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La Dante’s renaissance è made in China

Mentre nel 2021 in Italia si commemorano i settecento anni dalla scomparsa di Dante, per la Repubblica popolare cinese è l’anno in cui il partito comunista cinese compie cento anni di vita. Grandi festeggiamenti di piazza hanno attirato sulla Cina l’attenzione del mondo intero. Ma questo è anche l’anno in cui si celebra un altro importante, seppur meno considerato, anniversario che lega questi due grandi eventi. Nel 1921, cento anni fa, a sei secoli dalla scomparsa di Dante, lo studioso cinese Qian Daosun dona ai cinesi la prima traduzione di tre canti dell’Inferno dantesco, primo passo di una lunga evoluzione degli studi danteschi in Cina, oggi percorsa da studiosi come You Yuze, dottoranda cinese presso l’Università La Sapienza di Roma che si sta occupando di analizzare la riscrittura dantesca dei miti ovidiani, in particolar modo su quelli relativi al rapporto conflittuale tra uomo e divinità, e che qui ci racconta del suo percorso nel mondo dantesco.

Come ti sei avvicinata alla cultura italiana e, nello specifico, a Dante?
La passione per la cultura latina e italiana è nata durante gli anni all’Università Zhongshan di Guangzhou, dove ho avuto modo di approfondire la mia conoscenza della cultura occidentale. All’epoca l’università offriva un percorso sperimentale di arti liberali che mi ha permesso di conoscere molto della cultura europea, dalla letteratura alla filosofia, tra cui anche la Divina commedia. Elaborando una tesi di laurea sull’Eneide di Virgilio mi è stato chiaro che avrei dovuto continuare il mio percorso in Italia, dove attualmente sto conseguendo un dottorato in Italianistica, alla Sapienza, dopo aver già ottenuto una laurea magistrale in Filologia classica. Il progetto attuale nasce come connubio tra l’interesse che ho per Dante e la naturale evoluzione dei miei studi universitari sul classicismo. Trovo Dante affascinante per il modo in cui ha saputo mantenere viva l’eredità classica, più di tanti suoi contemporanei, innovando al tempo stesso la letteratura italiana. Studiando Dante ho modo di approfondire tanto la cultura classica, tornando al mondo greco e romano, quanto quella medievale e le successive, che hanno tutte inevitabilmente subito l’influenza delle opere dantesche. Nonostante il classicismo sia stato la mia prima passione, ora funge più che altro da fonte per approfondire gli studi su Dante, per…


L’articolo prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

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Afghanistan, un popolo in trappola

TOPSHOT - Afghan people walk inside a fenced corridor as they enter Pakistan at the Pakistan-Afghanistan border crossing point in Chaman on August 25, 2021 following the Taliban's stunning military takeover of Afghanistan. (Photo by - / AFP) (Photo by -/AFP via Getty Images)

Muri o corridoi? Quale sarà la scelta dell’Ue e dei Paesi interessati rispetto alla ennesima e prevedibile crisi umanitaria che si è scatenata in Afghanistan? Ad oggi la risposta più probabile è che entrambe le opzioni verranno, in maniera diversa, utilizzate, tenendo conto di quelle che sono le condizioni interne dei singoli Paesi con un occhio rivolto alle scadenze elettorali e l’altro alla sana – speriamo perdurante – ondata emotiva suscitata dalle immagini che giungono da Kabul. Nessun elemento di autocritica rispetto alla scelta compiuta venti anni fa di “esportare democrazia” a suon di cacciabombardieri e soldati, al massimo l’ammissione di qualche errore politico e militare negli anni successivi e un più generale chiudere gli occhi sui danni portati.

Venendo però al presente il ritiro delle forze Nato e il ritorno dei taliban al potere era da almeno un anno più che previsto. Al di là degli accordi di Doha era certo che i fondamentalisti – che peraltro già controllavano una parte consistente del Paese – non avrebbero accettato interferenze esterne nel definire la realizzazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, tanto è che così come da gennaio almeno 250mila persone si erano messe in cammino per uscire dal Paese, i Paesi confinanti e limitrofi avevano già iniziato a progettare barriere per fermare i profughi immediati e futuri.

Alcuni muri esistono già come quello unilateralmente costruito dal Pakistan dal 2017 e contestato dalle allora autorità afghane, che ha messo “in sicurezza” 200 km dei 2.611 km di frontiera. Si tratta di una coppia di recinzioni a maglie di catena di tre metri, con uno spazio di due metri sormontato da filo spinato a cui si sono aggiunti circa 150 nuovi posti di frontiera, un terzo di quelli progettati e attivi già dal 2019. Anche l’Iran ha rafforzato i posti di frontiera (insieme al Pakistan è il Paese in cui sono presenti più profughi afghani), l’attraversamento irregolare è divenuto però un business ancora più florido nei due Paesi come nelle repubbliche caucasiche.

Ad aprire una vera e propria campagna di terrore – dettata da ragioni politiche – sono però ben altri attori. La Grecia ha completato recentemente la costruzione di un muro di 40 km alto 5 mt, al confine di Evros con la Turchia, che, a sua volta sta realizzando 46 km di fortificazioni al confine iraniano della provincia di Van che si aggiungono ai 146 km in altre province confinanti. Temendo che qualcuno riprenda la rotta che passa per la Bielorussia, la Lituania ha iniziato la costruzione di un muro che si estenderà entro il 2022 per 508 km mentre, sempre lungo il confine bielorusso, la Polonia prepara una recinzione di 140 km. Si tratta di opere che…


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Quante bugie sul vaccino anti-Covid

General practitioner vaccinating old patient in private clinic with copy space. Doctor giving injection to senior woman at hospital. Nurse holding syringe and using cotton before make Covid-19 or coronavirus vaccine.

“I sieri modificano il nostro Dna”, “sono Ogm che ci vengono iniettati”, “li sperimentano per la prima volta sui cittadini”, “siamo tutti noi le cavie”. Sui social o al bar, sicuramente avrete sentito pronunciare frasi del genere. Andiamo per ordine.

Primo punto: i vaccini sono davvero “terapie geniche”? No, si tratta di un’affermazione inaccurata. Le terapie geniche, sviluppate a partire dagli anni ottanta, consistono in modifiche deliberate al Dna del paziente al fine di curare alcune malattie genetiche. Si può procedere in diversi modi, sostituendo un gene difettoso, oppure aggiungendo uno o più geni che possano attivare processi utili alla cure, oppure ancora intervenendo sull’attivazione di un gene. Il cosiddetto Rna messaggero (mRna) contenuto nei vaccini Pfizer e Moderna, però, non entra nel nucleo cellulare – ossia la parte di cellula che racchiude il genoma – né interagisce con il Dna, quindi la sua inoculazione non costituisce una terapia genica. Questo tipo di terapie, inoltre, possono avere effetti di lunga durata, perché modificano in modo permanente il Dna della cellula, e questi cambiamenti vengono ereditati da qualsiasi cellula “figlia”. Al contrario, l’mRna contenuto nei vaccini si… 


L’inchiesta prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

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Francesca Re David: «Sì all’obbligo vaccinale ma serve una legge»

ROME, ITALY - NOVEMBER 05: Francesca Re David, secretary general of FIOM, takes part in the strike of the metalworkers demonstrating at Piazza Esquilino on November 5, 2020 in Rome, Italy. The metalworkers of Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil called for a four-hour strike and nationwide demonstrations requesting the renewal of the national collective labour agreements contract which expired 10 months ago. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images)

Un’estate gelida nelle fabbriche italiane. Prima le polemiche e il contrasto tra sindacati e Confindustria sull’obbligo del Green pass per l’accesso alle mense aziendali, poi il percorso sempre più accidentato del decreto delocalizzazioni che dovrebbe impedire casi come quello, eclatante, della Gkn di Campi Bisenzio i cui proprietari, una multinazionale inglese, hanno deciso di licenziare i lavoratori nonostante lo stabilimento fosse in attivo. Due nodi cruciali su cui il governo, dice Francesca Re David segretaria generale della Fiom Cgil, è chiamato in causa, proprio per indicare una direzione che faccia chiarezza sull’obbligo vaccinale e quanto alle delocalizzazioni, che dia regole precise contro lo strapotere delle multinazionali.

Francesca Re David cosa pensa dell’obbligo del Green pass per le mense aziendali? Da quanto ha detto il presidente di Confindustria Bonomi è passato quasi il messaggio che il sindacato strizzi l’occhio ai no-vax.
Devo fare innanzitutto una premessa necessaria e doverosa. Questo attacco, partito soprattutto da Bonomi e dalla Confindustria lombarda, è qualcosa di irricevibile. Non smetterò mai di ripeterlo: quando il governo Conte ha emanato il decreto del “tutti a casa”, l’8 marzo 2020, nessuno aveva detto come si doveva stare nei luoghi di lavoro. Noi abbiamo dovuto scioperare per imporre le chiusure e poi i protocolli per la prevenzione e la sicurezza, con i distanziamenti, le mascherine ecc. E questo accadeva in zone con molte fabbriche, con tante persone che prendevano i mezzi pubblici per andare a lavorare mentre le terapie intensive erano piene di malati di Covid-19. Noi, ripeto, abbiamo dovuto lottare per far chiudere le fabbriche. Quindi che sia passato questo messaggio e che sia stato dato valore a questo messaggio è proprio inaccettabile. Dopo di che, noi abbiamo sempre detto, a questo governo e a quello precedente, che doveva essere la comunità scientifica, poi naturalmente con la mediazione della politica, a dare indicazioni su cosa fare in questa fase della pandemia. E infatti abbiamo costruito protocolli sulla base delle indicazioni della comunità scientifica.

Rispetto all’obbligo vaccinale qual è la sua opinione?
Noi Fiom siamo assolutamente pro vaccino, siamo tutti vaccinati e…


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Che brutta transizione, Cingolani

Ma ve la ricordate la nomina di Roberto Cingolani a ministro della Transizione ecologica che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del governo dei migliori? Vi ricordate quante volte abbiamo letto e ci è capitato di sentire che si poteva buttare giù il boccone amaro di un governo con dentro i peggiori leghisti e i peggiori berlusconiani perché Cingolani avrebbe mondato tutto, ci avrebbe resi fieri di essere un Paese che guardava al futuro? Ma soprattutto vi ricordate Beppe Grillo (che mica per niente ora è nascosto in quinta e spia dal retropalco ciò che avviene in scena) mentre sbandierava con la sua solita ruvida veemenza il “successo del Movimento 5 stelle” proprio per la nomina di Cingolani?

Bene, ieri il ministro era ospite alla scuola politica di Matteo Renzi a Ponte di Legno (sì, lo so, Renzi che dirige una scuola di formazione politica ha lo stesso sapore di quelli che vendono i loro corsi per diventare ricchi e non ce n’è uno di loro che sia ricco) e ha aperto al nucleare (su cui c’è stato un referendum omeopatico di cui non tiene conto quasi nessuno, dalle nostre parti) invitando a «non ideologizzare qualsiasi tipo di tecnologia» (perché funziona così, invitano sempre a non ideologizzare quelli che temono le idee) e sottolineando che il mondo è “pieno” di «ambientalisti oltranzisti, ideologici, peggiori della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato».

Dentro c’è anche il solito terrorismo da quattro soldi, quello che fa sbavare i negazionisti, dicendo che «la transizione ecologica deve essere sostenibile – ha spiegato il ministro – sennò non si muore di inquinamento, ma di fame». Dice Cingolani: «Non si può ridurre la Co2 chiudendo da domani le fabbriche di auto, mettendo sul lastrico milioni di famiglie». A questo punto viene il dubbio che al ministro sfugga proprio il significato della parola «transizione», nonostante sia scritta in stampatello fuori dalla porta del suo ufficio.

Dopo inceneritori e trivelle Cingolani dimostra di non essere per niente “uno dei migliori” anche nel linguaggio, con una banalizzazione che fa spavento (ma forse nella scuola di politica stava tenendo proprio un corso di banalizzazione, così fondamentale nella politica di questo tempo).

Comunque può stare tranquillo: anche Cingolani godrà del manto di credibilità che per ora non rischia minimamente di essere scalfito da una stampa allineata e ben compatta, una processione a forma di giornali che sono sempre intenti a chiudere le porte perché non tiri nemmeno un filo di vento.

Bravi, avanti così.

Buon venerdì.

 

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Il virologo Fabrizio Pregliasco: «Stiamo affrontando due pandemie»

TOPSHOT - Members of ground staff walk past a container stacked at the Cargo Terminal 2 of the Indira Gandhi International Airport, which will be used as a Covid-19 coronavirus vaccines handling and distribution center during the media preview in New Delhi on December 22, 2020. (Photo by Sajjad HUSSAIN / AFP) (Photo by SAJJAD HUSSAIN/AFP via Getty Images)

Si stima che la popolazione mondiale sia di circa 7,8 miliardi di persone. Di queste, stando all’ultimo aggiornamento di Lab24 del Sole24Ore, nella sezione dedicata al monitoraggio delle vaccinazioni anti-Covid, al 31 agosto 2021 sono state completamente vaccinate il 26,9%. Mentre il 39,4% ha ricevuto almeno una dose. Ciò significa che 5,7 miliardi di persone al momento non hanno ancora alcuna immunità e che 4,7 mld sono in attesa della seconda dose. Considerando che uno studio dell’Istituto superiore di sanità ha rilevato che con due dosi l’efficacia nel prevenire il ricovero è del 94,4%, si può quindi dire che nel mondo dopo un anno e mezzo di pandemia le persone ben attrezzate contro la Sars-Cov2 sono circa 2 miliardi.

Sono tante? Sono poche? È sufficiente quanto fatto fin qui in termini di vaccinazione globale per guardare al prossimo futuro con ottimismo? Per dare una risposta a queste domande ci siamo rivolti al professor Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano. Con lui faremo anche il punto sullo stato della ricerca e cercheremo di capire come mai molti cittadini italiani decidono tuttora di non vaccinarsi.

Nel nostro Paese, al 30 agosto, 41,3 mln hanno ricevuto almeno una dose (71,7% su totale popolazione) e 37,7mln sono stati completamente vaccinati (63,6% sul totale pop.). Ma considerando gli over 60 ovvero la fascia di popolazione più a rischio, sono ben 1,7 mln le persone che non hanno ricevuto nemmeno una dose. In percentuale, guardando alle altre fasce si trovano in questa situazione il 42,5% dei 12-19 anni, il 24,43% dei 20-29 anni, il 28,82% dei 30-39 anni, il 25,25% dei 40-49 anni e il 18,10 dei 50-59 anni. Di contro si stima che al ritmo attuale di somministrazione giornaliera di dosi vaccinali anti-Covid intorno al 26 settembre sarà coperto l’80% della popolazione over 12.
Può bastare? Ma soprattutto, professore, cosa frena le fasce d’età più alte dall’accettare l’idea di vaccinarsi?
È sempre difficile per i singoli valutare il rischio/beneficio rispetto alla terapia. Quando abbiamo un mal di testa feroce assumiamo aspirine a iosa ma se andiamo a vedere gli effetti indicati nel bugiardino forse sarebbero in molti a desistere.
Il punto è che gli effetti collaterali di un’aspirina non li leggiamo solo nel bugiardino ma li riscontriamo anche nell’oggettività dell’utilizzo.
Esatto. Ma in questo caso c’è l’immediatezza del mal di testa o del mal di denti da risolvere che prende il sopravvento. E poi c’è la soddisfazione di riscontrare in poco tempo il rapporto causa/effetto e nella maggior parte dei casi si vede passare il malessere.
E la vaccinazione?
La vaccinazione viene fatta “a freddo” mentre l’individuo sta bene e questo comporta due elementi di negatività che l’approccio al vaccino ha sempre mostrato ma nel caso dell’anti-Covid si sono particolarmente concentrati.
Vale a dire?
Il primo è la mancanza di percezione della gravità della malattia. Ricorda quando nel 2016 a Firenze ci fu un’epidemia di meningite? In quel caso facevano la coda di notte per vaccinarsi. La meningite può uccidere in 2/3 ore: c’era meno paura della vaccinazione e più paura della malattia.
Ma dall’inizio della pandemia sono morte nel mondo per la Covid oltre 4,5 mln di persone e quasi 200mln sono state ricoverate; in Italia quasi 130mila morti, 4mln di ricoverati e tutti abbiamo visto le bare di Bergamo…
Eppure di fronte a tutto ciò c’è chi esita. Lo stesso è accaduto e accade con l’influenza o il morbillo. Patologie banali nella maggior parte dei casi per cui il soggetto “accetta” l’eventuale contagio perché così risolve il problema. È chiaro che qualcuno ci è restato sotto ed è morto ma statisticamente “funziona”. Qui però ci si collega alla difficoltà di percepire la Covid come malattia grave perché statisticamente nella maggior parte dei casi (circa il 95%) per fortuna è banale. Ma sta proprio qui la forza di questa patologia, cioè il motivo della sua invasività e la capacità di fare quello che sta facendo a livello planetario da quasi due anni. Detto in estrema sintesi, i virus più feroci hanno capacità molto meno invasiva del Sars-Cov2, basti pensare all’ebola che resta circoscritto in un’area subsahariana. Ma non si può non notare che con questo coronavirus seppur la percentuale degli eventi letali sia bassa, la sua capacità pervasiva ha generato in termini assoluti dei numeri spaventosi e una dimensione epidemica che avrà effetti ancora per anni sia sulla salute pubblica che sull’economia.
Qual è il secondo elemento negativo?
È strettamente connesso al primo. Non solo si sente distante il possibile evento avverso ma non si saprà mai se quel vaccino specifico ci è davvero servito in qualche occasione.
Lo si percepisce come inutile?
Noi non “vediamo” il coronavirus. La stragrande maggioranza delle persone colpite non sa quando e dove si sono infettate, salvo situazioni professionali specifiche oppure in famiglia. Non ci può quindi essere nemmeno la “soddisfazione” di dire: “Ecco mi sono vaccinato, quando mi capita di incrociarlo ho lo scudo”.
Cosa occorre per invertire questa tendenza?
C’è poca fiducia nella politica e nella scienza. Serve l’autorevolezza delle istituzioni che invece sono messe in discussione a causa di decisioni contraddittorie o poco chiare. Che i vaccini non siano caramelle e che possano determinare degli eventi avversi è innegabile ma sul timore di dire chiaramente le cose come stanno hanno fatto leva “dal basso” le fake news dei no-vax. Queste si sono insinuate nel tessuto sociale fino a istillare dubbi in persone che no-vax non sono. Penso al timore di vaccinare i più piccoli perché la tecnologia Rna modificherebbe il genoma compromettendo la crescita. Non c’è alcun fondamento, è falso ma verosimile. Una caratteristica tipica delle fake news. Come per esempio quella sulla sperimentazione. Quante volte abbiamo sentito dire che il vaccino “è stato fatto troppo in fetta”?
Sottotesto: quindi è rischioso…
Invece di apprezzare l’enorme capacità scientifica e tecnologica che c’è stata nello sviluppare dei vaccini in tempi brevi, ma non in fretta, tutto questo è stato visto come un elemento negativo. Bisogna quindi ricordare che noi conosciamo da dieci anni sia la tecnologia a vettore virale (es. Astrazeneca) sia quella a Rna (Pfizer/Moderna) e che finora era mancata la possibilità dell’industrializzazione perché si tratta di molecole “delicatissime”. Qui va dato atto a Trump e Johnson che i miliardi di denaro pubblico Usa e Uk investiti nello sviluppo di questi vaccini hanno permesso di coprire “l’ultimo miglio” dell’industrializzazione del vaccino.
Certo non per filantropia.
Certo che no. Stati Uniti e Gran Bretagna Sono stati i fautori del sovranismo vaccinale, portandosi appresso quasi tutto il mondo occidentale Italia compresa. Qualsiasi…


L’intervista prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

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L’obbligo di pensare prima alla salute di tutti

Per ora sono solo tre i Paesi al mondo che hanno introdotto l’obbligo vaccinale per tutti: l’Indonesia, il Turkmenistan e il Tagikistan. Ma in molti Paesi vige comunque l’obbligo per il personale sanitario (Francia e Italia), oppure viene chiesto ai datori di lavoro di garantire almeno il 60% di dipendenti vaccinati (Russia). Il green pass, più o meno esteso, è largamente diffuso. In Germania Merkel in piena campagna elettorale ha confermato la sua linea che prevede di convincere al vaccino senza obbligare. In Francia e in Italia la discussione sull’obbligo vaccinale è aperta. Di recente il segretario della Cgil ha detto che se il governo e il Parlamento prendessero in considerazione di intervenire per legge sull’obbligo vaccinale il sindacato non si opporrebbe. Lo stesso Landini aveva messo in guardia rispetto ad usi del green pass che possano creare elementi discriminatori rispetto ai lavoratori. Questa posizione per me coglie il punto.

Se il vaccino è indispensabile alla salute pubblica, alla tutela individuale e a combattere la pandemia è giusto che lo Stato si assuma le sue responsabilità e prescriva il vaccino. Per farlo serve, da Costituzione, una legge. Fin qui si è proceduto di massima per decreti combinati con uno stato di emergenza che in Italia ha ormai raggiunto una durata record.
La legge sarebbe lo strumento proprio con cui si definiscono con certezza di doveri e diritti l’obbligo vaccinale. Come si è fatto nella storia rispetto ad altre malattie che andavano debellate.

Ora, non c’è dubbio che sulla pandemia sia mancata una discussione pubblica nelle sedi istituzionali a tutti i livelli (globali, europee e nazionali). Una discussione che coinvolgesse in modo organizzato la comunità scientifica e definisse il quadro di azione in modo da consentire di andare oltre la gestione frammentaria e frammentata della emergenza. Portare a scusa di ciò il carattere improvviso e virulento della pandemia è per altro improprio visto che di possibili eventi di tal fatta si parlava da vent’anni.

Al posto di questa discussione organizzata che avrebbe consentito scelte e assunzioni di responsabilità c’è stata la gestione emergenziale, mercantile e profondamente difforme del Covid. Che non accenna a essere superata vista la situazione che perdura di queste caratteristiche perniciose. Abbiamo infatti una parte del mondo che dispone di vaccini ma che è frenata nel loro impiego da dubbi e contrarietà che non trovano risposta in una piena assunzione di responsabilità pubblica mentre si spinge piuttosto sul richiamo ai comportamenti. Nel frattempo c’è una parte larghissima dei Paesi poveri che non ha per nulla disponibilità di vaccini per l’impossibilità economica e organizzativa di accedervi.

Si discute della terza dose, ancora in modi frammentati e non ordinati, mentre l’Oms richiama alla priorità di dare i vaccini disponibili a chi non li ha avuti per non essere travolti da varianti incubate laddove non si fa vaccinazione vanificando l’accaparramento dei ricchi. Nel contempo le multinazionali del farmaco hanno proceduto ad un aumento generalizzato del 25% sul costo di vaccini prodotti con soldi pubblici dati alla loro ricerca e dicono che loro le varianti le inseguono invece che precederle. Perché per precederle ci vorrebbe che il vaccino ci fosse e fosse dato a tutti e non si stesse nella condizione – come denunciato dal Parlamento europeo – di produrre utilizzando solo il 40% dell’apparato produttivo potenzialmente disponibile per ragioni legate all’assetto proprietario e dei brevetti. Brevetti che ci si guarda bene dal sospendere. Per di più tutto ciò che serve insieme al vaccino per mettere in sicurezza la società intervenendo sui fattori di rischio e potenziando la sanità pubblica è lungi dall’essere al centro dei piani di rinascita economica, per non parlare di ciò che si fa verso i Paesi poveri.

Se torniamo all’Italia vediamo come la ripresa autunnale alle porte ci consegna una situazione scolastica, dei trasporti, della sicurezza sul lavoro che è del tutto uguale a prima, cioè pessima. In questa mancanza di assunzione pubblica di responsabilità da parte delle istituzioni rientra a mio avviso anche il mancato obbligo vaccinale deciso per legge.
Se la pandemia non permette una “autogestione” del rischio compatibile con la vita sociale e il vaccino è una risorsa indispensabile per combatterla perché riduce fortemente i rischi di ammalarsi e contagiare, l’assunzione della responsabilità istituzionale della sua obbligatorietà è una funzione democratica laddove l’intervento surrogato sui comportamenti può determinare effetti impropri.

Naturalmente una funzione siffatta richiede lo strumento della legge e non il carattere emergenziale della decretazione. Come dovrebbe essere naturale dacché l’obbligo sta insieme al diritto mai come in questo caso universale. Diritto per tutti, ovunque, pena l’inefficacia. Ciò che non accade con l’attuale sistema a dominio mercantile che perciò va cambiato, a partire dai brevetti ma anche sottraendo al privato il monopolio produttivo e riconsegnandolo al pubblico magari con una industria pubblica europea dei farmaci. Come al pubblico va riconsegnata, o consegnata, la tutela della salute pubblica con appositi servizi sanitari. Il 5 e 6 settembre si riuniscono a Roma i ministri della Sanità del G20.

Finora nonostante la pandemia nulla è cambiato nella folle logica mercantile. Dalla pandemia, al disastro climatico, alle guerre come quella in Afghanistan i dominanti si confermano incapaci e impuniti. I movimenti anche il 5 e il 6 torneranno a farsi sentire per proporre un’altra agenda, quella della società della cura che dice basta a fare profitti sui popoli e sul pianeta.

 

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L’editoriale è tratto da Left del 3-9 settembre 2021

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Tomaso Montanari: La cultura è il vaccino contro il fascismo

FLORENCE, ITALY - DECEMBER 20: Italian art historian and author Tomaso Montanari portrait session at his own home in Firenze on December 20, 2019 in Florence, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)

Paura di un rettore antifascista? È impressionante quanto inaccettabile il fuoco di fila che si è scatenato su media mainstream contro lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, per il fatto che, senza negare affatto le foibe, ha osato dire che delle foibe è stata fatta una narrazione propagandistica e strumentale. Con politici conservatori ma anche alcuni, nominalmente, progressisti che sono arrivati a chiederne le dimissioni.

Professore, che succede in Italia è sempre più difficile esprimere un articolato pensiero critico?

Purtroppo vedo che in Italia ogni forma di pensiero critico e libero è massimante osteggiata. È stata molto chiara Edith Bruck in una sua recente intervista: dice che c’è troppa tolleranza verso il fascismo in Italia, che così finisce per farla da padrone. Ogni volta che ho espresso una critica radicale alla Lega o ai Fratelli d’Italia, in nome dei valori costituzionali, puntualmente è stato chiesto il mio licenziamento dall’università. Ora come prossimo rettore vengono chieste le mie dimissioni. Ricordo che l’Università è autonoma. Accadeva durante il fascismo che allontanassero i professori.

Nel programma con cui si è candidato a rettore c’è un paragrafo dedicato all’antifascismo.

Sì, non è consueto nel programma dei rettori. Dedicheremo 12 aule ai 12 professori che non giurarono fedeltà al regime. Saremo l’unica università in Italia ad averlo fatto. Non solo non mi dimetto, ma il mio impegno da antifascista crescerà in questo sestennio.

Le accuse del capo leghista nei suoi riguardi non toccano solo le idee, che sono sempre giustamente criticabili, ma vanno a colpire la persona, “vada a farsi curare”, dice lui…

Anche questo è interessante: tutti gli attentatori di Mussolini e tutte le loro famiglie finirono in manicomio. C’è una bella tradizione, direi…

A chiedere le sue dimissioni, mettendole sullo stesso piano di quelle del sottosegretario Durigon che voleva reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini è stato anche Riccardo Nencini presidente del Partito socialista italiano. Che ne pensa?

Il suo è stato un intervento diffamatorio perché parla di negazionismo delle foibe. Non è il mio caso. A questo proposito sto valutando con gli avvocati di chiedere danni. Alla fine lo farò, perché mi sono stufato. Parlando di cose più serie, va detto che in Senato giace un disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia e della Lega che vuole equiparare il negazionismo delle foibe a quello della Shoah. Vogliono l’equiparazione letterale stroncando così definitivamente la libertà di espressione. È evidente il fine: se le foibe sono uguali alla Shoah, il nazismo e il comunismo si equivalgono, questo è il disegno utile a questo progetto “culturale”, ammesso che si possa definire tale.

Quali sono le responsabilità a cui ascrivere questa mistificazione della storia di cui si trovano tracce anche a Bruxelles? A questo proposito ricordiamo per esempio l’equiparazione fra fascismo e comunismo in una risoluzione votata nel 2019…

In Italia il discorso è partito da quello disgraziatissimo di Luciano Violante sui «ragazzi di Salò». E passa attraverso la volontà dei post comunisti di essere integrati nel mondo neoliberista occidentale che ha integrato i fascisti… una mano lava l’altra, dopo il crollo del muro. Violante ha dato a tutto questo un sigillo drammatico. E a livello europeo c’è una perdita di memoria. Lo dico io – ci tengo a dirlo – che non sono mai stato comunista. Io sono un cattolico sociale, un po’ anarchico se vogliamo, ma non sono mai stato comunista, non appartengo a quella tradizione che ho studiato, rispetto e ammiro per tante ragioni. Ma non è la mia storia. Se qualcuno avesse chiesto a Dossetti o a Calamandrei, a qualche cattolico democristiano o a un liberal socialista del Partito d’azione se per loro i comunisti e i fascisti si equivalessero gli avrebbero dato un ceffone, credo. C’è un imbarbarimento culturale spaventoso e per questo si colpisce l’Università e si colpisce un rettore nel silenzio totale della Conferenza dei rettori, della ministra, del presidente della Repubblica. Io non ho avuto solidarietà da nessuno di loro, non è che me la aspettassi, però va detto.

La “querelle” sulle foibe nasce da un suo intervento a proposito della nomina di De Pasquale alla guida dell’Archivio di Stato. Perché il ministro Franceschini ha scelto proprio lui che, in qualità di direttore della Biblioteca nazionale di Roma, ha acquisito il fondo Rauti presentandolo senza adeguata contestualizzazione storico critica?

Sì tutta la faccenda parte da lì. Non che io vada in giro occupandomi di foibe, ma volevo spiegare quale è il contesto del revisionismo in cui nasce la nomina di De Pasquale. Io penso che in questo momento tutto ciò che interessa al ceto politico è la corsa al Quirinale e i voti della Meloni fanno comodo, credo si spieghi così.

In dissenso con quella nomina lei si è dimesso dal Consiglio superiore dei beni culturali. Cosa è accaduto?

Per una scelta del genere, in un Paese serio e civile, si sarebbe dovuto dimettere il Consiglio tutto. Se il Consiglio superiore dice al ministro di dare ascolto al rappresentante della associazione dei familiari delle vittime delle stragi e il ministro nemmeno risponde, contro la nomina di costui l’intero Consiglio, per dignità minima, si sarebbe dovuto dimettere. Perché il ministro in quel modo sta dicendo “non contate niente”. Io mi sono dimesso per un elementare senso di dignità, ma vorrei dire anche per un rispetto delle istituzioni. E per quanto possa sembrare paradossale per rispetto dello stesso ministro che deve essere libero di fare da solo le sciocchezze che fa.

Nella lettera con cui Diana Toccafondi si è a sua volta dimessa dal Consiglio parla di svalutazione delle competenze da parte del ministro. Perché mettere a capo dell’Archivio di Stato un bibliotecario e non un archivista?

In generale svalutare le competenze è funzionale all’asservimento delle persone. In questo caso se metti a capo dell’archivio di Stato uno che non è un archivista, sarà pure un ottimo bibliotecario – ammesso che lo sia – ma non è un archivista. La politica mettendo in posti chiave degli incompetenti si costruisce un bacino di servitori.

E per impedire critiche sui giornali ormai in molti ricorrono alle querele intimidatorie…

La querela intimidatoria è uno strumento odioso, io ne ho avute tante e continuo ad averne. Odioso perché ha che fare con questa congiura del silenzio e con un pensiero unico dominante: ognuno fa quello che vuole ed è indispettito dalle opinioni. A bene vedere tutto ciò restituisce un valore alle opinioni stesse perché evidentemente diamo fastidio, dall’altro lato però rende impossibile lavorare e vivere. È il sintomo della perdita di tessuto democratico; è una delle tante ragioni per cui possiamo dire che siamo in una post democrazia, la nostra non è più una democrazia. Ed è una cosa molto grave.

Intanto c’è chi come il sottosegretario Durigon si permette di proporre una restaurazione inaccettabile: cancellare il nome di Borsellino e Falcone e tornare a dedicare il parco di Latina al fratello di Mussolini. Le sue dimissioni sono arrivate anche troppo tardi.

Le sue parole sono state inaccettabili anche perché non hanno minimamente suscitato una presa di posizione del presidente del Consiglio dei ministri del famoso governo di alto profilo per il quale il presidente Mattarella ha garantito. Entrambi non hanno detto una parola sul caso Durigon. Io trovo che sia gravissimo tutto questo. Proprio perché rischia di legittimare l’idea che siano opinioni accettabili. Certo poi lo si fa dimettere un mese dopo, ma tutto ciò è avvilente. Non c’è nessuna censura delle idee. Le dimissioni erano importanti, ma molto più importante sarebbe stata una lezione di antifascismo e di storia. Ricordo che quel parco fu reintitolato ad Arnaldo Mussolini negli anni Novanta per iniziativa di un sindaco che era veramente fascista che aveva combattuto nella Repubblica sociale italiana, per il quale Oscar Luigi Scalfaro aveva decretato niente meno che la pena di morte. Non si può legittimare la storia della Repubblica sociale.

Con quella proposta Durigon andava contro l’antifascismo da cui nasce la nostra Costituzione ma anche contro la lotta alla mafia.

Due piccioni con una fava, qui bisogna guardare cosa sono diventati la Lega e Fratelli d’Italia al Sud dove hanno imbarcato veramente di tutto. Penso che nei prossimi anni pagheranno anche un prezzo giudiziario per questo sdoganamento.

Non ha detto una parola su questo nemmeno Salvini che un 25 Aprile da ministro andò a Corleone invece che alla manifestazione perché, a suo dire, sarebbe una festa divisiva.

Non mi stupisco, piuttosto temo che presto vedremo al governo una formazione puramente di centrodestra. Tutti i nodi verranno al pettine come è già avvenuto con il governo Conte, ma con la Meloni sarà ancora peggio. Intanto sono molti i segnali preoccupanti di figure istituzionali che indulgono a nostalgie inaccettabili.

Che ne pensa del console “fascio rock” che è stato promosso ambasciatore a Singapore?

È pazzesco che non venga cacciato. Si chiedono le dimissioni di un rettore, che ha espresso una opinione fondata storiograficamente e non deve andarsene un personaggio del genere. Ha proprio ragione la Bruck, c’è troppa tolleranza del fascismo in Italia, anche da parte delle istituzioni della Repubblica e da tutti quelli che dovrebbero difenderla.

Per concludere torniamo a quel che dicevamo all’inizio quando parlavamo del ruolo dell’Università in chiave antifascista. Il suo programma dedica molto spazio all’importanza della ricerca che deve andare di pari passo alla didattica, al pensiero critico, alla lotta contro privilegi e disuguaglianza fra lavoratori anche all’interno dell’ateneo. Che risposte sta ricevendo?

Quello che mi fa più piacere in queste ore di solitudine dal punto di vista istituzionale sono le decine di lettere di dottorandi e studenti che mi arrivano da tutta Italia, anche di colleghi, perché c’è bisogno di uno scossone, di tornare a dire perché abbiamo scelto questo lavoro. L’art. 9 della Costituzione dice che la Repubblica è fondata sulla ricerca e sulla cultura. La cultura non come intrattenimento, ma come vaccino contro il ritorno del fascismo. Ci stiamo trovando drammaticamente sprovvisti del vaccino antifascista, il posto dove si costruisce sono le università e si costruisce con il pensiero critico, come rettore io farò il mio lavoro fino in fondo.


L’intervista prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

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SOMMARIO

“Fate quello che dico, non quello che faccio”

Sono dei geniali cialtroni. Ieri si è scoperto che Giuliano Castellino, il leoncino dei no-vax romani sempre pronto a sbraitare davanti alle telecamere contro la dittatura sanitaria nonché leader di Forza Nuova (che di leoni che si impauriscono ne ha a bizzeffe) dopo avere tuonato contro l’imposizione del Green pass, del vaccino e del tampone, si è vestito da placido tifoso della domenica per andare a vedere la sua squadra del cuore allo stadio, la Roma, ovviamente con il Green pass. Che dittatura strana quella che immaginano questi neofascistelli: sono addirittura costretti a farsi il tampone per vedere la partita di pallone. Davvero una crisi della democrazia che fa accapponare la pelle.

Castellino poi dimostra di non conoscere nemmeno le regole che il suo stesso partito si è dato (sarebbe prevista l’espulsione per chi utilizza il Green pass, quindi il leaderino andrebbe mandato via a calci) oppure semplicemente si tratta di analfabetismo funzionale, come al solito.

Il comunicato di Forza Nuova dello scorso 6 agosto recitava: «L’Ufficio politico del Movimento ha deliberato che chiunque, militante o dirigente, per qualunque ragione si adeguasse a questa intollerabile e definitiva operazione di controllo sociale, subirà l’immediata e irrevocabile espulsione da Forza Nuova». E sui tamponi? Le uniche deroghe erano menzionate chiaramente in un altro passaggio del documento: «Non sarà interessato alla misura estrema chi, per ragioni familiari, personali o lavorative e, facesse ricorso all’uso del tampone rapido. Fondamentale è non acquisirlo, non piegarsi, costi quel che costi». Evidentemente la partita della Roma è un’importante ragione familiare, personale e lavorativa. Che forti, questi.

La vicenda però racconta un paio di cose importanti. Innanzitutto che a questi di estrema destra non interessa nulla della battaglia su Green pass e vaccino se non semplicemente aizzare la rabbia (l’avevamo scritto qualche giorno fa) e poi che vale da quelle parti il famoso detto “fate quello che dico ma non fate quello che faccio” tipico dei vigliacchi opportunisti che vogliono racimolare semplicemente un po’ di voti. In compenso l’annunciata manifestazione nazionale per bloccare i treni è stata un misero flop in tutta Italia. I treni arrivano in orario, anche senza Lui.

Buon giovedì.

Trame festival, resistere e ripartire con la cultura

Nel 1954 Piero Calamandrei pronunciò queste parole ricordando la Resistenza contro il nazifascimo: «Era giunta l’ora di resistere». Resistere è ciò che abbiamo fatto in questi anni di pandemia, è un’azione collettiva che questo Paese sperimenta da sempre: la liberazione dall’Italia e la lotta quotidiana contro le mafie, il malaffare, la corruzione piccole e grande, contro la cultura del più furbo che dileggia chi invece segue le regole del vivere in comunità.

Trame è cresciuta, è alla sua decima edizione, e lo ha fatto anche in questo momento difficile per il Paese, stretto tra paure di ogni giorno e incertezze sul futuro, che acuiscono le disuguaglianze soprattutto nei territori più periferici dove il ricatto del bisogno imprigiona una diffusa parte dei cittadini. Ragionare su come sostenere chi vorrebbe liberarsi, ma non ha la forza e gli strumenti, dal bisogno per non dipendere dai clan e dalle clientele, discutere su come resistere contro la prepotenza del più forte, acquisire consapevolezza su come si muovono le grandi organizzazioni mafiose oggi nel mercato neoliberista, ragionare sul presente e sulle condizioni che bloccano il progresso del Sud (quindi dell’Italia). Durante il festival seguiremo queste direttrici, per offrire a chi sarà con noi una narrazione organica di tanti fenomeni che possono sembrare separati tra loro ma che in realtà sono connessi.

La Calabria sarà al centro delle giornate del festival: le sue potenzialità, i suoi mali, le prospettive. Convinti che è da qui che l’Italia deve ripartire, valorizzando il meglio di questo territorio. Una terra di emigrazione e di accoglienza, ma anche di un violento corpo a corpo contro la ‘ndrangheta. In questa edizione ricorderemo la nascita del movimento antindrangheta in Calabria, che a differenza di quanto si pensi risale a decenni fa. È falso il racconto di una terra omertosa e arresa, lo dimostrano le storie delle vittime e di chi ancora è vivo e ha combattuto contro i mafiosi, contro i loro complici, contro il sistema criminale, che si rafforza con il racconto fatalista di una Calabria ferma, immobile, senza speranza.

Il festival vuole fare la propria parte, con gli strumenti della cultura, dell’informazione, del giornalismo e della letteratura. Conoscere, raccontare, confrontarsi e ragionare, per demolire stereotipi e mettere in moto il cambiamento. Avremmo voluto organizzare molti più eventi, il periodo però non lo permette e abbiamo provato a fare una sintesi delle questioni sulle quali è urgente confrontarsi e stimolare chi governa ad agire perché sulle mafie il silenzio prevale ancora sulla consapevolezza. Incontri, libri, dibattiti, proiezione di documentari, laboratori di giornalismo e musica.

Tutto questo sarà Trame 10, che proverà a offrire il racconto della realtà in cui viviamo attraverso i fatti accaduti e l’analisi di ciò che potrebbe succedere: dal grande riciclaggio al tempo del Covid-19, alla gestione della pandemia in Calabria e al Nord, dagli affari delle cosche con le mascherine, alla massoneria come strumento di legittimazione dei capimafia, dalle storie delle vittime alle comunità che resistono, dell’ambiente ostaggio delle multinazionali e dei poteri criminali, dallo sfruttamento dei bambini nel sistema malato del calcio, alle donne con il loro mestiere provano ad arginare l’arroganza dei boss.

TRAME.10, Festival dei libri sulle mafie si tiene a Lamezia Terme (Catanzaro), dall’1 al 5 settembre in piazza San Domenico

L’autore: Giovanni Tizian, giornalista e scrittore, è il direttore artistico di Trame10

 

 

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