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Alle radici ideologiche di un crimine sconfiNato

TOPSHOT - A Taliban fighter walks past a beauty salon with images of women defaced using spray paint in Shar-e-Naw in Kabul on August 18, 2021. (Photo by Wakil KOHSAR / AFP) (Photo by WAKIL KOHSAR/AFP via Getty Images)

La rovinosa fuga dall’Afghanistan rappresenta, oltre che una tragedia per decine di migliaia di afghani, un danno d’immagine probabilmente irreversibile per la Nato. Già nel novembre del 2019, il presidente francese, Emmanuel Macron, davanti all’invasione turca della Siria aveva parlato di “morte cerebrale” dell’Alleanza atlantica. Le immagini della folla disperata all’aeroporto di Kabul rimbalzano sui teleschermi del mondo e certificano il fallimento della strategia cominciata con il conflitto in Jugoslavia e con la prima guerra contro l’Iraq, con la quale si era imposto al mondo il rilancio della Nato come “gendarmeria globale” a servizio degli interessi Usa ed occidentali. Tutta l’impalcatura ideologica e propagandistica con la quale si era sdoganata la guerra dopo la caduta del Muro di Berlino – guerra umanitaria, per i diritti umani, la democrazia, i diritti delle donne e delle minoranze – frana su se stessa mettendo a nudo le vere ragioni per le quali si è tenuto in piedi il più grande, sofisticato e dispendioso apparato militare della storia dell’umanità.

Adesso sono caduti tutti i veli. Degli esseri umani in carne ossa, del destino del popolo afghano costretto ormai a quattro decenni di guerra, alla Casa Bianca e ai governi della Nato che dal 2001 occupavano con armi e carri armati il Paese asiatico, non interessa un fico secco a nessuno. L’unico velo che viene innalzato adesso è quello del…


L’articolo prosegue su Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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Lasciati a nuotare nel sangue

In this frame grab from video, people attend to a wounded man near the site of a deadly explosion outside the airport in Kabul, Afghanistan, Thursday, Aug. 26, 2021. Two suicide bombers and gunmen have targeted crowds massing near the Kabul airport, in the waning days of a massive airlift that has drawn thousands of people seeking to flee the Taliban takeover of Afghanistan. (AP Photo)

Ma dai, l’avevo scritto in tempi non sospetti che sarebbe finita male e invece tutti i grandi cultori della diplomazia (quelli che ci rivendono la tiepidezza come arguta capacità politica) hanno provato a dirci che l’Afghanistan fosse necessario, che la guerra ventennale fosse giusta e perfino che la ritirata vigliacca fosse un capolavoro. E invece niente.

Perché sostanzialmente ieri è successo quello che doveva succedere, ovvero che un popolo tenuto sotto la bolla di un’occupazione militare si scopre oscenamente nudo appena quelli cominciano a togliere le tende, apparecchiare armi e bagagli e prepararsi ad andarsene dopo uno degli accordi più feroci, stupidi e irresponsabili della storia.

Il numero dei morti non si sa ancora, non si ha un numero definitivo mentre preparo questo Buongiorno, ma si dice almeno 60 vittime; 60 morti tra quella fiumana di persone in fila che già erano diventate carne, carne in fila per provare ad entrare dentro un buco, già cannibalizzate dall’avere la speranza come unico spiraglio per respirare. Un attentato contro civili inermi che ostenta tutti i denti come ostentano il morso coloro che lavorano sul palcoscenico del mondo utilizzando il terrore: i terroristi. E il palcoscenico internazionale anche questa volta è stato apparecchiato dall’Occidente che vorrebbe esportare la democrazia e invece non sa nemmeno organizzare una dignitosa ritirata.

Ora, per un secondo, proviamo a guardarla restando umani: ci sono persone in fila che vengono sorteggiate per cavalcare gli ultimi voli in partenza in base alle conoscenza, mica in base ai bisogni. Una Schindler’s List che fa venire le vertigini ogni volta che spericolatamente si osa pensare a quelli rimasti fuori. La comunicazione di queste ore è già disumana: si dividono i morti civili afghani da quelli americani, anche i morti da quelle parti hanno un diverso prezzo al chilo. Delle vittime Usa conosceremo presto i sogni, le professioni, i talenti; mentre gli afghani rimangono vittime necessarie anche se collaterali di una guerra che è già annunciata: da quelle parti sarà un macello e un macello per essere a forma di macello ha bisogno di carne. Quelli sono carne.

Biden dice “i terroristi ci hanno attaccato”. Falso, falsissimo, ancora una volta. I terroristi sono andati a prendersi con i denti un territorio lasciato scoperto e impoverito nonostante 20 anni costosissimi di guerra. Che l’ospedale di Emergency abbia dovuto farsi carico di tutti i feriti è la dimostrazione più significativa di come il volontariato si faccia carico di ciò che spetterebbe agli Stati. Anche per questo Gino Strada è stato un grande uomo di Stato, nonostante questi ne abbiano paura.

Gli italiani sono partiti, tutti. Sono partiti i diplomatici e i militari. Li abbiamo lasciati nel sangue.

Bravi, tutti.

Buon venerdì.

 

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Per approfondire, Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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«Non ci abbandonate»

TOPSHOT - Frozan (L), 25, bite her nails as Zairpana, 26, stares while being interviewed by professors to register for the university classes 01 December 2001 at Kabul University campus. The two women had to stop their studies five years ago when the Taliban banned women education under their strict Islamic laws. Kabul University opened its door to women for the first time in five years with dozen of women registering for classes which could start as early as the end of December. AFP PHOTO/EMMANUEL DUNAND (Photo by Emmanuel DUNAND / AFP) (Photo by EMMANUEL DUNAND/AFP via Getty Images)

“Che ne sarà di noi?”. È il grido che in queste ore arriva dalle donne afgane che in meno di una settimana si sono ritrovate catapultate venti anni indietro, a prima della caduta del regime dei talebani. Ora che sono tornati, l’Afghanistan si è ritrovato nel terrore. «Non ci abbiamo creduto nemmeno per un attimo quando, in tv, hanno detto che non ci sarebbero state rappresaglie – racconta Farzan – perché li conosciamo e sappiamo benissimo di cosa sono capaci, soprattutto con noi donne». Farzan è una docente all’università di Kabul e ha lavorato tanto per conquistarsi una posizione, per essere emancipata, libera. Ora teme che possa perdere il suo lavoro o che il suo ruolo possa essere ridimensionato. Sta già accadendo all’università di Herat, dove il mullah Farid, capo dell’istruzione superiore dell’Emirato islamico afgano, in una fatwa ha disposto che ragazzi e ragazze devono frequentare le lezioni in classi separate, perché, secondo i taliban, questo sistema è “la radice di tutti i mali nella società”. E dunque le donne potranno insegnare solo alle studentesse. «Stiamo tornando indietro ma non ci arrenderemo», dice Farzan.

In questi giorni l’Afghanistan è stato travolto da un’ondata di terrore e migliaia di persone si sono riversate all’aeroporto d Kabul per tentare di scappare. Ma le esfiltrazioni dei contingenti internazionali procedono in modo confuso, caotico e lento. I soldati della coalizione Nato che sono in Afghanistan dal 2001 stavano già lasciando il Paese ma si sono trovati spiazzati dalla velocità dell’avanzata talebana e la fuga è stata, così, rocambolesca e poco dignitosa. «Anche noi abbiamo cercato di andare all’aeroporto» – racconta Maryam e manda le foto di quello che le è capitato. I talebani hanno iniziato via via a chiudere tutte le arterie d’accesso alla zona aeroportuale e hanno piazzato dei checkpoint. Col fucile puntato alla gola delle donne, chiedevano documenti, dove andassero, perché. «E c’era una folla incredibile, abbiamo avuto paura di essere uccise» spiega Maryam che ha dei segni rossi sul collo e i piedi completamente massacrati per le tante pestate ricevute nella ressa. «Siamo tornati indietro, in questo momento è pericoloso anche solo uscire di casa». Casa, forse in questi giorni l’unico luogo sicuro. Probabilmente, ma non è certo.

I talebani continuano ad andare di casa in casa per requisire le armi e minacciare tutti coloro che…

 


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Uomini che odiano le donne, i bambini, l’arte, la cultura

In questi momenti sono estremamente drammatiche le notizie che ci arrivano dall’Afghanistan: l’attentato kamikaze, all’aeroporto di Kabul registra un numero altissimo e ancora imprecisato di vittime. Le esplosioni che sono seguite in città rendono ancora più dura e quasi impossibile la resistenza e la vita della popolazione civile in Afghanistan, a cui ora sono chiuse tutte le porte. I talebani rivali dell’Isis che hanno commesso l’attentato, e loro complici nel distruggere i diritti umani, non sono mai stati interlocutori accettabili, come invece proposto da Trump che con loro aveva fatto gli accordi di Doha. E di fronte a questa immane tragedia è evidente la totale disfatta di Biden, della Nato, che non ha saputo o voluto prevenire.

E’ una storia purtroppo che continua da molti anni. E’ sempre la stessa storia.  I fondamentalisti religiosi colpiscono le donne, i bambini, di diritti umani, l’arte. E l’Occidente che schizofrenicamente voleva esportare la democrazia con mezzi violenti alla fine è diventato loro complice, perfino sacrificando ora come ha fatto l’amministrazione Biden le vite di soldati americani in ritirata.

«Fuori piove, senti il fragore della pioggia battente che si schianta contro la finestra, e si schianta anche la tua voglia di alzarti dal letto, di andare. Hai freddo, anche il sole ha freddo. L’alba indecisa come te, fatica a sorgere». Ci torna alla mente l’incipit potente de I portatori d’acqua (Einaudi) dello scrittore afgano Atiq Rahimi che nel 2019 rievocava la grande ferita, collettiva, della cancellazione di uno straordinario melting pot culturale, rimasto intatto per secoli e simboleggiato dai Buddha del Bamiyan; una ferita inferta lucidamente dai talebani che nel 2001 vollero colpire non solo sculture patrimonio dell’umanità, ma anche i valori che incarnavano, un meticciato, una compresenza laica e pacifica di culture che nel tempo si era sviluppata lungo la via della seta. Era una ferita che colpiva la più alta espressione umana, l’arte. E che colpiva insieme  le persone in carne d’ossa come accade drammaticamente anche oggi.

L’iconoclastia, quella furia distruttiva verso le immagini che hanno un senso emotivo profondo e rappresentano valori umani universali è da sempre bersaglio dei fondamentalisti. Che non sopportano l’arte, l’immagine e la libertà delle donne, la bellezza di una identità umana profonda e irrazionale.
La storia ci ricorda che nel IV secolo i parabolani del vescovo Cirillo uccisero la filosofa e scienziata Ipazia perché osava insegnare, liberamente, per strada. Nell’VIII secolo gli iconoclasti cristiani a Bisanzio cavavano gli occhi a chi aveva in casa immagini di santi appena un poco incarnati. La ferocia dell’iconoclastia cristiana e di quella islamica non sono troppo diverse, come ben sappiamo. Uguale è la loro ferocia contro donne e bambini, negati, annullati oppure fisicamente aggrediti. La furia a cui stiamo assistendo parla chiaro: le donne afgane ricacciate in casa, costrette al burqua per uscire al sole, braccate, rastrellate di casa in casa per violentarle e sposarle a forza, non importa se sono poco più che bambine. Già nei mesi scorsi avevamo denunciato con Save the children che i talebani prendevano di mira le scuole (ricordiamo la strage di maggio in cui hanno perso la vita almeno 25 ragazze che volevano studiare, che sognavano un futuro diverso). Dove erano gli Occidentali e le truppe Nato?

Perché in vent’anni di occupazione nonostante i trilioni spesi dagli Usa e gli 8 miliardi e mezzo spesi da noi non siamo riusciti a metterle in sicurezza? E ora che i talebani hanno preso il potere ripristinando la sharia, come possiamo pensare di negoziare con dei tagliatori di teste che di sicuro si sono fatti più astuti sul piano diplomatico (anche grazie agli Usa che hanno fatto con loro gli accordi di Doha), ma di certo non hanno cambiato pelle. Lo dimostrano le violenze, le fustigazioni a cui sottopongono le donne ogni giorno.

Ne avevamo parlato su Left all’inizio di luglio lanciando un allarme sulla situazione che stava per precipitare. Ora torniamo idealmente in Afghanistan per continuare a dare voce alla società civile che si oppone ai fondamentalisti e al loro oscurantismo, per raccontare il dramma dei profughi e stare della parte delle donne, attraverso testimonianze dirette raccolte da Bianca Senatore. A lottare rischiando la vita sono in tante. Fra loro le attiviste di Rawa e di tante organizzazioni femminili nate nel Paese. Sono avvocatesse, docenti universitarie, artiste, registe, politiche come la ex parlamentare Malalai Joya che più volte è stata intervistata su Left (dal collega Stefano Galieni) ma che ora non riusciamo a raggiungere. Speriamo che sia ben nascosta, temiamo molto per la sua incolumità.

Sono loro le vere e coraggiose avanguardie in un Afghanistan, terra dai tesori d’arte millenari, ma che purtroppo conosce ancora tassi di analfabetismo altissimo. «Molte donne oggi nelle zone rurali non sanno nemmeno di avere dei diritti, questo è il punto più doloroso», ci ha detto un’attivista di una Ong, che per motivi di sicurezza deve restare anonima. «Nei villaggi il Mullah è l’unica figura di riferimento, viene ascoltato senza vaglio critico. Vige una rigida ideologia religiosa e patriarcale. Tante ragazze e donne anche per ignoranza, poiché non hanno mai conosciuto una realtà diversa, subiscono violenze con rassegnazione. Molte di quelle che siamo riusciti a raggiungere non sapevano neanche che fosse un loro diritto non essere picchiate».

Esperienze come quella di Pangea, del Cospe e di tante altre organizzazioni dal basso ci dicono tuttavia che le cose possono cambiare e in piccola parte stavano cambiando come ci racconta da Kabul il medico Gina Portella di Emergency ricordando che al loro ospedale nel Panshir le donne andavano per partorire ma anche per la pianificazione familiare. Che ne sarà ora di tutto questo? Cosa accadrà delle afgane quando si spegneranno i riflettori sull’emergenza che in questi giorni occupa le prime pagine di tv e giornali? Anche per questo abbiamo scelto di pubblicare come copertina una delle splendide immagini realizzate dalla street artist afgana Shamsia Hassani che a Kabul lotta per la liberazione delle donne rappresentandole senza bocca, ma vitali, fiere e appassionate, determinate a fare musica, a realizzarsi nell’arte e negli affetti, lottando per costruire un futuro di pace e di democrazia. «Voglio colorare i brutti ricordi di guerra – aveva detto qualche tempo fa Shamsia in una intervista -. Se coloro questi brutti ricordi, allora cancello la guerra dalla mente delle persone». E oltre: «Voglio rendere famoso l’Afghanistan per la sua arte e non per la sua guerra».

 

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L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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Il medico e il presidente

Gino Strada è morto e i talebani si sono presi Kabul. Non si tratta di un rapporto causa-effetto, ma di una duplice sconfitta, avvenuta con una terribile coincidenza e tempestività, che rende il nostro mondo più triste e difficile da vivere. La signora Angela Merkel ha fatto mea culpa per questi vent’anni di gestione europea in Afghanistan, mentre nonno Biden spiegava che la missione americana si era conclusa. Il discorso del presidente degli Stati Uniti ha mostrato in tutta la sua evidenza la logica nordamericana protesa alla salvaguardia dei propri interessi e all’esportazione di diritti e democrazia solo fintanto che sul piatto della bilancia ne risulti un succulento bottino personale. I soldati Usa non potevano più morire, gli statunitensi non volevano costruire uno stato democratico, ma combattere il terrorismo e Osama Bin Laden era già stato ucciso. La logica americana è ferrea, lucida, non fa pieghe ed è tremendamente consequenziale.

Interessi economici e religiosi – motori principali fin dai tempi dei padri costituenti Usa – considerano gli altri esseri umani come oggetti da depredare o coscienze da incivilire e quando tutto è stato arraffato e non ci sono più animi disponibili a ricevere il buon messaggio cristiano si torna a casa – anzi si scappa – incuranti di ciò che si lascia alle proprie spalle. Hanno fatto sempre così: con gli indios, con gli indiani, con i popoli coinvolti nelle guerre per procura. “Diritti” e “democrazia” sono solo due bandiere dietro cui nascondere trame, interessi, obiettivi strategici e geopolitici. C’è stato un tempo in cui era più democratico l’integralismo islamico del comunismo sovietico. Poi, dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, non era più possibile patteggiare con il diavolo in persona.

Oggi il destino delle donne, dei bambini e degli esseri umani che vengono cercati casa per casa non rientra nel calcolo dei benefici. Al massimo si parlerà di effetti indesiderati di un’operazione di “fine missione” che andavano preventivati. Amministrazione Trump e amministrazione Biden non fanno differenze: destra e sinistra non esistono all’interno della logica americana, perché là dove impera il profitto individuale non c’è posto per gli altri esseri umani, si tratta solo di imporre la voce della “civilissima” America, costi quel che costi. Le potenze europee, pur potendo vantare nel proprio dna un’altra storia e altri valori, risultano complici nel momento in cui non vi fanno appello e non mettono in crisi una modalità di civilizzazione che ha sotteso da sempre le conquiste colonialiste per la quale i popoli sconfitti risultano da incivilire ed educare a patto di dissanguarli e depredarli fino all’osso.

Libertà, uguaglianza, giustizia fra gli uomini non sono valori che possono essere imposti con gli eserciti e i soldati, ma costruendo ospedali e scuole e, come ammoniva Strada, abolendo la guerra così come abbiamo abolito la schiavitù. È pur vero che ancora nel 2021 forme di schiavismo esistono e si perpetuano in modo incontrastato, ma averle bandite scrivendolo nero su bianco è un passo avanti che l’umanità non può tollerare di annullare. Dovrebbe avvenire lo stesso per le guerre.

Ogni essere umano aspira a realizzare la propria identità e quindi a dichiararsi libero e uguale di fronte agli altri uomini. Si tratta di diritti universali (né razionali né tantomeno cristiani) a cui i popoli aspirano in modo naturale se posti nelle condizioni di poterlo fare. Il problema è l’ipocrisia che il mondo occidentale ha accampato nei confronti di tutti coloro che non rispondevano ai caratteri di razionalità, cristianità e produttività di cui detto mondo si è sempre fatto porta-bandiera; pronto poi a deprecare la ritrosia di quei popoli riottosi ad accogliere la mano tesa e destinati a ripiombare nel caos e nella notte dell’integralismo e del fanatismo. Il solito “fardello” di cui ragione e amore cristiano dell’uomo bianco si sono fatti carico. Nonno Biden parlava dal fondo del più bieco individualismo e a noi tornavano in mente azioni e parole di quel chirurgo di guerra che ha speso la vita per gli altri essere umani.

 

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L’editoriale di Elisabetta Amalfitano è tratto da Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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Durigon scricchiola

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 07-07-2021 Roma Politica Matteo Salvini incontra i cittadini del quartiere Boccea Nella foto Claudio Durigon Photo Roberto Monaldo / LaPresse 07-07-2021 Rome (Italy) Matteo Salvini meets the citizens of the Boccea district In the pic Claudio Durigon

E alla fine il salvinisissimo Durigon scricchiola, il sottosegretario all’Economia leghista che è riuscito a infilare una serie di strafalcioni uno dopo l’altro, passando dall’avere demolito un sindacato per regalarlo a Salvini e ottenere in cambio una candidatura, poi riuscendo a cimentarsi nella figura barbina di essere registrato da una telecamera nascosta di Fanpage.it mentre rassicurava un suo elettore sull’inchiesta circa i 49 milioni di euro fatti sparire dalla Lega (che restituirà in comode rate che un cittadino normale si può solo sognare) e infine ha pensato bene di proporre l’intitolazione a Arnaldo Mussolini di un parco a Latina che è dedicato a Falcone e Borsellino. Insomma, Durigon è l’esempio perfetto del politico salviniano, di quel neofascista che non ha nemmeno il coraggio di ammetterlo, arrivato al potere con la boria del protagonista da bar, prestato alla politica per poter esibire un po’ di potere barzotto, degno cantore dei prepotenti nostrani.

Durigon scricchiola e alla fine Salvini al meeting sacro di CL di Rimini (lì dove tutti i potenti di ogni specie fanno la fila per baciare la pantofola) è costretto ad ammettere che con Durigon ci deve parlare per «decidere cosa sia meglio per la Lega e per il Governo», di fatto scaricandolo con la solita vigliaccheria di chi sa essere forte con i deboli ma non riesce mai a non essere debole con gli amici e gli amici degli amici. «Quando si hanno responsabilità di governo, occorre stare sempre attenti quando si parla…» ha detto ieri Giorgetti, che nella Lega è riuscito a travestirsi da serio e acuto politico, nonostante la Lega.

E non è un caso che sulla pessima simbologia delle gesta di Durigon sia intervenuta buona parte dell’associazionismo e della società civile: riuscire in un colpo solo a infangare l’antifascismo e la storia dell’antimafia è un colpo da maestro dell’idiozia.

Resta da registrare il silenzio del presidente del Consiglio Mario Draghi che, come troppo spesso accade, non proferisce parola quando non si tratta di numeri. Va bene così: i fan del governo tecnico potranno registrare con gioia l’assenza del governo sulle questioni ideologiche, esattamente come piace a loro.

Sullo sfondo è sicuramente molto felice Giorgia Meloni: Durigon è l’ennesima briciola di uno sbriciolamento di Salvini che diventa valanga. Ma, badate bene, non è una buona notizia: forse stiamo parlando del Salvini sbagliato se non ci rendiamo conto che sarà Meloni a cavalcare verso una possibile vittoria e Giorgia Meloni è una che con i fascismi ha una familiarità addirittura più pericolosa.

Noi intanto si sta qui fuori alla finestra e si aspetta, si aspetta che arrivi il prossimo schizzo sulla Costituzione e che accada qualcosa per cui indignarsi di nuovo. Che accada qualcosa per cui sognare invece appare un’ipotesi sempre più lontana.

Buon giovedì.

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La campana dell’ultimo giro

Afghan people who were transported from Afghanistan to Madrid, walk towards an U.S. military airplane that will transport them to Germany, at the Torrejon military base as part of the evacuation process in Madrid, Spain, Tuesday, Aug. 24, 2021. (AP Photo/Andrea Comas)

È iniziata male ma finirà addirittura peggio. E non solo perché la situazione all’aeroporto di Kabul continua a essere drammatica come può essere drammatica una fiumana di disperati disposti a morire pur di infilarsi in un buco che basterà per pochissimi di loro ma soprattutto perché i talebani stanno lentamente smettendo di recitare la parte degli illuminati e tornano veloci alla propria natura forti della posizione conquistata nel Paese.

«Il 31 agosto ci aspettiamo che tutti i soldati stranieri se ne vadano. Altrimenti sarà considerata un’estensione dell’occupazione», ripetono e gli Usa sembrano non avere intenzione di cimentarsi in nessun braccio di ferro. Persino la resistenza organizzata dal figlio del comandante Massud nella valle del Panjshir non sembra impensierire gli studenti coranici, sempre più convinti che il gioco degli oppositori sia semplicemente una mossa mediatica per ottenere più soldi dai loro possibili finanziatori stranieri e un maggiore peso nella composizione del nuovo governo.

Il G7 di ieri non ha risolto praticamente nulla. Le pressioni di Boris Johnson e di Angela Merkel per ottenere una proroga della permanenza in Afghanistan e salvare più persone possibili hanno trovato il muro degli Usa che hanno anzi chiarito di dover smettere con le evacuazioni alcuni giorni prima per avere il tempo di smontare le basi logistiche e preparare armi e bagagli. E senza gli americani la permanenza dei Paesi europei in Afghanistan diventa praticamente impossibile. Ora la posizione di dialogo con il nemico (che da noi era stata infelicemente strumentalizzata per le tristi liti da cortile dei nostri provincialissimi capi di partito) comincia a farsi strada e perfino Draghi ribadisce la necessità di «mantenere un canale di contatto anche dopo la scadenza del 31 agosto e la possibilità di transitare dall’Afghanistan in modo sicuro».

Mezz’ora prima del summit il portavoce dei Taliban, Zabihullah Mujahid aveva detto chiaramente «I Taliban non permetteranno più ai cittadini afghani di raggiungere l’aeroporto di Kabul, le persone dovrebbero tornare a casa». Per mostrare i muscoli ha aggiunto: «Gli americani stanno facendo qualcosa di diverso, quando c’è la calca sparano e la gente muore. Sparano alla gente. Noi vogliamo che gli afghani siano al sicuro da questo». Un successo di relazioni dopo la disfatta militare, insomma.

Sullo sfondo rimane anche la solita Europa frammentata e inumana che non riesce nemmeno a trovare un’ombra di linea comune sull’accoglienza. I talebani controllano ormai i confini con i Paesi limitrofi (che sono già stati chiusi) e dalla riunione dei 7 non si è nemmeno riusciti a trovare una linea comune per eventuali corridoi umanitari. Stesso discorso per quanto riguarda il riconoscimento formale con il nuovo regime: I leader del G7 hanno fatto sapere che i rapporti della comunità internazionale coi talebani dipenderanno dalle azioni future del gruppo, la stessa formula che avevano usato qualche giorno fa ministri degli Esteri dei Paesi del G7 al termine di una riunione che avrebbe dovuto preparare quella di ieri e che invece riporta le stesse conclusioni. Nessun passo in avanti.

Qualcuno propone di coinvolgere Cina e Russia nella gestione della crisi: «Credo che il G20 possa aiutare il G7 nel coinvolgimento di altri Paesi che sono molto importanti perché hanno la possibilità di controllare ciò che accade in Afghanistan», ha detto Draghi ai suoi colleghi, riferendosi anche all’Arabia Saudita, alla Turchia e all’India.

Suona la campana dell’ultimo giro, quella che arriva insolente per risvegliarci dalla trance alcolica (o agonistica, ché di campane dell’ultimo giro ne esistono diverse ma la tristezza del senso di fine è sempre la stessa). Finirà male, com’era ovvio che fosse, bastava leggere la storia per intero fino a qui.

Buon mercoledì.

Franceschini mette De Pasquale a dirigere l’Archivio di Stato. Perché proprio lui?

Riuscire a far infuriare i parenti delle vittime delle stragi di matrice neofascista con una semplice nomina dirigenziale, tecnica, per di più il 16 di agosto, è impresa davvero difficile: di norma queste nomine passano senza che vi sia alcuna discussione, né interna né esterna ai ministeri. Eppure è proprio ciò che è stato capace di fare Dario Franceschini scegliendo come sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, tra decine di possibili candidati, il direttore della Biblioteca Nazionale di Roma, Andrea De Pasquale. Anche la lettera diffusa 21 agosto dal Ministro, dopo cinque giorni di attesa, non è bastata placare le polemiche. Ma da dove nasce, una tale rovente contestazione? Andiamo con ordine.

Le prime contestazioni, con una lettera al premier Draghi, sono arrivate il 16 agosto dalle famiglie delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980, a causa del ricordo, ben vivido, del comportamento tenuto da De Pasquale in occasione dell’acquisizione del fondo Pino Rauti – ideologo neofascista e fondatore di Ordine Nuovo, centro studi da cui fuoriuscì un movimento politico omonimo con diversi membri implicati in stragi durante gli anni della “strategia della tensione” – nel novembre 2020, nel giorno del compleanno di Rauti. In quell’occasione, il direttore non solo lo accettò così come era stato confezionato dalla famiglia Rauti, senza prevedere un vaglio tecnico-scientifico a cura di archivisti così da permettere una migliore contestualizzazione e fruibilità. Pubblicò, soprattutto, sul sito della Biblioteca, inviandolo a tutti gli iscritti alla newsletter dell’istituto, un messaggio dai toni a dir poco celebrativi, in cui si descriveva Rauti come “organizzatore, pensatore, studioso, giornalista. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico”, tacendo naturalmente dei suoi decenni di attivismo contro lo Stato e la Repubblica, mentre il fondo era definito “una fonte di informazione politica di prim’ordine e anche un valido punto di riferimento di natura culturale”. Chiunque abbia abbastanza anni per ricordare la figura di Pino Rauti, sorriderà amaro a questa descrizione, gli altri con una breve ricerca potranno informarsi su una figura che, sicuramente rilevante per la storia di questo Paese, andrebbe certo contestualizzata e descritta, conosciuta, non celebrata. Il messaggio contestato è stato rimosso dal sito istituzionale dopo poche ore (sotto richiesta del Ministro stesso). Ma il fondo è ancora lì, allestito secondo il volere della famiglia, rischiando di fornire agli utenti della Biblioteca uno strumento parziale e fuorviante su quegli anni. E quella presenza, quella inaugurazione, ha assunto un sapore politico, come rivendicato anche dalla donatrice Isabella Rauti in un video celebrativo girato all’interno della Biblioteca Nazionale. Ecco quindi la paura dei familiari delle vittime, data la mole di documenti presenti all’Archivio di Stato, molti dei quali in via di desecretazione e che potrebbero contribuire a far luce su queste vicende oscure. Scrive Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage di Bologna, che se la nomina non fosse bloccata dovrà “pensare che nei fatti non c’è nessuna volontà di fare chiarezza sui retroscena della strage e delle stragi in generale, sulle collusioni degli apparati, di chi erano i gladiatori, delle loro ‘imprese’ e tantomeno delle varie implicazioni politico terroristiche della famigerata loggia P2″. Scriveva anche, Bolognesi, che De Pasquale è “una persona che ha sicuramente i titoli, ma non la visione e lo spessore che dovrebbe caratterizzarne il ruolo”.

La sera del 18 agosto, Andrea De Pasquale, curiosamente, risponde alle critiche con un post su Facebook in cui elencava i suoi titoli: quindi l’unica cosa che nessuno gli stava contestando. Fino ad allora. In realtà, come ben messo in luce da Tomaso Montanari su Il Fatto Quotidiano il giorno successivo, neppure i titoli depongono a favore di De Pasquale: pur avendo una formazione in parte archivistica (ma la divisione più o meno netta tra i due percorsi formativi è cosa recente), De Pasquale è entrato al Ministero in qualità di bibliotecario e, come si vede nel suo curriculum (nella parte non citata dal suo post Facebook), ha sempre diretto biblioteche e mai un archivio, che ha regole e bisogni diversi. Che la sua prima esperienza dirigenziale nell’ambito sia l’Archivio Centrale dello Stato fa una certa impressione, anche perché ciò, come sottolinea ancora Montanari, ignorerebbe una legge del 2008 che impone di avere un archivista come direttore dell’archivio. Giustamente. Anche se, c’è da dire, queste aporie sono ormai diventate un segno distintivo del modus operandi franceschiniano: basti pensare che l’attuale direttrice dell’Archivio di Stato di Roma, in carica dal gennaio 2021, è una storica dell’arte, dirigente scolastica, priva di qualsivoglia formazione o esperienza nel settore archivistico.

Di fronte a queste critiche e contestazioni – più o meno impreviste, c’è da immaginarsi – parte della classe dirigente scelta da Franceschini ha reagito in maniera convulsa. In particolare Giuliano Volpe, presidente emerito del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, professore ordinario di archeologia e grande sostenitore della riforma Franceschini, ha pubblicato un attacco sconclusionato sui suoi canali social: “Purtroppo i talebani non sono solo a Kabul ma anche in Italia e c’è chi si è detto orgoglioso di essere definito talebano. La vicenda delle reazioni alla nomina di Andrea De Pasquale lo dimostra. Difendiamo il pensiero laico e libero contro le posizioni intransigentemente fanatiche di certi sedicenti progressisti molto apprezzati nel nostro mondo e molto presenti sui media”. Senza rendersi conto, probabilmente, sia della gravità dell’accostamento (come si può paragonare chi critica a chi usa violenza sistemica? Per di più considerando l’emergenza in corso) sia dell’assurdità dello stesso, avendo finito per paragonare ai talebani le famiglie delle vittime del terrorismo. Nessuno, della cerchia di dirigenti franceschiniani, ha ancora sentito il bisogno di prendere le distanze dalle parole di Volpe. Dall’altra parte, il Consiglio Superiore dei Beni Culturali in carica, nello stesso giorno, inviava a Dario Franceschini una nota in cui condivideva la posizione delle associazioni delle famiglie delle vittime: ma, come rivelato oggi da Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano, decideva di non renderla pubblica.

In tutto ciò, altri due aspetti che rendono critica la nomina di de Pasquale sono emersi solo in seguito, con un nuovo comunicato stampa firmato da noi di Mi Riconosci e dalle associazioni delle vittime delle stragi.

Il primo riguarda la vicenda degli “scontrinisti”, del 2017. Quell’anno 22 “volontari” della Biblioteca Nazionale denunciarono che in realtà lavoravano con turni e compiti specifici, ed erano pagati a rimborso spese attraverso la consegna di scontrini fino a 400 euro al mese. Protestarono, chiesero un lavoro vero. De Pasquale non solo non si impegnò per tutelare questi lavoratori, ma non si registra neppure una vera e propria presa di distanze nelle cronache del tempo. A maggio, gli scontrinisti ricevettero un SMS che chiedeva loro di non presentarsi più al lavoro, e pochi giorni dopo venne pubblicato un nuovo bando per volontari pagati con rimborso spese.

Il secondo riguarda il fatto che l’Archivio Centrale dello Stato vedrà nei prossimi anni la realizzazione del progetto più costoso della sua storia recente. Si troverà infatti a dover dirigere i progetti di digitalizzazione del materiale archivistico, gestendo una parte considerevole (ancora non nota) dei 500 milioni di euro stanziati per progetti di digitalizzazione attraverso il PNRR: processi di digitalizzazione archivistica che seguono regole e bisogni molto diversi da quelli che caratterizzano le biblioteche. Davvero, di fronte a una spesa tanto ingente, la direzione migliore possibile è quella di una persona che non ha mai diretto un archivio?

In sintesi, Franceschini starebbe scegliendo per l’Archivio Centrale un direttore che non si è fatto problemi in passato a utilizzare il lavoro sottopagato, che ha permesso a una determinata parte politica di utilizzare la Biblioteca per mandare determinati messaggi, appunto, politici, e che non ha esperienze dirigenziali nel settore archivistico.

La politica, si è mossa, e non poteva essere altrimenti. Il PD è in fermento, e già nella giornata di giovedì esponenti Leu e il M5S chiedevano di bloccare la nomina. I familiari delle vittime hanno scritto anche a Mattarella, e sabato 21 agosto hanno anche spiegato di trovare “inaccettabile” che De Pasquale si firmi già da direttore, prima di entrare formalmente in carica. A quel punto è scattata, dopo lunghissimi giorni di silenzio, la risposta di Dario Franceschini, colui che ha scelto Andrea De Pasquale: ha rivendicato la nomina con piena responsabilità, ha detto ai familiari di restare tranquilli perché le loro preoccupazioni “non hanno ragione di esistere”, ha spiegato che la scelta è avvenuta “esclusivamente in base al curriculum professionale” (strano, essendoci tanti dirigenti archivisti nel Ministero), ha calcato sul fatto che l’episodio di novembre non può essere “elemento sufficiente per mettere in discussione una nomina”, scordando tutti gli altri episodi e aspetti che abbiamo analizzato in questo articolo. Parla di scuse di De Pasquale nel novembre 2020, che alle famiglie delle vittime non risultano (vi fu una lettera, che però non era di “scuse”), poi aggiunge che “i dirigenti devono sempre e comunque applicare le norme”, come se ciò fosse garanzia che non possano avvenire abusi. Ma soprattutto, si sofferma sul fatto che la nomina è già “completata da giorni con la firma mia e del Ministro della Funzione Pubblica, su delega del Presidente del Consiglio”, come a dire: fermatevi, è tutto fatto, inutile scrivere a Draghi o Mattarella. Tutto fatto nel pieno di agosto, in silenzio. Insomma, una lettera piena di ricostruzioni parziali e omissioni: si arriva a dire che il messaggio celebrativo su Rauti “non era stato scritto dal direttore”, come se non avere contezza di ciò che comunica la biblioteca fosse una scusante e non un’aggravante.

Come prevedibile, la lettera non è bastata. Le associazioni delle vittime hanno immediatamente replicato dicendo che lo scritto del Ministro “sbatte la porta in faccia alle associazioni e alle tante donne e uomini di cultura che si sono associati alle nostre preoccupazioni” e che “la nomina di De Pasquale a sovrintendente dell’Archivio di Stato è un vulnus intollerabile, una operazione che sembra serva a tranquillizzare quegli apparati che ancora oggi hanno paura della verità”. La vicenda è appena agli inizi, come dimostrano le dimissioni di Tomaso Montanari dal Consiglio Superiore dei Beni culturali “per denunciare l’arroganza del ministro”. Perché il problema, infatti, senza voler porre alcuno stop preventivo, è sempre capire perché: perché proprio questa nomina, nonostante la serie di errori (riconosciuti, dato che il messaggio celebrativo pro-Rauti è stato rimosso) e nonostante la non aderenza professionale al ruolo. Ancora non è dato saperlo.

Gli autori: Leonardo Bison e Flavio D. Utzeri fanno parte del collettivo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali

 

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Il fondotinta sulla narrazione

È iniziata la tipica fase in cui ci imbattiamo ogni volta che l’Occidente combina disastri in qualche Paese straniero e ha l’urgenza di apparire con la faccia del buono. Diceva Gino Strada (e lo ripete spesso e bene sua figlia Cecilia) che per fare bene la guerra bisogna imparare a usare bene le parole che servono per compiere la truffa in modo chirurgico: le missioni di pace che sono stracariche di armamenti ne sono un fulgido esempio ma anche le bombe che dovrebbero essere “intelligenti” o peggio i cosiddetti “danni collaterali” (che sono civili innocenti rimasti ammazzati per terra) rendono perfettamente l’idea di un’operazione di disinfestazione utile a fare apparire vero ciò che invece non lo è.

Le foto dei soldati che salvano i bambini, ad esempio, sono certamente funzionali per una superficiale impressione in cui i buoni sono talmente buoni da apparire salvifici e i bambini vengono tratti in salvo grazie all’attenzione dei soldati occidentali che con le loro mani li strappano dall’inferno: quei bambini vengono strappati dalle loro famiglie che non sanno mai se riusciranno a mettersi in salvo da una situazione in cui gli Stati che vorrebbero apparire come salvatori hanno responsabilità enormi. Non solo: sono gli stessi soldati che puntano i loro fucili contro quei bambini nei campi profughi in giro per il mondo. Non solo: sono gli stessi soldati che hanno addestrato quelli che ora sono diventati carnefici, sono gli stessi soldati che esportano la democrazia a suon di bombe.

Certo non è facile tenere la barra dritta e mantenere un equilibrio di osservazione, restando lucidi. Però, sia detto, questa insopportabile trasformazione in “buoni” è innocente e immorale. Ieri in Italia è esplosa la fiabesca narrazione di Tommaso Claudi, definito “console” su tutti i siti dei principali media mentre viene fotografato indaffarato a salvare bambini. Peppe Marici, portavoce del ministro degli affari esteri Di Maio, ha confezionato un zuccheroso tweet: «Oltre quel muro c’è la speranza. Grazie al nostro console a #Kabul Tommaso Claudi. Non si sta risparmiando, senza sosta, fino all’ultimo». Benissimo. Peccato che Claudi (persona dalle indubbie qualità morali per il coraggio e per la dedizione alla causa) non sia “console” ma semplice “secondo segretario generale” (come fa notare mazzetta su twitter) e questa morbida narrazione serve per non dire che l’ambasciatore Vittorio Sandalli se n’è andato dall’Afghanistan in fretta e furia. Non solo: la Farnesina nei giorni scorsi ha confezionato una nota esultante in cui ci dice che l’Ambasciata italiana a Kabul è stata ricostituita, udite udite, a Roma (sembra uno scherzo, lo so). Nella nota si dice che a Kabul è rimasto un “presidio diplomatico” che altro non è quel Tommaso Claudi facente funzioni di console ma che non lo è visto che non esiste nessun consolato italiano. Se a qualcuno viene il dubbio che tutti gli ambasciatori per motivi di sicurezza se ne siano andati allora vale la pena sapere che l’ambasciatore britannico è molto apprezzato in patria proprio perché è rimasto, l’ambasciatore tedesco incontra e tratta di persona con i talebani, l’ambasciatore francese a Kabul è indaffaratissimo, come quello dell’Unione, l’ambasciatore spagnolo a Kabul dice che non rientrerà fino a che l’ultimo spagnolo e l’ultimo collaboratore degli spagnoli non avranno lasciato l’Afghanishtan. E se vi è capitato di leggere giornali entusiasti per l’italiano Pontecorvo, definito “ambasciatore” si sono dimenticati che lavora per la Nato. 

Questo è solo un piccolo esempio eppure racconta moltissimo della comunicazione in tempo di guerra. E qui, se ci pensate bene, siamo sempre in guerra: pensate come sta messa la comunicazione.

Buon martedì.

(foto da Twitter)

* Riceviamo e pubblichiamo una precisazione di Peppe Marici, portavoce del ministro degli Affari esteri
Gentile Direttore,
Le scrivo dopo aver letto l’articolo pubblicato sul suo giornale dal titolo: “Il fondotinta sulla narrazione”.

Premetto che davanti allo sforzo immane della nostra diplomazia e dei nostri militari, qualsiasi tipo di polemica rischia di distogliere l’attenzione dal lavoro incessante e rischioso che questi servitori dello Stato stanno portando avanti con passione, professionalità e sacrificio.

C’è un passaggio del pezzo in questione che, per correttezza innanzitutto nei confronti di Tommaso Claudi in queste ore ancora a Kabul, va doverosamente chiarito.

‘Ieri in Italia è esplosa la fiabesca narrazione di Tommaso Claudi, definito “console” su tutti i siti dei principali media mentre viene fotografato indaffarato a salvare bambini. Peppe Marici, portavoce del ministro degli affari esteri Di Maio, ha confezionato un zuccheroso tweet: «Oltre quel muro c’è la speranza. Grazie al nostro console a #Kabul Tommaso Claudi. Non si sta risparmiando, senza sosta, fino all’ultimo». Benissimo. Peccato che Claudi (persona dalle indubbie qualità morali per il coraggio e per la dedizione alla causa) non sia “console” ma semplice “secondo segretario generale”’.

È doveroso chiarire che “console” è chi svolge funzioni consolari, al di là del grado nella carriera diplomatica. In pratica, il console si occupa di tutelare gli interessi dei propri connazionali in un Paese straniero e fornire servizi (consolari) soprattutto amministrativi, come il rinnovo dei passaporti, il rilascio dei visti o la trasmissione di atti e documenti giudiziari.

In merito a Tommaso Claudi, dunque, è importante operare una distinzione tra il suo “grado” di carriera e le “funzioni” che svolge presso l’Ambasciata a Kabul. Tommaso Claudi è un giovane diplomatico al grado iniziale della carriera, grado che prende il nome di Segretario di Legazione.

A Kabul, gli è stata affidata dall’Ambasciatore la funzione di Capo della Cancelleria Consolare. In tale veste, Tommaso svolge svariati compiti, tra i quali: proteggere gli interessi nazionali e tutelare i cittadini italiani e i loro interessi, mantenendo con tutti loro contatti costanti; prestare soccorso e assistenza ai cittadini italiani in Afghanistan; svolgere le funzioni di ufficiale dello Stato civile, notarile, di volontaria giurisdizione, polizia giudiziaria; rilasciare passaporti e documenti di viaggio agli italiani in loco, favorendo gli scambi culturali con il programma “Study in Italy”. Infine, Tommaso Claudi è sempre stato – vista l’attribuzione delle funzioni consolari, e ben prima della situazione attuale – il primo interlocutore dell’Unità di Crisi della Farnesina per il piano emergenza della Sede.

La replica di Giulio Cavalli
Prendo atto della precisazione che in realtà non sposta di una virgola il senso del pezzo: un giovane diplomatico a inizio carriera (e viste le sue enormi qualità umane oltre che professionali ci auguriamo che sia una carriera lunga) era l’unico presidio italiano in Afghanistan. La narrazione generale si è “dimenticata” di dirci che il nostro ambasciatore fosse partito ben prima (a differenza di altri ambasciatori) e che il ruolo di una diplomazia che funzioni e che riesca a risolvere in modo sistematico è molto di più di una foto.

 

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I talebani e il terrorismo dell’indifferenza

Individuare le categorie interpretative adatte per la comprensione di quanto sta accadendo in Afghanistan, è probabilmente il nucleo centrale della difficoltà narrativa, vista la complessità dei piani e la molteplicità degli aspetti da considerare. Anche la storia “italiana” ha un passato antico di nefandezze e violenze di matrice monoteista, che hanno raggiunto l’apice dell’orrore con l’Inquisizione.
L’inquisizione cattolica non può essere relegata alla sola dimensione religiosa connessa all’ortodossia in contrapposizione ai movimenti eretici, l’inquisizione fu arma di regolamentazione del potere in cui il peccato si faceva crimine pubblico. E le donne, nelle dinamiche di organizzazione del potere che usa l’oppressione religiosa, diventano il bersaglio primario della repressione.

L’Inquisizione, per mano dell’ordine dei mendicanti domenicani, fu responsabile del più grande femminicidio di massa della storia dell’umanità. Ora assistiamo impotenti al femminicidio di massa per mano dei domenicani d’oriente, i talebani, che ripercorrono la stessa categorizzazione dell’inquisizione, ovvero l’interpretazione della violazione della regola coranica come crimine pubblico da condannare con ferocia ed efferatezza.
Non più roghi, ma lapidazioni ed impiccagioni, ovviamente preceduti da stupri e torture. Ripercorrere le responsabilità di quanto accade in queste ore serve quantomeno a trasformare il senso di angoscia e di impotenza, che ogni persona intellettivamente sana prova nel pensare al destino segnato per le sorelle afghane, e a tradurlo in accusa verso soggetti politici e istituzionali.

Il popolo afghano è stato condannato nel 1979 con l’uccisione di Taraki, il quale, tra le altre riforme, aveva introdotto il voto alle donne e abolito i matrimoni forzati, oltre ad aver distribuito terre ai contadini. Il suo vice ministro diede l’ordine di ucciderlo in accordo con la CIia che non gradiva la svolta socialista impressa da Taraki.
L’invasione russa che ne seguì solleticò l’intromissione Usa che da allora, insieme agli alleati di sempre, ovvero i sauditi, finanziò i talebani in funzione antisovietica. Con l’uscita di scena dei sovietici, il potere fu preso dai Mujaheddin i quali proclamarono lo Stato islamico dell’Afganistan, con il pieno appoggio degli Usa.

I talebani presero il sopravvento sui Mujaheddin fino alla decisione Usa del 2001 di invadere l’Afghanistan per “esportare democrazia”. In questi venti anni i talebani hanno stemperato le rozzezze diplomatiche, si sono arricchiti oltre ogni misura con il commercio dell’oppio, hanno comprato armi dai sauditi, hanno rafforzato la coesione ideologica anche attorno alla narrazione della necessità di liberare le terre dell’islam dall’invasione dei crociati.

Ora hanno già dato prova di comandare con il terrore, vigliacco e omicida, come tutti i governi nei quali la religione diventa legge di Stato. Quanto all’oppio, nel primo periodo di occupazione gli Usa si sono vantati di aver distrutto intere piantagioni di papavero afghano, ma hanno omesso di dire che in quel periodo si è avuta una preoccupante siccità che ha distrutto ogni forma di coltivazione, e che dunque i “meriti” erano attribuibili, piuttosto, alle condizioni metereologiche.
Negli anni successivi la produzione di oppio controllata dai talebani, sotto l’occhio complice della Cia, si è espansa grazie anche ad “agenti di commercio” albanesi, fino a coprire oggi tra l’85 e il 90% del “fabbisogno” mondiale di eroina e metanfetamine.

Non c’è soltanto l’ambasciatore russo Zamir Kabulov ad accusare la Cia di aver consentito l’esportazione dell’oppio verso l’occidente e verso l’Asia, anche altri osservatori, come ad esempio David Mansfield, docente della London School of Economics and Political Science, sostengono che i talebani riscuotono una tassa sulla produzione e sulla vendita, ma non producono né raffinano direttamente. In questi venti anni sono stati spesi centinaia di miliardi di dollari per sostenere governi fantoccio, per addestrare milizie governative corrotte, per creare apparati istituzionali fasulli, che si sono sbriciolati come neve al sole.

Ci vorrà qualche mese e l’Afghanistan sparirà dalle cronache quotidiane, perché i governi occidentali troveranno la formula meno indigesta per dire che dovremmo dialogare con i talebani.
Del resto finanziamo Erdogan, abbiamo autorizzato la vendita di armi all’Arabia Saudita, sapendo dei buoni rapporti che aveva con i talebani, non c’è una sola forza politica in Parlamento che non abbia una responsabilità morale per aver rifinanziato le missioni di “pace”, e l’Afghanistan ha una collocazione geografica troppo strategica per lasciarla nelle sole mani della Russia e della Cina.

Gli occhi delle sorelle afghane non hanno più lacrime per piangere e i nostri cuori affranti non trovano pace mentre immaginiamo il terrore che le invade.
In tutto questo orrore, possiamo solo odiare gli indifferenti.

L’autrice: L’avvocato Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea

 

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