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Per farla finita con le guerre, bisogna smantellare il capitalismo

Quello che sta accadendo in Afghanistan è una tragedia indiscutibile. Ma limitarsi a occuparsi degli aspetti umanitari (urgenti e necessari, ma che si riproporranno) ci farebbe insistere nell’errore di considerare questi avvenimenti come circoscritti a un’area del mondo, quando invece rappresentano un episodio, drammatico, ma sempre più evidente, di un più vasto conflitto per il controllo “geopolitico” di quei territori, delle ricchezze minerali – pensiamo alle terre rare sempre più necessarie – delle rotte del gas ecc., e al contempo per l’affermazione definitiva di un modello. Tutto ciò connesso ad un lungo processo di ristrutturazione capitalistica.

Il Capitale, nella sua secolare espansione, ha da sempre avuto due sostanziali opzioni: la leva militare e quella economica. La prima da usare in particolare nei territori a scarso sviluppo, economico, sociale e civile (pensiamo alle guerre in Iraq, in Iran, alle cosiddette “primavere arabe”, foraggiate dal “socialista Blair” e dalla Francia così come i talebani lo sono stati dagli Usa in funzione antisovietica), la seconda impiegata nei Paesi sviluppati (cos’altro è stata la crisi greca di qualche estate fa se non una guerra “condotta con altri mezzi” cui la comunità politica mondiale, ha assistito inerme se non acquiescente alle volontà delle Banche centrali, Fmi ecc.?).

Quello che emerge tuttavia in maniera sempre più evidente in questo scorcio di secolo, e a partire almeno dalla fine dell’URSS, è che a contrapporsi a tali processi sono rimasti in campo la nuova Russia di Putin e la Cina. Entrambe tuttavia con un approccio parimenti di tipo “imperialistico” e non sostenuto da una diversa visione di mondo, un’ideologia. Il conflitto si è sempre più spogliato dei suoi caratteri ideologici (Capitalismo contro Comunismo) per concentrarsi all’essenza, questa sì ideologica, di espansione e dominio sui territori, sui beni, sui popoli, sui mercati, sulle ricchezze. L’assenza di visioni ideologiche alternative ha prodotto la fine dei grandi movimenti di massa che pure avevano caratterizzato il mondo in tutte le sue trasformazioni e in tutte le “crisi” che attraversava. Dalle grandi mobilitazioni contro la guerra in Vietnam, alle lotte per il disarmo e contro la corsa agli armamenti, dal No all’atomica alle ribellioni contro i golpe realizzati o tentati. Quello che possiamo a ragione osservare è l’assenza totale, nel mondo, di una sinistra che provi ad analizzare il mondo e a elaborare risposte, più avanzate. Eppure, fino alla caduta del muro di Berlino, quelle mobilitazioni, con alterne fortune, sono state in grado di intervenire e modificare il corso degli avvenimenti: dalla Guerra fredda e la contrapposizione in blocchi (equilibrio del terrore) alla distensione, dal ruolo dei Paesi non allineati all’affrancamento dall’Urss come Paese guida. E tutto ciò era frutto di una continua elaborazione, culturale, politica, filosofica e ideologica, di una sinistra che non rinunciava al proprio ruolo di organizzatore di idee e pensiero critico, contro il capitalismo come fine ultimo dell’umanità, e nella ricerca di vie nuove e originali per il socialismo. E ciò anche in Italia grazie alla forza e al prestigio internazionale del Pci.

Invece, dalla caduta del muro si è assistito, con diverse modalità e tempi, non solo ad un allontanamento definitivo di un modello, quello sovietico, inadatto ai tempi, stimolo per una analisi del mondo e un percorso originale, ma anche ad una accettazione sostanziale del modello capitalistico cui, al più, partecipare con una più equa distribuzione delle ricchezze. Come se i danni del capitalismo, parimenti al superamento del socialismo sovietico, fossero scomparsi o superabili in sé stesso. Il Capitale sembra abbia ottenuto un sostanziale via libera, dal punto di vista ideologico, come unica prospettiva dell’umanità. Invece il capitalismo procede, come sempre, ad una sua ristrutturazione senza mai venir meno alle sue caratteristiche “fondanti”: mercato, impresa e profitto quali uniche leve di progresso. Bisogna con onestà riconoscere che, con tutti i suoi limiti, improvvisazioni, scarse basi teoriche di massa, solo il movimento No-global aveva percepito, e avvisato, circa i pericoli delle nuove ristrutturazioni del capitale galoppante verso mercati globali.

E bisogna con onestà riconoscere che a fronte di quelle tematiche, mentre la destra si preoccupava di contrastarle sul piano poliziesco, la sinistra si limitava alla denuncia per le violenze, ma senza un minimo di riflessione e di pensiero critico su quei temi, se non in pochi e isolati intellettuali ed economisti. Il mondo ha marciato sempre più velocemente verso lo sfruttamento sempre più massiccio del pianeta e lo strapotere del capitalismo finanziario ha assunto caratteri sempre più sovranazionali: un tempo aveva bisogno degli Stati per “proteggere” la propria espansione attraverso le leggi, e quindi se pure in parte venendone limitato, oggi è esso a dettare condizioni agli Stati, e quindi ne può fare a meno. La veloce rivoluzione informatica non ha prodotto migliori condizioni di vita, ma è servita ad aumentare la “produttività”, riducendo al contempo la centralità della fabbrica, come luogo privilegiato di produzione delle merci perché ha sempre meno bisogno di manodopera, ottenendo un duplice risultato: l’aumento dei profitti e la atomizzazione dell’operaio-manodopera, la superata classe operaia, dispersa in attività esterne alla fabbrica, in piccoli centri di lavoro, in un diffuso indotto, dove si è più facilmente controllabili e meno sindacalizzati, quindi con meno peso e meno potere contrattuale. Non è un caso che prevalga sempre più il lavoro precario, figure quali i drivers, che altro non sono però che proletariato del nuovo millennio, o gli invisibili dei campi di raccolta, che altro non sono che nuovi schiavi, con meno possibilità di organizzarsi e riconoscersi quale “classe”.

Niente di nuovo perciò dal punto di vista del Capitale. Il nuovo è appunto l’assenza di una critica a questo modello di sviluppo. Allora è necessario un nuovo conflitto che parta dal tipo di sviluppo, ma per immaginare una società diversa. Prendiamo l’ambientalismo, di cui oggi tutti si dichiarano paladini a partire dai vari Pnrr: il Capitale saprà volgerlo a suo vantaggio: non è favorendo l’auto elettrica che si salva il pianeta (non solo almeno): dove reperire le necessarie materie prime, a che prezzi, sociali, economici e umani, dove smaltire? E l’energia eolica o solare? Si traduce perlopiù in deturpazione di interi territori e consumo di suolo. E le misure contro il precariato? Giusti i sussidi, giusto il Reddito di cittadinanza (per rimanere in Italia), già meglio la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ma simili strumenti sono già presenti in gran parte del mondo occidentale, eppure quegli Stati non per questo risultano modelli di società non più capitaliste. Il punto è che questi strumenti intervengono a valle dei meccanismi intrinsechi al modello di sviluppo capitalistico, e mai a monte, perché non ribaltano i meccanismi di produzione del lavoro, di controllo e sviluppo delle capacità e delle ricchezze, cioè volti a sostituire “mercato-impresa-profitto”, realizzando una diversa distribuzione del lavoro e delle risorse, dei rapporti tra gli esseri umani ecc.

Se quanto espresso è vero, magari in minima parte – interconnessione, globalismo, neoimperialismo, dominio della finanza sovranazionale – non si avverte la necessità di riprendere da parte delle sinistre, non dico una nuova improponibile internazionale, ma il filo interrotto di un’analisi critica avanzata della società ed un internazionalismo di pensiero ed elaborazione? Di rilanciare una nuova critica marxista? E una qualche forma di “confronto” su scala planetaria? Perché da un lato “l’elemento fondante del marxismo non è solo il fatto di essere una critica della società capitalistica e l’affermazione di una società diversa” (cit. Il sarto di Ulm, Lucio Magri), ma di presentarsi come “un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. E qui infine riaffiora l’urgenza, in Italia, di riproporre percorsi di unità della sinistra, sulla base delle esperienze e delle necessità storiche, e non su improponibili divisioni dei soggetti che dovrebbero farsi carico di questo sforzo elaborativo, e che si traducono invece in accettazione passiva appunto dello stato di cose la cui massima aspirazione è la buona amministrazione dell’esistente. Ma chi ha oggi l’autorevolezza, e la voglia, di iniziare questo percorso?

*L’autore:Lionello Fittante è tra i promotori degli Autoconvocati di Leu, ed ex componente del Comitato nazionale èViva!

 

 

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Per approfondire, Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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SOMMARIO

Lo sbarco di Tajani

Un giorno (e sarà sempre troppo tardi) capiremo come abbia potuto Antonio Tajani essere considerato la faccia “seria” di Forza Italia e come riesca a passare per un “moderato” o addirittura un “mediatore” nonostante sia spessissimo la forma tiepida e stracotta di quella stessa destra che viene tacciata di populismo.

Ieri è accaduto che Salvini e compagnia cantante abbiano trovato un boccone gustosissimo (benché avvelenato) da gettare in pasto ai loro sostenitori: un poliziotto morto di Covid prestava servizio presso l’hotspot di Taranto dove erano ospitati 300 migranti e dove un focolaio di Covid aveva infettato 33 tra loro. Pensateci, è l’equazione perfetta: ci sono le forze dell’ordine (che da quelle parti tornano utili per provocare un po’ di barzottismo politico), ci sono i migranti portatori di sventure (in questo caso il temibile virus) e c’è l’eroismo dell’uomo che lascia la sua famiglia per colpa di questi negri sporchi e cattivi.

Antonio Tajani si è buttato a pesce (lui che ogni tanto non riesce a trattenersi dall’essere la versione omeopatica di Salvini) e ha twittato tutto tronfio: “Non mettiamo in pericolo le forze dell’ordine. Per questo chiediamo che vengano vaccinati tutti gli immigrati che raggiungono il territorio italiano. Una proposta di buon senso per tutelare la loro salute e di tutti i cittadini. Un abbraccio alla famiglia dell’agente scomparso”. Fin qui il progetto sembrava praticamente perfetto.

Peccato che però un giornalista decida di fare il suo lavoro e provi a sentire la moglie di Candido Avezzù, il poliziotto 58enne che lavorava nel reparto mobile di Padova ed era stato in trasferta a Taranto. Monica Valotto, sua moglie, intervistata dal Corriere della Sera, racconta che era un no-vax convinto: “Mi diceva: ‘Io sono più forte del Covid’. Forse aveva sottovalutato il pericolo”. “Era contrario al vaccino – spiega ancora – temeva gli avrebbe causato una trombosi, non si fidava”. Anche sul momento e luogo di infezione per il momento siamo solo nel campo delle ipotesi: sua nipote confida, sempre al Corriere della Sera, che lo zio era convinto di essersi ammalato all’hotspot ma per ora non c’è nessuna evidenza.

In sostanza si viene a sapere che Avezzù (legittimamente) aveva consapevolmente deciso di esporsi al rischio di una malattia (di cui dubitava l’esistenza, rilanciando sul suo profilo Facebook i deliri di Montesano, solo per dirne una) ma l’occasione è troppo ghiotta per dare addosso allo straniero, talmente ghiotta che perfino Tajani decide di cavalcarla. Se proprio Tajani avesse voluto sembrare un “uomo forte” avrebbe potuto twittare la proposta di “buon senso” di vaccinare tutte le persone delle forze dell’ordine che raggiungono il territorio italiano, ad esempio. E invece ha sbagliato mira.

In compenso non ha avuto remore nel lucrare (male) sulla tragedia di una famiglia. E così anche Tajani è sbarcato di gran lena sulla battigia dei fomentatori. Bravo, bravissimo.

Buon mercoledì.

 

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Se ne fottono, dei vaccini e del Green pass

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 30 Agosto 2021 Roma (Italia) Cronaca : Aggressione di un giornalista alla manifestazione No Green Pass davanti al MIUR Nella Foto : il giornalista aggredito da un manifestante Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse August 30 , 2021 Rome (Italy) News : Attack of a journalist at the no green pass event in front of the School Ministry In the Pic : the journalist during the attack

Non è la prima volta anche se ha tutta l’aria di essere un’escalation.

Durante una manifestazione di fronte al ministero dell’Istruzione a Roma Francesco Giovannetti è stato minacciato di morte e poi colpito da un manifestante. «Pochi minuti prima dell’inizio formale del sit-in, un uomo mi ha colpito in faccia con 4-5 cazzotti – racconta Giovannetti – dopo avermi minacciato. Non mi lasciava andare, ma per fortuna erano presenti agenti della polizia che sono intervenuti». Giovannetti aggiunge: «Ero lì da cinque minuti, ho chiesto a un gruppetto di persone se avevano voglia di parlare, di rispondere a delle domande. Mi hanno chiesto per chi scrivessi e hanno iniziato a criticare Repubblica, ma in maniera civile. Solo poi quest’uomo, non so chi fosse o che ruolo avesse, si è girato, ha mimato il gesto di sgozzarmi, ha detto “ti taglio la gola se non te ne vai” e quando gli ho chiesto se stesse minacciando mi ha aggredito e colpito».

Matteo Bassetti (che per uno strano gioco di specchi pure è stato l’idolo della destra aperturista e paranegazionista in un certo periodo della pandemia) è stato inseguito sotto casa da un 46enne che lo ha minacciato urlandogli «Ci ucciderete tutti con questi vaccini e ve la faremo pagare». «Continuo a ricevere minacce ogni giorno dai no-vax, hanno fatto girare il mio cellulare. Sono stato riempito di messaggi, telefonate e insulti con minacce a me e alla mia famiglia», racconta Bassetti. Anche il virologo Pregliasco ieri a Il Fatto Quotidiano ha confermato le continue chiamate ricevute dai No vax e no Green pass: «Ricevo chiamate in serie, tre-quattro di fila, su numeri privati. Mi rivolgono minacce di morte, dicono che la pagheremo».

Giornalisti, medici: l’escalation della violenza dei No vax o No Green pass o no una cosa qualsiasi continua spostandosi dalle piazze (dove Forza Nuova e CasaPound cercano di cavalcare politicamente la protesta) fino agli scontri fisici. E non è una cosa da sottovalutare perché di mezzo c’è la volontà non tanto di rivendicare la propria libertà personale (pensiero che non c’entra nulla con le violenze in campo, infatti durante la manifestazione di Roma e in altre occasioni i politici che hanno tentato di strumentalizzare la protesta sono stati pesantemente fischiati e poi allontanati) ma c’è un vero e proprio tentativo di sovvertire l’ordine democratico. Siamo alle solite: mischiati tra i liberi cittadini che protestano (esercitando un loro diritto) ci sono i soliti fascistelli che cavalcano qualsiasi malumore per esistere. Esistono solo nelle scintille che accendono le violenze. Esistono solo immaginandosi nemici che non esistono perché in fondo non esistono nemmeno loro: non hanno niente da dire, non hanno niente da aggiungere. Solo pugni e bastoni. Vi ricorda qualcosa?

Buon martedì.

Tanto per sporcare la narrazione

Families evacuated from Kabul, Afghanistan, walk through the terminal to board a bus after they arrived at Washington Dulles International Airport, in Chantilly, Va., on Friday, Aug. 27, 2021. (AP Photo/Gemunu Amarasinghe)

Qualche notizia per sporcare la narrazione fiabesca, perché il giornalismo dovrebbe servire per disturbare la narrazione mica per amplificarla, è d’uopo segnalare qualche fatto di questi ultimi giorni, scusate se interrompiamo la strumentalizzazione della guerra che qui dalle nostre parti diventa addirittura eroismo. Perché fa schifo, detta così.

Lorenzo Cremonesi e Marta Serafini firmano un importantissimo articolo sul Corriere della Sera (mica sul gazzettino degli antiamericani, sul Corriere della Sera) e descrivono i talebani belli pasciuti con le armi lasciate dall’esercito Usa che è scappato in fretta e furia: «Se la gente di Kabul – scrivono – non sapesse che sono talebani, verrebbe da pensare che gli americani controllano ancora in forze le zone di accesso all’aeroporto e i punti cruciali della capitale. Viaggiano sui gipponi americani, indossano uniformi delle forze speciali Usa, hanno i loro elmetti, i mitra, i visori notturni, gli stivaletti, i loro giubbotti antiproiettili e zainetti tattici». Gli Usa, tra i loro mille errori, hanno armato anche i loro nemici. Geni.

A proposito dell’attentato avvenuto all’aeroporto di Kabul, si legge sempre nell’articolo, «la Bbc riporta testimonianze secondo cui i morti non sarebbero solo dovuti alla bomba dell’Isis, ma anche agli spari dei soldati statunitensi nella confusione appena seguente, quando sembrava che un commando terrorista stesse cercando di superare il filo spinato per irrompere nel terminal. “C’erano dei militari americani, con accanto dei soldati turchi. Gli spari sono venuti da loro, dai soldati”, ha spiegato il fratello di una delle vittime. Un altro testimone si dice sicuro che a uccidere un ex collaboratore degli Usa siano stati i militari statunitensi. “Come faccio a essere certo? Per il proiettile. Sul corpo non c’erano ferite, ma solo un proiettile che lo ha colpito proprio dietro l’orecchio”».

Dall’ospedale di Emergency (perché tra tutti i miliardi di dollari spesi non si sono trovati gli spiccioli per fare un ospedale e solo una delle tante odiate Ong se ne deve occupare) fanno sapere di avere ricevuto 4 pazienti morti all’arrivo tutti con proiettili in testa. «Non possiamo smentire né confermare», è costretto a dire il portavoce del Pentagono John Kirby.

I talebani sono cambiati? Sì, come no. Le classi sono divise tra maschi e femmine. Le maestre sono a casa e non sanno se ricominceranno a lavorare. La ministra Cartabia ha (giustamente) sottolineato come le donne impegnate nell’ambito della Giustizia (giudici e avvocatesse) rischino addirittura la vita. Nel distretto di Andarab, qualcuno ha ucciso un musicista tradizionale, Fawad. La sua colpa: suonare ai matrimoni. Si usa qui, ma non nelle zone talebane. La musica è particolarmente indigesta ai nuovi-vecchi padroni del Paese. A Kandahar, il governatore ha vietato a radio e tv di trasmettere musica e mostrare donne in video. I talebani sono cambiati? No.

A proposito di narrazione che andrebbe depurata, il Presidente della repubblica Mattarella dice una cosa che potrebbe sembrare banale: «In questi giorni una cosa appare sconcertante, e si registra nelle dichiarazioni dei politici in diverse parti d’Europa. Esprimono grande solidarietà agli afgani che perdono libertà e diritti, ma… “che restino lì’’, non vengano qui perché non li accoglieremmo. Questo non è all’altezza del ruolo storico e dei valori dell’Unione». E invece è rivoluzionaria perché la disumanità di questi più di qualcuno vorrebbe normalizzarla e invece fa schifo.

Ecco, non abituarsi. Non abituarsi mai a quello che vorrebbero inocularci. Mai.

Buon lunedì.

 

 

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Lucia Castellano: «La questione carcere riguarda tutta la società»

Il problema del carcere e, più in generale, dell’esecuzione penale necessita di una risposta collettiva, non può essere solo l’amministrazione penitenziaria ad occuparsene. Questo sostiene Lucia Castellano, per venti anni, dal 1991 al 2011, a dirigere carceri: da Marassi, Eboli, fino alla casa di reclusione di Bollate, un carcere in cui la relazione con la comunità esterna è diventata una realtà. Autrice insieme a Donatella Stasio nel 2009 di Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, dopo un’esperienza politica nella giunta Pisapia a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia, dal 2016 Lucia Castellano è direttore generale del ministero della Giustizia per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova. Tutto quel settore cioè, delle misure alternative alla detenzione su cui ci sono grandi attese e speranze. Recente, infine, è un suo contributo tra i testi che accompagnano la riedizione di Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata di Eugenio Perucatti, il direttore del carcere di Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, che dal 1952 al 1960 fu protagonista di un primo coraggioso tentativo di rendere umani luoghi considerati ai margini della società.

Dottoressa Castellano, dopo il caso delle violenze da parte della polizia penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere, tenendo ben presente l’articolo 27 della Costituzione, oggi che cosa si può fare in modo che chi sconta una pena in carcere non subisca un trattamento disumano?
A questa domanda è d’obbligo una premessa: la Costituzione non parla di carcere ma di pene, che non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono sempre tendere alla rieducazione del condannato. Noi abbiamo già tutti gli ingredienti per applicare l’articolo 27 nella sua cogenza. A differenza di quando ha operato il mio collega Eugenio Perucatti nel 1952, noi dopo la Costituzione possiamo contare su una serie di norme importantissime, molto garantiste, che sono il precipitato di quel precetto, la cui attuazione ipso facto porta a trattamenti umani. Quindi, è già possibile una risposta punitiva costituzionalmente orientata e, per molti versi, viene già attuata. L’Italia è un Paese che ricorre poco alla carcerazione e in Europa è tra quelli in cui il rapporto tra detenuti e liberi è più basso. Quindi, il legislatore ci chiede di ricorrere al carcere come extrema ratio: sotto i 3 anni di pena edittale (in qualche ipotesi anche sotto i 4 o più), è prevista la sospensione dell’ordine di esecuzione, dando così la possibilità di chiedere una misura alternativa alla detenzione. Quanto all’episodio gravissimo e drammatico di Santa Maria Capua Vetere, a mio parere la risposta politica è…


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Cambiare il sistema detentivo con idee nuove

NEW YORK, NY - APRIL 20: A man walks by a mural by artist Banksy supporting jailed Turkish artist Zehra Dogan on April 18, 2018 in New York City. (Photo by Gary Hershorn/Getty Images)

I filmati delle telecamere di sorveglianza dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere hanno mostrato uno spaccato violento del nostro sistema penitenziario. Eppure non è l’unico caso di violenza finito davanti alla magistratura. Infatti a inizio 2021 sono stati condannati per il reato di tortura 11 agenti di polizia penitenziaria per fatti avvenuti nell’istituto penitenziario di Ferrara nel 2017 e nell’istituto di San Gimignano nel 2018. Si tratta delle prime condanne di poliziotti penitenziari per il reato di tortura introdotto nel nostro ordinamento nel 2017. Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti.
I più recenti sviluppi riguardano i casi degli istituti penitenziari di Torino e Santa Maria Capua Vetere.

Nel primo caso nel luglio 2021 è stato richiesto il rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori (tra cui il direttore del carcere) per violenze avvenute nell’istituto tra il 2017 e il 2018. Tra i reati contestati c’è anche quello di tortura. Il 25 novembre 2019 Antigone aveva presentato un esposto.
Il caso di Santa Maria Capua Vetere, ora più noto grazie alle immagini dei video di sorveglianza, ha avuto origine dalle proteste dei primi mesi del 2020 legati all’emergenza coronavirus. Il 20 aprile 2020, dopo aver raccolto numerose testimonianze e aver informato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria su quanto avvenuto nell’istituto il 6 aprile, Antigone aveva depositato un esposto contro la polizia penitenziaria, per ipotesi di tortura e percosse, e contro i medici, per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. A fine giugno 2021 il giudice per le indagini preliminari, su richiesta della Procura, ha emesso un’ordinanza con la quale ha disposto misure cautelari nei confronti di 52 persone. Il fatto che i casi di violenza emersi siano molteplici è indice della necessità di profonde riforme all’interno del sistema penitenziario italiano. Va rivisto drasticamente il modello di organizzazione pensando a una formazione diversa e multidisciplinare degli agenti penitenziari. Bisogna prevenire i fatti di tortura attraverso la previsione di video sorveglianza in tutti gli istituti, sottoscrizione di un codice deontologico, predisposizione di linee guida nazionali sull’uso della forza, introduzione dei codici identificativi, assunzione di personale civile, fino ad una maggiore generalizzata apertura ai fini di una umanizzazione della pena.

Il Rapporto sulle condizioni di detenzione
Tuttavia, come sottolineato dal più recente Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione, presentato da Antigone il 29 luglio, le problematiche del nostro sistema penitenziario non si limitano alla violenza. Rimane preoccupante il tasso di affollamento, al 105,6% quello ufficiale, ma al 113,1% quello reale, considerando soltanto i posti effettivamente disponibili. Tuttavia i 53.637 detenuti presenti al 30 giugno 2021 non…


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Afghanistan. L’infinita storia, e cultura, di un Paese ferito

È certamente difficile allargare lo sguardo e parlare di patrimonio culturale quando tanta sofferenza è sotto i nostri occhi, coinvolgendo bambini, donne e uomini indifesi. Ma è importante che non ci si faccia travolgere dalla semplificazione associando a questo martoriato Paese che è l’Afghanistan il solo lascito dell’angoscia, perché solo recuperando la profondità della sua storia riusciremo a individuare una prospettiva di riscatto.

Siamo stati ad Herat nel maggio scorso perché il dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze sta da molti anni collaborando a progetti di conservazione di monumenti afghani in pericolo. Questa volta siamo stati coinvolti dall’Aga Khan culture service (Akcs-A) per approntare un progetto di salvaguardia riguardante il quinto minareto di Herat pericolosamente pendente.  Il minareto, esilissimo, di forma tronco conica e decorato con ceramiche multicolori smaltate (in parte perdute), fu edificato agli inizi del 1400 e fuoriesce dalla verticale di quasi 3 metri su un’altezza di 42 ed un diametro alla base di appena 5 metri. Esso fa parte dell’impressionante complesso della Musalla che all’origine raggruppava una moschea, delle madrase, il mausoleo bellissimo (ancora esistente) della regina Gowhar Shad moglie dello Shah timuride Rukh, e ben venti minareti. Tutto il complesso è frutto della ideazione della regina, figura femminile importantissima della storia afgana, grande patrona delle arti, che fece di Herat, nel periodo susseguente all’occupazione operata da Tamerlano, una capitale che poteva competere, per bellezza e charme, con le maggiori espressioni del mondo islamico, da Isfahan a Samarcanda.

Oggi di questa meraviglia rimangono cinque…


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Che talenti questi Giacometti

Alberto Giacometti non solo artista introverso, ascetico e solitario come le cronache d’arte ci hanno raccontato. La mostra Les Giacometti: Une famille de créateurs aperta fino al 15 novembre alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence ce ne restituisce l’intelligenza concreta, la generosità e il senso poetico della vita rileggendo la genesi della sua opera, radicalmente originale e potente, all’interno di una ricca trama di affetti e di amori a cominciare dalla relazione con Annette Arm, che fu anche sua modella e collaboratrice. Dopo una serie di legami tormentati nel 1946 Giacometti conobbe questa ragazza ginevrina, di 22 anni più giovane, che per lui lasciò il lavoro alla Croce Rossa accettando di trasferirsi a Parigi nella casa-studio in cui lui viveva dal 1926: ventiquattro metri quadrati a Montparnasse, poco più che una stanza soppalcata, con pavimento di terra battuta e senza acqua corrente, in cui lui continuò a lavorare anche quando raggiunse la notorietà. Proprio in quello studio fu realizzato l’intensissimo ritratto di Annette che è uno dei fuochi emotivi dell’esposizione alla Fondazione Maeght. In mostra alla Fondazione Maeght compaiono anche altri ritratti intimi, ma soprattutto tante sue esili figure scultoree punteggiano gli spazi con una forte, vibrante, presenza. È stato spesso rilevato che sono immagini isolate, di alienazione, che esprimono il sentire di una generazione traumatizzata dalla guerra.

Ma queste figure allungate, dotate di grandi piedi che a volte si fanno piedistallo, per quanto bloccate, appaiono come in movimento. Trasmettono una ricerca di essenzialità, un’esigenza di assoluta concentrazione su ciò che caratterizza l’essere umano più profondamente.

La mostra Les Giacometti curata dal fotografo e re

gista Peter Knapp come accennavamo mette in luce anche aspetti meno noti della biografia di Alberto Giacometti (1901-1966), come ad esempio il rapporto dialettico, di separazione e tuttavia di scambio – attraverso le lettere – che lo legava alla madre Annetta e al padre Giovanni, apprezzato pittore nella Svizzera di fine Ottocento, ma anche con il cugino Augusto, audace colorista, di cui nelle prime sale si possono vedere icastici ritratti post impressionisti, quasi Fauve per la forza dei colori.

Profondissimo e costante, invece fu il rapporto fra Alberto Giacometti e i due fratelli minori: Diego, che gli fu sempre accanto anche sul piano professionale, e il più piccolo Bruno che, dopo inizi da violinista, scelse la strada dell’architettura diventando un longevo e apprezzato modernista (è scomparso a più di cento anni nel 2012).

Diego, in particolare ebbe un ruolo di primo piano nella vita di Alberto: era il suo assistente di studio, il suo solido supporto psicologico e come Annette si prestò a fargli da modello per ritratti, in cui, come accennavamo, la fisionomia conta ben poco perché quel che interessava al pittore era cercare di cogliere e di rappresentare l’universale umano.

Quel che pochi ricordano di Diego è che non fu solo una “spalla”, ma anche un raffinato designer di arredi interpretando liberamente schizzi del fratello, realizzando mobili e  sculture per abitazioni e Caffè: specchi, tavoli, lampade vagamente liberty, arricchite di suggestioni greche, egizie, africane, oceaniche, pezzi unici di cui la Fondazione Maeght presenta una interessante scelta. Nei momenti più duri la vendita di quelle creazioni permise ai due fratelli di tirare avanti. Fatto inaccettabile per il sacerdote del Surrealismo André Breton che nel 1934 espulse Alberto Giacometti dal movimento additandolo come traditore della causa, proprio perché per campare, realizzava con Diego oggetti d’arredo «per i ricchi» e (soprattutto perché voleva tornare a lavorare dal vero).

In realtà non si trattava solo di opere “commerciali” tanto che anche in quegli oggetti progettati da Alberto e realizzati da Diego si può intravedere il filo di ricerca che aveva portato Alberto nel 1920 ad avvicinarsi ai cubisti e successivamente a costeggiare l’ambito surrealista.

Ma questo è solo uno dei molteplici percorsi che propone questa mostra nata con l’obiettivo di raccontare la personalità e il talento di Alberto Giacometti ricostruendo il rapporto con gli intellettuali e gli artisti che ebbe attorno, non solo da adulto, ma fin dall’infanzia, forse non idilliaca come la descriveva lui ma certamente ricca di stimoli e di letture.

L’architetto Olivier Gagnère mette in scena queste pagine biografiche in un susseguirsi di sale rotonde con soffitti oblò che prendono luce dal cielo. In questa danza circolare si staglia il talento assoluto di Alberto Giacometti ma va in scena anche la storia dei Giacometti che, in vario modo e con diversissima statura, dallo sperduto paese di Borgonovo di Stampa (canton Grigioni) seppero intervenire da protagonisti nel processo di rinnovamento dei linguaggi dell’arte moderna.

Immersa nel verde e circondata da un parco di opere d’arte di Mirò, Calder e altri artisti del Novecento la Fondation Maeght, (prima fondazione d’arte indipendente in Francia progettata nel 1964 dall’architetto Josep Lluís Sert) di quella saga familiare ne è il palcoscenico ideale.

A pochi chilometri da Nizza e dai più affollati luoghi di villeggiatura della Costa Azzurra, dopo una salita a tornanti, appare maestosa, totalmente avvolta nel silenzio. E immerso nel silenzio del paesaggio svizzero, fin da giovanissimo, Giacometti realizzava schizzi ispirati ai libri d’arte del padre, disegnando sopra o a margine delle immagini a stampa. Già in quelle prime prove c’è quella particolare attenzione alla fusione di antico e moderno e di culture diverse che lo accompagnò per tutta la vita. Il padre Giovanni Giacometti (1868-1933), come si può vedere dalle opere in mostra alla Fondazione era un seguace di Hodler e Segantini, ma anche un profondo conoscitore del simbolismo dell’impressionismo, e seppe cogliere la novità del movimento Die Brücke a cui poi prese parte. Più innovativo di lui sul piano del colore fu suo cugino Augusto Giacometti (1877-1947), attento a tutte le novità che gli ambienti artistici e intellettuali più all’avanguardia avevano da offrire. Attraverso i ritratti che Giovanni Giacometti dedicò ai figli – che incontriamo all’inizio del percorso espositivo – si intuisce qualcosa di più dell’infanzia e della gioventù di Alberto Giacometti, cresciuto tra la grande casa di famiglia, traboccante di libri di letteratura, filosofia e arte, incastonata sui monti della Val Bregaglia. «Non potrei immaginare una giovinezza e un’infanzia più felici delle mie» diceva Giacometti, anche se già da piccolo appariva tormentato e se ne stava tutto il tempo chiuso in casa a disegnare, come riporta la biografia Alberto Giacometti della direttrice della Fondazione Giacometti Catherine Grenier (in Italia pubblicata da Johan&Levi). Uscito un paio di anni fa il lavoro di Grenier permette di entrare nella fucina di Giacometti, ripercorrendone i tormenti e le nevrosi che condizionarono il suo lavoro, facendogli vivere lunghe stasi. Come ricostruisce la studiosa in base a testimoniane di amici e collaboratori dell’artista, egli era capace di lavorare per notti intere a una scultura per poi distruggerla al risveglio. Per poi ricominciare daccapo. Non di rado tornava sulle sculture decine di volte, riducendole di dimensione fino a che «diventavano così minuscole che con un ultimo colpo di temperino spesso scomparivano per sempre nella polvere», come scrisse nel 1950 il gallerista Pierre Matisse, che ne aveva fatto conoscere l’opera Oltreoceano.


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Eutanasia, facciamo chiarezza

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 17-06-2021 Roma , Italia Cronaca Eutanasia - raccolta firme per referendum Nella foto: primo giorno della raccolta firme promossa dall’Associazione Luca Coscioni per la consultazione referendaria sull’eutanasia legale Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 17, 2021  Rome, Italy News Euthanasia - collection of signatures for referendum In the photo: first day of the collection of signatures promoted by the Luca Coscioni Association for the referendum on legal euthanasia

Oltre 500mila firme, raccolte in poche settimane estive, si moltiplicano giorno dopo giorno, insieme al numero dei giovani e giovanissimi attivisti coinvolti in questa campagna. È un numero sufficiente perché la Corte di Cassazione possa indurre il referendum per rendere legale l’eutanasia, ma la corsa continua. Si cerca di raggiungerne 750mila. L’Associazione Luca Coscioni si batte da anni per la libertà individuale e per i diritti del malato ed ha istituito una piattaforma online, che per la prima volta nella storia può consentire la raccolta. Oggi più che mai sembra esserci un movimento che porta avanti una lotta per il diritto all’eutanasia legale, che è diritto ad una vita (e un fine vita) dignitosa.

Se tanti giovani sono accorsi, sembra sia urgente riflettere su questo tema. La definizione del fine vita presuppone la conoscenza della vita umana, del suo inizio alla nascita e della sua fine alla morte. In medicina la vita e la morte hanno confini definiti, in contrasto con posizioni non scientifiche, come quelle religiose, spirituali o filosofiche, rispettabili ma chiuse alla scienza e non disposte ad una riflessione oltre una convinzione apriori, dettata da un credere e non da un vedere e pensare.

La vita umana è legata all’attività cerebrale e non al battito cardiaco, così come definito nel 1968 dal protocollo di Harvard. Senza attività cerebrale viene certificata dal medico la morte. D’altro canto, l’attività cerebrale è caratterizzata dalla reazione agli stimoli esterni alla nascita. La reazione è mentale e fisica, comprende gli affetti, le emozioni, la fantasia, che si esprimono attraverso il linguaggio di tutto il corpo, attraverso le parole, lo sguardo, i gesti, le azioni, la creatività. Essere umani è essere in rapporto con gli altri. Ciascuno sviluppa la propria identità a partire dalla nascita e dal primo anno di vita. L’essere umano è alla ricerca della realizzazione della propria identità e non del principio del piacere, sosteneva lo psichiatra Fagioli, in opposizione a Freud, e teorizzava la reazione alla luce alla nascita come inizio dell’attività cerebrale e mentale, pulsione di annullamento verso il mondo inanimato e vitalità che spinge alla ricerca del primo rapporto umano.

Il diritto alla libertà di movimento, di pensiero, di espressione, di coscienza è parte della dichiarazione dei diritti umani: diritti inalienabili. Ciascuno di noi ha l’esigenza di cercare e di essere sé stesso. La vita umana ha delle caratteristiche ben precise. A causa di condizioni morbose incurabili, la vita può essere seriamente compromessa ed…

*-* l’autrice: Daniela Polese è psichiatra e psicoterapeuta 


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Un Monte di problemi

Exterior view of Headquarters of Banca Monte dei Paschi di Siena bank in Siena, Italy on Oct. 25, 2019.

Le vicende bancarie che in queste ore stanno attirando l’attenzione degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica in generale, prevedono scelte dense di implicazioni finanziarie e occupazionali. È importante, dunque, chiarire quanto sta accadendo e l’entità della posta in gioco. Lo scorso mercoledì 4 agosto il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha illustrato alle commissioni Finanze di Camera e Senato lo stato dell’arte relativo alla situazione della banca più antica del mondo, il Monte dei Paschi di Siena, che da diversi anni si dibatte in condizioni critiche. In questi giorni i media sono prodighi di notizie sulle vicende che, nel corso degli ultimi 15 anni, avrebbero contribuito a determinare la crisi di questo istituto bancario.

Per fornire alcuni elementi utili al ragionamento, vorremmo concentrarci sull’attualità e sui possibili scenari derivanti dalla manifestazione di interesse di Unicredit e sulle sue relative ricadute, con un occhio di riguardo al destino del personale coinvolto in questa ristrutturazione.
Il ministro dell’Economia ha affermato che non vi sono le condizioni per ipotizzare una proroga dei termini di uscita del ministero dell’Economia dal capitale di Monte dei Paschi e che è assolutamente necessario rispettare gli impegni assunti con la Commissione europea.
Questo, in combinato disposto con l’esito negativo per Mps degli stress test in caso di scenario avverso, rende di fatto impraticabile l’ipotesi cosiddetta “stand alone”, cioè che la banca senese resti indipendente e non sia oggetto di fusione o acquisizione. Inoltre ci sarebbe, ha aggiunto il ministro Franco, la necessità di un rafforzamento patrimoniale strutturale con un aumento di capitale ben superiore a quello di 2,5 miliardi di euro già previsto nel piano industriale.

Quindi, l’uscita del Mef dal capitale della banca e l’aumento di capitale molto consistente che sarebbe necessario rende impraticabile la strada della sopravvivenza in autonomia dell’Istituto. Per completezza di informazione aggiungiamo che il ministro ha anche evidenziato che i 2.500 esuberi già stimati aumenterebbero significativamente nel caso in cui la Commissione europea ponesse un obiettivo più ambizioso di riduzione dei costi e che la banca sarebbe esposta a rischi e incertezze enormi e difficilmente sopportabili.
Esclusa la pista “stand alone”, dunque, resta in piedi l’ipotesi di nozze con Unicredit, da tempo il vero obiettivo di buona parte della politica nazionale: il pretendente sposo, infatti, è da tempo corteggiato dal governo affinché si decida a chiedere la mano di Mps. E non è irrilevante che, negli ultimi mesi, ci siano stati due importanti avvicendamenti ai vertici di Unicredit: oltre all’arrivo alla presidenza dell’ex ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, artefice del salvataggio di Mps, Andrea Orcel ha assunto il ruolo di Ceo andando a sostituire il suo predecessore Jean Pierre Mustier. Anche questi avvicendamenti sono stati spesso intesi come un…

*-* l’autore

Cesare Damiano già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro durante il secondo governo Prodi (2006-2008) ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare


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