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La democrazia percepita

Taliban fighters patrol in the Wazir Akbar Khan neighborhood in the city of Kabul, Afghanistan, Wednesday, Aug. 18, 2021. The Taliban declared an "amnesty" across Afghanistan and urged women to join their government Tuesday, seeking to convince a wary population that they have changed a day after deadly chaos gripped the main airport as desperate crowds tried to flee the country. (AP Photo/Rahmat Gul)

Qualcuno finge perfino di crederci in questa guerra di narrazioni e diplomazie che i talebani siano davvero diversi da quelli di una volta, pronti come sono stati a rassicurare la comunità internazionale con una conferenza stampa e interviste che sembrano uscite da quelle brutte scuole di politica fatte per corrispondenza.

Mercoledì sono scesi in piazza centinaia di giovani a Jalalabad che hanno sostituito le bandiere bianche talebane con il vessillo nazionale afghano nero, rosso e verde. I “democraticissimi” talebani hanno subito dato un’idea della loro democratica maturazione uccidendo 3 persone e ferendone almeno 12. Il reporter di un’agenzia di stampa locale, Babrak Amirzada, ha riferito di essere stato picchiato mentre riprendeva le proteste.

Alberto Zanin, coordinatore medico del centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency a Kabul, ha raccontato di conflitti a fuoco nell’aeroporto di Kabul: «Ci sono feriti da arma da fuoco perchè qualcuno sta impedendo di avvicinarsi agli aerei, anche se ci viene difficile capire chi fa che cosa. Stamattina la situazione era ancora calda, con raffiche contro i civili, ma ad ora non abbiamo ancora ricevuto feriti dall’aeroporto».

Nella provincia di Bamiyan i talebani hanno fatto saltare in aria la statua di Abdul Ali Mazari, leader di una milizia sciita ucciso dai talebani nel 1996. Lo riferiscono Associated Press e Al Jazeera. Mazari era un comandante della minoranza etnica Hazara, perseguitata dal regime sunnita talebano.

Dovrebbe esserci un accordo tra talebani e Usa per consentire un “passaggio sicuro” verso l’aeroporto di Kabul (presidiato da soldati americani e preceduto da posti di blocco dei talebani) ma il Guardian scrive di testimonianze di botte e frustate a bambini e donne per impedire loro l’accesso all’aeroporto. Circolano immagini di un una donna e un bambino con ferite alla testa dopo essere stati picchiati nel tentativo di aggirare il posto di blocco.

Poi c’è la vicenda dell’ex presidente Ashraf Ghani accusato di essere un traditore vigliaccamente scappato portandosi con sé 170 milioni di euro: in un video su Facebook l’ex presidente dell’Afghanistan (riparato negli Emirati Arabi Uniti dove è stato accolto “per motivi umanitari”) nega tutto dicendo di non avere avuto nemmeno il tempo di indossare le scarpe e raccontando: «Mi hanno costretto a evacuare». Nell’Arg, il palazzo presidenziale, ci sarebbero stati «militanti stranieri che cercavano stanza dopo stanza». È dovuto scappare per non fare la fine del presidente Najibullah, per evitare che «il presidente venisse ucciso di fronte agli afghani un’altra volta» e per «evitare un bagno di sangue a Kabul».

Shabnam Dawran, nota giornalista e presentatrice della tv di Stato afghana RTA ha raccontato di essere stata cacciata dai talebani dal suo luogo di lavoro: «Nonostante indossassi l’hijab e avessi il mio pass identificativo, i talebani mi hanno detto che il regime è cambiato e di andare a casa», ha dichiarato.

Poi c’è il punto forte. «Non ci sarà alcun sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese». Lo ha detto un alto esponente dei talebani Waheedullah Hashimi in un’intervista alla Reuters, pubblicata sul sito dell’agenzia. «Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremmo applicare in Afghanistan perché è chiaro. È la legge della sharia e basta». Insomma ci si basa sulla legge dettata da Dio, quella che (come la Storia ci insegna) è facilissima da manipolare a piacimento. Come succede da sempre.

Così alla fine la democrazia diventa come la fede: una sensazione percepita.

Buon giovedì.

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Luca Mercalli: Se Venezia finisce sommersa

Il Bel Paese dell’arte, del patrimonio diffuso è anche un territorio a grande rischio sismico, di grande fragilità idrogeologica aggravata dal consumo di suolo e da tanti anni di deregulation urbanistica. Su questa realtà territoriale già compromessa impattano ancor più gravemente gli effetti del climate change. Con risultati potenzialmente devastanti per il paesaggio e per il patrimonio d’arte e architettonico. Come riuscire ad evitare il peggio? Come invertire la rotta? Lo abbiamo chiesto a Luca Mercalli, autore di numerosi libri, fra i quali Non c’è più tempo (2018) e Salire in montagna (2020), pubblicati da Einaudi.
«La cementificazione, il consumo di suolo e il cambiamento climatico sono temi strettamente collegati. E si portano dietro altri problemi che toccano anche la nostra salute», risponde il climatologo e divulgatore scientifico che il 4 marzo, con Left, interverrà a Pillole di ArteScienza, la serie di webinar organizzati e coordinati dalla senatrice Michela Montevecchi.
«Noi cementifichiamo il territorio, costruiamo discariche, non facciamo raccolta differenziata dei rifiuti. A lungo andare tutto questo diventa un boomerang per il nostro benessere e cancella la biodiversità».

La cementificazione ha un effetto devastante sul paesaggio e sul patrimonio storico artistico. Ma ci sono forze politiche come Lega, e non solo, che premono per lo sblocco dei cantieri, per la costruzione di grandi opere ad alto impatto ambientale.
Se parliamo di paesaggio, beni culturali e turismo, la cementificazione del suolo doverebbe essere assolutamente fermata. È una emorragia che non ci possiamo più permettere. I danni che produce sono ben noti anche a livello governativo, ma la legge contro il consumo di suolo è ferma dal 2012 e non c’è verso di approvarla, perché ci sono le solite pressioni da parte del mondo dell’edilizia, delle costruzioni e della rendita fondiaria. Gli effetti del climate change sul patrimonio culturale ci chiamano a fare prevenzione nel più breve tempo possibile. Ogni Paese al mondo deve fare la propria parte per ridurre l’impatto sul clima, ma ogni area avrà problemi differenti a causa del cambiamento climatico. In Italia sono previsti quasi tutti. Gli eventi estremi stanno diventando più intensi. Pensiamo per esempio alle alluvioni, se diventano più frequenti anche il nostro patrimonio storico viene messo più a repentaglio. Registriamo anche l’aumento del livello del mare; è il grande spettro dovuto all’aumento della temperatura. Tutti gli oceani del mondo stanno salendo e il Delta del Po e Venezia sono tra le realtà più fragili, fra le più sensibili al mondo.
Non è un film di fantascienza dire che Venezia sarà sommersa continuativamente alla fine di questo secolo. Dovremo cominciare a parlarne e a prenderlo in considerazione come uno dei grandi scenari da evitare qui, a casa nostra, non in Bangladesh o in Florida.

La storia millenaria di Venezia è il frutto di un buon governo del territorio. La manutenzione ha mantenuto l’equilibrio fra laguna e città. Poi però con lo sfruttamento turistico intensivo della città, con il transito delle grandi navi, è stato spezzato questo equilibrio?
Questi sono elementi peggiorativi, locali, ma quando parliamo di cambiamento climatico parliamo di eventi che non abbiamo ancora visto e che arriveranno. Sono indipendenti perfino da come noi oggi trattiamo la laguna, sono scenari inediti che Venezia non ha mai visto. Se il mare cresce di un metro non è questione di manutenzione. Di fronte a tutto questo cosa facciamo? Questa è la domanda. Nessuno ha ancora dato una risposta. Lei ha un’idea su come salvare Venezia tra cento anni quando ci sarà acqua alta ogni giorno?

In questo quadro il Mose serve a ben poco, immagino, giusto?
Il Mose non serve, è una pezza temporanea, al limite può avere un senso per i prossimi 10/20 anni, ma non è risolutivo con un aumento permanente del livello del mare. Dunque partendo da un caso emblematico come Venezia bisogna in primis accettare il problema, perché qualcuno ritiene che sia fantasticherie, che siano balle. Se lei dice che Venezia verrà sommersa per sempre a fine secolo, la guardano con due occhi così, le dicono che è catastrofista. E invece emerge dai dati delle Nazioni Unite, dei nostri istituti di ricerca, dai dati contenuti addirittura nella strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici che è un documento ufficiale depositato al ministero dell’Ambiente. Ma non sappiamo ancora cosa fare.

Perché c’è questa inerzia, mancanza di reazione, non risposta, rispetto a questa allarmante evidenza scientifica?
È un problema che riguarda tutte le questioni ambientali. Lo stiamo “rimuovendo” perché ci richiede un impegno, economico e individuale, esattamente come la pandemia. Il coronavirus ci ha fatto vedere tutte queste dinamiche della società. Finché non abbiamo avuto il morto in casa non abbiamo preso provvedimenti. Un anno fa se qualcuno diceva di mettere la mascherina veniva mandato a quel paese. Invece avremmo dovuto indossare la mascherina dal primo momento in cui sono uscite le prime notizie sul virus a Wuhan. Se l’avessimo fatto avremmo guadagnato due mesi e forse ci sarebbe stato qualche migliaio di morti in meno. Riguardo al clima è lo stesso, non si parla di mesi, ma di anni, ma la dinamica è identica. Purtroppo non possiamo aspettare che l’oceano aumenti di un metro per dire, ah ecco, da domani agiamo. Sarebbe tardi, non si potrebbe più fare. Bisogna farlo prima, bisogna farlo adesso.

Vede consapevolezza nella politica o almeno pratiche virtuose?
Pratiche virtuose ce ne sono ma sono gocce nel mare. Quel che vedo nella politica è la mancanza di una direzione. Ci sono consapevolezza, annunci, tanti, tante chicchere. Fanno delle azioni che, però, spesso sono contraddittorie, perché la politica non ha il coraggio di estirpare il marcio sostituendolo con il virtuoso. Al limite lo affianca, lascia il marcio e ci aggiunge qualcosa di virtuoso. È inutile costruire piste ciclabili se più in là piazzo un capannone industriale. Piantiamo l’alberello, facciamo la festa con i bambini, e accanto si costruisce la nuova autostrada. Le due cose non possono convivere.

Bisogna cambiare radicalmente modo di produzione, stili di vita…
Cambiare tutto, esatto. E soprattutto bisogna fermare l’emorragia di consumo di suolo. Stiamo parlando di metri quadrati al secondo. La politica ambientale va fatta con un sistema da pronto soccorso, dove non c’è tempo di stare lì a fare gli esami del sangue al paziente. Bisogna aprirlo dopo due minuti che è arrivato se lo vuoi salvare. Mentre qui continuiamo a fare convegni, a parlare, a esternare buoni propositi e la ruspa continua a girare.

 cittadini dovrebbero far pressione sulla politica perché ci sia finalmente una svolta?
Lo strumento principe dovrebbe essere il voto. Diciamo però che in Italia le proposte verdi non è che siano tante; c’è un imbarazzante vuoto di rappresentanza sul tema ecologico.

Come vede questo super ministero per la transizione ecologica affidato da Draghi a Roberto Cingolani?
Non lo vedo bene perché le scelta della persona a cui affidarlo non è coerente. Nessuna delle personalità che studiano l’ambiente è stata messa in quel ministero. È stato affidato a un tecnologo. Alla guida di quel ministero io mi aspettavo prima di tutto di vedere un esperto di processi ambientali. Il tecnologo poteva diventare il direttore generale di un ramo, per esempio quello del risparmio energetico. Insomma non è stato affidato tutto a un “medico”, ma a un “farmacista” che prepara soluzioni, che mi dà una medicina, ma prima serve sapere quale è la causa della malattia. Al limite avrei visto meglio Enrico Giovannini alla transizione ecologica, perché è uno studioso di problemi ambientali. Anche se è un economista da tanti anni si occupa di economia sostenibile. Io avrei messo Cingolani ai trasporti. Detto questo aspettiamo di vedere i risultati.

Nel suo nuovo libro Salire in montagna ha raccontato una storia personale, la scelta di andare a vivere in montagna. Questa crisi può essere anche l’occasione per recuperare delle aree interne abbandonate e il patrimonio architettonico e la socialità nelle aree spopolate di montagna?
Io sono partito da una forma di adattamento al cambiamento climatico, visto che nulla si muove. L’Italia è ricchissima di simili territori, il 70 per cento del territorio nazionale è fatto di aree interne, di collina e di alta di montagna. Rappresenta una splendida opportunità per alleggerire la pressione sulle zone di pianura e recuperare tutte queste aree che languono dimenticate, depresse, marginali. Grazie alla connettività lo smart working è diventato la normalità per tante categorie, allora io credo che la montagna possa rappresentare un buono sfogo per una parte della popolazione: sfuggire al riscaldamento globale e al contempo rivitalizzare zone destinate all’oblio.

Ma al contempo, bisognerebbe pensare anche a misure importanti come la bonifica della Pianura padana?
Certo, questo rientra in tutte le azioni da fare per arrestare la cancrena. Bisogna comunque farle, non puoi dire “abbandoniamo certi territori, si salvi chi può” oppure “chi se lo può permettere vada in montagna a guardare dall’alto la distruzione di altre aree”.
Purtroppo larghe aree, come la Pianura padana e l’agro romano, sono state compromesse in modo irrimediabile. Si tratta di fermare il danno e dove possibile pian piano operare una ricucitura. Pensi solo al problema dei rifiuti o delle aree industriali dismesse. Questo però ricade naturalmente nella scelta politica, che deve cambiare completamente. Ma non si riesce a fare nemmeno con l’Ilva. Siamo qui che ci giriamo attorno da dieci anni. Le scelte sono molto semplici. Quando mettiamo in conflitto soldi, posti di lavoro e ambiente, purtroppo vincono sempre i primi, i secondi arrivano così così, e l’ambiente è l’ultimo, non vince mai. Quando c’è sul piatto questa scelta, ci rimette sempre la salute.

Con la pandemia finalmente si è cominciato a dare più ascolto alla scienza oppure è una illusione?
Lo spettacolo che abbiamo visto non è stato ottimale. Invece di dare fiducia alle persone spesso hanno creato smarrimento. Perché sulla pandemia la scienza stava imparando sul campo cose che non conosciamo. Ancora oggi ad un anno di distanza questo virus è appena appena abbozzato nella sua carta di identità. Purtroppo c’è stata una cattiva comunicazione perché nei vari talk show ognuno cercava di estorcere all’esperto una opinione su un tema che non è ancora consolidato e questo ha creato grande confusione. Ci sono altri settori in cui è più facile. Lo stesso consumo di suolo o i cambiamenti climatici sono ambiti di studio molto più consolidati. Le nostre comunità scientifiche sono molto più omogenee perché si studia da 50 anni questo problema. Poi ci sono i negazionisti, ma questo è un altro discorso. Riguardo alla pandemia tra virologi e medici ci sono opinioni diverse perché la ricerca dei dati è ancora in corso. Se lei invece chiede a un climatologo gli scenari del clima del futuro, i dati sono quelli, non c’è più uno che abbia una opinione differente. Siamo tutti purtroppo preoccupati.

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 26 febbraio – 4 marzo 2021

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SOMMARIO

Commuovetevi ma da lontano

FILE - In this Friday, Aug. 13, 2021 file photo, internally displaced school teacher wearing a burqa from Takhar province, who identified herself by her first name, Nilofar, left, speaks during an interview with the Associated Press inside her tent in a public park in Kabul, Afghanistan. Many women in Afghanistan remain at home because they are too terrified to venture into a new world ruled by the Taliban. The extremist group that once stoned women and restricted their every move is now back in power. (AP Photo/Rahmat Gul, File)

Piaciuta la scenetta della commozione per gli afghani? Ognuno alla sua maniera, com’è nelle cose. Ci sono Salvini e Meloni che si sono subito schiantati contro i talebani “tagliagole” (con quella loro solita narrazione da favola raccontata sempre con personaggi improbabili perfino per una favola) ma si sono dimenticati che i “tagliagole” sono gli amici del loro amico Putin. Ma Salvini e Meloni, si sa, si sbriciolano già al secondo grado di separazione. Nel centrosinistra si sono dimenticati di avere sostenuto questa inutile guerra solo per 20 anni (ve lo ricordate Rutelli come la rivendicava?), Berlusconi si è perfino dimenticato di essere stato proprio lui a mettere la fiducia sulla guerra mentre era presidente del Consiglio. Comunque, piaciuta la scenetta della commozione per gli afghani? Tenetela bene a mente, salvatevi le foto perché è già finita.

Ieri il presidente Mario Draghi e Angela Merkel hanno deciso sulla protezione umanitaria di quanti hanno collaborato con le istituzioni italiane e tedesche in questi anni. «Proteggeremo chi ha lavorato con noi», ha detto Draghi, perché evidentemente non si riesce proprio a dismettere questo vizio di considerare i disperati mica per la loro disperazione ma sempre in base alle classiche domande del “chi ti manda? di chi sei amico? cosa hai fatto o cosa puoi fare per noi?”. Poi hanno corretto il tiro dicendo che si occuperanno anche «delle categorie più vulnerabili, a partire dalle donne afghane». Tutto bellissimo se non fosse che di donne afghane in Europa a cui è stato negato lo status di rifugiate (quindi tecnicamente che dovrebbero essere riportate su un vassoio nella bocca dei talebani) ce ne sono negli ultimi 12 anni 30mila donne adulte, 21mila bambine e 4mila ragazze tra i 14 e i 17 anni. Il 76% di loro è ancora in Europa (eh sì, perché il 24% è stato rimandato lì dove ora incombe l’orrore) e forse sarebbe il caso di cominciare pensando a loro, subito.

Ma quindi? L’accoglienza e l’aiuto di cui tutti parlavano fino a qualche ora fa? Dall’Anci fanno sapere che «i sindaci italiani sono pronti a fare la loro parte nell’accogliere le famiglie afghane». Matteo Biffoni, delegato Anci per l’immigrazione, spiega che «non c’è tempo da perdere, sappiamo bene come i civili che hanno collaborato con le nostre missioni in Afghanistan oggi siano in forte pericolo, soprattutto donne e minori. Il governo si sta muovendo per salvare vite umane, attraverso l’azione delle prefetture sul territorio e i sindaci mettono a disposizione la propria esperienza, per questo abbiamo scritto al ministro dell’Interno Lamorgese e abbiamo avvisato il ministero della Difesa». E specifica: «Dobbiamo essere molto concreti. Sarà la storia  a dare un giudizio su questi ultimi vent’anni di presenza militare in Afghanistan, oggi siamo consapevoli che è il momento di aiutare il governo a mettere in salvo vite umane». E sapete chi ha risposto all’Anci? Naturalmente Matteo Salvini che tuona: «Accogliere in Italia alcune decine di persone che hanno collaborato con la nostra ambasciata mi sembra doveroso, ma che nessuno ci venga a parlare di accogliere decine di migliaia di afghani. In Italia abbiano già accolto 35mila clandestini, gli altri Paesi europei facciano il loro». Gli sciacalli hanno dismesso i panni dei piangenti e sono tornati nelle loro vesti. Facile, prevedibile, liscio.

Del resto è comodo lanciare appelli, poi c’è sempre il tempo per farli intiepidire. Commuovetevi ma solo da lontano: nel Mediterraneo friggono sotto il sole 488 persone a bordo delle navi ResQ People e Geo Barents. Sono qui, a poche miglia dalla costa. Qui e ora. E sono i disperati che vomiterà l’Afghanistan nei prossimi mesi, sono della stessa pasta, dello stesso dolore. E qui si torna al punto di partenza: le regole di quest’epoca impongono di commuoversi e empatizzare solo con quelli che non possono turbare il nostro quotidiano. Un distanziamento affettivo, oltre che sociale, come quello che abbiamo imparato con il virus. Così si rimane tutti disinfettati. Deve essere una nuova forma di sovranismo: il sovranismo della commozione. Ci si commuove solo per quelli che non hanno modo di suonare il nostro citofono. Se arrivano sotto casa sono colpevoli di non essere morti e quindi ci siamo commossi per niente.

Buon mercoledì.

 

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Paolo Fiori Nastro: Quanta strada da fare per diventare psichiatri

Per affrontare la malattia mentale quale tipo di formazione bisogna avere? E in quale contesto sanitario chi esce dalla scuola di specializzazione in Psichiatria si dovrà cimentare? E che tipo di formazione serve per poter fare la psicoterapia? Questioni che riguardano vari ambiti: teorici, metodologici, culturali e sociali. Abbiamo rivolto queste e altre domande allo psichiatra e psicoterapeuta Paolo Fiori Nastro, coordinatore didattico della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psychè, già docente di Psichiatria alla “Sapienza” di Roma.

Fiori Nastro ci tiene a fare una premessa: «La psichiatria è (o dovrebbe essere) cura della mente umana. Ma immediatamente dovremmo fare un rapido pensiero sugli aspetti specifici della mente umana che ci distinguono dalla mente animale e che non vengono tenuti in alcun conto dalla ricerca che si propone la cura delle malattie psichiatriche attraverso gli esperimenti sugli animali e sul loro cervello». Quindi la psichiatria dovrebbe curare la mente umana, ma non esiste «una definizione condivisa di mente ed estensivamente di realtà umana sana o malata».

L’Organizzazione mondiale della sanità dà una definizione di salute che fa riferimento al benessere fisico (biologico) psichico e sociale ma, «mentre il benessere fisico è una realtà condivisa nel senso che abbiamo dei parametri oggettivi che delimitano il perimetro della salute e lo separano dalla malattia, per le malattie mentali tutto questo ci manca. Per molti ambienti culturali la diagnosi di malattia addirittura non andrebbe fatta!». Perché, continua lo psichiatra, «sarebbe una stigmatizzazione, farebbe riferimento ad aspetti della realtà umana presenti in tutti gli esseri umani ma normalmente tenuti sotto controllo tranne in quei pochi che invece vengono improvvisamente sopraffatti dalla malattia e per i quali la convivenza sociale diventa una fatica se non un ostacolo o addirittura una minaccia». «Per questi motivi “l’accademia” – sottolinea Fiori Nastro – ha storicamente agganciato la psichiatria alla neurologia nella clinica delle malattie nervose e mentali sperando, con un’operazione del tutto fideistica, di poter cancellare l’imbarazzo di dover affrontare un argomento che dal punto di vista medico appariva incerto, ambiguo, non scientifico, opinabile sostituendolo con il rigore scientifico del ragionamento semeiologico e patogenetico della neurologia».

Nel 1976 con la legge 238, è avvenuta la separazione della psichiatria dalla neurologia, «ma l’accademia, dovendo insegnare, trasmettere conoscenza, inevitabilmente si è fondata su un sapere consolidato che è la base degli insegnamenti». La conclusione è amara: «Non è mai accaduto che l’accademia abbia prodotto movimenti fortemente innovativi in ambito psichiatrico. Questo atteggiamento culturale fa sì che gli stessi pazienti, che tante speranze riversano sulla ricerca in altri ambiti della medicina, poco si aspettano dalla ricerca in ambito psichiatrico che per decenni è stata prevalentemente biologica».

E un maggiore sapere psichiatrico diffuso tra quei medici in prima linea, sorta di presìdi della salute, come i medici di base e i pediatri, sarebbe necessario? «Assolutamente sì. Medici di base e pediatri potrebbero giovarsi di un ampliamento della loro formazione che comprenda anche ambiti psichiatrici». E spiega il motivo: «L’idea che i pazienti con malattie mentali gravi arrivassero al cospetto dello psichiatra solo dopo molti anni di malattia vissuti in totale solitudine senza che nessuno fosse in grado di diagnosticare questa sofferenza che ancora non aveva raggiunto i livelli di gravità che alterano il comportamento ed il pensiero in modo incontrovertibile, è sempre stata chiara agli psichiatri, ma mancava la capacità di dimostrare oggettivamente queste convinzioni».

Alla fine degli anni 80 e prima metà degli anni 90, racconta, studiosi australiani, neozelandesi e americani con i loro studi hanno dato inizio al filone della diagnosi precoce «che è stata accolta con grande favore da frange sparute anche nel mondo accademico italiano. Abbiamo studiato e scoperto che le malattie mentali gravi cominciano assai presto: il 50% dei pazienti dà segni prima dei 14 anni e il 75% prima dei 24 anni. Quindi questa dovrebbe essere la fascia di età che dovremmo mettere al centro dell’intervento psichiatrico: dovremmo fare prevenzione “secondaria” cioè dovremmo curare la malattia appena compaiono i primi sintomi». E qui entra in gioco il medico di base che con una maggiore formazione psichiatrica potrebbe avere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie mentali. «Spesso le prime difficoltà – spiega lo psichiatra – si manifestano in modo sfumato e, per questo, arrivano al medico di base con il quale la famiglia ha un rapporto di fiducia e stima che si è consolidato nel tempo. È allora proprio il medico di base che deve dare risposte ai primi segni di malattia evitando che queste situazioni possano aggravarsi ed incancrenirsi».

Naturalmente, continua Fiori Nastro, sarà necessario contemporaneamente «impegnarsi anche nella prevenzione “primaria” cioè in un lavoro prettamente culturale per insegnare a tutta la popolazione quali sono gli stili che migliorano la qualità della vita da un punto di vista mentale». Ma per la prevenzione “secondaria”, di fronte ai primi segni di malattia, che tipo di formazione occorre? «A questo punto si apre un capitolo nuovo rappresentato dalla formazione in psicoterapia perché se vogliamo affrontare situazioni di sofferenza quando la sintomatologia è ancora assai fluida e sfumata, avere una formazione in psicoterapia consente di indagare la realtà umana dei ragazzi in modo più profondo senza doversi fermare soltanto alle manifestazioni visibili del loro comportamento. Dobbiamo mettere sotto osservazione quei comportamenti e quelle modalità relazionali che pur non essendo ancora francamente “malati” (altrimenti non sarebbe più prevenzione) possono essere considerati “disfunzionali”, ovverosia indicativi di una difficoltà a fare propri tutti quei cambiamenti che normalmente avvengono in questo periodo della vita».

Fiori Nastro ritiene che quello dello psichiatra «sia un mestiere molto bello ma assai difficile: avendo a che fare con esseri umani è necessario maturare e fare propria una “visione del mondo” indispensabile per affrontare le malattie mentali cercando di contribuire alla loro cura». Purtroppo chi esce dalle scuole di specializzazione poi deve fare i conti con la realtà. «L’impostazione dei servizi psichiatrici – spiega – risente fortemente delle scelte culturali di coloro che li hanno ideati. In altre nazioni come Australia e Canada hanno rivoluzionato l’assistenza psichiatrica concentrando gli sforzi sugli adolescenti. Da noi invece il sistema è ancora assai debole proprio là dove invece si dovrebbero concentrare i nostri sforzi e cioè là dove si deve rispondere alla domanda di cura dei giovani».

E poi in Italia, continua, il sistema dei servizi psichiatrici «è “ingolfato” ormai da molti anni con un enorme dispendio di energie e di denaro nella gestione della cronicità tralasciando tutto il lavoro sulla prevenzione che avrebbe come scopo principale proprio quello di evitare la cronicità». Quindi tutte quelle ricadute economiche e sociali che questa comporta: dalla disoccupazione a fenomeni di marginalità come il barbonismo, dall’aumento dell’assistenza domiciliare alle conseguenze sulla salute fisica. Non solo. «La chiusura degli ospedali psichiatrici, pur se mossa dal nobile intento di opporsi alla segregazione ed all’istituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici, ha determinato una saturazione dei servizi e degli operatori concentrati nella gestione di pazienti fortemente sofferenti», aggiunge lo psichiatra.

«La storia della psichiatria ci insegna che le malattie mentali non sono incurabili ma lo sforzo necessario alla loro cura è direttamente proporzionale alla loro gravità che altresì cresce insieme al tempo in cui la malattia sfugge al trattamento. Quindi il nostro sistema, pur se animato da nobili intenti etici di rispetto della dignità di tante persone gravemente sofferenti per un disturbo mentale, poco o nulla ha aggiunto sulle modalità di terapia con cui queste persone andrebbero trattate», sottolinea. Questo comporta che «il numero di malati a fronte del numero esiguo di operatori giustifica l’uso massiccio di farmaci che sembrano l’unica soluzione per mantenere in equilibrio il sistema». E ciò avviene nonostante la ricerca internazionale dimostri invece «che bisogna cambiare ed investire nella prevenzione e nella cura dei più giovani evitando che la loro patologia possa cronicizzarsi». Fiori Nastro lo ribadisce ancora, in maniera netta: «Per affrontare le patologie degli adolescenti e dei giovani adulti l’uso dei farmaci è fortemente sconsigliato e quindi emerge con forza la necessità di formare gli psichiatri per affrontare le malattie mentali con una impostazione psicoterapeutica».

Ma quale deve essere la formazione ideale per poter essere psicoterapeuta?
«Lo psicoterapeuta deve aver raggiunto una duplice formazione, personale e teorica, indispensabile dal momento che egli opera utilizzando se stesso come strumento principale di diagnosi e di terapia. L’acquisizione di specifiche abilità conoscitive e strumentali deve essere effettuata “sul campo”, cioè attraverso l’esperienza diretta con i pazienti». E aggiunge: «L’allievo non deve solo applicare regole o ripetere formule, ma deve saper creare un proprio modus operandi, uno stile coerente con la propria persona che gli permetta di acquisire un’arte più che imparare un mestiere. A questo fine la formazione viene considerata prima di tutto come un processo maturativo di acquisizione e definizione di una identità, un processo dinamico che investe tutta la personalità dell’allievo».
Infine, abbiamo chiesto al professor Fiori Nastro che cosa direbbe a giovani psichiatri e psicoterapeuti che si apprestano ad entrare nel servizio pubblico.
«Direi che hanno scelto un mestiere intrigante e affascinante, ma assai complesso. Come in tutte le specialità mediche è necessario uno studio approfondito dei “testi sacri” nei quali i maggiori studiosi del Novecento descrivono, in modo magistrale, la gran parte delle manifestazioni psicopatologiche con cui i pazienti si relazionano al mondo. Quindi fondamentale è lo studio, la conoscenza e la competenza nella storia della psichiatria che dimostra quanto e come sia evoluta l’idea di malattia mentale, l’idea delle sue cause e delle terapie adatte alla sua cura».

E la formazione personale, quanto è importante? «Accanto alla conoscenza e competenza teorica – risponde Fiori Nastro – è indispensabile scegliere una strada che sia congeniale alla propria visione del mondo, alla propria cultura di appartenenza e che aiuti il giovane psichiatra a dotarsi degli strumenti necessari ad affrontare i malati usando la propria identità quale strumento di diagnosi e di terapia. La psicoterapia è considerata universalmente uno strumento utile ma richiede che lo psicoterapeuta abbia una identità solida che sia capace di confrontarsi con i pazienti mantenendo la sua integrità visto che deve fornire ai pazienti quell’ancoraggio alla realtà che la malattia indebolisce o interrompe».
In conclusione, spiega Fiori Nastro, «ogni giovane psichiatra sceglie la propria strada in autonomia; l’Università forma gli studenti garantendo l’acquisizione delle conoscenze di base e molto spesso l’impostazione organicistica dei programmi didattici delle scuole trascura un adeguato ventaglio di opzioni per una altrettanto approfondita formazione in psicoterapia». Ecco la novità nell’ambito della formazione: «Per colmare questo vuoto nei percorsi di formazione universitaria sono nate innumerevoli scuole di specializzazione in psicoterapia che, riconosciute dal Miur, garantiscono una preparazione dei laureati in medicina e psicologia per il conseguimento del titolo di psicoterapeuta». «Anche il nostro gruppo – conclude Paolo Fiori Nastro – dopo anni di cura, formazione e ricerca nei seminari di Analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli ha ottenuto nel 2018 il riconoscimento di una scuola in psicoterapia dinamica basata sulla sua opera teorica conosciuta come “teoria della nascita”. La Scuola di psicoterapia dinamica Bios Psychè ha elaborato un programma didattico che si propone di integrare la psicopatologia con la psicoterapia dinamica in modo da formare psicoterapeuti che sappiano offrire anche ai pazienti più gravi le stesse opportunità terapeutiche».

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 25 giugno – 1 luglio 2021

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SOMMARIO

Stupirsi ora è solo l’ennesima bugia

People walk through a security barrier while they enter in Pakistan through a border crossing point, in Chaman, Pakistan, Monday, Aug. 16, 2021. Normally thousands of Afghans and Pakistanis cross daily and a steady stream of trucks passes through, taking goods to land-locked Afghanistan from the Arabian Sea port city of Karachi in Pakistan.(AP Photo/Jafar Khan)

Per fare la guerra bisogna essere abili a sganciare bugie, insieme alle bombe. Gli Usa su questo sono maestri ma anche dalle nostre parti la lezione sembrano averla imparata in tanti.

Venti anni fa osservavamo impressionati gli uomini che cadevano nel cielo dalle Torri gemelle, gente già morta che come ultimo atto decideva di morire di mano propria come se davvero potesse essere un sollievo, ieri abbiamo visto gente morta cavalcare gli aerei militari americani mentre decollavano dall’aeroporto di Kabul per poi cadere nel cielo ancora. Ed è solo la più scenografica delle rappresentazioni del dolore che ci arrivano dall’Afghanistan che venti anni dopo torna a essere quello di venti anni fa, con l’unica differenza di una mostruosa quantità di soldi spesi per i signori della guerra e di civili che sono rimasti sotto le bombe.

In un’intervista di Riccardo Iacona dello scorso 14 maggio Gino Strada (che tutti incensano anche se per tutta una vita l’hanno tradito) raccontava che in questi venti anni il carico di lavoro di Emergency in Afghanistan è rimasto costante (150mila interventi chirurgici per ferite di guerra). «Una guerra che non ha alcun senso – diceva Strada – che è stata anche una battaglia persa sul piano militare: venti anni dopo gli Usa se ne vanno e i talbeani sono ancora lì». Duemila miliardi spesi in tutto. Circa otto miliardi e mezzo messi dal governo italiano (più di quanto arriverà alla sanità con il Recovery fund). Di questi soldi solo 320 milioni sono finiti in cooperazione sociale: tutto il resto in guerra, solo guerra. Uno Stato finito più povero, con quattro milioni e mezzo di profughi (circa il 25% della popolazione) che sono stati trattati come indolenti. Con un ventesimo di quei soldi, diceva Strada, l’Afghanistan oggi sarebbe una nuova Svizzera. E poi ci sono i 150mila morti, in prevalenza civili (con la solita bugia delle missioni di pace).

A proposito di bugie. Sembra sfuggito il fatto che l’Afghanistan fosse dipinto come colpevole di avere protetto Bin Laden (e quindi colpevole di avere un ruolo importante nell’attentato dell’11 settembre del 2001) eppure fu chiaro quasi subito che nessun cittadino afghano avesse avuto un ruolo in quell’attacco. Allora la bugia fu che i talebani proteggessero Bin Laden (che tra l’altro era al confine del Pakistan): se fosse scappato in Cina (con cui l’Afghanistan confina) avrebbero bombardato la Cina? E i sauditi che erano sugli aerei quell’11 settembre? Niente guerra lì, solo Nuovo Rinascimento e vendita delle nostre armi.

Bugie, bugie. Ora la politica che con la guerra e la violenza pasteggia tutto il giorno riesce addirittura a sciacallare contro i propri avversari politici banchettando sugli afghani: a destra si accusano le femministe di non empatizzare con le donne afghane (ma davvero, ma che c’entra?) e Salvini e Meloni fanno a gara per puntare il dito contro il mondo fingendosi disperati. Sono gli stessi che poi chiuderanno le porte agli afghani in fuga. Sarà la stessa Europa che ha appaltato ai tiranni la gestione dei disperati della Siria e della Libia a trovare una nuova Lampedusa in cui rinchiuderli. Bugie, Bugie. C’è perfino chi vorrebbe convincerci che i profughi siano la vera emergenza, invertendo le priorità e dimenticandosi che l’emergenza sono le vittime della guerra.

Bugie, bugie. Politici italiani che dimenticano di avere votato a larga maggioranza l’intervento militare in Afghanistan in contrasto con la risoluzione Onu 1368 del 12-09-01 solo per non scontentare gli Usa. Si sono dimenticati di avere votato il finanziamento di questa missione tutti gli anni, l’ultima volta a giugno di quest’anno. Bugie, bugie: il neocolonialismo della Nato che miseramente fallisce è un argomento che non si può toccare. Ancora ci si convince che serva la guerra per fare smettere le guerre.

E poi la bugia più insopportabile: stupirsi, fingendosi stupiti per scrollarsi di dosso la memoria e con lei le responsabilità.

Buon martedì.

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Afghanistan anno zero, eppure deve esserci un modo migliore

“La guerra è finita”. Così i portavoce delle milizie taliban stanno annunciando al mondo la nascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dopo l’occupazione di Kabul, la chiusura degli spazi aerei e mentre la bandiera dei mullah sventola sul palazzo presidenziale. Il presidente Ghani, sostenuto da quelle che erano le potenze occupanti, odiato per la corruzione dilagante e per lo stato di totale prostrazione del Paese, è già fuggito in Tagikistan. Ufficialmente per evitare spargimenti di sangue, più realisticamente per evitare di fare la fine di Najibullah, ultimo presidente rimasto in carica dopo l’occupazione sovietica del 1979, torturato e ucciso dai taliban il 6 settembre del 1996, quando gli studenti coranici erano entrati a Kabul. Se, almeno dal 1979 la storia afghana è un immenso buco nero in cui in tanti hanno inflitto ferite atroci, quanto accaduto dopo il 1996 è qualcosa di difficilmente paragonabile in quanto ad atrocità commesse. I mujaheddin fondamentalisti, finanziati dagli Usa in chiave anti sovietica, dopo aver preso il potere e introdotto la sharia, commisero l’errore di ospitare quello che dopo l’11 settembre divenne il nemico pubblico numero 1, Osama Bin Laden.

Truppe statunitensi prima e Nato poi, invasero l’Afghanistan per “debellare il terrorismo” e “riportare la democrazia”. Al di là del fatto che 10 anni dopo Bin Laden venne ucciso in un’operazione antiterrorismo ad Abbottabad, in Pakistan, dove da tempo il capo di Al’Qaeda si era rifugiato. Ma riavvolgiamo il nastro.
Nell’ottobre 2001 le forze occidentali fanno cadere il regime talebano manu militari. Certo si arriverà anni dopo ad eleggere un parlamento col 25% di donne (in gran parte mogli o figlie dei signori della guerra) e certamente a Kabul almeno si tornano a vedere volti non coperti dal pesante burka imposto dai fondamentalisti. Ma il paese resta in perenne guerra civile. Le milizie dei diversi signori della guerra si combattono fra loro soprattutto per il controllo della produzione di oppio e per la creazione di impianti per raffinare il prodotto in eroina, la violenza imperversa soprattutto nelle province remote, i taliban continuano a controllare diverse aree del Paese.

E mentre si spendono cifre inaudite per esportare armi, sperimentare anche nuovi ordigni come la Moab (Mother Of All Bombs), che venne fatta esplodere nell’aprile del 2017 per distruggere “tunnel dell’Isis” provocando morti e ferite permanenti fra i civili, il paese non cessava di affondare. Con risultati assurdi che oggi permettono di essere meglio compresi. Pur avendo timore dei taliban, nelle zone da loro controllate regnava maggior sicurezza al punto che coloro che non erano riusciti a fuggire in Pakistan, Iran e -pochi -poi proseguire verso l’Europa, hanno a volte scelto di lasciare le proprie case e stabilirsi nelle “aree talebane” avendo meno diritti ma maggiore garanzia di vita. I governi che si sono succeduti nel paese hanno avuto come comune denominatore quello di incrementare la corruzione – gran parte delle risorse che arrivavano per cooperazione e sviluppo venivano spartite fra le famiglie vicine al presidente di turno o ai possibili alleati – la povertà, la tossicodipendenza. Per molti che restavano in Afghanistan c’erano due opportunità di lavoro: entrare in qualche milizia privata – gli stipendi dei soldati regolari erano bassi e spesso non arrivavano – o andare a lavorare nella raccolta dei papaveri da oppio e nelle raffinerie. Nel frattempo le milizie taliban si rafforzavano, divenivano vero e proprio potere parallelo al punto da poter pretendere di aprire un tavolo di negoziati con gli occupanti.

Con gli accordi di Doha, in Qatar, Usa, governo Ghani e taliban erano questi ultimi ad impugnare il coltello dalla parte del manico. In cambio di impegni vaghi e soprattutto a quello di pacificare realmente il paese, i taliban hanno ottenuto di fatto di ricreare l’emirato islamico, reintrodurre in maniera totale e priva di controllo la sharia, definire una fase di transizione verso un nuovo governo che invece non c’è stata. Una transizione, era chiaro da un anno, che non ci sarebbe stata.

Gli accordi di Doha si sono rapidamente impantanati mentre i prigionieri taliban venivano liberati, l’amministrazione Biden, seguendo le decisioni del suo predecessore, confermava il ritiro delle truppe Usa e Nato dal territorio afghano – i 900 italiani di stanza ad Herat sono da tempo a casa – e gli analisti davano per scontato che entro pochi mesi il potere sarebbe tornato nelle mani dei taliban. Ma, in parte grazie agli armamenti disponibili, agli accordi presi con molti signori della guerra, alle defezioni generali nell’esercito governativo, agli accordi diplomatici presi in maniera ufficiale o segreta con le potenze mondiali e regionali vicine (Russia, Cina, Turchia, Iran, Pakistan ), i fondamentalisti sono riusciti anche a realizzare una umiliazione simbolica degli Usa e dei suoi alleati.

Il ritiro definitivo era previsto per l’11 settembre, venti anni dopo le twin towers, Kabul è stata occupata, come quasi tutto il Paese, un mese prima. Abdul Ghani Baradar, uno dei capi della delegazione taliban, mujaheddin antisovietico durante l’invasione, vice del defunto mullah Omar, per anni detenuto in Pakistan, è tornato da trionfatore a Kabul dove potrebbe divenire il nuovo presidente. Ed è a Kabul anche il trentenne figlio del fondatore dei taliban, il mullah Omar, Mohammed Yaqoob che potrebbe rappresentare la sorpresa per il futuro. Considerato un “moderato” e benvisto in Usa, Pakistan e Arabia Saudita, è all’interno della gerarchia del gruppo ancora debole da dover ricorrere ad una collegialità nelle decisioni da prendere, che tenga conto anche delle diverse sensibilità.

Cosa c’è da aspettarsi per il futuro prossimo? Intanto, inevitabilmente, ci sarà – è già in atto – un aumento degli sfollati e di coloro che cercheranno con ogni mezzo di lasciare l’Afghanistan. Se alcuni paesi come Germania e Nuova Zelanda hanno almeno accettato di dare rifugio agli interpreti e ai collaboratori afghani delle truppe di occupazione, da altri Paesi pochi segnali in tal senso. Il contingente italiano ha usufruito di circa 800 interpreti e guide, con le loro famiglie si arriva a 3000 persone ma ad oggi nessuna prospettiva di protezione è stata avanzata. E se il governo albanese ha dichiarato di poter accettare una modesta quantità di rifugiati, se Olanda, Germania e Danimarca hanno almeno sospeso i rimpatri degli afghani a cui non veniva riconosciuta protezione umanitaria, il governo austriaco ha cinicamente dichiarato, crescendo nei consensi, che non solo non accetterà rifugiati ma continuerà a rimpatriare chi non ha diritto.

Quando i riflettori saranno, temiamo presto, lontani dallo scenario afghano, i primi a pagare nel nuovo regime, saranno proprio coloro che hanno lavorato per l’occupante. E così come i taliban non hanno affatto rispettato la promessa di non attaccare le città prima della fine dei negoziati è difficile immaginare che altre garanzie verranno rispettate.

La situazione delle donne, soprattutto delle single, che si vanno censendo nelle città “liberate” per dar loro un “marito”, di quelle che hanno studiato e sono riuscite ad esercitare una professione che le aveva rese indipendenti, è già duramente a rischio. Impossibile contattarle, hanno dovuto nascondere i computer e spegnere i cellulari perché una comunicazione con gli occidentali, in questi giorni, può costare la vita. I danni maggiori saranno subiti dalle bambine e dalle donne nelle aree rurali o nelle città in cui non godono di qualche alta protezione, in cui non risultano esponenti di rango di qualche famiglia potente. Per loro il futuro è segnato anche se dai primi segnali, le piccole ma combattive organizzazioni che hanno resistito in questi anni, non intendono arrendersi.

I Paesi responsabili di venti anni di una immorale, illegale, inutile guerra imperialista, dovrebbero assumersi la responsabilità di farsi carico di chi fugge o intende fuggire. L’Onu dovrebbe intervenire per mettere in salvo chi è a rischio anche solo perché appartiene ad una delle tante minoranze che compone il grande paese di 38 milioni di abitanti. I taliban, per ora, intendono riallacciare rapporti internazionali con chi non pretenda di intromettersi nella vita interna afghana. Dichiarano disponibilità verso le ong umanitarie, verso i progetti di cooperazione, verso ogni sostegno che possa consentire al Paese di uscire dalla povertà assoluta in cui è ormai da decenni. Questo a condizione che chi entra in Afghanistan rispetti le interpretazioni taliban delle leggi coraniche.

Un altro Paese, dopo la Turchia e la Libia ha oggi un formidabile potere di ricatto verso l’Europa. Ai prossimi tavoli il nuovo Emirato potrà dire: “O soldi o rifugiati, e i diritti umani da noi sono cose che non vi riguardano”. Può darsi che alcuni Paesi non riconoscano l’Emirato islamico dell’Afghanistan, ma difficilmente sentiremo le grandi potenze proporre sanzioni come invece viene fatto verso paesi (cfr Cuba o Venezuela) che mettono in discussione il modello di sviluppo dominante. Ci sono diritti umani di serie A e altri di serie B è cosa nota. Altro tema spinoso che risulta arma potente in mano ai nuovi dominatori di Kabul è l’immensa produzione di oppio e di eroina di cui il Paese dispone. Si tratta, l’abbiamo già scritto anche in passato, di un mercato che cresce in continuazione, che non ha mai visto crisi, che peraltro ha portato soprattutto molti giovani afgani in condizioni di tossicodipendenza. Le potenze che hanno occupato l’Afghanistan, Usa in primis, non hanno mai nemmeno cercato di stroncare tale produzione proponendo colture alternative e magari in grado di garantire sostentamento alla popolazione. È un mercato che fa gola e che, insieme ai minerali preziosi, di cui è ricco il territorio afghano, determinerà alleanze, accordi commerciali, investimenti. E sono molti i Paesi interessati a non perdere questa occasione, voltandosi dall’altra parte quando si parla di diritti e democrazia. Forse perché quest’ultima la si sa esportare solo con le bombe.

Da ultimo, non per importanza, la vicenda afghana, ma vale anche per altri contesti, pone una domanda. Partendo dal presupposto che il multipolarismo sia una prospettiva migliore dell’unipolarismo Usa o del bipolarismo da “guerra fredda”, non c’è il serio rischio che le diverse potenze oggi abbiano come unica prospettiva quella di “dividersi le torte”? L’Europa, fuori dai giochi in tale contesto, è quella che complessivamente ha assunto la posizione peggiore. In Italia c’è chi invoca la necessità di riprendere la “guerra al terrore” e riscopre all’improvviso i diritti delle donne afghane. Meglio stare con chi questi diritti non li ha mai dimenticati come il Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane). Riprendiamo quindi il loro appello: “Ecco sono queste forze come Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), Hawca (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), Opawc (Organization of Promoting Afghan Women’s Capabilities), Hambastagi unico partito democratico, che il Cisda cerca di sostenere dall’Italia con un lavoro di informazione e di costruzione di relazioni, che pochi fanno. Cerchiamo di dare voce a chi voce non ha. Siamo attive dalla fine degli anni 90 anche andando ogni anno in delegazione a Kabul per l’8 marzo, attivando progetti che partono dalle loro necessità e in questo momento abbiamo lanciato una raccolta fondi a favore degli sfollati afghani, è li che le nostre donne stanno intervenendo. Chi volesse contribuire può farlo con un bonifico sul conto Cisda: Banca Popolare Etica IBAN IT64U0501801600000000113666, causale: “Donazione liberale emergenza Afghanistan”.

Per chi volesse conoscere la loro attività: www.cisda.it

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Per approfondire, Left del 9-15 luglio 2021

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SOMMARIO

Una lunga, lunghissima omissione di soccorso

Basir Ahang è un giornalista italo-Hazara che 13 anni fa arrivò in Italia a seguito di alcune minacce di morte ricevute dai Talebani a causa della sua attività giornalistica: «Oggi mi trovo a rivivere lo stesso orrore e preoccupazione per la mia famiglia in Afghanistan», scriveva ieri.

Dice Ahang: «La mia etnia è stata storicamente perseguitata dai Talebani ma oggi l’intero popolo si trova ad affrontare la minaccia di un gruppo che ha da sempre utilizzato la violenza e il terrore per raggiungere i propri scopi politici. Credo che tali gruppi abbiano un nome, eppure così di rado è stato utilizzato per descriverli. Anche in questa nebulosità, ottusità e relativismo vanno ricercati i semi della nostra disfatta. Per anni infatti nei media e nei salotti degli avventurieri occidentali di tutto il mondo i Talebani sono stati ritratti di volta in volta come un’opposizione armata, un gruppo militante antimperialista e così via. Verrebbe da chiedersi quale aspetto dell’imperialismo stessero combattendo i Talebani quando nel 2015 decapitarono Shukria, una bambina Hazara di nove anni che stava viaggiando con la sua famiglia da Ghazni a Kandahar. O quale impero del male stessero affrontando quando hanno preso di mira le donne, le minoranze etniche e religiose. I Talebani sono composti da gruppi diversi, e ancora oggi non è dato sapere se tali gruppi rispondano o meno ad un’unica leadership. Credo che lo scopriremo presto. Ciò che li accomuna è la brutalità ed un estremismo religioso utilizzato a fini politici».

«Ora – prosegue il giornalista – dopo intrighi e tradimenti interni al governo che hanno permesso loro di ottenere il controllo di molte regioni senza dover nemmeno combattere, i Talebani sono dentro la capitale. E a quanto pare gli Stati Uniti hanno concluso un accordo per garantire loro la libera entrata a Kabul in cambio della concessione di terminare l’evacuazione dei pochi fortunati che sono riusciti ad ottenere un passaggio sicuro. I Talebani sono già entrati a Bamiyan, capitale culturale Hazara, ed hanno issato la loro bandiera. Nel 2001 quando entrarono a Bamiyan, i Talebani fecero saltare in aria parte della storia Hazara: gli antichissimi Buddha e bloccarono i rifornimento di viveri sottoponendo la popolazione locale ad una carestia. A Herat invece le donne sono già state mandate a casa dai loro luoghi di lavoro e i professori stanno salutando per un’ultima volta le loro studentesse. Alle donne non sarà più permesso studiare. Alcune ragazze sono state uccise solo per aver indossato dei jeans. Tra poche ore i Talebani otterranno il controllo totale di un Paese che è stato offerto loro su un piatto d’argento da gran parte della comunità internazionale. Una comunità che si è illusa di poter fare accordi con un gruppo che non crede nei più basilari elementi della democrazia, della dignità e dei diritti umani».

La guerra in Afghanistan, la più lunga combattuta dagli italiani, è iniziata il 30 ottobre 2001 e finisce il 15 agosto 2021. È costata 53 vittime e 8,5 miliardi di euro. Il fallimento è di tutta la politica occidentale: oltre 20 anni di scelte sbagliate sempre all’insegna dell’imperialismo da esportare che viene rivenduto come esportazione di democrazia. Ora, vedrete, tra pochi giorni l’Europa fisserà una pomposa riunione per decidere il da farsi. Quell’Europa che tra il 2008 e il 2020 ha rimpatriato più di 70.000 afghani, derisi come “emigranti economici” se non addirittura “fasulli”, quelli che “non scappano da nessuna guerra”. È stato un Ferragosto nero per il mondo. Qualcuno dice che “è solo l’inizio” ma in realtà è l’ennesima puntata di una storia sbagliata.

Buon lunedì.

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#Insorgiamo. Perché la lotta dei lavoratori della Gkn-Melrose ci riguarda tutti

«Abbiamo letto di tutto dopo l’incontro al Mise del 4 agosto. Abbiamo atteso la manifestazione di mercoledì 11 agosto per tornare a fare il punto della situazione». Questo dicono i lavoratori della Gkn-Melrose e questo loro testo, «lungo ma necessario – scrivono – è stato approvato dall’assemblea dei lavoratori e si affianca a quanto già detto dal comunicato della Fiom». Lo pubblichiamo così com’è e vi invitiamo a leggerlo.

1. Sono ormai nove giorni che Gkn-Melrose si è presa qualche ora per valutare. Valutare cosa non si sa, visto che ha passato l’intero incontro con il Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) del 4 agosto a ribadire che lo stabilimento di Firenze deve chiudere e i licenziamenti sono irreversibili. Il tavolo ministeriale ha quindi concesso tempo a chi problemi di tempo non ne ha. Siamo noi ad avere sulla testa il conto alla rovescia della procedura di licenziamento: 75 giorni totali che si concludono il 22 di settembre. Procedura attivata dalla stessa Melrose, in un modo che riteniamo illegittimo (su questo la Fiom ha giustamente fatto un articolo 28). Melrose userà questo tempo per fare quello che fa da almeno un anno: dissimulare ed elaborare la prossima tattica. Il loro scopo è chiaro e lo perseguiranno in ogni modo, costi quel che costi: lo smantellamento e la distruzione di 500 posti di lavoro, di uno stabilimento efficiente, produttivo e con commesse.

2. Il nostro obiettivo è diametralmente opposto: far ritirare i licenziamenti, salvaguardare la continuità produttiva dello stabilimento, l’intero patrimonio professionale e 500 posti di lavoro per il territorio. Per questo sono inaccettabili i licenziamenti ma lo è anche la cassa integrazione per cessazione d’attività. La morte è morte, anche quando è preceduta da una lunga agonia, magari con morfina.

3. Lo stesso Governo ha offerto a Melrose di valutare l’utilizzo di tredici settimane di cassa integrazione ordinaria. In questo caso, ci sarebbe il ritiro dei licenziamenti e non verrebbe accettata la cessazione d’attività. Per chi come noi ha la spada di Damocle della procedura di licenziamento, sarebbero una momentanea boccata d’ossigeno. Con alcune specifiche, però: la cassa integrazione deve essere integrata economicamente dall’azienda, estesa a tutte le ditte in appalto, il presidio e l’assemblea permanente devono continuare. Tuttavia, non possiamo non rilevare come 13 settimane di cassa siano una proposta contraddittoria e insufficiente in bocca a un Governo. Questa non è un’azienda in crisi. E l’ammortizzatore sociale dovrebbe servire a sostenere i cali di lavoro. Qua siamo invece di fronte a un fondo finanziario che ha deliberatamente organizzato la delocalizzazione dei volumi. La beffa è poi che queste settimane di cassa sarebbero completamente gratuite per Gkn. Altri soldi pubblici, quindi…

4. Non ci convince che queste tredici settimane siano state associate, nella narrazione del Governo e giornalistica, alla ricerca di un compratore privato. Ciò che andrebbe invece scritto, narrato, spiegato è come in questo nostro paese il “compratore privato” e la “reindustrializzazione” si siano quasi sempre rivelati miraggi, bolle di sapone o peggio operazioni opache e perfino di dubbia legalità. Tra di noi ci sono diversi operai già licenziati dalla Electrolux di Scandicci nel 2005. Ricordano perfettamente la storia dell’immobiliarista che si presentò per un produttore di pannelli solari. Ricordano le fanfare sulla reindustrializzazione green dello stabilimento. Si potrebbe parlare di Ilva, Blutech (Fiat di Termini Imerese), Trw, Acciaierie di Piombino, Bekaert ecc. ecc. In alcuni casi i “nuovi proprietari” hanno intascato soldi pubblici, senza poi dare vita a nessuna ripresa produttiva. Anzi, invitiamo tutti i giornalisti a ricontattare le lavoratrici e i lavoratori di queste vertenze e a farsele raccontare nuovamente. Se il compratore privato c’è, esso deve essere nominato in maniera chiara e precisa ai tavoli tecnici. E anche in quel caso lo Stato dovrebbe fare da ponte con un intervento diretto, per tutelare la continuità produttiva dello stabilimento in caso il privato si smaterializzi. Cosa che è già successa decine e decine di volte.

5. Apprendiamo dai giornali che è in discussione una legge antidelocalizzazioni, sul modello francese, e che questa legge impatterebbe anche sul caso Gkn. Non sappiamo quanto la notizia sia vera o precisa. Se fosse confermata, consideriamo questo fatto un risultato delle lotte di questi giorni. Sarebbe anche un’ammissione implicita della necessità di un intervento legislativo di cui possano beneficiare tutti i lavoratori. Ma proprio per questo questa legge non può essere scritta SULLE nostre teste. Deve essere scritta CON le nostre teste. E, se necessario, siamo pronti a scriverla nelle piazze. Il modello francese, da quel che possiamo capire, non impedisce le delocalizzazioni ma semplicemente le procedurizza. Di certo non le fermeranno le sanzioni monetarie (e se sanzioni devono essere, non un misero 2% del fatturato…). Anzi, si rischia di indicare come monetizzare le delocalizzazioni. La vera sanzione per chi delocalizza è rendere indisponibile lo stabilimento e garantirne la continuità produttiva. La vera sanzione per Melrose è imporre intanto il ritiro della procedura di licenziamento e lasciare i lavoratori a carico dell’azienda.

6. Proprio per questo invitiamo tutti i singoli, associazioni, organizzazioni appartenenti all’area della giurisprudenza democratica a iniziare una discussione che ci aiuti a tradurre in linguaggio legislativo quanto questa nostra lotta va rivendicando. Siamo anche disponibili a organizzare una assemblea nazionale dell’area della giurisprudenza democratica qua davanti ai cancelli.

7. Ribadiamo la richiesta che il Consiglio regionale toscano si riunisca di fronte alla fabbrica con una sessione specifica, aperta alla cittadinanza e a nostri interventi di proposta, dove approfondire la mozione di indirizzo che lo stesso Consiglio regionale ha approvato il 20-7-21.

8. Per quanto già detto, riteniamo altamente ambiguo il termine “reindustrializzazione”. Per reindustrializzazione spesso si tende a indicare un processo di vendita del capannone vuoto e la ricerca di un privato che faccia ripartire la produzione qualsiasi sia il prodotto, con una completa riprofessionalizzazione del personale. Qua noi abbiamo linee nuove e potenzialmente le commesse. Ed è inverosimile che alla dispersione di un patrimonio industriale e storico di questa portata, possa subentrare un privato che da zero rifonda un’industria di tutt’altra natura. Per questo preferiamo il termine “riconversione” del prodotto. Abbiamo noi stessi progetti di miglioramento ambientale dello stabilimento, possiamo prototipare semiassi per la costruzione di mezzi pubblici per progetti di reale mobilità pubblica ed ecologica. Dotare lo stabilimento di pannelli fotovoltaici, sviluppare un centro di soluzioni ergonomiche da proporre alle aziende del settore o della zona, potenziare il nostro reparto costruzione macchinari: abbiamo sviluppato negli anni una visione nostra e dinamica di questo stabilimento. Fino a poco tempo fa il mondo accademico è stato a disposizione della proprietà aziendale: spesso sviluppando gratuitamente progetti i cui brevetti oggi rimangono a Gkn Melrose. Facciamo appello ora, invece, allo stesso mondo accademico ad aprire un canale con noi per trasformare in progetti concreti tutte le intuizioni della nostra assemblea operaia.

9. Chiediamo che Stellantis torni ad assegnare allo stabilimento di Firenze le commesse che ci sono state sottratte. Chiediamo che metta in lista nera Gkn e che si esprima pubblicamente sul vantaggio competitivo di avere un fornitore provvisto di uno stabilimento a Firenze. Gkn Firenze, infatti, ha sempre avuto una posizione strategica nel servire gli stabilimenti italiani di Fiat, poi di Fca e poi di Stellantis. Il timore è che oggi venga meno lo stabilimento di Firenze perché l’intero gruppo Stellantis si prepara a un ulteriore disimpegno dall’Italia. I segnali non mancano: a Melfi si passa da due linee produttive a una, sembra che in Polonia venga costruito uno stabilimento in grado di replicare la produzione Sevel ed è notizia di questi giorni che Stellantis si è svincolata dal prestito pubblico che la impegnava a non chiudere stabilimenti o a delocalizzare la produzione. Il futuro di Gkn Firenze è la prova del nove del futuro dell’intero automotive in questo Paese. A coloro che obiettassero che oggi l’automotive va ridimensionato per ragioni di natura ambientale, vista la necessaria transizione all’elettrico rispondiamo che nel caso di Gkn Firenze la transizione all’elettrico non impatta direttamente la produzione, visto che i semiassi continuano ad esistere anche nelle macchine elettriche. In ogni caso, proprio perché siamo di fronte a una transizione complessiva del settore, questa va pianificata con un intervento pubblico e politico generale.

10. Il nostro è un invito a insorgere. Solo se cambiano i rapporti di forza generali nel Paese, noi possiamo sperare di salvarci. E se noi vinciamo, cambiano i rapporti di forza a favore di tutto il mondo del lavoro. Questo nostro invito oggi si irradia da Firenze al resto del Paese. È un invito rivolto innanzitutto alle nostre organizzazioni sindacali e a tutti coloro che sono oppressi. Che il nostro “Insorgiamo” si trasformi in un moto generale di indignazione che vada oltre la nostra stessa vertenza e che si allarghi all’intero mondo del lavoro. Di una cosa siamo certi: Gkn Firenze non cadrà senza aver fatto di tutto per convocare una mobilitazione nazionale direttamente a Roma.

#insorgiamo

Sheela Patel: La rinascita di Mumbai parte dagli slums

A city civic worker walks under an art installation of colourful umbrellas as the government eased restrictions amidst the Covid-19 coronavirus pandemic, in Mumbai on June 13, 2021. (Photo by Indranil MUKHERJEE / AFP) (Photo by INDRANIL MUKHERJEE/AFP via Getty Images)

Sheela Patel è la fondatrice e la direttrice della Society for the promotion of area resource centres (Sparc) in India, una Ong che lavora dal 1984 per fornire supporto alle organizzazioni comunitarie urbane dei poveri di Mumbai che si sforzano di trovare un alloggio sicuro e servizi di base, espressione del loro diritto a vivere la città. Patel è anche tra le fondatrici di Slum dwellers international, un movimento sociale internazionale che si occupa dei poveri del mondo. Le sue riflessioni sull’attuale situazione di Mumbai fanno riflettere su quali siano le reali priorità di chi la città la vive e come spesso non coincidano con quelle di chi la città la amministra.

Qual è il livello di disuguaglianze tra i cittadini di Mumbai?
La città è divisa in due parti: da una parte ci sono i grattacieli, dall’altra si vedono queste aree che dall’alto appaiono piatte, formate da quadratini azzurri e bianchi. Si tratta dei tetti delle case delle persone che vivono in quelli che noi chiamiamo “slums”, i sobborghi poveri. Questa divisione riflette lo sviluppo storico delle città, dove l’élite, sia quella coloniale che quella indigena, vive nella città cosiddetta formale, mentre le persone arrivate dai villaggi vivono in queste zone informali. Non è mai avvenuta una riconciliazione fra le due parti per quanto riguarda l’accesso ai servizi e l’uguaglianza nel lavoro. Nella città formale ci sono gli standard minimi per quanto riguarda l’acqua, le fognature e gli spazi pubblici aperti, la formazione, l’istruzione e la salute, tutte cose che le persone che vivono nella zona informale non hanno. Questa disuguaglianza rappresenta una piaga per Mumbai, che è una delle più grandi regioni metropolitane dell’India, con più di 12 milioni di abitanti nell’area cittadina e 18 milioni nella regione metropolitana.

Che problemi hanno dovuto affrontare i cittadini con l’inizio della pandemia a marzo dello scorso anno, in particolare i bambini e le donne?
Quando è esplosa l’emergenza Covid, molti bambini non…


L’articolo prosegue su Left del 6-26 agosto 2021

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SOMMARIO

La grande sfida dei progetti sostenibili e a misura d’uomo

I progetti di architettura umanitaria si collocano in pieno nel panorama della innovazione, in particolare in questo momento storico. In Africa è presente, nonostante le gravissime difficoltà e le crisi economiche aggravate dalla pandemia, un movimento di rinascita culturale che lascia spazio a ricerche innovative nei campi artistici e dell’architettura. I territori in aree di crisi molto popolate permettono una sperimentazione in architettura con risultati in piena rispondenza ai protocolli internazionali sulla sostenibilità come ad esempio nella Straw bale school proposta nel 2019 in Malawi dallo studio Nudes condotto da Nuru Karim. Questo tipo di interventi che si rinnovano abbandonando le influenze coloniali, hanno radici nella storia e nell’impegno umanitario di personalità come Yasmeen Lari, prima donna architetto in Pakistan che ha dedicato la sua vita all’architettura umanitaria e premio Jane Drew 2020 (v. Left del 29 maggio 2020).

Già prima della pandemia, nelle zone di crisi, si era verificata una trasformazione notevole visibile in un tipo di architettura caratterizzata dall’impiego di materiali naturali per ovvie ragioni di urgenza e costi nel rispondere alla richiesta umanitaria di intervento, utilizzando tecniche costruttive delle origini e coinvolgendo nella costruzione la popolazione locale.

Tuttavia molti progetti ben realizzati e strutturati, funzionalmente perfetti in questo campo, si riferivano in termini visivi a…


L’articolo prosegue su Left del 6-26 agosto 2021

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