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Democrazia da asporto

No, non vanno benissimo le cose in Afghanistan e l’Occidente continua a non farci una bella figura. Per niente. Nonostante la pelosa attenzione ai drammi rimbalzati su tutti i media (perché la sofferenza, si sa, comunque rende parecchio in termini di ascolti) la situazione dell’aeroporto di Kabul smutanda la debolezza di Usa ed Europa incapaci perfino di salvare il salvabile, di imbarcare quelli che dovrebbero essere i salvati secondo gli accordi con i talebani e di riuscire a non sfilacciare le famiglie.

Negli ultimi 7 giorni almeno 20 persone sono morte nei pressi dell’aeroporto: si tratta di civili che facevano parte della massa accalcata mentre cercavano di cogliere l’occasione di abbandonare il Paese. E il numero è indicato da fonti ufficiali della Nato, presumibilmente per difetto. Migliaia di persone (secondo alcune stime Usa sarebbero almeno 20mila) tentano disperatamente di arrivare ai bordi delle piste mentre alcuni bambini per non rimanere incastrati nella calca vengono passati di mano in mano, come un feretro ancora vivo, per essere lasciati ai soldati. Dentro al dramma di un genitore che decide di scindersi dal proprio figlio perdendolo pur di salvarlo c’è tutto l’orrore di questi giorni.

A proposito di bambini: sempre di più si perdono e scompaiono. L’allarme è stato lanciato da media locali come l’emittente ‘Ariana‘, che ha raccontato la storia di una famiglia di Kabul che si sta prendendo cura di un bambino rimasto incastrato nel filo spinato e che, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscita a rintracciare i suoi genitori. Il bambino, che ha circa 6 anni, ha dichiarato che la sua famiglia è arrivata in aeroporto per fuggire dal Paese. Apparentemente suo padre è caduto tra la folla e da quel momento in poi il bambino ha perso i contatti con entrambi i genitori. Giornalisti locali riferiscono che diverse persone stanno postando foto di bambini scomparsi all’aeroporto.

I talebani, dal canto loro, hanno gioco facile nel filtrare le persone grazie ai presidi intorno alla zona: si raccontano bastonate e ci sono diversi filmati di colpi da arma da fuoco. Alcuni testimoni raccontano che i talebani chiederebbero 1.500/2.000 euro per fare avvicinare le persone alla pista. Tutto questo mentre sono proprio loro ad accusare: “L’America, con tutta la sua potenza e le sue strutture… non è riuscita a portare l’ordine all’aeroporto. C’è pace e calma in tutto il Paese, ma c’è caos solo all’aeroporto di Kabul”, dicono. Peccato che non sia per niente così: mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati su Kabul nelle zone rurali del Paese arrivano frammenti di notizie che raccontano violenze e addirittura rapimenti di bambini nei confronti degli afghani che hanno collaborato con l’Occidente, come ritorsione.

Biden la definisce l’“evacuazione più difficile della storia”, un’operazione “difficile e dolorosa” e intanto ha attivato il programma d’emergenza della Civil Reserve Air Fleet (Craf), richiedendo l’uso anche di aerei civili. Un piano nato 70 anni fa in piena Guerra Fredda, nel 1952, dopo il ponte aereo di Berlino del 1948, quello organizzato dalle potenze occidentali per aiutare i cittadini di Berlino Ovest rimasti isolati col blocco delle vie di comunicazione messo in atto dall’Unione Sovietica. Solo due volte si è ricorsi a una decisione così estrema: in occasione della prima guerra del Golfo nel 1991 e della guerra in Iraq nel 2002. I primi aerei di linea sarebbero già in volo e il Dipartimento della difesa americano potrebbe rafforzare nei prossimi giorni la sua richiesta.

L’Occidente intanto insiste nel suo approccio paternalistico e fallimentare da esportatori di democrazia. Nonostante il disastro sotto gli occhi di tutti non si riesce a capire che perché le democrazie attecchiscano rimangono fondamentali l’educazione, la cooperazione sociale (che è stata una fetta minuscola dell’enorme mole di soldi spesi in Afghanistan) e l’autodeterminazione. Se i soldi della guerra fossero stati divisi per ogni abitante afghano oggi ognuno di loro avrebbe preso 200mila euro: questo per rendersi conto dell’assurdità di un investimento bellico che non ha portato nessun risultato, nemmeno militare.

E da noi? Da noi si insiste con la visione ombelicale di ciò che accade e così ci ritroviamo ad avere sprecato una giornata sorbendoci chi dalle file della destra si domanda dove siano “le nostre femministe?” giusto per accendere un po’ di bile. Come scrive giustamente Michela Murgia, “non hanno tempo, le femministe, per curare anche la strana malattia intermittente del sovranismo locale, che si manifesta invocandole quando c’è da criticare gli abusi stranieri, ma sbeffeggiandole in tutte le circostanze in cui si occupano degli abusi in casa nostra”. Le femministe (e le associazione che operano lì) sono dove sono sempre state: al fianco delle donne. Il punto è che le donne afghane (come tutte le altre) non vanno “salvate” ma vanno messe in condizione di non avere bisogno di salvarsi. Ma questo è un argomento evidentemente troppo complesso per chi ha il pelo sullo stomaco di lucrare anche su un dramma del genere.

Buon lunedì.

 

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Riforma Cartabia, in nome del popolo italiano?

“La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti solo alla legge”. Così recita l’art 101 della nostra Costituzione, affermando il principio fondamentale che il popolo, inteso come Stato comunità, è fonte di legittimazione di tutte le funzioni che lo stesso esercita in suo nome.
A riprova di ciò, in un momento solenne del processo penale, il presidente del tribunale giudicante, prima di dare lettura del dispositivo pronuncia la frase di rito: “In nome del popolo italiano” .

Il legame tra il popolo ed i giudici, si esprime nel principio di legalità: i giudici sono soggetti solo alle leggi, leggi votate in parlamento, organo espressione della volontà popolare. Questo però presuppone che il “ popolo” cui appartiene la sovranità, sappia di cosa si discute, sia correttamente e onestamente informato del contenuto delle leggi che in suo nome si approvano.

Di recente, come in tantissime altre occasioni, non è stato così. La cosiddetta riforma Cartabia approvata il 3 agosto alla Camera (e al voto in settembre al Senato, alla riapertura dei lavori parlamentari), è stata preceduta, salvo rare eccezioni, da informazioni fuorvianti, mendaci e ingannevoli. È amaro constatare che il diritto ad una informazione indipendente, affievolisce ogni giorno e poche sono rimaste le voci libere. «La riforma Cartabia ha l’obiettivo di ridurre i tempi della giustizia eliminando le zone di impunità» è stato il ritornello snervante, ripetuto centinaia di volte attraverso la stampa, la televisione ed i mezzi telematici, salvo rare, rarissime, pregevoli eccezioni.
Chi ascolta deve per forza convincersi che sia un’ottima riforma, che oltretutto, permette di accedere ai fondi del Pnrr, promessi solo in cambio, tra l’altro, della riduzione del 25% dei tempi biblici della giustizia.
In realtà il messaggio lanciato ripetutamente appare fuorviante, perché il risultato finale non sarà una giustizia più veloce, sarà, invece, una giustizia che si limiterà solo a ridurre il numero dei processi pendenti presso le Corti d’Appello e in Cassazione, con esclusivo beneficio della statistica, ma senza una corrispondente risposta di giustizia: risposta che, sola, interessa al “ popolo”.

L’introduzione della cosiddetta prescrizione del processo, pur con l’esclusione di alcuni reati a maggior impatto sociale e la previsione di un periodo di transizione per il suo pieno regime e peraltro neppure accompagnata da una consistente depenalizzazione e contestuale valorizzazione dei riti alternativi, condurrà ad un sostanziale allargamento delle zone di impunità per la maggior parte dei reati. Le Corti d’Appello e la Cassazione subiranno un vertiginoso aumento delle pendenze, perché, tutti, sperando nella declaratoria di improcedibilità, che, peraltro vanifica il principio costituzionale dell’azione penale pubblica e obbligatoria fino alla sentenza di merito, saranno invogliati a proporre impugnazioni con fini dilatori e infondate.

Né va tralasciata un’ulteriore considerazione: il processo in caso, di superamento dei termini di durata massima del procedimento penale, si chiuderà con uno stampato che dichiarerà l’improcedibilità, vanificando oltre alle attese di giustizia delle parti lese, anni di attività di indagini volte alla ricostruzione delle vicende e all’individuazione dei colpevoli espletate dalla Polizia giudiziaria e dal Pm, nonché quelle dibattimentali dei tribunali: anni di lavoro sprecati, per non parlare dell’enorme dispendio economico.
Forse sarebbe stata preferibile un’amnistia, ma quest’ultima prevede un termine con riferimento alla data del commesso reato e la riforma Cartabia opera invece indiscriminatamente, anche per il futuro: un autentico regalo per chi progetta reati confidando nei ritardi della giustizia.

Per non parlare poi, a proposito delle vistose distorsioni della Carta Costituzionale, dell’introduzione nell’ordinamento di una previsione finalizzata a limitare la discrezionalità delle procure nel selezionare le notizie di reato cui attribuire una trattazione prioritaria. La Costituzione all’art 112 dispone l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del Pm, ogni qualvolta gli perviene una notizia di reato che sia sufficientemente supportata da elementi di prova che ne escludono l’archiviazione. Ora è chiaro che la selezione da parte delle procure in parte avviene già per problemi organizzativi degli uffici giudiziari o per problemi emergenziali, ma ancorare le azioni dei giudici ai “criteri generali indicati con legge dal Parlamento” significa orientare la funzione giurisdizionale a seconda delle scelte valoriali, che tra l’altro cambiano a seconda delle maggioranze politiche sedute in parlamento e alle loro idee in tema di politica criminale.

Ci sembra un clamoroso passo indietro, un’assurda involuzione. In un periodo storico non molto lontano, quando un regime liberticida barbaramente calpestava tutti i diritti dell’individuo, la magistratura non era organo indipendente, ma dipendeva dal capo del governo. Il legislatore costituente per scongiurare il pericolo che ciò che era accaduto nei venti anni precedenti, potesse anche solo palesarsi all’orizzonte, rese il promovimento dell’azione penale obbligatorio come corollario del principio di uguaglianza.
Ci sorge il dubbio atroce che si stia perpetrando una riforma sostanziale della Costituzione, per di più attraverso una legge ordinaria. Il popolo sovrano è stato sufficientemente, correttamente, onestamente informato di tutto ciò? A noi, purtroppo, pare di no e tempi duri per la giustizia si affacciano all’orizzonte.

L’autrice: Concetta Guarino è avvocato e autrice del libro Coautrice del libro “Bambini vittime” (Liguori ed .)

 

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Carlo Greppi: «Leggi razziali e genocidi, questo fu il fascismo»

La destinazione principale delle deportazioni dall’Italia, come dal resto d’Europa, fu il campo di Auschwitz. Gli ebrei che vi giunsero dall’Italia furono più di 6mila. Altri trasporti partiti dall’Italia furono diretti a Bergen Belsen. Gli oltre 400 deportati che furono rinchiusi in questo campo, riuscirono a salvarsi in quanto furono oggetto di scambio con tedeschi nelle mani delle potenze alleate. Alcuni trasporti, quelli partiti dall’Italia dopo il novembre 1944, furono diretti verso i campi di Ravensbrueck e Buchenwald, poiché ad Auschwitz era cominciata la fase di liquidazione del campo. Altri ebrei caddero nei rastrellamenti anti partigiani e, non riconosciuti come ebrei, furono deportati in campi di concentramento destinati agli oppositori politici. Le vittime della Shoah in Italia furono oltre 7mila; i superstiti rientrati in Italia dalla deportazione furono il 12,5% del totale».

E poi ci sono gli internati ad Auschwitz provenienti dai nostri possedimenti dell’epoca nel Dodecaneso, 1.815. Di questi, sappiamo solo che sopravviveranno 178 persone della comunità ebraica di Rodi.

Questa tragica conta, che mette una volta per tutte nero su bianco le responsabilità italiane nel compimento dell’Olocausto, è un estratto del progetto I nomi della Shoah, progetto della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea coordinato dalla storica Liliana Picciotto.

Sono cifre che infrangono la narrazione purtroppo ancora dominante che dipinge l’Italia come un attore assolutamente di secondo piano nello sterminio di ebrei, prigionieri politici, slavi, rom e altre minoranze che si è consumato durante la Seconda guerra mondiale per mano del Terzo Reich. Per non parlare della vulgata secondo cui il popolo italiano, in fondo, avrebbe fatto il possibile per impedirlo.

Cifre che lo storico Carlo Greppi riprende nel suo prezioso ebook La nostra Shoah (Feltrinelli, 2015). Nel saggio, tra le altre cose, ci ricorda che seppure le vittime dell’Olocausto italiano furono effettivamente poche se prendiamo a paragone i Paesi dell’Europa orientale, su questa vicenda si è scelto di non fare i conti. Come testimoniano anche la letteratura e il cinema. Greppi, ora in libreria con L’antifascismo non serve più a niente (Laterza, 2020) ne ha parlato con Left. Ma partiamo dall’inizio.

Possiamo dire che l’Italia abbia partecipato senza riserve alla Shoah?
Innanzitutto l’Italia perseguita con convinzione, senza alcun tipo di pressione da parte della Germania nazista, gli ebrei italiani e stranieri che risiedono sulla penisola nel 1938, quando vengono emanate le leggi razziali fasciste. Comincia allora quella che gli storici hanno chiamato “la persecuzione dei diritti”. Si tratta di un elemento fondamentale per isolarli, oltreché naturalmente per individuarli. Successivamente, con l’occupazione nazista del 1943, inizia “la persecuzione delle vite”. Riguardo alle migliaia di ebrei arrestati e deportati ad Auschwitz, e mai più ritornati, gli storici sono giunti a una conta precisa: su tre arresti, uno è compiuto da italiani, uno da tedeschi e uno da italiani e tedeschi congiuntamente. L’ha dimostrato, tra gli altri, Simon Levis Sullam nel suo libro I carnefici italiani (uscito in Italia per Feltrinelli nel 2015, ndr), sfatando il mito di una Repubblica di Salò del tutto succube della Germania nazista. Nella persecuzione degli ebrei ci fu una spietata collaborazione tra fascisti e Terzo Reich che durò per tutti i venti mesi dell’occupazione.

Come e perché, a fronte di questa realtà, il mito degli “italiani brava gente” è riuscito a sopravvivere fino ad oggi?
Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi (Laterza, 2013, ndr), con una scrupolosa analisi di documenti coevi e successivi, racconta che questo mito si iniziò a scriverlo a guerra ancora in corso, e peraltro fu rinsaldato anche sul versante antifascista, come strumento per potersi accreditare come alleati credibili agli occhi degli Stati che avrebbero vinto la guerra, in una classica eterogenesi dei fini. Questo mito si è poi trascinato fino a noi anche attraverso cinema e letteratura, per non parlare della pubblicistica di bassa lega, rappresentata in Italia da molti giornalisti revisionisti che negli anni si sono succeduti. Dunque è un mito abbastanza inscalfibile per una parte dell’opinione pubblica. Italiani brava gente? di Angelo Del Boca (Neri Pozza, 2005, ndr) e più di recente Mussolini ha fatto anche cose buone di Francesco Filippi (Bollati Boringhieri, 2019, ndr) sono due testi chiave che smontano questa narrazione. Ma, nonostante siano stati enormi successi editoriali, hanno scalfito solo in superficie questa grande mitologia dell’italiano che in fondo non si è macchiato di crimini gravi. Perché? Da un lato sicuramente il non aver fatto i conti anche giuridicamente coi criminali di guerra italiani ha avuto un ruolo decisivo. Dall’altro, il fatto che milioni di italiani siano stati più o meno convintamente fascisti, che abbiano poi in qualche misura difeso, ridimensionato i crimini del regime nel corso del Ventennio, perché non dobbiamo dimenticare quelli compiuti durante le “imprese” coloniali e i massacri dei civili in tutti i luoghi occupati, ha contribuito a rinvigorire questo mito. Il nostro compito è ribattere colpo su colpo, ricordare che il fascismo fu un regime spietato, di fatto sempre in guerra, che non si è mai fatto alcun problema a calpestare chi veniva ritenuto inferiore, dai popoli colonizzati agli ebrei.

Un altro luogo comune di questa narrazione autoassolutoria è quello secondo cui il regime sarebbe stato tutto sommato bonario fino alle leggi razziali che insieme all’entrata in guerra due anni dopo furono semplici “errori di percorso”.
L’ultimo libro di Bruno Vespa, per fare un esempio, si mette in scia a una lunga tradizione revisionista, secondo cui il fascismo fu un regime fondamentalmente buono fino al 1938, ossia fino alle leggi razziali, che solitamente si sostiene, peraltro, sarebbero state emanate in seguito a forti pressioni dei tedeschi, che è falso. Così come si afferma che sono i nazisti a trascinare un’Italia recalcitrante nella Seconda guerra mondiale, teoria altrettanto falsa. In realtà, lo sappiamo, il fascismo prende il potere con la violenza, perseguita gli oppositori sin da subito, non lesinando omicidi politici, commina migliaia di anni di carcere di confino, induce decine di migliaia di persone all’esilio o alla clandestinità, ed essendo di fatto sempre in guerra persegue una politica di potenza che gli storici sono arrivati a definire anche “genocidaria”, ad esempio in riferimento alla Cirenaica, alla cosiddetta “riconquista” della Libia. Tutto questo prima delle leggi razziali e prima dell’entrata in guerra.

Possiamo dire che i campi di concentramento furono un fatto anche italiano?
Lo storico Eric Gobetti, che è ora in libreria con E allora le foibe?, un saggio pubblicato nella collana “Fact checking” che curo per Laterza, lavora da anni su un caso specifico che fa luce in generale su questo aspetto, ossia il campo di concentramento italiano per slavi di Arbe nel Carnaro, dove morirono circa 1.500 persone, in gran parte di stenti. Riprendendo quanto dicevo prima, ricordiamo che in Cirenaica il regime fascista internò metà della popolazione, per sottrarre – in teoria – terreno ai ribelli, in realtà mettendo in atto una politica genocidaria. Ma in generale, in tutte le occupazioni della Seconda guerra mondiale, il regime fascista internò sistematicamente oppositori e civili. Chiaramente non si trattava di campi di sterminio per come li intendiamo dopo aver visto quelli eretti nel 1941-1945 dal Terzo Reich, ma di una politica assolutamente convergente, di una idea di “nuovo ordine” perseguita parallelamente da nazismo e fascismo, che prevede l’isolamento e l’annientamento di chi a questo progetto si oppone o in questo progetto non rientra. Non dimentichiamo infine che, per favorire la persecuzione degli ebrei e dei deportati politici, in Italia aprirono vari campi di transito. In uno in particolare, la Risiera di San sabba, venivano attuate anche pratiche di sterminio.

C’è un ampio dibattito sul consenso della popolazione civile…
Io lo metterei tra virgolette perché come molti storici hanno sottolineato non si può parlare di consenso in un regime totalitario, però, sicuramente milioni di italiani sostennero con convinzione o con diversi gradi di opportunismo il regime, e la seconda metà degli anni Trenta è considerata il picco di questo consenso. È altrettanto vero che centinaia di migliaia di persone si opposero decisamente al fascismo, durante tutto il Ventennio, in fasi altalenanti. Se poi consideriamo la parabola del partigianato italiano, ci troviamo di fronte a milioni di civili che lo sostengono. In maniera oscillante, certo, e non si può sicuramente parlare di una “lotta di popolo”, anche tenendo conto delle stime più aggiornate dei combattenti grazie al lavoro confluito nel sito Partigiani d’Italia. Si tratta di una minoranza, per quanto nutritissima, di persone che si opposero prima al regime e poi al nazifascismo, che mostra un’altra Italia che covava sotto le ceneri. Poi ci sarebbe da parlare dell’ampia fascia che oscillò tra i due poli oppure scelse di stare in disparte, la cosiddetta “zona grigia”, della quale si è molto dibattuto in termini assolutori. Io credo che debba essere fatto in termini storici, cercando di capire come e perché la maggioranza degli italiani, in fondo, non si schierò mai o quasi.

Come sarà possibile continuare a raccontare questo capitolo terrificante della nostra Storia, quando non ci saranno più testimoni diretti?
I testimoni sono stati preziosissimi. C’è stata un’epoca, “l’era del testimone”, che ha permesso di costruire una narrazione pubblica commovente e molto profonda di quegli anni. Ora, i testimoni dal punto di vista dello storico sono fonti, ad alta temperatura emotiva certo, ma fonti. E di fonti – fermo restando che molte di quelle testimonianze dirette son rimaste registrate su supporti vari, cartacei e audiovisivi – ne abbiamo anche altre, penso ad esempio alle fotografie, alcune atroci, terrificanti, come quelle scattate dalle Einsatzgruppen sul fronte orientale mentre lo sterminio prendeva forma, e abbiamo anche le storie individuali, le storie familiari, le storie locali. C’è moltissimo materiale ed è nostra responsabilità lavorarlo, impastarlo e restituirlo con varie forme di narrazione al pubblico. L’importante è non “sedersi” mai su quanto fatto, innovare continuamente le metodologie e le forme di narrazione. C’è il rischio che l’attuale narrazione ad un certo punto stufi, in parte l’ha già fatto, ed è comprensibile, ma è nostro compito circumnavigare questa fatica.

La risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, che equipara comunismo e nazismo, e dunque i crimini dei regimi di destra e di “sinistra”, compie una equiparazione inaccettabile, su cui la destra però insiste molto. Che ne pensa?
Il pericolo fondamentalmente è quello di non comprendere come i fascismi perseguirono dall’inizio alla fine un’idea di mondo ben precisa, in cui alcuni popoli superiori hanno il diritto di schiacciare gli altri. È giusto naturalmente ricordare che in Unione Sovietica andò in scena uno dei regimi più biechi della Storia dell’umanità, lo stalinismo, ma è altresì giusto indicare che nacque da tutt’altre premesse. Fu una terrificante distorsione di quel sogno che nel 1917 aveva contagiato milioni di europei e non solo. Equipararlo al nazismo è profondamente scorretto. Si tratta naturalmente di due totalitarismi, ma nel caso dei fascismi il loro esito fu precisamente quello che i loro artefici avevano sempre cercato, desiderato, perseguito: lo sterminio degli “altri”, che andavano annientati o schiavizzati. E i fascismi ci lasciarono in eredità un mondo di rovine.

Una strategia utilizzata dalle destre in Italia per depotenziare le responsabilità del fascismo nella Shoah, e di conseguenza l’impatto della Giornata della memoria, è stata l’istituzione del Giorno del Ricordo.
Su questo, per approfondire, rimando con estrema convinzione a E allora le foibe? di Gobetti. C’è stata come minimo un’imbarazzante ingenuità da parte delle forze che si rifanno all’arco costituzionale nel permettere che attraverso l’istituzione del Giorno del ricordo l’estrema destra italiana suggerisse neanche troppo velatamente una comparazione tra la Shoah e quelle specifiche vicende che andarono in scena sul confine orientale, che videro la morte di circa 5mila persone in due diverse fasi, un numero non trascurabile delle quali era stata convintamente fascista. Si tratta di una dinamica locale che però ha molte situazioni analoghe in tutta Europa, soprattutto nel ’45, nelle ultime settimane e negli ultimi mesi di guerra. Per come è stata scritta la legge istitutiva del Giorno del ricordo e per come è stata coltivata quella memoria specifica, dice opportunamente Gobetti, rischiamo di trovarci di fronte a una “data della memoria fascista”. E questo è estremamente preoccupante in un Paese democratico. Per chi ha a cuore la memoria pubblica di una democrazia come l’Italia, la cosa più urgente sarebbe fare seriamente i conti con i crimini commessi dall’Italia dagli anni Venti agli anni Quaranta e nello specifico nell’occupazione della Jugoslavia dove i nazifascisti fecero un milione di morti. E poi, in un secondo momento, si può anche illuminare quello che è in parte anche un effetto di quella politica di potenza e dell’incubo di un “nuovo ordine mediterraneo” che l’Italia fascista ha inseguito.

 

 

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 22-28 gennaio 2021

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SOMMARIO

Maurizio Bettini: Ciò che ci rende umani

Incoraggiando i ragazzi a proteggere dal contagio gli anziani, la senatrice Liliana Segre ha evocato l’immagine di Enea che portava sulle spalle il padre Anchise.
Un’immagine che ha attraversato i millenni e che è entrata nell’immaginario collettivo. I capolavori della letteratura antica ci parlano di valori umani universali. E ci aiutano a capire il presente, scrive il filologo e classicista Maurizio Bettini, docente dell’Università di Siena, in un suo recente libro A che servono i Greci e i Romani, a cui fa seguito, nelle stessa collana Einaudi Homo sum, una affascinante indagine sul “dovere di essere esseri umani”, secondo gli antichi.

Professor Bettini, cosa le suggeriscono le parole della senatrice Segre?
L’immagine di Enea proposta da Liliana Segre mi ha ricordato l’emozione che provocò in Giorgio Caproni la vista di una statua di Enea, con Anchise e Ascanio per mano, eretta in piazza Bandiera, in una Genova bombardata e prostrata dalla guerra. Scriveva Caproni nel suo Il passaggio di Enea: «Enea che in spalla/un passato che crolla tenta invano/di porre in salvo, e al rullo d’ un tamburo/ch’è uno schianto di mura, per la mano/ha ancora così gracile un futuro/da non reggersi ritto». Anchise diventa il simbolo di un passato da conservare – perché la rovina di Troia ne ha messo in pericolo perfino la memoria, così come la Seconda guerra mondiale ha distrutto il passato dell’Europa – e Ascanio è il simbolo del futuro ancora fanciullo, incerto. Questi versi di Caproni costituiscono l’ennesima testimonianza della potente efficacia umana e simbolica che i grandi testi, e i grandi miti, dell’antichità sono ancora capaci di esercitare su noi moderni. Ciclicamente, a seconda dei momenti storici e delle congiunture culturali, il mondo antico ci si ripresenta e con le sue figure, i suoi temi, le sue stesse opere, ci aiuta a capire e pensare il presente. È questo ciò a cui “servono” i Greci e i Romani, la funzione che la conoscenza del passato classico può continuare ad esercitare.

Con Homo sum lei ci invita a rileggere il primo libro dell’Eneide là dove racconta di profughi che fanno naufragio. Fuggono dalla guerra di Troia. Ma sbarcati fortunosamente vengono respinti. Il poema virgiliano ci fa riflettere sulla ferita dei diritti umani negati. Il pensiero corre a ciò che accade nel Mediterraneo a causa di politiche xenofobe?
Come ho scritto nel mio libro, purtroppo l’Eneide ha smesso in qualche modo di essere poesia ed è diventata cronaca. Ciò che nel primo libro dell’Eneide si descrive come finzione poetica – il naufragio dei Troiani nel canale di Sicilia mentre cercano di raggiungere proprio l’Italia, il loro approdo sulle coste della Libia, l’iniziale rifiuto dei Cartaginesi, che vogliono ributtarli in mare, la reazione dei naufraghi, che chiamano «barbari» coloro che respingono il naufrago dal lido e non gli offrono «hospitium», l’accoglienza generosa di Didone, che interviene in loro favore – tutto questo episodio sembra parlarci di ciò che avviene ed è avvenuto oggi: con i migranti respinti dai lidi italiani con i decreti Salvini, e soprattutto, ahimè, le decine di morti nelle acque di quello stesso canale di Sicilia. Virgilio ci mette di fronte a un grande tema umano e giuridico, ma prima ancora culturale: il dovere di porgere la mano al naufrago e di offrire ospitalità agli sventurati che ce la chiedono. «Guardateci da vicino», esclama uno dei Troiani, «non siamo nemici, siamo solo naufraghi!» Oggi purtroppo la xenofobia dilagante, fomentata dagli imprenditori dell’odio e della paura, sta facendo proprio questo: presenta i naufraghi come nemici, come invasori, e, dopo l’avvento dell’epidemia, perfino come untori.

Anche se non c’era un’idea di diritti umani come la conosciamo oggi né qualcosa che assomigliasse alla dichiarazione del ’48, il dovere di essere esseri umani era ben presente nell’antichità greco-romana?
Esisteva, certo, ma con una grande differenza rispetto alla modernità. Non si parlava tanto di “diritti” dell’uomo, come qualcosa che scaturisce dall’interno stesso della persona in quanto umana, ma piuttosto di “doveri” verso l’uomo. Un dovere che imponeva appunto di prestare soccorso al naufrago, di dare acqua o fuoco a chi lo chiedeva, di seppellire i morti, e così via, iscrivendo questo dovere in un orizzonte di carattere religioso: sono gli dèi che vegliano sull’adempimento di questi obblighi e puniscono prima o poi chi li trasgredisce. Quando Creonte, nell’Antigone di Sofocle, si rifiuta di seppellire il corpo di Polinice, in quanto considerato nemico della città (trasgredendo così una norma antichissima e sancita dagli dèi) la città di Tebe è sconvolta. Le parole che Tiresia, l’indovino cieco, pronunzia sono terribili: «Tutti gli altari, tutti i nostri bracieri sono contaminati dai brandelli di carne che uccelli e cani hanno strappato al misero caduto, il figlio di Edipo. Perciò gli dèi non accettano più le nostre preghiere e i nostri sacrifici, né gradiscono la fiamma che si sprigiona dalle cosce delle vittime. E gli uccelli, ingozzati dal grasso sanguinolento di un uomo massacrato, non emettono più suoni che si possano decifrare». Quando penso a tutti i poveri corpi che galleggiano nelle acque del Mediterraneo, restando insepolti, mi vengono sempre in mente queste parole di Tiresia.

Come si conciliava la riflessione sui doveri dei cittadini anche verso migranti e viandanti con la schiavitù che era un fatto strutturale nel mondo antico?
La cultura antica non può certo essere presa come un paradigma di perfezione, di umanità o di dolcezza, come vogliono certe immagini stereotipate della classicità. Quasi che dagli antichi potessimo imparare solo la civiltà. Non è così. La cultura e la società dei Greci e dei Romani presentano aspetti di profonda ingiustizia, che stridono fortemente con la nostra visione del mondo: primo fra tutti la schiavitù, ma anche lo squilibrio nei rapporti fra uomini e donne, la distinzione fra “Greci” da una lato e “barbari” dall’altro (i Romani però furono molto meno chiusi nei confronti dell’alterità di quanto non lo fossero i Greci). La schiavitù, in particolare, era una fenomeno così integrato nella struttura, sociale economica e culturale, del mondo antico, che praticamente nessuna voce si levò mai a contestarne la liceità.

Anche Seneca, che pure scrive una bellissima lettera sulla necessità di trattare gli schiavi in modo più mite ed umano, come lei nota nel libro, «non era certo un abolizionista».
Aveva grandi proprietà e di certo possedeva anche molti schiavi che vi lavoravano. Certe idee, o meglio certe contraddizioni, vengono messe a fuoco solo lentamente, perché interagiscono con modelli culturali che noi non siamo immediatamente in grado di vedere senza una riflessione antropologica. Nel caso della schiavitù, per esempio, l’idea profondamente radicata che gli uomini in realtà non siano tutti uguali: questo spiega per esempio la schiavitù in Grecia (è giusto che i barbari siano schiavi dei Greci, così diceva Euripide ripreso da Aristotele); così come può spiegare il fatto che fino al Cinquecento e oltre si sia accettata la pratica di rendere schiavi africani o nativi americani perché, nella percezione comune, questi esseri non erano veramente “uomini” allo stesso titolo di chi li possedeva, ma appartenevano a uno strato inferiore di umanità. Perché questa pratica così diffusa potesse essere finalmente abolita, doveva farsi strada una concezione non razzista, non differenzialista, degli uomini. Che purtroppo però ancora non si è affermata ovunque.

Il cristianesimo, contrariamente a ciò che si dice di solito, non liberò l’antichità dalla schiavitù. Da questo punto di vista particolarmente subdola fu l’argomentazione di sant’Agostino?
Come vescovo di Ippona, Agostino amministrava terre e schiavi. In campo teorico, giustificava la schiavitù sostenendo (con l’appoggio di opportuni passi biblici) che coloro che erano schiavi, se lo erano, significava che erano peccatori, e Dio aveva voluto così; se poi si trattava di schiavi catturati in guerra, questo mostrava che stavano combattendo una guerra ingiusta. Insomma, gli schiavi rientravano a pieno titolo nel piano della giustizia divina.

Cicerone nel De Officiis parlava di «communia», dei beni essenziali che non possono essere negati agli esseri umani, ovvero a tutti coloro che sono dotati di ragione e di parola. E i bambini che ancora non hanno imparato a parlare?
Lei mi pone una questione sottilmente giuridica! A cui forse non saprò rispondere. Penso però che Cicerone, parlando di umanità in termini di ragione e parola, alludesse al fatto di possedere la “qualità” intrinseca del linguaggio, necessaria a produrre la parola, non alla sua pratica effettiva. E il bambino possiede di certo questa “qualità” anche prima di esercitarla. Ciò non toglie che a Roma l’infante godesse di una considerazione diversa rispetto a quella che ne abbiamo noi: per fare solo due esempi, il nuovo nato doveva essere “sollevato da terra” dal padre per essere riconosciuto figlio legittimo: se questo non avveniva, il bambino poteva essere dato in adozione o venduto schiavo. Ancora, per la morte di un bambino molto piccolo non era necessario prendere il lutto.

Quanto alle donne che in Grecia erano tenute fuori dallo spazio pubblico?
In Grecia la donna non aveva diritti politici, ed era fortemente limitata nella possibilità di possedere e trasmettere i propri beni (a Roma, da questo punto di vista, la posizione delle donne era molto migliore, sia pure con vicende alterne). Questo non significa però che fosse trattata come una schiava. Anzi, gli studi più recenti mostrano come la donna greca non fosse la reclusa nell’oikos che è rappresentata per esempio nell’Economico di Senofonte, ma partecipasse attivamente anche alla vita economica dalla città.

Gli stranieri per i Greci erano barbari, ma poi ne rispettavano gli dèi. Che i Romani addirittura ammettevano nel proprio Pantheon, seppur per egemonizzarli. Nelle società politeiste, c’era un diverso rapporto con l’altro rispetto a quello istituito con il monoteismo e da culture sovraniste e identitarie?
Certo, nella società romana c’era un rapporto di grande apertura verso gli dèi degli altri. Considerati non falsi dèi, o demoni, come è accaduto e accade nelle religioni monoteiste, ma divinità a tutti gli effetti, che potevano essere onorati anche dai Romani stessi. Questo creava indubbiamente un clima di grande apertura culturale, che le società a impronta monoteista stentano ancora a raggiungere.

In conclusione, tornando da dove eravamo partiti, studiare l’antichità greco romana ha un senso non tanto per ritrovare nostre sedicenti radici quanto proprio per ampliare il nostro orizzonte mentale?
Esattamente. Lasciamo perdere le radici, che spesso sono pure invenzioni mitologiche create per scopi politici e ideologici, e cerchiamo piuttosto di utilizzare la cultura antica come palestra di pensiero. La cultura antica, insieme vicina (per continuità storica, linguistica etc.) e lontana (perché gli antichi sono “altri” da noi), costituisce un’occasione straordinaria per confrontarsi con l’alterità culturale.

 

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L’intervista è stata pubblicata su Left dell’11-17 settembre 2020

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Pinuccio Sciola, lo scultore che faceva suonare le pietre

SciolaStone

La prima volta che lo conobbi frequentavo l’università. Avrò avuto vent’anni, studiavo Lettere moderne a Cagliari e quelli erano i giorni di preparazione dell’esame di Storia della letteratura italiana. Ci aveva portato lì, a San Sperate, il professore Giuseppe Marci. Ora non ricordo più il legame con il mondo dell’artista Pinuccio Sciola e i protagonisti della letteratura italiana, forse nessuno. Ma noi studenti, eravamo a casa sua a mangiare malloreddus con sugo di salsiccia e visitare il Giardino sonoro, poco fuori il paese, popolato da più di 700 opere scultoree, di cui alcune monumentali. Era il suo spazio espositivo, quell’agrumeto di famiglia, otto ettari disseminati di ulivi e arance che, già dagli anni 60, l’allora giovane scultore, utilizzava come laboratorio per intagliare i legni di ulivastro e pietre come la trachite o l’arenaria. Non era un caso se lo chiamavano l’“artista contadino”.
Quel giorno della visita nel suo atelier all’aperto, avevamo provato ad abbracciare quelle pietre per far uscire la musica. Poi lui aveva preso una piccola pietra, l’aveva sfregata, e con dei cerchi concentrici sul menhir sonante, stringendolo con passione, aveva fatto uscire un lamento vibrante, ma armonioso.

Non era uno qualunque, Sciola, aveva studiato a Firenze, all’Accademia internazionale di Salisburgo, poi a Madrid e Parigi. Ma, soprattutto, aveva avviato in Sardegna, una volta tornato nel suo paese natale, l’importante esperienza artistica e sociale dei murales, che trasformeranno San Sperate in un autentico “paese museo”. A causa di questa sua grande passione nel 1973 si era recato a Città del Messico, dove lavorò con il grande muralista David Alfaro Siqueiros. Espose ovunque nella sua vita: alla Rotonda della Besana e a Piazza Affari a Milano, alla Quadriennale di Roma e in Germania, Belgio, Austria, e ancora, ad Assisi, e poi ancora Roma. Fino a quando nel 1996 la sua grande svolta artistica con le Pietre sonore, esposte per la prima volta nel 1997 a Berchidda, in Sardegna. Nel 2011, sempre a Berchidda al festival Time in Jazz di Paolo Fresu, il grandissimo percussionista Pierre Favre, alle fonti di Rinaggiu a Tempio Pausania, le aveva suonate con le lacrime agli occhi. Sciola aveva raccontato del cuore che da millenni si nasconde dentro quei sassi. Suoni liquidi dal calcare, cupi e profondi dal basalto. Un miracolo che si rinnova sfiorando pieghe e tagli segnati dallo scultore. Pietre che…

Al Padiglione Italia della Biennale di architettura di Venezia dal 10 al 22 agosto la mostra Sound architectures dedicata alle opere di Pinuccio Sciola


L’articolo prosegue su Left in edicola fino al 26 agosto 2021

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La guerra in Afghanistan è stata un fallimento? Non per tutti

A drone Harfang (R) of the French army takes off, on December 26, 2010, from the US airbase in Bagram in Afghanistan. AFP PHOTO/JOEL SAGET (Photo credit should read JOEL SAGET/AFP via Getty Images)

Quando si insediò il Governo Draghi, all’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, un giornalista chiese se per l’Italia l’arrivo dell’ex banchiere della Banca centrale europea a Palazzo Chigi fosse positivo.
«Non esiste una sola Italia», rispose Varoufakis. Aggiungendo che se per finanzieri, rentiers, imprese di medie e grandi dimensioni sarebbe stato “positivo”, non lo stesso si sarebbe potuto dire per «la maggioranza della popolazione, che continuerà a soffrire le conseguenze di una delle peggiori crisi economiche di sempre».
Varoufakis ricordava così la finzione della “nazione” come corpo unico; al contrario, è attraversato da diverse faglie e fratture.
Non esistono politiche “win-win”: ciò che avvantaggia una parte avviene a danno di un’altra.
C’è chi vince e c’è chi perde.

Come si può tradurre questo discorso quando volgiamo lo sguardo all’Afghanistan?
Ecco, quando parliamo di fallimento o disastro della ventennale guerra di Usa e Nato dovremmo chiederci: “Fallimento/disastro per chi?”.
Certo per i popoli del mondo, che piangono più di 240mila morti in terra afghana, distruzioni immani, bombe sui matrimoni, attentati, soprusi, violenze, oppressione e una “neverending” povertà.
C’è però una minoranza per la quale, invece, la guerra è stata tutt’altro: un vero e proprio successo.

Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics sono le 5 principali aziende della difesa (leggasi: di guerra).
Se avessimo avuto 10mila dollari da investire il 18 settembre 2001, il giorno in cui il presidente George Bush Jr. diede l’autorizzazione all’uso della forza in risposta agli attentati dell’11 settembre, e li avessimo ripartiti equamente per acquistare azioni di queste 5 imprese (2mila su ognuna di esse), oggi avremmo 100mila dollari.
Un guadagno enorme.

E sapete qual è la fonte della maggior parte dei ricavi per queste aziende (eccezion fatta per Boeing)? Il governo statunitense.
Per di più nei consigli di amministrazione di tali imprese siedono ex ufficiali militari di altissimo rango, il che evidenzia una volta di più il problema delle “porte girevoli”, vale a dire del movimento di persone che si spostano dall’apparato politico, militare, legislativo a quello di imprese, gruppi industriali, ecc..
Di seguito i nomi di ex militari oggi seduti nei board di queste 5 grandi aziende:
• Boeing: Edmund P. Giambastiani Jr. (former vice chair, Joint Chiefs of Staff), Stayce D. Harris (former inspector general, Air Force), John M. Richardson (former navy chief of Naval Operations);
• Raytheon: Ellen Pawlikowski (retired Air Force general), James Winnefeld Jr. (retired Navy admiral), Robert Work (former deputy secretary of defense)
• Lockheed  Martin: Bruce Carlson (retired Air Force general), Joseph Dunford Jr. (retired Marine Corps general)
• General Dynamics: Rudy deLeon (former deputy secretary of defense), Cecil Haney (retired Navy admiral), James Mattis (former secretary of defense and former Marine Corps general), Peter Wall (retired British general)
• Northrop Grumman: Gary Roughead (retired Navy admiral), Mark Welsh III (retired Air Force general)

Due trilioni di dollari “buttati”?
Si stima che gli Usa in 20 anni di guerra contro l’Afghanistan abbiano speso più di 2.000 miliardi di dollari. Una cifra monstre. E oggi si sprecano gli articoli e gli editoriali in cui si parla dello “spreco” di risorse. Di soldi “buttati”.
Anche qui: dipende.
Qualcuno ha calcolato che se questa immensa mole di denaro fosse stata distribuita cash ai cittadini, ogni afghana/o avrebbe ricevuto 100mila, una cifra che avrebbe potuto contribuire a sradicare la fame dall’Afghanistan…
Ma così non è stato.
Laleh Khalili, professoressa di International Politics alla Queen Mary University di Londra, stima che l’80-90% del denaro speso da Washington sia in realtà tornato negli USA sotto forma di contratti con compagnie militari private (tra cui le 5 prima citate) e con altre grandi aziende.
Ad esempio, l’addestramento delle forze armate e di quelle di polizia è stato affidato a compagnie private, principalmente statunitensi; così come la ricostruzione è stata affidata ad aziende private e a Ong – anche qui: principalmente statunitensi.
E i 1.500 miliardi di dollari rubricati alla voce “spese di combattimento” sono andati al 60% ad addestramento, acquisto di materiali bellici, carburanti, armi e per il 4% per il trasporto di truppe e materiali.
Washington paga, aziende private incassano.

I 2 trilioni di dollari, dunque, non sono stati “sprecati”. Almeno non nell’ottica del complesso militare-industriale statunitense: sono piuttosto serviti a foraggiarlo.
Abbiamo occhiali diversi con cui guardiamo alla guerra: ciò che per noi è morte e distruzione, per loro è occasione di profitti immani.
Per questo essere contro la guerra in astratto non basta. Bisogna combattere questo complesso militare-industriale, tanto negli Usa quanto nei nostri Paesi. Perché qui la storia non è diversa.

P.S.: Molti dei dati necessari a un’analisi approfondita sui fondi spesi sono ancora secretati dal Pentagono. Ancora una volta dovremmo ringraziare una persona come Julian Assange per averci offerto elementi di verità. Invece, lo lasciamo marcire in una cella.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo

 

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Ma che si può fare?

In this photo provided by the U.S. Marine Corps, civilians prepare to board a plane during an evacuation at Hamid Karzai International Airport, Kabul, Afghanistan, Wednesday, Aug. 18, 2021. (Staff Sgt. Victor Mancilla/U.S. Marine Corps via AP)

Cosa si può fare è la domanda che attraversa tutte le persone angosciate per la situazione in Afghanistan di questi giorni. Escludendo la retorica politica e la propaganda servono soluzioni immediate per lenire l’emergenza umanitaria che è sotto gli occhi di tutto il mondo. C’è un tempo per le riflessioni, per le analisi e per i mea culpa (sì, ciao) ma ora si tratta di mettere in sicurezza le molte persone che rischiano la vita.

La politica italiana e europea si sente assolta trovando la soluzione condivisa di salvare “quelli che hanno collaborato con noi” (dove il “noi” potete sostituirlo con un Paese qualsiasi europeo) cadendo ancora una volta nell’indecente postura dell’Occidente che si sente in dovere di salvare i disperati solo per eventuali meriti (come quello di avere collaborato, appunto) e non per le disperazioni. Il giorno in cui l’Occidente imparerà ad accogliere qualcuno che arriva senza niente, che non ha niente, che non sa niente e che sulla battigia allarga le braccia e dice sono qui, sono nudo sarà sempre troppo tardi. Del resto hanno finto di piangere Gino Strada che insegnava proprio questo (salvare tutti, curare tutti) passandoci indenni. Beati loro.

Ma cosa si potrebbe fare? Una risposta seria e importante l’ha formulata l’Asgi (l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) che indica come prioritario «fare tutto il possibile per evacuare la popolazione locale che ritenga non ulteriormente sopportabile lo stato di privazione dei diritti e delle libertà democratiche». «Tale piano di evacuazione – scrive Asgi – dovrebbe tenere in considerazione innanzitutto le esigenze delle categorie maggiormente bisognose e vulnerabili in questo momento, ovvero almeno donne, minori di età, persone anziane, appartenenti a gruppi e comunità, religioni, posizioni politiche ed etnie che non si riconoscono nell’annunciato nuovo governo, ex collaboratori a qualsiasi titolo del personale civile e militare straniero sino ad ora presente a diverso titolo in Afghanistan. Inoltre, deve essere immediatamente garantita l’evacuazione di tutti  coloro che erano in attesa di partire a seguito di autorizzazione per ricongiungimento familiare e sono ora impossibilitati a farlo».

Per quanto riguarda l’ingresso in Europa «essendo di fatto impossibile il rilascio di visti di ingresso da parte della autorità consolari europee in Afghanistan è, dunque, necessario modificare gli allegati al Reg. (CE) 15/03/2001 n. 539/2001 (o sospenderne temporaneamente gli effetti) e così prevedere la possibilità di ingresso in Europa in esenzione di specifico visto per i cittadini afghani» e anche l’Italia «ha il dovere di garantire o, comunque, agevolare in ogni modo l’ingresso tramite le proprie frontiere marittime, aeree e terrestri dei cittadini afghani che ivi si presentino anche in esenzione di visto e fornire loro tutte le informazioni utili affinché gli stessi possano accedere alla richiesta di protezione internazionale. È difatti di palmare evidenza il diritto di tutti costoro al riconoscimento del diritto di asilo che la Costituzione italiana riconosce quale diritto fondamentale ai sensi dell’art. 10, co. 3».

L’instabilità dell’Afghanistan richiede di trasferire immediatamente «alle rappresentanze consolari italiane nei Paesi limitrofi (insieme agli altri servizi consolari) anche le competenze relative al rilascio di visti di ingresso per i cittadini afghani, in particolare quelli per ricongiungimento familiare o comunque il rilascio di visti umanitari, garantendo procedure rapide e semplificate che non tengano conto del mancato soggiorno regolare del richiedente nel Paese in cui la rappresentanza consolare è situata. Occorre infatti tenere conto del fatto che, in ragione dell’emergenza epidemiologica e dei connessi ritardi dell’Ambasciata italiana a Kabul, molte pratiche di ricongiungimento di familiari di cittadini afghani soggiornanti in Italia risultano a tutt’oggi bloccate. Allo stesso modo occorrerà tenere conto e facilitare il reingresso di cittadini afghani titolari di un permesso di soggiorno italiano che, per varie ragioni, risultano essere bloccati in Afghanistan».

«È poi indispensabile che, facendo uso di tutti gli strumenti normativi attualmente a disposizione, i cittadini afghani comunque presenti in Italia ed in Europa possano accedere con immediatezza alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale». «Solamente nel caso in cui  motivi  concreti e tassativamente previsti dalla legge ostino al riconoscimento della protezione internazionale dovrà, comunque, essere rilasciato a tutte le persone di nazionalità afghana che ne facciano richiesta un permesso di soggiorno a titolo di protezione speciale, ai sensi degli artt. 5 e 19, d.lgs. 286/98». Occorre poi «sospendere i trasferimenti dall’Italia verso altri Stati membri di cittadini afghani» nonché «porre fine alle prassi illegittime di respingimento verso Paesi che non garantiscono il diritto di asilo e un’adeguata tutela dei diritti umani, nonché contrastare l’implementazione di accordi di riammissione e/o finalizzati a trasferire forzatamente i cittadini afghani in Paesi terzi considerati sicuri».

Piano di evacuazione per la popolazione vulnerabile e che richiede di andar via, consentire l’ingresso anche senza visto, procedure rapide per il riconoscimento dell’asilo e sospendere i rimpatri: per chi dice “cosa si può fare” ecco un’ipotesi di soluzione. Le lacrime finte e il dolore di polistirolo servono a poco. La politica deve fare politica. Questa è politica.

Buon venerdì.

 

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Macelleria giudiziaria

Anche l’ultimo studente di diritto sa che la prescrizione è un correttivo e un contenimento al potere repressivo dello Stato, e anche l’ultimo degli operatori del diritto sa, invece, che la prescrizione è il pungolo per accelerare i procedimenti evitando che si neutralizzino nella estinzione per l’eccessivo decorso del tempo.

Eppure la riforma del processo penale arrivata alla Camera nel luglio scorso (ovvero il Ddl 2435/21 recante la “delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”), che si propone di ridurre del 25% la durata dei procedimenti ricorrendo al concetto di “improcedibilità”, conferma l’accanimento contro l’istituto della prescrizione, dal momento che ormai l’opinione pubblica è stata indotta ritenere che sia il fulcro di tutte le ingiustizie, il punto debole dell’intero apparato normativo e giudiziario, e che, risolto quello, tutto il resto può essere annoverato tra le quisquilie risolvibili. Gli emendamenti introdotti dalla Cartabia sul ddl di Bonafede non sono migliorativi di una pessima riforma e deprimono il sistema giudiziario su aspetti ancora più preoccupanti.

Ogni volta che un processo con imputati eccellenti si è concluso con la pronuncia di prescrizione, anche grazie alla complicità di un giornalismo d’accatto, l’opinione pubblica è stata indotta a credere che la prescrizione fosse un istituto giuridico inserito nel sistema processuale per salvare i potenti dalle responsabilità, sicché la “riforma Bonafede” entrata in vigore l’1 gennaio 2020, oltre a rafforzare questa miope interpretazione, ha avuto come conseguenza quella di distogliere le persone comuni da una seria riflessione sulla responsabilità dello Stato e sulla necessità di intervenire con efficienza sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario.

La “prima” riforma della prescrizione voluta da Bonafede è servita a dare soddisfazione alle “pulsioni” giustizialiste di magistrati in cerca di telecamere, alla frustrazione di masse forcaiole, e soprattutto all’ambizione di politici in malafede, mentre i dati sullo stato comatoso dei procedimenti penali non subiranno significative variazioni. I dati tratti dal ministero di Giustizia dicono che circa 125mila procedimenti l’anno si risolvono con prescrizione, ovvero circa il 12% dei procedimenti, di cui 56mila si prescrivono perché le procure arrivano in ritardo a formulare le imputazioni.

Quasi tutti i 125mila procedimenti riguardano reati minori, ed hanno come protagonisti persone comuni che sono incappate nelle maglie della giustizia per reati non gravi, spesso legati a situazioni di disagio economico e sociale, ma spesso legati anche ad azioni di protesta e dimostrative, e che a causa della lentezza della macchina giudiziaria, restano appesi ad un processo per anni.

La prescrizione nel nostro ordinamento è un diritto che non è legato in maniera semplicistica ai meccanismi che regolamentano il processo, perché la prescrizione non ha valenza processuale, ma sostanziale, e come tale è legata al principio di legalità. Il principio di legalità è un principio cardine di tutti gli Stati democratici e garantisce i cittadini dall’uso della forza da parte dello Stato. Se si considera che il diritto penale di per sé è repressivo, il principio di legalità è fondamentale per impedire gli abusi da parte del potere esecutivo, ed eliminare la prescrizione significa legittimare l’abuso repressivo dello Stato.

Smantellare la prescrizione è stato uno dei molteplici passaggi, messi in atto da tempo, per smantellare le garanzie democratiche con il consenso popolare. Abbiamo già leggi repressive, abbiamo già carceri fatiscenti e oppressive, abbiamo forze dell’ordine addestrate alla tortura, abbiamo le maggiori organizzazioni politiche (Lega, PD e Fratelli d’Italia, con il M5S in via di dissolvimento dopo aver fatto da stampella alle altre) sodali delle cd. lobby finanziarie e imprenditoriali, pronte a svendere i nostri diritti come se fosse l’unica loro missione.

Ebbene, di fronte a tutto questo diventa puro masochismo condividere lo smantellamento delle garanzie del sistema penale. Quando viene sbandierato l’esempio di come funziona la prescrizione negli altri Paesi, come sempre accade, la comparazione diventa un fuor d’opera, posto che negli altri Paesi i processi durano un terzo del tempo medio dei processi celebrati in Italia. Il profilo di incostituzionalità generale – che sfugge ai pentastellati ma non solo – risiede nel fatto che ogni persona, in uno Stato di diritto, deve conoscere il tempo entro il quale sarà giudicata la sua responsabilità penale, e non è concepibile, soprattutto in un contesto di grave lentezza nella celebrazione dei processi come quello italiano, inserire un meccanismo che si traduca in un “fine processo mai”.

La riforma Bonafede, monca nell’inquadramento sistematico, e pregna di finalità di basso profilo, ha avuto una prima modifica dopo meno di un anno sicché l’interruzione del decorso della prescrizione al termine del primo grado del giudizio è stata esclusa per le sentenze di assoluzione, rimanendo solo per le sentenze di condanna, maturando in questo caso, un ulteriore e diverso profilo di incostituzionalità per le conseguenze differenti che si determinerebbero in appello.

Per eliminare le storture dei tempi lunghi dei processi, con la “nuova” riforma del processo penale si sarebbe dovuto agire sul diritto penale e su quello processuale all’interno di una coerente riforma complessiva, con il potenziamento dei riti alternativi e delle depenalizzazioni, e non certo andando ad incidere su singoli istituti giuridici con il fine apparente di accorciare i tempi dei processi ma con la finalità sottesa di elidere le garanzie di difesa, tanto invise a pubblici ministeri in favore di telecamere.

I tecnicismi contenuti nella riforma Cartabia sulla domiciliazione dell’imputato assente, sull’acquisizione delle videoregistrazioni delle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, sulla digitalizzazione e sugli adempimenti telematici, non incidono in maniera significativa sulla durata dei processi, anzi è assai probabile che le fasi di transizione renderanno i tempi ancora più lunghi.

Il disegno di legge dell’ex ministro Bonafede ha annoverato criticità rozze ma ha spianato la strada agli emendamenti presentati dal governo il 14 luglio scorso attraverso la ministra Cartabia che non si è fatta scrupolo di assestare un bel colpo alle garanzie dell’impugnazione in appello. E questo è forse politicamente l’aspetto più pretestuoso dell’intera operazione di riforma portata avanti dagli ultimi due ministri di Giustizia, dal momento che vi sono stati inseriti inutili tecnicismi, come ad esempio il mandato specifico al difensore per la proposizione d’appello, volti a rendere più difficoltosa la difesa per chi, generalmente, si affida a difensori d’ufficio, occasionalmente incaricati, e dunque parliamo di persone generalmente in fragilità sociale.

Altro passaggio critico della “riforma Cartabia” è la ghigliottina della improcedibilità che dovrà essere dichiarata dai giudici delle Corti d’Appello ove il procedimento non si concluda in due anni, e dalla Cassazione ove il procedimento non si concluda in un anno, con tempi prorogabili in determinati casi, e che comunque non sembra essere espressione di organicità e razionalità, quanto piuttosto una sforbiciata nel mucchio.

Un istituto inutile sarà sicuramente l’udienza filtro, un altro escamotage di cui non si stenta, sin da ora, a dichiararne l’inutilità con inevitabile allungamento dei tempi. Resta però il nodo più pericoloso e più demolitore del nostro sistema, inserito in sordina come necessità emergenziale, ma in realtà è il cavallo di Troia per la demolizione della tripartizione dei poteri. La rappresentanza, intesa come suprema espressione della sovranità popolare, è stata già neutralizzata con la riduzione del numero dei parlamentari mentre il potere legislativo è stato neutralizzato, di fatto, con la decretazione emergenziale dell’esecutivo. Il potere esecutivo si è già sovrapposto al potere legislativo, e ora, con questa riforma, si appropria anche del potere giudiziario attraverso un codicillo di cui, ovviamente, non si parla.

Tra gli emendamenti proposti dalla ministra Cartabia è stata inserita la proposta di affidare al Parlamento, che in questo passaggio sarà inevitabilmente condizionato dall’esecutivo, di stabilire i criteri generali di priorità dell’esercizio dell’azione penale, mandando a farsi friggere il principio democratico della obbligatorietà della azione penale.

Si affida dunque alle maggioranze parlamentari di turno l’indicazione di quali reati perseguire e quali no, in una deriva che, lungi dall’incidere sui tempi dei processi, in realtà va a minare l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato, sottomettendo la magistratura al potere esecutivo.
In questo pasticcio normativo, le conseguenze saranno scaricate sull’avvocatura che però non riuscirà a ridimensionare gli esiti nefasti di questa pessima riforma, scontando una farraginosità rimasta intatta, a fronte di norme che rendono più difficoltosa la difesa dei più deboli.

Quando nel 2020 è stata introdotta la riforma Bonafede che ha inserito nel diritto penale l’obbrobrio giuridico dell’interruzione del decorso dei tempi di prescrizione dal termine del primo grado di giudizio, tutti hanno gridato “olè” come quando il toreador infilza il toro morente. Solo che il toro doveva essere salvato e non ucciso, e il toreador in realtà era un brutale macellaio.
Torna alla mente Dick, il macellaio rivoluzionario che nell’Enrico VI di Shakespeare profetizzava: “Per prima cosa ammazzeremo tutti gli avvocati”, ma non riuscì nell’intento perché morì per primo, insieme ai suoi seguaci.

– L’autrice: Carla Corsetti è avvocato e segr. naz. Democrazia atea

 

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«Ora Kabul sembra un corpo morto»

Shiite Muslims distribute sherbet during the Ashura procession which is held to mark the death of Imam Hussein, the grandson of Prophet Mohammad, along a road in Kabul on August 19, 2021, amid the Taliban's military takeover of Afghanistan. (Photo by HOSHANG HASHIMI / AFP) (Photo by HOSHANG HASHIMI/AFP via Getty Images)

«La situazione è davvero terribile, dovunque ci sono uomini armati con lunghe barbe e lunghi capelli sporchi, uomini che non hanno un briciolo di umanità. Siamo tutti preoccupati per la sicurezza e per il futuro: Kabul sembra un corpo morto. Ci è toccato avere a che fare con tutto questo alcuni anni fa, prima del 2001. A quel tempo abitavo in una delle provincie e ricordo il comportamento dei talebani nei confronti delle donne, davvero inaccettabile. La situazione ora non è chiara, non hanno ancora annunciato le regole e i ruoli per i residenti di Kabul. Ma dobbiamo andare avanti a lottare per il popolo afghano. Dobbiamo essere forti».

Sono le parole che una donna afgana ha scritto alle compagne del Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afgane), riportate in una nota della onlus che definisce «ridicole» le giustificazioni dei governi occidentali per il loro ritiro dall’Afghanistan «dopo 20 anni di occupazione da parte di Usa e forze Nato», «dopo aver speso miliardi di euro (solo l’Italia 8,7 miliardi) e di dollari (1 trilione gli Usa)» «dopo 241mila vittime civili e militari» e dopo aver provocato «5 milioni di sfollati».

Il Paese è di nuovo nelle mani dei talebani dopo «una guerra giustificata con la lotta al terrorismo, i diritti delle donne, l’“esportazione della democrazia». Una guerra che, prosegue Cisda «non ha sconfitto il terrorismo, né in Afghanistan né nel resto del mondo, e non ha portato né diritti delle donne né democrazia». E i cui fini erano diversi da quelli dichiarati. L’Afghanistan è un Paese di importanza geostrategica fondamentale nel quadro asiatico e mediorientale e non è un caso che prima l’impero britannico, poi l’Unione Sovietica e poi gli USA abbiano tentato di colonizzarlo. Ora il grosso timore è che «le dichiarazioni di intenti per tutelare i diritti delle donne, per la salvezza degli afghani che temono per le loro vite per aver collaborato con l’Occidente rimarranno lettera morta».

I talebani promettono “che le donne verranno rispettate ma dovranno sottostare alla legge della Sharia” che nella loro interpretazione significa schiavitù e sottomissione. «Chiuso il circo mediatico che oggi tiene accesi i riflettori sull’Afghanistan calerà di nuovo il silenzio, come dopo la sconfitta dell’Urss o durante il passato regime dei talebani (1996-2001). E il silenzio coprirà la vergogna di 20 anni di missioni militari approvate da tutti i governi di questo paese, di qualsiasi colore, che ora lasciano il popolo afghano, in particolare le donne, nelle mani di brutali fondamentalisti. Donne che, anche in questi 20 anni di cosiddetta “liberazione”, hanno continuato a soffrire per violenze, stupri, matrimoni forzati e precoci, assenza di istruzione (l’87% delle donne afghane è analfabeta) e di sanità. Le nostre compagne di Rawa, gli attivisti e le attiviste del Partito della solidarietà (Hambastagi), Malalai Joya hanno dichiarato che non lasceranno il Paese, che continueranno a lottare contro il fondamentalismo, per un Afghanistan libero, e a costruire progetti dal basso con le fasce più vulnerabili della popolazione». In particolare le donne. «Noi del Cisda – conclude la nota firmata “Le donne del Cisda” – abbiamo sostenuto per 20 anni queste donne e uomini coraggiosi e determinati, non smetteremo di sostenerli e chiediamo che da oggi i riflettori si accendano sulle poche voci laiche e democratiche che giungono dall’Afghanistan».

 

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Catastrofe ecoclimatica. Tutti i rischi della logica emergenziale

A white band of newly exposed rock is shown along the canyon walls at Lake Powell near Antelope Point Marina on Friday, July 30, 2021, near Page, Ariz. It highlights the difference between today's lake level and the lake's high-water mark. This summer, the water levels hit a historic low amid a climate change-fueled megadrought engulfing the U.S. West. (AP Photo/Rick Bowmer)

Con il sesto rapporto dell’Ipcc, siamo entrati in maniera definitiva nella società dell’emergenza permanente. Non vivremo mai più fuori dell’emergenza. In realtà ci siamo dentro da un po’: emergenza terrorismo, emergenza debito pubblico, emergenza pandemia. E da ora in poi ci saremo in maniera strutturale. La catastrofe ecoclimatica ci pone, di fatto, dentro una logica emergenziale. Questo avrà delle conseguenze. La logica dell’emergenza non è politicamente innocua. Le emergenze inventate sono da sempre strumento di repressione, irrigidimento delle gerarchie, abuso.

Le emergenze “mezze vere”, manipolate, sono state la base per imporre scelte di segno reazionario: pensiamo al governo Monti, giustificato dall’emergenza di un attacco speculativo, o all’intervento militare in Afghanistan, imposto adducendo l’emergenza terrorismo.

La crisi ecoclimatica è più che reale, sia chiaro: sono gli stessi Fridays for Future, gli stessi scienziati, quelli seri, della ricerca pubblica, a chiedere che la crisi climatica sia trattata come un codice rosso, e hanno ragione da vendere.

L’emergenza ecoclimatica è la più grave crisi che l’umanità abbia mai fronteggiato, non vi è dubbio alcuno, ma ciò non elimina che possa essere anch’essa strumentalizzata. Certamente, in emergenza, la politica può essere chiamata a scelte di autorità, per motivi oggettivi e fondati. Lo si è visto con la pandemia.

Chi certifica però che una scelta è necessaria, nel pubblico interesse, in buona fede?

In questi anni si sono invocati i tecnici, gli economisti, per problemi come il debito, il sistema pensionistico, ovverosia la scienza, i medici, per i recenti problemi sanitari. Terreno decisamente scivoloso.

Ovviamente, anche per la crisi ecologica, non potremo prescindere dalla scienza, dalle competenze di climatologi, fisici, ecologi, biologi, naturalisti, per analizzare i problemi del disastro ecoclimatico, e da competenze ancora più interdisciplinari, in buona misura da costruire, per immaginare soluzioni complesse e sistemiche. Poi però servirà anche farle accettare, e non sarà banale. Le classi dirigenti sono in crisi di credibilità, ed è fin troppo facile suscitare il dissenso, addirittura l’avversione paranoica, a qualunque decisione che appaia mettere in crisi le fragili consuetudini che i singoli e le comunità si sono costruite.

Complottismi, identitarismi, interessi localistici e corporativi, interessi forti camuffati: sarà difficilissimo far passare finanche ciò che c’è di più logico e razionale al mondo, ed il fatto che sia logico e razionale, l’esperienza ci dice, non sarà di per sé di aiuto.

Saranno quindi indispensabili due ingredienti: il metodo della partecipazione, e l’autorevolezza e la credibilità dei decisori politici. La partecipazione, deve essere anche di tipo economico.

Sogno una sinistra eco-socialista che, anziché inseguire i vari comitati anti energie rinnovabili, inizi piuttosto a pretendere la compartecipazione, magari mediante il metodo innovativo del crowdfunding, di enti locali, cittadini risparmiatori e imprese del territorio, alle rendite dei progetti di eolico e fotovoltaico industriale necessari alla conversione energetica del Paese, o che chieda un intervento pubblico contro la povertà energetica, con installazione di rinnovabili e miglioramento termico delle abitazioni a carico dello Stato per le famiglie bisognose.

Quando Enrico Letta propose l’idea di un assegno ai diciottenni, finanziato da una tassazione dei grandi patrimoni, serviva una sinistra ecologista capace di controproporre subito, rilanciando, l’idea del diritto per tutti a una quota di un grande fondo pubblico, finanziato con una carbon tax sulle grandi multinazionali del fossile, finalizzato alla conversione energetica: una sorta di “titolo di stato ecologico di cittadinanza”, per dare il diritto a giovani e meno giovani, a compartecipare da azionisti alla conversione del sistema produttivo.

Se la prima gamba è dunque il metodo del coinvolgimento popolare anche economico, la seconda, abbiamo detto, è la credibilità della classe politica. E a tal proposito io penso che il tema della sobrietà della politica, tornerà cruciale. Difficile parlare credibilmente di emergenza, anche se l’emergenza è reale, se non si dimostra di essere disponibili a trattamenti, che sicuramente è giusto siano adeguati a svolgere il proprio mandato senza influenze e tentazioni, ma che non sconfinino nel privilegio, perché questo pone una distanza incolmabile con i cittadini, e rende taluni ruoli troppo appetibili, oggetti di desiderio che finiscono per distorcere la vita interna delle stesse collettività politiche. Per farla breve: siamo entrati nell’era dell’emergenza permanente, signore e signori, e questo comporterà grandi conseguenze, molto varie. Che sia giusto o sbagliato, che ci piaccia o no, accadrà. Meglio pensare seriamente a come poter essere all’altezza.

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