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La libertà di essere idealisti

Foto Cosima Scavolini/Lapresse 05-10-2008 Roma Spettacolo Trasmissione Domenica In Nella foto Gino Strada Photo Cosima Scavolini/Lapresse 051-10-2008 Rome Tv program Domenica In In the photo Gino Strada

Gino Strada è molte cose e come succede alle persone non ordinarie tutti i suoi lati si vedono in quello che lascia, nei progetti che ancora correranno domani appena passerà il dolore, negli ospedali che continuano a curare, nella sua associazione che è un modo di abitare il mondo.

Ripeteva Gino Strada di essere un medico, lui era uno che ci credeva davvero al senso delle parole, che non cadeva e anzi combatteva questo gioco continuo a inquinarne il senso: Gino Strada non faceva il medico, Gino era un medico con il gusto perfino sprezzante di rivendicare la sua ossessione di curare. E Gino Strada non ha curato solo le persone, no, Gino Strada ha curato e difeso un modo di essere cittadini del mondo dove solo il dolore, il bisogno e le ferite contano.

Gino Strada in un’epoca di perbenismo che si finge moderato e invece è solo vigliacco ha insegnato il coraggio di essere contrario: ha rivendicato il dovere di essere contro la guerra oltre al diritto di essere pacifista, ci ha insegnato che siamo responsabili di ogni sofferenza in qualsiasi angolo del pianeta con la stessa violenza di un rantolo che accade sul nostro di vano, non ha mai smesso di smutandare la pochezza di chi usa i confini come fruste, di chi ritiene le distanze qualcosa che abbia a che fare con le responsabilità, di chi ritiene la cura un servizio da cui poter mostruosamente trarre profitto, di chi riesce a porre disumanamente delle condizioni mentre osserva qualcuno che muore.

Gino era bianco, bianchissimo. Era talmente bianco che nessuna ombra poteva salvarsi dal proprio riflesso. Per questo l’hanno odiato, hanno provato a delegittimarlo e ad additarlo come estremista: si può non essere estremi di fronte alle vittime della guerra? E quando lui lo ripeteva quelli balbettavano. Ci si può permettere di non essere estremi di fronte ai malati che diventano clienti? Si può accettare di vivere in un mondo in cui salvarsi e essere salvati sia un privilegio? Dai, su.

Gino ci ha insegnato che la profondità serve solo per disegnare altezze, che le ambizioni non possono concedersi il lusso di sclerotizzarsi e che bisogna essere fortissimamente liberi per essere idealisti. Che poi è una parola bellissima “idealisti”, qualcosa che non ha niente a che vedere con la hybris e i giramenti di testa, qualcosa che si progetta, si costruisce, si apre e si rende operativa. Gino piantava cura lì dove gli altri vedevano solo macerie.

Non gli sarebbe nemmeno piaciuto questo articolo, troppo su di lui e con troppo spazio non usato per parlare delle persone da salvare. È che non mi vengono le parole. Mi ha mostrato la parte migliore di me e del mondo e ogni volta, anche questa volta, non mi vengono le parole. E invece per lui era tutto così semplice, così chiaro che non potevi sperare altro se non riuscire ad arrampicartici addosso.

Grazie, Gino.

Gino Strada: «L’Italia ripudia la guerra ma siamo in guerra da oltre vent’anni»

Cosa rispondere a chi ancora continua con la retorica dell’invasione?
Risponderei di informarsi. Qui non c’è nessuna invasione, sembra che il problema dell’Italia non siano i trecento miliardi e passa lucrati dalle mafie, i centocinquanta miliardi di evasione fiscale, altri centinaia di miliardi di corruzione ma sembra che il problema siano quaranta migranti fuori dal porto di Lampedusa. Su questo si è costruita una narrazione fasulla. In Italia in questo momento sono più i giovani che se ne vanno di quelli che arrivano. Certo, gli stranieri vengono qui per ragioni diverse rispetto a chi emigra poiché l’Italia è un Paese mediamente ricco. Ma dov’è questa invasione? Calcoliamola in termini demografici: è una follia, non esiste, è una cosa costruita ad arte perché bisogna alimentare l’odio verso il diverso. Diverso che può essere declinato in vari modi: può essere il rom, il sinti, l’ebreo o il nero. Ma è un odio che si riversa sempre su chi sta al di sotto nella scala sociale. Come se la responsabilità dei problemi, anche drammatici, che vivono gli italiani, come la crisi economica e la difficoltà di arrivare a fine mese, fossero colpa degli ultimi e non colpa di chi invece sta più in alto nella scala sociale. E questa è una pazzia tipica della mentalità fascista.
Però molte persone dicono: «Non ho rappresentanza politica, non ho molti mezzi, sono un cittadino normale, cosa posso fare?». Come gli risponderesti?
Io sono tra quelli che non hanno rappresentanza politica. “Nel mio piccolo” è sempre la domanda più grande su cosa possa fare una persona. Io credo che di cose da fare ce ne siano tantissime. Cominciando dall’informarsi e dal capire l’entità reale dei problemi e delle questioni. Fino al continuare ad esercitare delle pratiche alternative, delle pratiche di resistenza e ce ne sono tantissime. Non c’è soltanto Riace, c’è una solidarietà diffusa molto importante. Poi il cittadino normale non ha spesso altri modi per dire le sue opinioni se non votando. Fino a quando non ci saranno più le elezioni, che, attenzione, non significano per forza democrazia: a volte è un esercizio tecnico e poi quando si va sui tecnicismi elettorali si vede che in realtà di possibilità di scelta il cittadino non ne ha. Però si potrebbe iniziare prendendosi l’impegno di non votare per nessuno che non ripudi sul serio la guerra. Io non voterei mai un partito che non mi garantisce che non farà mai la guerra in nessun caso, tranne ovviamente il caso di subire un’invasione militare ma non mi sembra il nostro. Io credo che il primo compito della politica sia quello di rispettare la Costituzione e i suoi principi fondamentali tra cui il ripudio della guerra e invece abbiamo una classe politica che delinque tranquillamente contro la Costituzione, senza nessun problema, e nessuno glielo fa notare.
L’Italia ripudia la guerra…
Sì, ma siamo in guerra da oltre vent’anni. O ce lo siamo dimenticati? Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan. Certo si possono fare le solite operazioni di trasformismo: se un mio avversario compie un gesto di violenza è terrorismo mentre se lo compio io è un atto umanitario. Dobbiamo fare sparire queste nebbie, chiamare le cose con il loro nome: la guerra è guerra. L’Afghanistan è l’esempio più lampante: siamo andati lì con una decisione presa un mese dopo l’inizio dell’attacco americano e siamo ancora lì, abbiamo avuto tanti morti, abbiamo speso miliardi. C’è qualcuno che mi sa dire una ragione per cui noi siamo in Afghanistan al di là del servilismo verso gli Usa? Puro servilismo. Diciamo che siamo una colonia. Abbiamo 70 testate nucleari americane sul nostro territorio, la nostra politica estera non esiste, si prendono solo ordini. Perché oggi siamo nella Nato? Perché siamo in un’alleanza militare? Queste domande ormai non si possono nemmeno più fare, si dà per scontato che siamo una dependance degli Usa. I nostri politici fanno ridere, non hanno nemmeno quella dignità e quell’orgoglio nazionale che tra l’altro tanto vantano.
L’argomento del momento è la vicenda della Sea-Watch e la decisione presa della sua comandante…
Al di là dei dettagli tecnici mi pare che qui sia in gioco un principio: si tende a criminalizzare chi aiuta. Questa cosa è intollerabile, inaudita, perfino inaspettata nella sua rozzezza, nella sua stupidità. E questo purtroppo è un processo che va avanti da qualche anno, dal governo precedente: la guerra alle Organizzazioni non governative è iniziata con il governo a guida Pd e Minniti ministro dell’Interno.
Improvvisamente sembra che una parte degli italiani sia diventata legalitaria, tutti rispettosi delle leggi e tutti pronti a crocifiggere Carola Rackete, che ne pensi?
Vedo che siamo in un periodo in cui tutti urlano, tutti gridano, c’è gente che parla di cose che non conosce, sembra che l’incompetenza sia diventata la regola. Però io non ci credo che a questo schiamazzo di una politica ormai vergognosa corrisponda un vero sentire degli italiani. Credo che molta gente, probabilmente la maggioranza, stia mal sopportando questo clima. Per questo credo che la situazione sia ancora reversibile almeno nel nostro Paese. È vero che c’è una macchina propagandistica pazzesca e che c’è un’assenza delle più alte cariche dello Stato. Che non ci sia nessun commento sul fatto che ormai la politica si faccia con i tweet e il dibattito si faccia con gli insulti, se non con i pestaggi, è preoccupante. Un membro del Parlamento che si permette di dire «affondiamo la nave»… sono cose che erano impensabili alcuni anni fa. Però io non credo che tutto questo sia il sentire degli italiani.
Quindi sei ottimista?
Io vedo un Paese dove c’è molta solidarietà. Un Paese dove ci sono migliaia di organizzazioni, di associazioni, piccole o grandi o medie che siano, che si danno da fare comunque per migliorare la vita delle persone. Questa cosa è incompatibile con la politica attuale. Se pensassi che veramente gli italiani la pensano come Salvini dovrei concludere da medico che ci sia stato un cambiamento genetico e antropologico degli italiani. Tutta questa società civile, una volta si chiamava così, credo che vorrebbe un mondo diverso, più equilibrato, più giusto, più sereno, meno carico di odio. Credo che questa sia una brezza che c’è già e che spero diventi vento forte.
Un fischio?
Sì. Non c’è bisogno che urli una bufera però, insomma…
Però è vero che sembra che questa parte d’Italia non trovi da una parte una rappresentanza politica e dall’altra una narrazione sui media aderente alla realtà…
Questo è sicuro. Basti pensare che qualche giorno fa l’ex ministro della Difesa (Pinotti, Pd, ndr) ha emesso un comunicato di solidarietà alla Guardia di finanza e questa dovrebbe essere l’opposizione. Poi si chiedono perché perdono i voti. Ma questi sono loro. Non c’è dubbio che ci sia bisogno di un nuovo soggetto politico, non ho il minimo dubbio su questo. Credo che il Pd sia morto, sepolto e purtroppo non prenderanno mai la decisione di sciogliersi che sarebbe un grande passo avanti per l’Italia. C’è bisogno di un nuovo soggetto politico che ridefinisca le regole del vivere associato. Spero che nasca.

L’intervista di Giulio Cavalli a Gino Strada è stata pubblicata su Left del 5 luglio 2019

 

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Le altre interviste a Gino Strada pubblicate negli anni su Left sono qui–> https://left.it/tag/gino-strada/

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Brutta aria in Polonia

Se ne parla poco quasi niente ma in Polonia si avanza a grandi falcate verso una democrazia, una non degna di essere chiamata tale. E lo so che, dirà qualcuno, con tutti i problemi che abbiamo figurarsi se possiamo trovare anche le energie per occuparci della Polonia eppure i grandi mali del mondo, ce lo insegna la storia, accadono proprio mentre non ci si accorge (o non ci si vuole accorgere) degli scricchiolii tutti intorno.

Deve solo superare il passaggio in Senato la legge che permette al governo di avere il controllo assoluto sui media: sostanzialmente impedisce che i proprietari stranieri abbiano il controllo dei mezzi di informazione ma nella pratica la nuova legge serve per costringere il gruppo statunitense Discovery a cedere la sua quota di maggioranza del canale Tvn che attraverso Tvn24 è uno dei pochi rimasti a essere molto critico con il governo. Non è un caso che la legge sia soprannominata “lex anti Tvn” e che il governo saluti con molto favore l’eventuale attuazione: il potere quando ha bisogno di fare il prepotente perché non riesce a governare secondo le regole della democrazia ha bisogno di silenziare il dissenso. Che tutto ciò accada alla luce del sole e così vicino a noi è roba che dovrebbe interessarci.

Manca invece solo la firma del presidente nazionalista conservatore Andrzej Duda alla legge che fissa il tetto massimo di 30 anni per impugnare le decisioni in tribunale per quel che riguarda la restituzione ai superstiti dell’Olocausto delle proprietà sequestrate dalle autorità polacche durante l’era comunista. Inizialmente la legge era stata addirittura pensata con pene detentive per chi menzionava eventualità complicità polacche coi nazisti nell’Olocausto (poi questa parte era troppo grossa e hanno dovuto ritirarla). Decidere con una scure di silenziare i reclami e le decisioni pendenti nei tribunali amministrativi significa di fatto provare a cancellare un pezzo di storia, se non addirittura riscriverlo.

In Europa, a dire la verità, qualcuno ha deciso di farsi sentire. Il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli ha scritto su Twitter: «Il voto di ieri sera sulla legge sui media #lexTVN in Polonia è molto preoccupante. Se la legge entrerà in vigore minaccerà seriamente la televisione indipendente nel Paese. Non ci può essere libertà senza media liberi» e la vicepresidente della Commissione europea responsabile per i Valori dell’Unione, Vera Jourova ha ha detto che la «legge polacca sulle trasmissioni invia un segnale negativo. Serve un’iniziativa per la libertà dei media in tutta la Ue per difenderne la libertà e sostenere lo stato di diritto».

Tutto questo tra l’altro avviene in un Parlamento praticamente esautorato dopo che il premier Mateusz Morawiecki (in foto, ndr) ha espulso il suo vice e ministro dello sviluppo Jaroslaw Gowin che a sua volta ha annunciato che il suo partito Alleanza sarebbe uscito dall’esecutivo. Ed è per questo che la maggioranza ha dovuto racimolare i voti fino all’ultradestra antisemita.

Quando si dice che un certo nazismo (e fascismo) di ritorno è molto più di un’impressione forse si potrebbe guardare in Polonia, dove scrive e vota le leggi. Ed è una questione politica di tutti.

Buon venerdì.

Intitolate un parco a Durigon

Per chi ancora non lo sapesse Claudio Durigon è un ex dirigente del sindacato di destra Ugl che, come è già accaduto, avrebbe svenduto il suo sindacato in cambio di un posto in Parlamento. Nelle file della Lega è conosciuto per la sua vicinanza politica (e fisica) a Matteo Salvini e perché è riuscito in pochissimo tempo a compiere un’ascesa che l’ha portato fino a diventare sottosegretario al ministero dell’Economia.

L’inchiesta di Fanpage “Follow che money” ha ricostruito come il ragioniere Durigon abbia sostanzialmente “regalato” i locali del sindacato Ugl alla “bestia” di Salvini, con una commistione di ruoli che non è piaciuta a molti all’interno del sindacato: in quella stessa inchiesta si sente Durigon dire in un fuori onda di stare assolutamente tranquilli sull’inchiesta che riguarda i 49 milioni di euro della Lega perché «quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi», riferendosi a un generale della Guardia di Finanza. Sarebbe bastata già quella frase per ritenere Durigon inopportuno in un importante ruolo di governo ma dalle parti di Draghi e dei migliori non è accaduto nulla.

Claudio Durigon, il 4 agosto, durante un evento elettorale per le amministrative a Latina, ha proposto di revocare l’intitolazione del parco cittadino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dedicarlo ad Arnaldo Mussolini, fratello del duce e direttore amministrativo del Popolo d’Italia. Sul palco di Latina, insieme a Durigon, c’era il leader della Lega Matteo Salvini, che ovviamente non ha preso le distanze dalle sue parole e anzi sarà andato in solluchero per avere trovato un altro come lui pronto a grattare gli sfinteri di un certo suo elettorato.

Solleticare la bava fascista infangando la memoria di Falcone e Borsellino è una bassezza che riesce perfino a fare schifo ai neofascisti per quanto è strumentalmente ripugnante. Il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo l’ha definita “una farsa macabra” e una frase “che mina la democrazia”. Del resto Durigon entrando nel governo lo scorso 1 marzo ha giurato sulla Costituzione. Ovviamente il sottosegretario ha provato a correggere il tiro dicendo: «Ma io non pensavo ad Arnaldo Mussolini, io pensavo a mio nonno Raffaele, non un fascista ma vero democristiano e uomo di Chiesa, con tre sorelle suore. L’ha fatta lui Latina, anzi Littoria, assieme a tutti gli altri coloni». La toppa lo definisce perfettamente.

Pd, M5S e Leu chiedono a Draghi di ritirargli immediatamente le deleghe di governo. Elena Loewenthal sulla Stampa scrive che queste uscite sono il simbolo di un Paese «rassegnato a queste nostalgie», perché «questo fascismo di ritorno è il contraltare di un’assenza di coscienza storica, del fatto che l’Italia deve ancora fare i conti con quella memoria e con una responsabilità collettiva capace di appropriarsi di quel capitolo terribile della nostra storia».

Badate bene: Durigon è lo stesso che nel 2019 propose il premio Nobel per la pace a Matteo Salvini per dei suoi presunti salvataggi di vite nel Mediterraneo, quelle stesse azioni che a Salvini sono costate un processo. Confuso sulla storia e sulle leggi, insomma.

Per ora Draghi tace. La Lega finge di non sapere, con la testa sotto la sabbia. Intanto, se ci pensate bene, si potrebbe intitolare un parco a Durigon per ricordarci quale sia la natura della Lega e quali siano gli ingredienti di questo governo che vorrebbe essere apolitico e invece tiene dentro anime così.

Buon giovedì.

Perché odiano il reddito di cittadinanza

Nemmeno lo spiffero del presidente Draghi che ha difeso con forza il principio del reddito di cittadinanza (ma i migliori, si sa, sono migliori solo quando dicono concetti che tornano utili) ha fermato la battaglia a testa bassa di Matteo Renzi e compagnia cantante contro la misura.

C’è innanzitutto una riflessione da fare: il reddito di cittadinanza ci permette, giorno dopo giorno, di riconoscere con maggiore facilità da che parte stiano i diversi esponenti politici, se sono appiattiti sul reddito di cittadinanza alle imprese (li chiamano sussidi perché fa più figo) o ai poveri. Meglio così. Chissà che qualcuno prima o poi si svegli e la smetta di ritenersi di centrosinistra.

Italia viva in testa, con la Lega poco dietro (sempre per quella vecchia storia degli amorosi sensi tra i due Mattei) insistono nella visione moraleggiante di una gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere sussidi invece di “soffrire, rischiare, provare”.

Ma c’è un punto sostanziale che va ribadito con forza: a Renzi e compagnia cantante (Confindustria in testa) disturba che il reddito di cittadinanza (che per il 30% finisce a chi ha meno di 20 anni) permetta ai giovani di dire no a contratti di miseria che sono ben al di sotto di qualsiasi soglia di sopravvivenza. Una certa imprenditoria italiana impazzisce all’idea di non poter pescare schiavi e non è un caso che tra le proposte di modifica ci sia quella di avere l’obbligo di accettare lavori anche al di sotto dell’assegno del reddito di cittadinanza con un’eventuale integrazione a carico dello Stato. Per farla breve si tratterebbe di uno schiavismo di cittadinanza non solo tollerato ma addirittura in concorso con lo Stato. Un capolavoro, insomma.

L’assegno medio percepito dai beneficiari del Rdc è di 586 euro: credere che quella cifra possa essere minimamente gratificante dal punto di vista professionale, umano e di realizzazione significa non avere nessun contatto con la realtà. Nella sua replica a Italia viva pubblicata da La Stampa la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra lo dice chiaramente: «Si può essere poveri anche senza essere pigri». Sempre Guerra nel suo intervento smonta anche una retorica truffaldina sul reinserimento nel mondo del lavoro dei percettori di reddito: «È molto difficile collocare persone che, nel 67% dei casi (Inps), non hanno avuto nessun rapporto col mercato del lavoro nei due anni precedenti l’introduzione del Rdc e che hanno un tasso di scolarità molto basso. Ma lo è ancora di più in un periodo in cui l’occupazione è calata, dal febbraio 2020 al febbraio 2019, di 846 mila unità. In questo contesto, per legge, dall’aprile del 2020 si è deciso di sospendere gli obblighi relativi all’accettazione di offerte di lavoro per i percettori di Rdc».

«I numeri dei nostri istituti pubblici – dice Guerra -, davvero inoppugnabili, ci dicono altro anche sul rapporto Rdc-lavoro: circa metà delle persone che ricevono il Rdc non sono attivabili al lavoro. Anche perché spesso già lavorano: nel 57% dei nuclei beneficiari sono presenti persone occupate»: in sostanza in Italia si è poveri anche lavorando. E questo sarebbe il punto vero di cui bisognerebbe avere il coraggio di parlare. Tutto questo in un Paese dove gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (solo per citare due delle categorie che regolarmente sono in fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiano di agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto.

Il reddito di cittadinanza può essere migliorato? Eccome. Ma prima di qualsiasi discorso conviene comprendere bene chi è strumentalmente critico perché disinteressato alla povertà. È una questione di onestà intellettuale e onestà politica. Ed è una questione anche di ecologia del dibattito.

Buon mercoledì.

 

 

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Guarimba, il festival che rivoluziona la Calabria

Nonna Saveria oggi ha 89 anni e con suo marito Antonio non perdevano un solo film italiano quando vivevano in Venezuela da emigrati. “Ne è arrivato uno con Totò e Tina Pica, mi diceva tornando dal lavoro alla compagnia telefonica, così subito correvamo al cinema. E poi Sordi, Gassman, il bianco e nero, che passione…”. Lei ci ha passato mezzo secolo a spaccarsi la schiena a Caracas, notte e giorno a cucire. “Anche a far da mangiare per i bambini più poveri, figli di migranti come me” – racconta –, mentre i Canadair volano bassi sulle colline della sua Amantea dopo aver raccolto l’acqua del mare Tirreno per domare gli incendi appiccati dall’uomo, puntuali, ogni estate. Raccoglie le verdure dell’orto Saveria, alzando lo sguardo dove le fiamme si sfrenano alle spalle del paesino vecchio, emozionante, una gemma incastonata come in una sorta di canyon dove magiche case sembrano sudare dalle finestre chiuse e avvilite da un destino a cui quella antica bellezza non era preparata. Non si è mai preparati di fronte allo sfascio, al disprezzo, allo sfregio, e questo è uno dei tanti pezzi di mondo maltrattati da una storia politica di malaffare e sopraffazione di pochi sul dorso dei tanti.

Siamo sulla costa ovest della Calabria, e qualche visionario però sta facendo la Storia spaccandosela anch’egli quella schiena per il bene comune, sperando forse contro ogni speranza, perché le cose forse mai cambieranno davvero ma sognando di restituire tutta la bellezza saccheggiata e fare di questo un posto sicuro, una “guarimba”, come dicono gli indios venezuelani. Al riparo dalle aggressioni del potere e dei colletti bianchi, imbracciando l’arma dolce e potente dell’arte “in un territorio dell’impossibile”. Lo “vede” così Giulio Vita, sangue italo-venezuelano, nipote di Saveria che alla sua età prende ancora la vecchia Punto – “mi hanno rinnovato la patente per altri due anni sa”, ci spiega orgogliosa – e stare in prima fila ogni sera a contemplare i cortometraggi in concorso a La Guarimba International Film Festival, alla nona edizione quest’anno, di cui Vita è fondatore insieme con Sara Fratini, giovane illustratrice e street artist di Puerto Ordaz, celebre per le sue delicate linee nere su sfondi bianchi.

In una città senza più una sala cinematografica, senza più una libreria (l’ultimo avamposto, si chiamava Il Caffè, ha chiuso), e un Comune sciolto per infiltrazioni mafiose con i suoi commissari indifferenti e ostili, La Guarimba, quel sogno di un “posto sicuro”, è un miracolo culturale, una dolce rivoluzione. Non l’esemplare rassegna estiva tra luci, festini, gamberoni alla griglia e glorie istantanee per vanti social, come tante. Qui c’è un’anima. Un progetto di rinascita, di restituzione alla gente del cemento armato per la costruzione della civiltà e della democrazia vera, alle quali non si potrà mai rinunciare. Non passerelle, né red carpet, non grandi nomi che acconsentono di calarsi nella bassa Italia soltanto perché pagati e alloggiati a cinque stelle, ma direttori artistici come Giulio a spazzare il fango: “Ho letteralmente le mani nella cacca, scusi, la posso richiamare?”, ci aveva detto giorni fa mentre con un gruppo di volontari bonificavano l’area del parcheggio dove si svolge il Festival e sono stati realizzati murales mozzafiato da due grandi colleghi di Sara: il brasiliano naturalizzato portoghese Paulo Albuquerque, in arte Cesáh, e lo spagnolo Mikel Murillo.

“Mai abbiamo pensato che sarebbe stato facile in questa regione selvaggia” dove, dice Giulio con quel morbido accento sudamericano, “le cose sono sempre esagerate, anche le complicazioni: qui, nel secondo anno della pandemia e del commissariamento, con il Parco che abbiamo riparato chiuso perché ritenuto inagibile dopo il crollo del centro storico, con tutti i bandi della Cultura regionali eliminati, proprio qui, abbiamo deciso di riportare il cinema alla gente e la gente al cinema”.

Così da nove anni il paese si trasforma da deserto culturale a crocevia internazionale di intelligenze che contagiano invitando a capire, a riflettere. E cambiare: nella stessa Amantea dove un anno fa piccoli politici boss gridavano allo scandalo per l’arrivo di tredici migranti pakistani positivi al Covid (furono infine deportati a Roma) incitando la popolazione a sdraiarsi a terra contro il loro trasferimento da Roccella Jonica, post sbarco, in una struttura della cittadina in attesa invece dei ricchi bagnanti da tutta Italia, il pubblico della Guarimba resta incollato allo schermo nei 12 struggenti minuti di The Delivery (La consegna), della regista turca Doğuş Özokutan, la storia di Yusuf che accetta di trasportare dei rifugiati in un camion frigorifero pur di far soldi e curare sua figlia, salvo poi accorgersi che tra questi ci sono molti bambini che non avrebbero mai potuto sopravvivere a quelle temperature.

La cronaca del dramma epocale di questi anni, che tocca ciascuno di noi, dall’Africa al Pakistan, dall’America Latina alla famigerata rotta dei Balcani, passando per quella Amantea che si sdraiò in terra. Le opere selezionate sono 172, provenienti dal Continente nero, dall’Asia, dall’Europa, dalle Americhe (il festival è partito con la proiezione di alcuni corti sulla diaspora venezuelana) e dall’Oceania, in tutto 56 paesi. E una cura particolare, unica probabilmente, sulla parità di genere: 94 dei film diretti da donne. “Dati poi che confermano la nostra missione di rappresentare culture, linguaggi e tradizioni diversi, portando ricchezza e varietà culturale in un paesino calabrese senza cinema”, afferma Giulio.

“Testardaggine calabra” e “speranza di cambiamento venezuelana” lo hanno spinto a mettersi all’opera individuando “uno spazio orrendo, simbolo del degrado sociale che vive il paese: un parcheggio poco distante dall’Arena Sicoli (storico cinema all’aperto, quando qui il cinema ancora esisteva, dove in origine si svolse il Festival, ndr), che abbiamo riparato e riaperto per la prima edizione e che oggi, purtroppo, è ancora chiuso”. In prima fila in quel parcheggio-cinematografo però c’è sempre il cuore del suo cuore calabro-venezuelano, nonna Saveria: “Giulio è la mia vita, soffro a vederlo combattere contro chi gli fa la guerra, ma lui sa come difendersi”, dice. Sa che suo nipote, qui, nella terra selvaggia, sta costruendo un pezzo di Storia.

Info su www.laguarimba.com/

Le foto sono di Valeria Bonacci

Terra bruciata

FILE - In this Thursday, July 29, 2021 file photo, birds fly over a man taking photos of the exposed riverbed of the Old Parana River, a tributary of the Parana River during a drought in Rosario, Argentina. Parana River Basin and its related aquifers provide potable water to close to 40 million people in South America, and according to environmentalists the falling water levels of the river are due to climate change, diminishing rainfall, deforestation and the advance of agriculture. (AP Photo/Victor Caivano, File)

Non lascia molti dubbi e nemmeno troppo spazio alle interpretazioni il sesto rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico): il caldo del pianeta cresce in modo più rapido e intenso rispetto almeno agli ultimi 2000 anni e le responsabilità sono tutte dell’uomo (com’è scientificamente provato) nonostante il negazionismo delle carampane che ancora si ostinano nella loro narrazione.

La temperatura media globale è cresciuta di 1.1°C rispetto al periodo 1850-1990 e nei prossimi 20 anni sforerà il tetto di 1.5°C. Se non ci sarà un’immediata, rapida e su larga scala riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, limitare il riscaldamento globale tra 1.5° e 2°C, come negli intenti dell’Accordo di Parigi nel 2015, sarà fuori discussione.

A seguito del riscaldamento climatico, il livello medio dell’innalzamento del livello del mare fra il 1901 e il 2020 è stato di 20 cm, con una crescita media di 1,35 mm/anno dal 1901 al 1990 e una crescita accelerata di 3.7 mm/anno fra il 2006 e il 2018. In pratica, il livello dei mari sale a ritmo triplo rispetto al XX secolo. Nel 2019, le concentrazioni atmosferiche di CO2 sono state le più alte degli ultimi 2 milioni di anni, e le concentrazioni di metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) le più alte degli ultimi 800mila anni.

Dal 2011 le concentrazioni in atmosfera hanno continuato ad aumentare, raggiungendo nel 2019 medie annuali di 410 ppm per l’anidride carbonica (CO2), 1.866 ppb per il metano (CH4) e 332 ppb per il protossido di azoto (N2O), spiega il rapporto. L’influenza umana è la causa principale del ritiro dei ghiacciai a livello globale dagli anni 90 e della diminuzione del ghiaccio marino artico tra il 1979-1988 e il 2010-2019. Basti pensare che l’oceano globale si è riscaldato più velocemente nell’ultimo secolo che dalla fine dell’ultima de-glaciazione (circa 11mila anni fa). «I cambiamenti nell’oceano quali il riscaldamento, le più frequenti ondate di calore marino, l’acidificazione degli oceani e la riduzione dei livelli di ossigeno in mare sono stati chiaramente collegati all’influenza umana», si legge nel rapporto.

In città (e parliamo del 70% della popolazione mondiale) l’impatto dei cambiamenti climatici viene amplificato dalla geometria urbana, dall’altezza dei palazzi, dai materiali che assorbono calore, dalla carenza di aree verdi e di specchi d’acqua, fattori che determinano la formazione di isole di calore, dove le temperature possono superare di diversi gradi quelle medie regionali.

Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha detto che il rapporto è un «codice rosso per l’umanità»: ridurre le emissioni inquinanti nel più breve tempo possibile è cruciale per evitare che le temperature aumentino eccessivamente, perciò «non c’è più tempo per scuse o per ritardi». Per Helen Mountford, vicepresidente della sezione clima ed economia del World Resources Institute (WRI) – un’organizzazione non profit che si occupa di misurare le risorse naturali globali – il prossimo decennio sarà «l’ultima vera chance per adottare le azioni necessarie» per limitare l’aumento delle temperature.

Siamo di fronte a un problema enorme e urgente che continua a sembrare l’alambicco di uno sparuto gruppo di persone. Un tema che richiederebbe una programmazione veloce e seria ancora una volta viene sottovalutato in attesa che sia ormai una catastrofe su cui poi lucreranno i soliti noti. C’è bisogno di un attivismo consistente e organizzato che coinvolga più persone possibili. La serietà della politica, piaccia o meno, si misura su questo.

Buon martedì.

Caro Pd

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 01-04-2021 Roma Politica Trasmissione tv "Porta a Porta" Nella foto Enrico Letta Photo Roberto Monaldo / LaPresse 01-04-2021 Rome (Italy) Tv program "Porta a Porta" In the pic Enrico Letta

Caro Partito Democratico,

per una prevedibile congiunzione di inetti e di prepotenti ti ritrovi comunque ad avere una fetta importante di elettori che ancora si ritengono di centrosinistra, sarebbe meglio dire centrocentrocentrocentrosinistra che rende meglio l’idea, in un momento storico in cui il centrodestra comunque ha la maggioranza elettorale del Paese. Caro Partito Democratico, tra le poche sicurezze di questo governo dei migliori l’unica credibile al momento è che nel prossimo governo ci saranno Matteo Salvini e Giorgia Meloni, intercambiabili nel ruolo di presidente del Consiglio o di ministro, dipende come si metteranno d’accordo ma alla fine ci saranno loro nella linea di comando, saranno loro, l’uno o l’altro, ma l’odore è quello.

Guardandovi da fuori appare piuttosto sconcertante che la cosa vi interessi poco. Per capirsi: per quanto ancora avete intenzione di fare la gamba silenziosa e complice di un governo che sta preparando il terreno per il centrodestra al potere? Cosa avete da dire, per esempio, sul Mediterraneo che anche questa estate sta diventando il pentolone dell’acqua calda dover lasciare bollire disperati come se fossero rane? Cosa avete da dire della Libia pagata per fare il sacchetto dell’umido del mondo? Pensate che svolta se aveste il coraggio di riconoscere che questa deriva disumana è figlia del vostro minnitismo e della vostra tiepidezza.

Caro Partito Democratico, la politica è molto più semplice di come la vorrebbero fare apparire i feticisti del merito: se è evidente che quegli altri siano i camerieri in Parlamento di alcuni poteri e di alcune lobby richiedo: ma perché voi non prendete le parti di quegli altri? Perché insistete nell’essere il dolcificante inefficace di un caffè che appare amaro?

Il lavoro, caro Partito Democratico, il lavoro: quando ricomincerete a parlare di lavoro? Ma non la solita litania degli incentivi alle imprese che spesso è semplicemente il lubrificante per le martellate contro i lavoratori? Quando ci direte qualcosa su questa aria tossica che insiste nel colpevolizzare le vittime della precarietà? Quando farete una proposta, una che sia una, per dare risposte alla macelleria sociale che sta accadendo mentre intorno c’è tutto questo silenzio?

Caro Partito Democratico, davvero anche voi vi accodate in questa moda che vorrebbe convincere che l’impolitica sia la soluzione più alta della politica? Davvero siete convinti che la soluzione al dilettantismo della politica sia quella di travestire da politici i portatori di interesse? Davvero l’autarchia dei potenti dovrebbe essere il punto più auspicabile? Beati voi che riuscite a non sfiorare l’argomento.

Caro Partito Democratico, l’alternativa a Salvini consiste solo nel ripetere che Salvini è brutto? Rimandato e quasi ingolfato il ddl Zan, perché non avete il coraggio di chiedere con forza gli altri diritti (ius soli per fare un esempio)?

Caro Partito Democratico, per quanto ancora volete assistere complici all’impoverimento della scuola, al suo svuotamento, alla sua delegittimazione? Per quanto ancora permetterete che la cultura sia un’etichetta con cui vendere meglio gli altri prodotti? Per quanto ancora permetterete che lo spettacolo dal vivo sia solo la confezione nobile di qualche sagra?

Caro Partito Democratico, avete la responsabilità di tenere nella pancia voti di gente che vorrebbe vedere dell’altro e invece trovate impudico parlare di alternativa. Ci sono due strade: essere il viatico del centrodestra oppure avere l’onestà intellettuale di dire che c’è molto di sbagliato, molto da cambiare e proporvi per quello. Fare il maggiordomo non maleducato del governo dei migliori sarà utile per la vostra autopreservazione ma non sa di niente.

Buon lunedì.

 

Come far ripartire la scuola in cinque mosse

A che serve introdurre il Green pass, e di conseguenza l’obbligo vaccinale non dichiarato, per la categoria professionale dei docenti all’interno della quale la vaccinazione in massa è già avvenuta? I docenti sono al 90 per cento di copertura vaccinale secondo la stima pubblicata dall’Associazione nazionale dei presidi.
Questo risultato, il migliore tra le categorie professionali (personale sanitario a parte), è stato ottenuto per merito degli insegnanti stessi che all’avvio della campagna vaccinale strutturata per categorie di lavoratori si sono vaccinati tra i primi e subito, facendo consapevolmente da “cavie” per tutti con il vaccino Astrazeneca notoriamente oggetto di ripensamenti dell’Aifa e dei vari Comitati tecnico scientifici a livello europeo in seguito ai tristissimi eventi luttuosi e ai lotti ritirati dopo la somministrazione. Al cambio di guardia istituzionale il sistema delle vaccinazioni è stato cambiato e il vertice rispondente al generale Figliuolo ha fermato la vaccinazione per categoria ed ha proceduto per fasce di età.

La vaccinazione della categoria degli insegnanti che era arrivata a buon punto è stata fermata. Ci si guarda bene dall’analizzare i fatti e i dati, dal riconoscere ai docenti il senso di responsabilità e il merito di tanti sforzi profusi sin dagli esordi degli effetti della pandemia, tra traguardi raggiunti e limiti attesi. La misura del Green pass nella scuola è una falsa questione, una soluzione superficiale e affrettata che lascia ancora una volta trasparire la modesta qualità delle politiche per e sulla scuola, l’inadempienza e l’incapacità nel programmare l’imminente avvio delle attività didattiche in classe con l’individuazione e l’assunzione di misure di sicurezza che ci aspettavamo diverse e migliorative rispetto allo scorso anno, nonostante l’esperienza pregressa e i tempi lunghissimi per organizzarsi. Più facile riunirsi un paio di volte e decidere comodamente seduti intorno a un tavolo sulla base di interessi di parte.

Lo apprendiamo dai resoconti diffusi dalla cronaca politica nazionale: la categoria professionale dei docenti è stata subordinata ad altre più cogenti misure nel gioco politico delle tre carte senza nessun approfondimento di ampia portata, nessuna analisi della situazione reale con dati, stime e proiezioni. E’ di pochi giorni fa la notizia che il generale Figliuolo ha dovuto mandare una lettera alle Regioni per avere entro il 20 agosto dati univoci sul numero dei docenti non ancora vaccinati, divisi tra scuole pubbliche e scuole paritarie e distinti rispetto ai dati del personale amministrativo e dei dirigenti scolastici e al netto dei pensionati e dei pensionamenti.

Più facile tirare fuori dal cappello a cilindro la richiesta del Green pass ai docenti e la sospensione dal lavoro per chi non lo presenterà entro 5 giorni. I docenti sono il jolly per la vittoria del banco. Come può un docente vaccinato dentro una classe di circa 28 studenti non vaccinati, o parzialmente vaccinati nella migliore delle ipotesi, garantire che la variante del virus non si diffonda? Può davvero fare da scudo a malattie e quarantene? Come può contribuire alla salute pubblica se i trasporti nelle città metropolitane sono all’80 per cento della loro capienza e senza controlli? Ergo: la misura presa è pretestuosa, vaccinare i docenti non basta se la somministrazione non è accompagnata da altre importanti misure di supporto. Questo è il punto. Non ce ne sono altri.

Non c’è nessuna sostanza di azioni politiche per realizzare quanto tutte le componenti della scuola chiedono a gran voce da tempo: 1. Creare classi da 15/20 studenti per un efficace distanziamento ed una didattica altrettanto efficace – 2. Trovare le sedi – 3. Nominare i docenti necessari – 4. Comprare e sistemare aeratori nelle scuole per evitare che tutti sia nelle classi sia nei corridoi sia negli uffici stiano di nuovo con le finestre aperte d’inverno – 5. Potenziare il sistema dei trasporti lasciando la capienza al 50 per cento per evitare il sovraffollamento giornaliero fra lavoratori, studenti e utenti che comunque a buon diritto si spostano per le più diverse necessità. Cinque punti programmatici di buon senso. Ebbene, di tutto questo non c’è traccia. La scuola può e deve essere un punto di partenza serio e ponderato. Manca quello di cui le scuole hanno realmente bisogno e il Green pass introdotto in questi termini a questo punto è il nuovo “banco a rotelle”.

L’autrice: Anna Daniela Zisa fa parte del Movimento dei docenti romani

Foto di Alicia da Pixabay

Diamo spazio alle donne

Two young girls looking to Barcelona from a bench from Antonio Gaudi's Parc Guell.

A chi appartiene lo spazio urbano? Le città che abitiamo sono a misura di uomo o di donna? O, per dirla meglio, le città rispondono ai bisogni e alle esigenze di tutte le persone che le compongono? La pianificazione urbana certo non è mai stata neutra. Quando trent’anni fa nelle grandi città spagnole sono state fissate le linee guida per la mobilità si è pensato di più a soddisfare un cittadino standard che era maschio, bianco e di classe media. Così le strade e lo spazio pubblico sono stati associati alle attività produttive, un tempo svolte soprattutto dagli uomini, e alle automobili che venivano usate per spostarsi verso i luoghi di lavoro.

In questo modo si è avviata una narrazione urbana declinata al maschile che ha portato a un disegno delle città dove le donne venivano pensate nelle case, dedite solo alla vita familiare.

Ancora oggi nonostante la massiccia entrata delle donne nel mondo del lavoro, l’area urbanistica delle principali città spagnole stenta a proporre una soluzione alle difficoltà delle donne nel combinare la loro vita professionale e familiare, quel ruolo di caregiving che spesso sono costrette a svolgere e che non prevede solo una mobilità lineare con un punto di partenza e uno di arrivo, ma molti di più. Sono soprattutto le donne che nel tragitto da casa al luogo di lavoro devono accompagnare figli e figlie a scuola, poi quando escono dal lavoro devono ricordarsi di andare al panificio o dal fruttivendolo per comprare quello che trasformeranno in pranzo o cena, devono ripassare dalla scuola per riprendere figli e figlie, devono trovare anche il modo e il tempo di andare dal medico per accompagnare un genitore anziano o un parente non autosufficiente. Poi, quando possono, raggiungono anche il parco o il giardino più vicino per portare a spasso il cane.

A Madrid come a Barcellona, a Valencia o Siviglia, la forma urbanistica è spesso il risultato e la prova dello stretto legame tra patriarcato e capitale. Nei diversi spazi che abitiamo – le case, le strade o le piazze – il modello urbano risponde principalmente alle esperienze e ai bisogni di un soggetto maschile considerato più redditizio e a un modello economico basato sullo sfruttamento. Così, poco alla volta, seguendo questa logica, l’urbanistica e l’architettura hanno favorito l’esclusione dallo spazio urbano delle donne e di altre soggettività non egemoniche, come le persone razzializzate, gli anziani, i bambini o le persone con diversità funzionale.

Di fronte a questa concezione della città, che costringe le persone che la abitano ad affrontare grandi spostamenti quotidiani, privilegiando l’uso di veicoli privati, e concepisce le strade come luogo di transito e non di incontro, è emersa l’idea dell’…


L’articolo prosegue su Left del 6-26 agosto 2021

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