie, la responsabilità è anche del governo e di come ha gestito la comunicazione sull’immunizzazione in questi mesi». Inoltre, secondo gli studenti, concentrarsi solo sul vaccino rischia di farci dimenticare delle altre misure di prevenzione. «Riteniamo importante che si possa accedere al più presto a tamponi gratuiti», prosegue Melaragni, e a chi (anche dal centrosinistra) addita eventuali test gratis come un incentivo ad ottenere facilmente il Green pass senza inoculazione – in sintesi: a non vaccinarsi -, risponde: «Potersi tamponare gratuitamente è importante anche per il fatto che il vaccino anti-Covid non assicura al 100% di non contagiarsi. Ad oggi il tampone deve essere considerato essenziale ed accessibile a tutti, non regge il discorso di chi vorrebbe mantenerli a pagamento».

Insomma, i problemi del rientro in sicurezza in aula vanno ben oltre le modalità di utilizzo del Green pass. «La nostra preoccupazione, ad esempio, è che nonostante tutto si possa tornare alla didattica a distanza all’arrivo della prima variante del virus, perché di fatto i cambiamenti strutturali nelle scuole superiori sono stati pochi», spiega Botti. Le criticità principali individuate ad inizio pandemia, dicono gli studenti Uds, sono state affrontate in modo assai marginale, se non proprio ignorate. Slogan e promesse, in gran parte, sono rimaste lettera morta. Anche per questo lo spauracchio della Dad lungi dall’essere archiviato.

«Sui trasporti, a livello regionale e provinciale, a parte alcune eccezioni, è stato fatto poco, ancora non sono sicuri. A Milano la metà degli studenti affluisce dalla provincia, e la situazione dei mezzi è rimasta pressoché la stessa. Molti sono privati, poi, e sono insufficienti gli strumenti per chi studia per potervi accedere a prezzi calmierati», afferma Botti. Poi, aggiunge, «c’è la questione…»…


L’articolo prosegue su Left del 10-16 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Difendiamo il diritto alla conoscenza

La cultura come opposizione al “mondo del nulla”. Sono più o meno queste le parole – durante una puntata di Tutta la città ne parla su Rai Radio 3 dedicata alla riapertura delle scuole – di Eugenia Carfora, una dirigente scolastica di Caivano (Napoli), territorio in cui l’istruzione rappresenta un solido argine contro il dilagare della crisi economica e sociale che porta i giovani ad essere potenziali prede delle reti criminali. Ascoltando le parole appassionate della preside, l’immagine che emergeva era quella di una scuola come avamposto di diritti, di conoscenza, di saperi, di relazioni, di crescita e di emancipazione, individuale e collettiva. Un luogo di liberazione da contesti che opprimono l’identità delle persone. Questo è un aspetto che perlopiù sfugge a quelli che amano discettare di soft skills, test Invalsi o di ritorno alla “scuola com’era”.

La povertà educativa nel nostro Paese è un fenomeno grave e non riguarda solo le aree marginali, come testimoniano le inchieste e le attività di Save the children di cui Left spesso ha parlato. Tanti comitati, tante associazioni, tanti movimenti e tanti insegnanti in questi anni, e soprattutto durante la pandemia, hanno denunciato le diseguaglianze che in Italia vengono vissute fin dalla primissima infanzia. A partire dagli asili nido, pressoché inesistenti al Sud o nelle aree interne del Paese. E se si parla di disparità, come non ricordare quelle incontrate a scuola dai bambini e dalle bambine di origine straniera a cui le destre continuano a negare pervicacemente il diritto di cittadinanza? Lo ius culturae, invece, come sottolinea in questo numero il linguista Luca Serianni intervistato da Pierluigi Barberio, è ormai una priorità e necessità sociale.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, alla voce della Missione 4 “Istruzione e ricerca”, prevede uno stanziamento complessivo di 31,9 miliardi di euro, con interventi che vanno dall’edilizia scolastica all’estensione del tempo pieno. È una grande occasione per ricostruire un sistema scolastico devastato da decenni di tagli di risorse (da parte di governi di centrodestra e centro-sinistra), di accanimento sugli insegnanti resi sempre più precari e di disinteresse per gli studenti ridotti a compilare quiz o catapultati nell’alternanza scuola -“lavoretti”. “Serve un’idea di scuola”: è una frase che da anni ripetono i più sensibili al problema della difesa della formazione laica, pubblica e democratica. Mai queste parole sono state così dense di senso come adesso, al terzo anno scolastico sotto la pandemia. Che è stata, ricordiamo, una cartina di tornasole dei problemi esistenti da tempo, facendoli esplodere in modo drammatico. E dimostrando come la scuola sia essenziale anche nel suo essere socialità, condivisione, rapporti umani.

Come ripartire il 13 settembre? E con quale idea di scuola? Nelle pagine di Left si alternano le voci degli studenti a quelle degli insegnanti, dei sindacalisti, degli storici e degli psicologi. Una ricerca corale che considera la scuola come «un laboratorio di ricerca», per citare le parole di Alessia Barbagli, curatrice di un originalissimo libro (Scrivere per resistere. Il Decameron ai tempi del Covid, L’Asino d’oro) che racconta l’umanità, la resistenza e la creatività di una classe di seconda media sotto la pandemia. L’esempio di un fare scuola – e per fortuna ce ne sono tantissimi in Italia – che è continua ricerca, invenzione, rapporto e cooperazione. E soprattutto è difesa a oltranza di quel diritto che in questo momento storico, tra inconsulte spinte antiscientifiche e bassi revisionismi storici, non deve essere assolutamente negato ai bambini e ai ragazzi: il diritto alla conoscenza.

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—


L’editoriale è tratto da Left del 10-16 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Nel quartier generale dei complottisti no vax

Mentre in Italia si discute l’ipotesi di rendere obbligatorio il vaccino contro il Covid-19, decine di migliaia di persone, da nord a sud e di ogni ceto sociale, si radunano virtualmente all’interno dei vari social network per organizzare il proprio dissenso contro quella che loro chiamano “dittatura sanitaria”. È Il popolo dei no vax e secondo lo studio ResPOnsE Covid-19 dell’Università di Milano, ad oggi conterebbe quasi il 3% della popolazione italiana, poco meno di 2 mln di persone. All’interno di questa galassia fra i gruppi più numerosi e meglio gestiti di oppositori alla campagna vaccinale e alle restrizioni messe in campo per contrastare il proliferare dei contagi c’è un esercito nascosto di oltre 15mila persone che si fa chiamare “Guerrieri Vivi”. Il loro motto riecheggia in molte chat e gruppi di complottisti italiani. «Noi invochiamo sotto questo simbolo la riunione di tutti gli uomini e donne con la mente e il cuore liberi, decisi a lottare in tutti i modi non violenti per il ripristino dei diritti fondamentali. Noi invochiamo la riunione di tutti coloro che rivogliono la libertà».

Il loro simbolo è una W rossa cerchiata che sfoggiano all’interno dei loro avatar, per riconoscersi quando “saltano” da un social all’altro. Si ritrovano principalmente su Telegram, un programma di messaggistica russo molto quotato perché consente di creare gruppi fino a 200mila utenti garantendo al tempo stesso una certa segretezza e anonimato; questo però finisce per attirare anche cellule terroristiche e organizzazioni criminali. Se non se ne conosce il nome preciso si accede a queste chat solo tramite invito di un altro utente. Noi ce lo siamo procurato. Appena entrati ci si rende subito conto che non è un normale gruppo di discussione, come ne esistono a centinaia sull’argomento, ma una vera e propria organizzazione propagandistica.
«Vi indicheremo come combattere una guerra non violenta, combatteremo insieme, mostrando a tutti la verità per il ripristino di ciò che è inconfutabilmente giusto. Vi mostreremo come la disobbedienza civile di fronte alla tirannia nazi sanitaria non è solo una possibilità ma un diritto», si legge nel messaggio di benvenuto che si ripete a ogni nuovo ingresso.
Quasi subito si viene indirizzati tramite iperlink a una chat satellite denominata “La via dei guerrieri vivi”. All’interno decine e decine di audio e…


L’inchiesta prosegue su Left del 10-16 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Come non raccontare un femminicidio

Ci risiamo. Stiamo sempre qui. Ogni volta che viene ammazzata una donna qualche giornalista non riesce a trattenere la propria goffa vanità da romanziere noir e non riesce a capire che minimizzare, normalizzare se non addirittura empatizzare con l’assassino sia il modo migliore per annacquare il problema.

Questa volta tocca a Brunella Giovara che su Repubblica ha scritto un articolo da pelle d’oca. Ma la pelle d’oca non è solo per l’ennesimo omicidio di una donna che paga la furia omicida di un uomo che voleva rivendicarne il possesso (Chiara Ugolini secondo gli inquirenti sarebbe morta per un tentativo di stupro del suo vicino di casa, uno di quei fascistelli che urlano in “difesa delle nostre donne” e poi le “nostre donne” se le vorrebbero mangiare) ma per un articolo che è una vergogna. Il pezzo parte con un «Bella, e impossibile. Alta, bionda, una ragazza che camminava serena incontro alla vita», perché non vorrete mai che venga a mancare l’ipersessualizzazione della vittima. Anche in questo caso la prima caratteristica di Chiara Ugolini è ovviamente il suo corpo, tanto per gradire.
Poi c’è la descrizione dell’assassino: «”Mi sono arrampicato sul suo balcone”, e se davvero è andata così, bisogna pensare a questa specie di scimmia cattiva che vuole sorprendere, violentare, prendersi la vicina di casa», scrive Repubblica. Avete capito bene? L’assassino non è un assassino, non si dice che è l’ennesimo uomo che odia le donne, non si dice che è un fascista e quindi violento, non si dice che è uno stupratore, no, no. È una «scimmia cattiva». E la giornalista ci tiene anche a dirci che Chiara Ugolini «gli diceva solo ciao, mai niente più», come se un eventuale interesse avrebbe potuto invece giustificare un omicidio.
Poi la giornalista ci dice: «Non è per amore dei particolari macabri che si scrivono certe cose, ma queste storie vanno capite bene, soprattutto se poi l’omicida cerca di sminuire la cosa, cercando di scampare all’ergastolo». E quali sono i particolari? «Dalla piazza si vede il lago di Garda, da qui no, solo un gran traffico di camper e roulotte, la fiumana dei turisti tedeschi che ama questa pace, l’acqua che scintilla al tramonto, gli ulivi, i cipressi. Anche Chiara amava questi posti, e per quanto la casa di Calmasino fosse provvisoria, lei sul balcone aveva le rose rosse, un vaso di fragole, la pianta di peperoncini, il tavolino e due sedie bianche, e l’edera, il rosmarino. Tutto è rimasto così, se ci si sporge un po’ dal pianerottolo delle scale si vedono bene gli avanzi di questa vita felice»: in occasione del 70esimo femminicidio dall’inizio dell’anno siamo ancora qui, a descrivere i luoghi come in un depliant turistico.
E poi: «Si è fatta una doccia, si è rivestita, gli slip, un top a coprire il reggiseno», perché un po’ di morbosità non guasta mai. La giornalista ci tiene a scrivere anche che «Magari ha anche dato da mangiare al cane, in cucina», come se fosse utile per le indagini, o chissà per cosa. E poi c’è il solito strabismo, ci si impegna a dire che Chiara era una gran lavoratrice («lavorava nel negozio di abbigliamento e scarpe del futuro suocero, nel centro storico di Garda, a un quarto d’ora da casa. Su e giù, tutti i giorni, anche domenica scorsa, perché questa è la stagione d’oro»), studiosa, «Chiara era diffidente, se qualcuno suonava alla porta chiedeva sempre chi era. Non apriva facilmente, era una con la testa sul collo»: insomma, l’importante è non avere dubbi sul fatto che possa essersela cercata.
Il 27 novembre del 2017 venne firmato in collaborazione con il Ministero alle pari opportunità un manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parita’ di genere nell’informazione. I punti erano:

1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;

2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;

3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;

4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;

5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;

6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;

7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere;

8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;

9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle donne;

10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.

Ognuno tiri le proprie conclusioni.

Buon giovedì.

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

The Last Twenty, come dare voce agli ultimi Paesi della Terra

File photo dated 08/04/12 of a man places his hand on the parched soil in the Greater Upper Nile region of north-eastern South Sudan, Africa, as experts have published a short guide to climate science to help people challenge claims about global warming made by the "ill-informed pub bore or the family know-it-all". PRESS ASSOCIATION Photo. Issue date: Thursday December 11, 2014. Climate scientists at the Royal Society have produced the guide with 20 short questions and answers addressing some of the most common assertions which they say are made by people who dismiss the scientific basis of climate change. It include questions over how scientists know recent climate change is largely caused by human activities, the role the sun plays in warming and whether "disaster scenarios" like the Gulf Stream switching off are a cause for concern. It also addresses issues raised by sceptics such as why Arctic sea ice is melting but Antarctic ice is not, and whether the slowdown in warming means that climate change is no longer happening. See PA story ENVIRONMENT Climate. Photo credit should read: Julien Behal/PA Wire Lapresse Only italy

Mentre si susseguono a ritmo spedito gli appuntamenti del G20 a presidenza italiana, va avanti con determinazione la marcia partita da Reggio Calabria nei giorni 22/25 luglio. I temi sono gli stessi ma affrontati con un approccio totalmente differente, attraverso lo sguardo di occhi capaci di raccontare la sofferenza ma anche le conoscenze, le competenze e la cultura degli ultimi del mondo. I 20 ultimi Paesi del nostro pianeta, secondo gli indicatori statistici internazionali, meritano una narrazione nuova, che parta dalle virtù e le competenze di questi popoli che nelle dinamiche internazionali sono considerati i più deboli.

The Last Twenty, i L20
Non poveri, ma impoveriti dalle politiche predatorie, dalle guerre di posizionamento geo-strategico e con tutte le connesse, disastrose implicazioni. A cominciare dall’immorale commercio e traffico di armi messo in atto dalle grandi potenze mondiali del G20 e dalla indecente tolleranza delle stesse del traffico di esseri umani. Ed ancora, impoveriti dall’assalto alle loro risorse naturali, dallo sconvolgimento climatico, dall’inaridimento del suolo, e da sistemi economico produttivi lesivi dei diritti delle comunità.
A Roma nei giorni 10,11 e 12 settembre (all’Università degli Studi Tor Vergata) avrà luogo la seconda tappa del percorso partito a luglio da Reggio Calabria, con i temi dell’immigrazione, dell’accoglienza, dei corridoi umanitari, dell’inclusione, lo sviluppo locale e il ruolo delle reti dei comuni solidali e della cooperazione decentrata.
La tappa romana sarà incentrata sulle cause dell’impoverimento nei Paesi Last 20 e i percorsi d’uscita dal punto di vista degli “ultimi”.

In sei nutrite sessioni saranno affrontati i temi dell’insicurezza alimentare, la povertà, la fame, la condizione femminile. Saranno indicati e discussi possibili e praticabili percorsi di “fuoriuscita” dalle sconvolgenti condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, in una terra fatta di saccheggi e sprechi che comportano malattie, fame e morte per milioni di esseri umani.
Un mondo in cui, come è apparso chiaro nel pre-vertice Fao di Roma «a dispetto dei propositi sbandierati al punto 2 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, la fame globale è tornata a crescere. E ciò dopo anni di globalizzazione di stampo liberista che ha diffuso e incrementato distorsioni, senza offrire soluzioni definitive». Pochi giorni fa è stato pubblicato un rapporto che rilancia l’allarme sull’aumento critico della fame nel mondo, soprattutto in Africa, dopo anni di stallo». (Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale di Society for international development).

Aumentano malnutrizione e fame mentre le grandi multinazionali dell’agri-business continuano ad imporre sistemi e modelli di produzione e di consumo lesivi dei diritti delle comunità, dell’equilibrio ambientale, dei diritti di milioni di lavoratori agricoli. Cresce una nuova e feroce condizione di schiavitù a scapito di sistemi produttivi e di consumo delle tante piccole e medie realtà locali legate ad un positivo rapporto con la terra, la natura e le persone.

Un mondo, quello dei Last 20, che ci pone in maniera drammatica di fronte a livelli intollerabili di schiacciamento della condizione femminile e dei diritti. Il recente ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan dopo vent’anni di una sciagurata guerra, è l’emblema ultimo delle logiche che guidano gli interventi della più grande potenza del mondo e dei suoi alleati economici e militari, nei confronti dei territori ritenuti strategici per affermare e mantenere il proprio dominio geo-politico. Interventi che sono la causa incontestabile dell’impoverimento, della fame, della disperazione, della fuga di un intero popolo al quale i G20 elargiranno i tradizionali “aiuti umanitari”, gran parte dei quali finiranno nelle mani delle bande, delle milizie e delle mafie locali.

Tutto ciò rende evidente che una parte del mondo, il 33% della popolazione mondiale, che vive le peggiori condizioni di povertà ed emarginazione, non viene presa in considerazione. Inoltre in essa la parte sottoposta alle peggiori condizioni, le donne, i bambini, le persone più fragili, è costretta in condizioni insostenibili.
Noi, come abbiamo scritto nel documento che ha dato il via alla costruzione del Comitato e al percorso “The Last Twenty”, pensiamo che “questo non sia giusto” e che le azioni finora messe in atto dalle grandi potenze mondiali non contribuiscano assolutamente ad affrontare e risolvere le grandi sfide del nostro tempo.
Riteniamo che sia necessario un riequilibrio sia territoriale che sociale, una convergenza che superi le attuali crescenti diseguaglianze. Un riequilibrio nel rapporto tra la società umana e la natura, un riequilibrio nel rapporto tra economia reale e finanza.

Un riequilibrio nell’orizzonte di un mutamento di sistema, che diventa sempre più urgente a causa della pandemia che attanaglia il mondo, che faccia leva sulla visione, la cultura, l’intelligenza, le esperienze, le competenze misconosciute delle popolazioni dei Paesi cosiddetti ultimi.
Per queste ragioni abbiamo dato vita al percorso dei Last 20, degli ultimi Paesi della terra per reddito, qualità della vita, condizioni socio-sanitarie ecc.
Crediamo inoltre che per affrontare in maniera adeguata questi problemi sia necessaria l’analisi e la lettura degli stessi da parte di chi ne sopporta sulla propria pelle le conseguenze più dure.

Per questo abbiamo incentrato la costruzione di questo percorso, in generale e nello specifico della tappa romana, sul protagonismo e la voce delle comunità delle diaspore dei Last 20 che vivono in Italia. Sulle testimonianze delle personalità che sono riuscite a raggiungerci da quei Paesi, sulle pratiche e le analisi di diverse Ong impegnate da anni nelle aree e nei Paesi più in difficoltà. Ancora, sull’apporto di studiosi, associazioni, istituzioni e personalità del mondo dei G20 impegnate, in tale direzione.
La prima sessione esprime chiaramente questa scelta.
L’intento dichiarato è di mettere un altro tassello alla costruzione di una rete e di un percorso che dovrà continuare nel tempo.

Il programma della tappa romana

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Afghanistan: che fine hanno fatto i bambini?

A child plays with a ball at the Sigonella NATO Airbase, Italy, Wednesday, Sept. 1, 2021. While a group of Afghan evacuees was boarding a plane headed to the US on Wednesday, children at the Sigonella NATO Airbase in Italy were walking around or playing with a ball patiently waiting for their turn to start a new life, just a few days after massive international airlift operations to evacuate locals at risk ended on Monday as the last American soldiers left Kabul airport.(AP Photo/Giuseppe Distefano)

Le scene dell’aeroporto di Kabul hanno fatto il giro del mondo. I bambini passati di mano in mano, con i genitori che accettavano lo strappo pur di salvarli. Di bambini poi si sono riempiti la bocca tutti, perfino i più sovranisti dei più destrorsi sovranisti, quelli che ci dicevano che bisognasse “salvare i bambini” e noi ci siamo permessi fin dall’inizio di fare notare che dividere le famiglie fosse davvero un modo discordante con la sacralità della “famiglia tradizionale” che proprio loro continuano a cavalcare.

Ma che fine hanno fatto i bambini? L’Unicef e i suoi partner hanno registrato circa 300 bambini non accompagnati e separati evacuati dall’Afghanistan. Ma sono numeri assolutamente precari, destinati a crescere mentre proprio in questi giorni sono in corso le identificazioni. Parliamo di circa 300 bambini che non hanno accanto a loro nessun legame famigliare, vulnerabili e scossi. Per questo Unicef ieri ha raccomandato che «durante i processi di tracciamento e ricongiungimento, i bambini dovrebbero ricevere un’accoglienza alternativa sicura e temporanea, preferibilmente con parenti o in un contesto familiare. La collocazione all’interno di centri di accoglienza dovrebbe essere l’ultima risorsa, e solo temporanea».

Dice Henrietta Fore, direttrice generale del’Unicef: «I governi dei Paesi in cui si trovano i membri della famiglia di bambini separati e non accompagnati dovrebbero cooperare e facilitare il ricongiungimento e percorsi migratori sicuri e legali per questi bambini, se ciò è nel superiore interesse del bambino. La definizione di membri della famiglia dovrebbe essere abbastanza ampia affinché i bambini non accompagnati possano essere affidati in sicurezza a parenti che si prendano cura di loro. Allo stesso modo, i bambini che viaggiano con adulti di fiducia dovrebbero rimanere con loro se ciò è nel loro superiore interesse. Separare i bambini da adulti che conoscono e dai quali ricevono cure potrebbe causare ulteriori problemi. Tutti i bambini hanno il diritto di stare con le loro famiglie. Le parti coinvolte nell’evacuazione e nell’accoglienza delle persone che fuggono dall’Afghanistan dovrebbero compiere ogni sforzo per evitare la separazione delle famiglie in primo luogo. Questo significa assicurare un adeguato coordinamento tra gli attori civili e militari, stabilire una registrazione di base dei bambini e delle famiglie, e verificare le liste di volo».

La solidarietà non si decanta, la solidarietà si attua mettendo in campo tutti gli strumenti a disposizione. Ora, passati i giorni convulsi dell’assalto all’aeroporto per la fuga, è il tempo di stabilire le priorità e di trovare le soluzioni. Quei bambini (così come tutti gli afgani) non durano il tempo utile per essere filmati in qualche servizio di un telegiornale ma esistono anche (e soprattutto) dopo, mentre soggiornano in centri di accoglienza senza avere la bussola per immaginare una ricostruzione affettiva. Non è un questione di bontà, è quello che si deve fare. A proposito: in Afghanistan più di 550mila persone sono state sfollate a causa del conflitto e 10 milioni (10.000.000) dei bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria. Il dolorosissimo disastro è qui, ora, sotto i nostri occhi.

Buon mercoledì.

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

L’antifascismo è questione di sostanza non di forma

ROME, ITALY - NOVEMBER 16: Students demonstration against cuts decided by the government in terms of education and research, and to denounce the dilapidated situation of construction and early school leaving on November 16, 2018 in Rome, Italy. Thousands of students took to the streets to demand more resources for the right to study , quality of education and to protest against the financial law of the Government which takes away funds from education and school construction. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

È ormai innegabile che in questo Paese essere antifascisti non è più fatto scontato, anzi, sta diventando, ogni giorno che passa, fatto identitario e, forse e finalmente, una dichiarazione non più suscettibile di letture scolorite e annacquate dall’opportunismo di maniera proprio del ceto politico italiano degli ultimi decenni. Mai come adesso, almeno se restiamo sul terreno dell’immaginario, simbolico e/o storiografico, le due parti “in lotta” sembrano chiare e riconoscibili. Un esempio su tutti: alla richiesta (accolta obtorto collo) delle dimissioni di Claudio Durigon (che, ricordiamolo, in veste di sottosegretario del ministero dell’Economia aveva avanzato la proposta di reintitolare un parco a Latina a un personaggio coinvolto secondo molti storici nel delitto Matteotti nonché fratello del duce del fascismo, tal Arnaldo Mussolini) ha fatto immediatamente seguito la richiesta (irricevibile) delle dimissioni di Tomaso Montanari, neo rettore dell’Università per stranieri di Siena, a causa delle sue affermazioni, storicamente supportate, sulla moda revisionistica e sull’uso politico del dramma delle foibe, da parte della destra italiota in odor di neofascismo.

Tuttavia, la momentanea soddisfazione data dal veder i due campi, un tempo contrapposti, esserlo di nuovo e senza apparenti infingimenti, se grattiamo un po’ la superficie delle cose, svanisce come…


L’articolo prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La distopia del reddito di cittadinanza

Ci risiamo, siamo sempre qui. Anche durante l’annuale Forum Ambrosetti abbiamo assistito agli strali contro il reddito di cittadinanza, ovviamente sempre basandosi su una visione pervertita della realtà e ovviamente fottendosene bellamente dei dati. Sia chiaro: il reddito di cittadinanza è una legge che come tutte le leggi è migliorabile se non addirittura sostituibile con misure più efficaci. Il punto sostanziale però rimane sempre lo stesso: gli imprenditori che sono contro i sussidi ai poveri vedono come unica soluzione quella di deviare i sussidi ai ricchi (e loro, chiaro, si credono i ricchi) quindi sostanzialmente vorrebbero intascarsi i soldi dei poveri con la promessa di ridistribuirli. Sì, ciao. 

Il colpo grosso l’ha lanciato Giorgia Meloni (che sarebbe l’autentico Salvini di cui preoccuparsi, più di Salvini, ma tardiamo a rendercene conto) con il suo paragone tra reddito di cittadinanza e metadone, roba da brividi se dalle nostre parti ci fosse ancora un minimo di senso della decenza e della misura. Ma del resto vince chi urla l’urlo più urlato e Meloni sa bene come conquistarsi qualche titolo che mandi in sollucchero i suoi tifosi. Poi è arrivato il presidente di Brembo che ci ha deliziato dicendo “certo che credo alla gente che preferisce prendere il reddito e stare sul divano piuttosto di lavorare” raccontando di avere incontrato agricoltori (in vacanza, eh) che si lamentano di non trovare chi raccoglie “pomodori e angurie a causa del reddito”. Poi, ovviamente, ci ha detto che “non si trovano lavoratori stagionali”, riprendendo un refrain che ormai funziona tantissimo. Del resto già il 14 maggio il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca (uno che ogni volta che apre la bocca accende l’incresciosa domanda del perché non stia in una parte politica più consona al suo bullismo politico) disse “Alcune attività non apriranno perché non si trovano più camerieri. Non si trova personale stagionale: è uno dei risultati paradossali dell’introduzione del reddito di cittadinanza“.

Peccato che l’affermazione sia completamente falsa come certificano i dati amministrativi dell’Inps che raccontano tutt’altra realtà: a maggio sono stati attivati la bellezza di 142.272 rapporti di lavoro stagionali. Quasi il doppio rispetto al 2017 e 50mila in più sia rispetto al 2018 – prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza – sia rispetto al 2019. Una ricerca d’archivio conferma che si tratta di un record da almeno otto anni a questa parte (le serie arrivano fino al 2014). E di solito il boom di stagionali si registra a giugno, all’inizio della stagione estiva, mentre quest’anno è arrivato addirittura in anticipo. Il saldo annualizzato, cioè la variazione tendenziale delle posizioni di lavoro negli ultimi 12 mesi, ha fatto registrare una crescita pari a +560mila, frutto soprattutto di un saldo positivo dei contratti stabili (+184.000), ma anche di quelli a tempo determinato (+169.000), in somministrazione (+110.000), stagionali (+91.000) e intermittenti (+8mila).

Del resto Riccardo Illy, con evidente onestà intellettuale, dice che “i dati sono chiari, l’incidenza del reddito sulla carenza di manodopera è praticamente nulla” e l’imprenditrice Luisa Todini (che opera nel settore alberghiero) riconosce che se sommiamo “la disponibilità del reddito di cittadinanza all’interesse di molti imprenditori di pagare i lavoratori in nero, la miscela diventa esplosiva”. Nessuno invece ha la santa pazienza di chiedere ai nostri imprenditori come sia successo che negli ultimi 10 anni siamo passati da 400 contratti ai 980 di oggi, pseudocontratti che sono stati utili per parcellizzare i diritti, sostanzialmente annacquandoli. 

Come ricorda Pasquale Angius “Nel 123 a.C., nell’antica Roma, il tribuno della plebe Gaio Sempronio Gracco fece approvare una legge che obbligava lo Stato a fornire a un prezzo fisso, molto basso, di sei assi e un terzo, a ogni famiglia grano sufficiente per produrre ogni mese 45,3 chili di pane, all’incirca un chilo e mezzo al giorno”. Solo per dire come le misure di sostegno al reddito esistano da sempre nonostante qualcuno finga di non saperlo. Sarebbe anche utile ricordare che entro il primo anno e mezzo dall’introduzione del reddito di cittadinanza uno su quattro dei beneficiari aveva trovato un lavoro, il 65% a tempo determinato. Lo ripetiamo ancora una volta: che le misure di contrasto alla povertà siano cosa diversa dalle politiche attive per il lavoro lo sanno anche i sassi ma che le une debbano pagare le altre è qualcosa che grida vendetta. Anzi si potrebbe anche notare che poca attenzione viene data al fatto che i limiti per i cittadini non italiani siano fin troppo stringenti (e qui sento già le unghie dei “non sono razzista ma” che graffiano) tenendo conto che un terzo delle famiglie di stranieri residenti in Italia vivono in povertà e, tra l’altro, in molte di quelle famiglie ci sono dei minori e che la soglia dei 10 anni di residenza in Italia per accedere al reddito è stato un gradito regalo a Salvini. 

Sempre come ricorda Pasquale Angius “secondo una recente ricerca il 55,2% delle persone che nel 2019 si sono rivolte alla Caritas per ottenere pasti e prodotti alimentari gratuiti avevano percepito il reddito di cittadinanza. Questo dato ci dice in sostanza che chi percepisce quel beneficio appartiene a categorie sociali vulnerabili, e spesso le poche centinaia di euro del reddito non sono sufficienti, soprattutto per le famiglie più numerose”. 

Questa è la realtà. È benvenuta qualsiasi opinione, anche contraria, al reddito di cittadinanza ma per favore rimaniamo nella realtà, non insceniamo una dolorosa distopia. 

Buon martedì. 

 

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Il ministero della finzione ecologica

Le parole del ministro Cingolani hanno aperto la discussione. Bene così, era esattamente quello che voleva il ministro: i portavoce delle lobby (anche se sono travestiti da ministri o da presunti leader politici) introducono il tema a loro caro con una mezza provocazione, poi dicono di non essere stati capiti, poi aggiungono che comunque è sempre il caso di dibatterne serenamente, poi dicono di non alzare troppo i toni (e fa niente se i toni poco opportuni li ha usati proprio Cingolani) e infine si prendono le pacche sulle spalle per essere riusciti a rendere quasi potabile l’innominabile. E Cingolani, guarda un po’ ha fatto proprio così. 

E allora vediamoli questi “reattori” che Cingolani ci invita a studiare. Studiamoli. Dieci anni fa Berlusconi firma un memorandum con Sarkozy (lo sta ricordando in questi giorni Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, uno di quegli ambientalisti che irritano il ministro della finzione ecologica) «per costruire 4 reattori Epr in Italia. Dieci anni fa erano in costruzione due di questi reattori, uno in Finlandia a Olkiluoto e uno in Francia a Flamanville. Oggi sono ancora in costruzione a costi quadruplicati rispetto al budget. L’azienda proprietaria della tecnologia, la francese Areva, impegnata nel cantiere finlandese, è fallita».  Negli Usa non è andata meglio: l’investimento sul nucleare voluto da Bush nel 2001 (i reattori AP1000) prevedeva la costruzione di 4 reattori che ora sono diventati 2 mentre i costi si sono moltiplicati in modo esorbitante e l’azienda proprietaria della tecnologia, la nippo-americana Toshiba-Westinghause, è fallita nel 2017. Forte questo futuro, eh?

Dopo l’incidente di Fukushima, ad esempio, si è scoperto che il reattore in costruzione a Flamanville, dove sta la centrale nucleare francese, avrebbe avuto le stesse vulnerabilità del reattore francese. Tant’è che l’azienda francese proprietaria degli impianti in Uk ha dovuto coinvolgere un partner cinese al 33%, la Cng, per distribuire i rischi. 

Qualcuno in questi giorni dice che il nucleare abbasserebbe i costi. Benissimo. Si potrebbe ad esempio leggere ciò che scrive l’Agenzia internazionale dell’energia a Parigi (quelli che per vent’anni hanno consapevolmente sminuito le rinnovabili) che alcune settimane fa ha scritto nero su bianco che l’energia solare è la fonte più economia mai prodotta. 

Si sa però che Cingolani, ce lo ricordiamo bene, aveva promesso un 72% di elettricità prodotta da rinnovabili entro il 2030 e sul tema si scorge ben poca mobilità del governo. Sia chiaro: esistono tecnologie allo studio di un nucleare che potrebbe essere sicuro e meno impattante, sarebbe miope e stupido negarlo, ma quello che continua a mancare sul tavolo sono le soluzioni che possono svoltare una crisi ambientale (che guarda caso viene negata dagli stessi che applaudono Cingolani) che richiede interventi tempestivi. 

A proposito: dice il ministro che lui deve rispondere “solo a Draghi”. Eh, no: deve rispondere ai cittadini. E deve spiegarci per bene anche il perché di certe sue uscite. A noi interessa lui, quello che ha in testa nel suo importante ministero, molto di più dei mini reattori di nuova generazione. 

Buon lunedì. 

(nella foto il ministro della Transizione ecologica Cingolani e una immagine di repertorio della centrale di Fukushima)

Dio è morto, viva l’arte

Chissà come avrebbe reagito Lucio Fontana nel vedere la sua Fine di Dio esposta in una cappella, per quanto oggi faccia parte di un complesso universitario distaccato dell’Università Orientale di Napoli

Accade nella splendida isola di Procida (capitale della cultura 2022) dove dal 2 al 5 settembre si svolge la mostra di arte diffusa Panorama curata da Vincenzo de Bellis (direttore associato e curatore per le arti visive del Walker art center di Minneapolis).

Una provocazione? Piuttosto, oseremmo dire, una plastica dimostrazione della forza dirompente dell’arte di Fontana capace di risemantizzare e di umanizzare anche un contesto “sacro”.

La forza del colore, lo squillante verde mela di questa opera, tassello fondamentale della omonima serie del ’63-’64, la potenza di quest’immagine che evoca la nascita appaiono dirompenti sulle bianche pareti di Santa Maria Regina della Purità nel complesso dell’ex Conservatorio delle orfane a Terra Murata.

Questa installazione di Tornabuoni arte (che insieme alla rete di gallerie Italics ha promosso questa esposizione) ci ha spinto ad andare a curiosare nella storia critica di questo ciclo di opere che segnò la maturità di Lucio Fontana: nell’Italia democristiana di allora l’artista italo argentino osò un titolo che da molti fu giudicato blasfemo. Tanto che la galleria dell’Ariete le espose senza citarne alcuno. Ma cosa di questa creazione faceva scandalo? Guardiamola più da vicino. La cifra di questa, come di tutta la trentina di opere astratte che compongono l’intero ciclo, è la misura in scala umana: 1,78 di altezza. Ciascuna di esse si presenta con un’enigmatica forma ad uovo, rastremata verso l’alto. Nel contesto dell’abside non può non richiamare alla mente l’uovo carico di simbolismi della Sacra conversazione di Piero della Francesca conservata a Brera. Ma qui non c’è l’intonsa e ideale perfezione dell’uovo appeso sopra la testa della Vergine.

L’opera ovoidale di Fontana, ricoperta da un pastoso strato materico appare felicemente profanata da buchi che aprono a una dimensione spaziale sconosciuta. Altre varianti de La fine di Dio sfoggiano perfino lustrini «come il corpetto di una ballerina», come notò Cesare Brandi, cogliendo l’aspetto femminile e carnale dell’opera.

Insomma la storia della ricezione de La fine di Dio ci dice che il suo aspetto dissacrante e insieme introspettivo fu a lungo oggetto di equivoci e malintesi. Basti dire che la galleria Marlborough propose a Lucio Fontana di esporre la serie a dicembre con il titolo Uova di Natale. Cosa che l’artista cercò in ogni modo di scongiurare perché per lui non si trattava affatto di un gioco, di uno sberleffo, al contrario quelle opere erano una faccenda molto seria. A seconda di come venivano illuminate, avvertiva l’artista, potevano avere anche rivelare un aspetto tragico. Fontana stesso le descrisse come «aperte sull’infinito, come una sfida a rappresentare la cosa inconcepibile».

Uno strumento prezioso per comprendere più a fondo la genesi di questo lavoro è Lucio Fontana. Fine di Dio di Enrico Crispolti (edizioni Forma-Tornabuoni Art) anche per l’ampia antologia critica. Ma per continuare la nostra ricerca ci siamo rivolti anche al critico Bruno Corà che di Lucio Fontana ha curato storiche mostre come quella del 1996 che al Museo Pecci di Prato faceva “dialogare” Burri e Fontana (proprio in questi giorni Corà è al lavoro alla Fondazione Burri per una nuova mostra dedicata al maestro umbro ad Alba che aprirà il 7 e 8 ottobre). Professore qual era il senso più profondo di questa potente e misteriosa creazione di questo grande Maestro dell’astrattismo? «Quello che posso dire è che quest’opera ha una valenza talmente emblematica che suscita molte riflessioni. Come lei sa l’uovo è una simbologia da sempre evocata dalla pittura, dalla filosofia come dalla scienza. Nell’iconografia – ricostruisce Corà – è emblema della perfezione, dell’origine della vita, rimanda al soprannaturale ma è anche simbolo cosmico». Pur conoscendo bene questa lunga e sfaccettata tradizione, Lucio Fontana però la rilesse in modo originale. «Lui aveva fatto propria questa forma e inferto i suoi drammatici fendenti attraverso un punteruolo, decretando la fine di quell’integrità che per tanti secoli ha rappresentato l’elemento strutturale di questa immagine». Anche in questo senso, il suo, è stato un gesto epocale, sottolinea il critico e curatore: «Quello sfondamento della tela segnava l’apertura di uno spazio inedito. La superficie della tela come emblema, come supporto dell’arte insieme al muro, aveva sempre rappresentato un cardine per i pittori. In quel modo Fontana concludeva una parabola temporale grandissima e avviava una nuova epoca». Anche prendendo spunto dagli avanzamenti della scienza?«Sì – risponde Bruno Corà – potremmo dire che Fontana apre alla civiltà del cosmo, a uno spazio diverso; apre la civiltà dei viaggi dell’uomo fuori del suo pianeta. È stata una grandissima intuizione. Ha cominciato con quello che lui definisce come concetto spaziale, il buco (nel 1949) e poi dieci anni dopo usa addirittura il taglierino e il coltello per fendere la tela. Sono i cosiddetti tagli del 1959. Questa opera è del 1963 e segna un passo ulteriore nella sua ricerca ma anche il declino della sua vita. Fontana morì 5 anni dopo, nel 1968. Dunque è sicuramente un’opera cardine, importantissima, nella maturità di questo Maestro».

Un anno dopo ci sarebbe stato il primo allunaggio. L’essere umano che esplora dimensioni nuove, che non ha più paura di varcare le colonne di Ercole, avventurandosi nel cosmo. Alludeva anche a tutto questo La fine di Dio? Sappiamo che Fontana era anche appassionato di fisica. «Non a caso creò i Quanta. In arte dette vita a una sperimentazione legata alla quantistica, Fontana non ignorava le novità della scienza. Con La fine di Dio, ribadisco, Fontana voltò una pagina importante della storia dell’arte – rimarca Bruno Corà -. In questo senso è molto innovativo. Ma non dimentichiamo anche il riferimento a Nietzsche. Lui per primo aveva detto che “Dio è morto”. Anche per dire che era finita una grande parabola civile, storica e ne cominciava un’altra, anch’essa sotto un segnale crepuscolare della civiltà».

Fontana fu certamente un innovatore radicale, ma non un iconoclasta, mantenendo sempre un fortissimo legame con la storia dell’arte. «Era un profondo conoscitore della tradizione di cui decretava la morte per creare il nuovo », commenta Corà. Prova ne è proprio la citazione del capolavoro di Piero della Francesca: «Ne La fine di Dio è chiarissimo il richiamo all’uovo sospeso della Sacra conversazione di Piero. Ma al tempo stesso quell’opera segnò la definitiva fine dell’arte come riproduzione della percezione retinica». Un percorso che era cominciato già nel 1945 quando in Argentina Fontana aprì allo spazialismo con il Manifesto Blanco. «Già lì lui diceva della necessità che l’arte sia suono, sia colore, sia spazio sia tutt’altro che raffigurazione mimetica o banalmente riproduttiva di quel che si vede. Fontana – spiega il professore – si rifà alla tradizione dei grandi maestri, primo fra tutti Cennino Cennini che nel Trecento diceva “dipingere è mostrare ciò che non si vede”, ciò che non appare, ma che si pensa. Poi l’ha ripetuto anche Leonardo che l’arte è materia del pensiero, viene dal pensiero, dall’intuizione non è imitazione, Fontana sviluppò quel pensiero lì». Lo fece in rapporto con gli artisti del passato ma anche con quelli delle generazioni successive. «Non c’è stato giovane che abbia varcato la soglia dello studio di Fontana per mostrargli un lavoro che non ne sia uscito con un acquisto fatto dal maestro. Fontana – sottolinea Corà – era solito aiutare i giovani artisti, ne apprezzava la qualità e il valore ed è sempre stato generoso con loro, li ha sostenuti e incoraggiati. Castellani, Manzoni, Dadamaino, sono artisti usciti dalla sua covata». Proprio in un’intervista rilasciata a Bruno Corà e pubblicata nel catalogo della mostra Burri e Fontana (Skira, 1996) Enrico Castellani con riconoscenza ricordava la generosità di Fontana. «Ma, ricordiamo, anche se Castellani riconobbe il valore del maestro Fontana – commenta oggi Corà – persisteva fra loro una diversità. Sta anche nel fatto che mentre Fontana faceva sulla tela una lacerazione, produceva una rottura irreversibile per alludere allo spazio altro, ad una quarta dimensione, Castellani invece con sollecitazioni e tensioni produceva modulazioni, estroflessioni e introflessioni ma diceva, se io smettessi di esercitare queste forze la tela tornerebbe ad essere integra come prima, perché lui non la rompe, non la strappa, non la buca, non la taglia, ma sollecita le forze del telaio sul davanti, per produrre una modularità, una sensibilità di superficie che prima la superficie non aveva»

 


L’articolo prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO