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Quelli della Vlora

BARI, ITALY - AUGUST 8: Albanian migrants arrive at Bari port in southern Italy on August 8, 1991 in Bari, Italy. On 8 August 1991 an estimated 10 000 Albanian nationals aboard several ships forced their way into the port of Bari in the south-east of Italy. After several hours of waiting in the port of Bari, the Italian authorities allowed the Albanians to disembark for humanitarian reasons and led them to La Vittoria Sports Stadium. As the Italian authorities started forced repatriation using military transport planes and ferries, clashes broke out between policemen and Albanians. The Albanians barricaded themselves in the stadium refusing to return to their country; some 300 succeeded in escaping. (Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Quanto accadde l’8 agosto del 1991, nel tratto di mare fra Italia e Albania, era prevedibile. Già da un anno dopo il crollo del regime comunista, che aveva visto saltare la divisione in blocchi dell’Europa, tanti erano stati i cittadini albanesi che avevano cercato riparo in Europa, soprattutto in Italia per la vicinanza geografica, per la presenza storica di numerose comunità albanesi soprattutto nel Meridione, perché dalle Tv italiane giungevano immagini di un Paese di benestanti. Non era solo povera gente “oppressa dal comunismo”, ma anche intellettuali, poeti, artisti, figli di un Paese ad alto tasso di scolarizzazione, che avevano pagato il proprio dissenso.

Un nome fra tutti, arrivato giovanissimo a marzo di quell’anno, Ron Kubati, oggi autore e docente, autore di quel Va e non torna (Besa editrice), tuttora capace di dare voce alla parola “esilio”. Ma in quell’8 agosto di trent’anni fa la situazione esplose.
Chi voleva fuggire si impadronì a Durazzo di un mercantile, la Vlora, da poco giunto da Cuba con un carico di canna da zucchero. Si imbarcarono tra le 20 e le 27mila persone costringendo il capitano a far rotta verso l’Italia. Il porto di Brindisi, verso cui era diretta la nave, non era in grado di accogliere un numero così grande di persone, quindi si convinse l’equipaggio a far rotta su Bari. Si disse che nelle ore necessarie a modificare la rotta sarebbero state predisposte forme di accoglienza, ma non accadde. Fu uno scempio che chi scrive ha visto con i propri occhi, e gli è rimasto impresso.

In assenza di spazi adeguati le persone vennero rinchiuse nello stadio di calcio, nutrite con panini lanciati dagli agenti di polizia, lavate con gli idranti, in condizioni igienico sanitarie disastrose. Il sindaco di Bari fece il possibile ma le istituzioni nazionali brillarono per assenza. L’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, dichiarò gelido: «Non siamo in condizione di accogliere gli albanesi che premono sulle coste italiane e lo stesso governo di Tirana è d’accordo con noi che debbono essere rinviati nella loro nazione».

Intanto lo stadio divenne luogo di violenze, con scontri duri fra i giovani albanesi e la polizia. L’11 agosto si giunse a sfamare e a dissetare i profughi, con gli elicotteri. Poi si riuscì a convincere i più arrabbiati che…


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L’agriCultura dell’antimafia

Nicola Nappo ha 23 anni e fa il fabbro. Vive a Poggiomarino, piccola cittadina a Nord di Scafati (Salerno). Ha voluto imparare presto un mestiere, per sostenere l’economia familiare. Ha tre fratelli, i suoi genitori sono lavoratori della terra. La sera del 9 luglio 2009 esce con un’amica, e si siede su una panchina in piazza de Marinis, dove c’è pure la sede del Comune. Chiacchierano. Per lui è una serata tranquilla, una come un’altra. Verso le 22.30, però, accade l’inimmaginabile. Due killer della mafia gli piombano addosso ed esplodono 6-7 colpi di pistola. Nicola muore all’istante. Incensurato, chi lo conosce ha immediatamente chiaro che fosse innocente ed estraneo agli ambienti malavitosi. E infatti, come indicherà la vicenda giudiziaria, con i due camorristi e con la criminalità organizzata lui non aveva niente a che fare: Nicola è stato vittima di uno scambio di persona. Una tragedia indimenticata, che è il simbolo della violenza cieca della camorra.

A tener viva la memoria di questo ragazzo, da alcuni anni, a Scafati è nato un progetto che unisce antimafia sociale, cura dell’ambiente, agricoltura sostenibile e promozione della cultura tra i giovani. Un esperimento d’avanguardia, che è stato realizzato sul più grande terreno a vocazione agricola confiscato nell’agro nocerino sarnese. Un fondo agricolo strappato al clan Galasso e intitolato proprio a Nicola, un polmone verde di 120mila metri quadrati che è stato restituito alla cittadinanza e che fa respirare, oltre che aria buona, anche legalità e solidarietà. Dal 2018 il Fondo è stato assegnato all’associazione temporanea di scopo Terra Vi.Va., a cui partecipano varie realtà. Capofila tra queste è l’Alpaa, Associazione lavoratori produttori agroalimentari e ambientali, che fa rappresentanza sindacale ed è direttamente legata alla Flai Cgil, che per prima ha creduto con convinzione in questo progetto.

Le attività che vengono portate avanti sono molteplici. «Innanzitutto ci sono gli…


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Amos Gitai: «Sono un architetto che costruisce film»

Amos Gitai walks the red carpet ahead of the movie ''Laila In Haifa'' at the 77th Venice Film Festival on September 08, 2020 in Venice, Italy. (Photo by Matteo Chinellato/NurPhoto via Getty Images)

Uno splendido piano sequenza chiude il film di Amos Gitai News from home, la rappresentazione della storia recente dei due popoli, quello israeliano e palestinese, narrato attraverso le vicende di una casa araba a Gerusalemme. Un volto di donna, accompagnato dalla voce narrante dell’autore, ci racconta la possibilità di un’altra storia. Queste immagini hanno introdotto l’incontro con il grande regista israeliano durante il convegno internazionale Abitare la terra. Ambiente, città, paesaggio in streaming dalla Casa dell’Architettura di Roma.

Amos Gitai, lei sostiene che «le opere d’arte non hanno un impatto immediato sul corso delle cose, ma influenzano lentamente e costruiscono una traccia, una memoria».
Lo dico sempre, io sono un architetto che gira film. Avrei dovuto seguire le orme di mio padre che era un architetto della Bauhaus. Alla sua morte, ormai 50 anni fa, ho iniziato a studiare architettura prima ad Haifa, poi con un dottorato di ricerca a Berkeley. Mi piace molto che abbiate voluto mostrare questo estratto da News from home, un documentario che ho iniziato 40 anni fa nel 1980, di cui poi ho realizzato l’ulteriore capitolo 20 anni più tardi e l’ultimo 25 anni dopo rispetto al primo. Nel mio lavoro cinematografico costruisco delle idee, che come stratificazioni cerco di riportare alla luce, lasciando emergere delle storie, delle contraddizioni, degli elementi politici, che ci rivelano un luogo specifico, attraverso un gesto simile a quello dell’architetto o dell’archeologo. L’opera che avete scelto è molto interessante perché termina con questa immagine di donna che ci racconta una storia, fusione di memorie e ricordi, nonché la distruzione dei ricordi e tutto ciò che rimane, nostro punto di partenza necessario per poter raccontare una storia che non deve essere distrutta e che siamo chiamati a conservare per il futuro. Ritengo che il lavoro del cinema, della regia, abbia anche a che vedere con la conservazione della memoria, dei ricordi, di una idea. L’unico luogo dove queste immagini rimangono è nella nostra mente, per poi svanire. Non resta nulla di fisico, i migliori film che ho visto in vita mia sono iniziati ad emergere dentro di me una volta che il film si è concluso. Una memoria che è fondamentale per sviluppare delle idee. E il pianeta non si muove solamente in virtù dei soldi o per strumenti di guerra, ma soprattutto da idee e noi siamo qui per l’appunto per parlare di idee, questo è il nostro compito. 

Il suo film Lullaby to my father  del 2011 è un viaggio alla ricerca delle relazioni tra un padre e suo figlio, tra architettura e cinema, tra vicende storiche e memorie intime.
In Lullaby to my father cerco di parlare a me stesso, chiedendomi che…


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Roulette Fuerteventura

Migrants, most of them from Morocco, are watched by Spanish Police after arriving at the coast of the Canary Islands, Spain on Monday, Nov. 23, 2020, after crossing the Atlantic Ocean sailing on a wooden boat. (AP Photo/Javier Bauluz)

«Il viaggio in mare è stato terribile, sono stato cinque giorni in barca senza né mangiare né bere. Quando finalmente siamo riusciti ad arrivare, è stato ancora peggio: eravamo ammassati come animali, costretti a dormire per terra e senza la possibilità di lavarci, con soltanto cinque litri d’acqua al giorno ogni cinquanta persone». Assane (nome di fantasia) viene dal Senegal e ricorda bene il trattamento riservato ai migranti nel porto di Arguineguín, Gran Canaria, primo posto di assistenza gestito dalla Croce Rossa, ora sgomberato dopo le proteste delle associazioni locali che ne hanno denunciato le inaccettabili condizioni sanitarie e di accoglienza, per non parlare della promiscuità in tempi di Covid. «Chiedevo informazioni sulla domanda di asilo e mi rispondevano soltanto che non avevo nessuna possibilità di rimanere in Spagna – aggiunge Assane – ma io non posso tornare nel mio Paese». Mi mostra la mano: la polizia gli ha rotto le dita durante una manifestazione di protesta contro gli accordi siglati dal governo del Senegal con le compagnie straniere, che si sono assicurate il controllo dell’80% della pesca locale. «Una politica che ha distrutto il piccolo commercio – spiega. Ero un pescatore, ora come tanti non ho più lavoro e sono anche segnalato come dissidente».

Le pateras, le piccole barche dei pescatori che non raccolgono più pesci ora servono a portare migliaia di disperati dalle coste dell’Africa fino alle isole Canarie – Fuerteventura, la più vicina, dista un centinaio di chilometri – in una traversata che è un azzardo con la morte. La terribile ruta Canaria, la via più pericolosa per arrivare in Europa, è infatti riesplosa dopo quindici anni di relativa tranquillità. Rispetto al 2020, infatti, sono calati gli arrivi a Ceuta e Melilla mentre sono cresciuti del 70% quelli alle Canarie: a Fuerteventura nel solo mese di giugno sono sbarcate 669 persone, il numero più alto da quando si è riaperta la rotta alla fine del 2019. Nel 2021, delle 14.357 persone migranti arrivate finora in Spagna (dati Unhcr), ben la metà (7.037 all’11 luglio) sono approdate proprio in queste isole, dopo giorni di viaggio nell’Oceano Atlantico.

Ad El Aaiùn, nel Sahara occidentale, sono in tanti a vivere di espedienti in attesa di partire. Alcuni restano in acqua anche due settimane prima di essere recuperati, in balìa delle onde, del sole implacabile e degli squali, come nel caso del barcone intercettato a 250 chilometri da Tenerife alla fine di giugno con più di trenta persone a bordo, fra cui una bambina di cinque anni che ha perso la vita. Nei primi sei mesi del 2021, secondo i dati dell’associazione Caminando Fronteras, il numero dei morti è cresciuto del 526%, di cui la quasi totalità – 1.922 persone – proprio in questo tratto di mare. E nel 2020 non…


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Triantafillos Loukarelis: Istituzione non può far rima con discriminazione

Direttore dal 2019 dell’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (Unar, in precedenza guidato da Luigi Manconi) Triantafillos Loukarelis sta facendo battaglie concrete e quotidiane in collaborazione con associazioni ed enti locali per contrastare le varie e molte forme di discriminazione che ancora segnano l’Italia di oggi. Alla luce di questo lavoro capillare e costante di studio e di monitoraggio dei territori gli abbiamo chiesto di aiutarci a tracciare un quadro della situazione attuale nella Penisola.Loukarelis come è cambiata la mappa in questo anno e mezzo di pandemia? Con il distanziamento fisico immaginiamo sia stato più difficile individuare e raggiungere le persone discriminate, è così?

La dura lezione che ci ha inferto la pandemia purtroppo non è stata recepita come auspicavamo. Si è infranta la speranza iniziale di un comune obiettivo: “siamo tutti sulla stessa barca”, l’inno nazionale dei balconi…

La realtà è che non ne stiamo uscendo migliori. Questo è ciò che emerge dal nostro osservatorio. Riavvolgendo i fili della storia dobbiamo ricordare che fin all’inizio della pandemia c’è stata una forte ostilità verso la comunità orientale, stigmatizzata quasi come se geneticamente fosse predisposta al Covid-19 mentre noi, chissà per quale trovata intelligente, ne saremmo stati esenti. Poi però per la quantità di contagi che ci sono stati in Italia siamo diventati noi gli untori agli occhi del mondo. A dimostrazione del fatto che bisogna sempre stare attenti a discriminare perché oggi tocca a un altro e domani potremmo essere noi i discriminati. Intanto, va sottolineato, sono ancora una volta i migranti ad essere indicati come il capro espiatorio di tutti i mali; vengono additati in questo modo ingiusto da un certo tipo di cultura che purtroppo c’è nel nostro Paese, una “cultura” politica che cerca sempre di dividere le persone.

C’è stata e c’è una forte disparità di possibilità di accesso al vaccino: i senzatetto, le persone che non hanno un domicilio sono state in gran parte escluse. È mancata quella responsabilità pubblica che doveva andare loro incontro?

Le persone più vulnerabili, quelle più esposte e meno in grado di difendersi sono state abbandonate quando invece dovevano essere assistite, non solo perché è giusto, non solo perché è previsto dalla Costituzione, ma anche per salvaguardare la salute pubblica. Di fatto abbiamo emarginato ulteriormente i senzatetto, gli homeless, le persone rom e sinti, i migranti. Invece di farcene carico abbiamo fatto finta di niente. Basti dire che quando è stata avviata la distribuzione di beni alimentari e di buoni pasto con ordinanze della Protezione civile, ma anche con un investimento rilevante di 400 milioni di euro da parte dei Comuni, spesso sono stati stilati regolamenti e ordinanze che escludevano proprio le persone più fragili. Venivano richieste la residenza, il permesso di soggiorno di lungo periodo e una serie di condizioni che alla fine “dimenticavano” proprio quelli che anche secondo la Protezione civile avrebbero dovuto essere i primi beneficiari.

Questo ha portato, peraltro, a numerosi ricorsi al Tar. È di pochi giorni fa la notizia che la Regione Abruzzo è stata condannata per la discriminazione degli stranieri nella vicenda dei buoni spesa.

Diversi tribunali hanno dato ragione a questi ricorsi, ma ci è voluto del tempo, proprio perché sono stati intasati di richieste. In un momento in cui tanto si parla di semplificazione della giustizia abbiamo la dimostrazione di quanto lo Stato e le sue molteplici realtà territoriali vadano in direzioni opposte. Questi regolamenti e ordinanze escludenti molto spesso sono il frutto di incompetenza amministrativa da parte dei Comuni che non hanno personale esperto nell’elaborazione di tali specifici atti. Alcuni amministratori locali hanno fatto propaganda dicendo “prima gli autoctoni”. Come se un sindaco non dovesse occuparsi di tutta la cittadinanza, ma solo di una parte, quella maggioritaria che poi incide elettoralmente. Questa è una considerazione amara da fare. Stiamo parlando di discriminazioni istituzionali che forse sono quelle più gravi in assoluto.

Avete riscontrato discriminazioni anche nel reclutamento del personale sanitario?

Sono state fatte delle selezioni per la ricerca di personale sanitario per sopperire a carenze a livello territoriale. Ma i bandi sono stati rivolti soltanto a cittadini italiani. Questo la dice lunga su quanto siamo arretrati mentalmente. Anche di fronte al bisogno, ci viene come riflesso condizionato l’esclusione dello straniero.

E qui torniamo al tema della campagna vaccini che purtroppo non ha raggiunto tutti.

Qui va fatto un discorso che dovrebbe essere evidente alla gran parte della popolazione: banalmente se non siamo in grado di vaccinare le persone, tutti rischiamo. Le varianti da dove provengono? Da persone che non vengono vaccinate. È una logica che vale sia a livello macro che micro. Bisogna vaccinare tutti, e per farlo si deve mettere in piedi un sistema in grado di non escludere nessuno. Dobbiamo riuscire ad identificare tutte le persone, fornire tutto quello che serve perché siano protette le singole persone ma anche le intere comunità. Per fortuna ultimamente le Regioni stanno provvedendo a correggere almeno in parte i sistemi che in un primo momento prevedevano le prenotazioni solo tramite tessera sanitaria e codice fiscale.

Lei ha toccato un tema molto delicato e centrale quello della discriminazione istituzionale. Quando era ministro Marco Minniti fu negato ai richiedenti asilo un secondo grado di giudizio della loro istanza. Similmente in Europa ora viene proposto di esternalizzare le richieste negli hotspot sbrigandole in poco tempo. Ma sappiamo bene che persone che sono state torturate, che hanno subito un trauma, difficilmente riescono ad aprirsi  in pochi minuti.

Questa è l’ennesima ipocrisia se vogliamo dire come stanno davvero le cose. Prima di tutto bisogna stabilire modalità precise e organizzate per fornire le informazioni che sono necessarie alle persone migranti. Lo ripetiamo una volta di più, rappresentano un fenomeno limitato. Non c’è nessuna “sostituzione etnica”. Non esiste alcuna invasione. È un fenomeno sulla carta perfettamente gestibile da una macchina come quella della Unione europea. La commissione Ue che riesce ad essere efficace in tanti ambiti in questo caso non interviene per non scontentare i Paesi del gruppo di Visegrád, come la Polonia o l’Ungheria, la Serbia e altri Paesi dell’ex blocco sovietico. Sono entrati nel circuito dei finanziamenti europei sviluppando un’economia solida, ma quando si tratta di riconoscere diritti, loro non si sentono più europei. Naturalmente la ragione è sempre economica, dunque se si decidesse finalmente di condizionare i finanziamenti europei al rispetto dei diritti umani e della legislazione democratica qualche miglioramento lo avremmo. Altrimenti se non condividono i nostri sentimenti democratici europei potrebbero andarsene, sarebbe più coerente.

A proposito di negazione di diritti nei Paesi del blocco di Visegrád dobbiamo menzionare la recente legge dichiaratamente omofoba imposta da Orbán in Ungheria e provvedimenti misogini imposti dal governo polacco. Come vede la situazione?

Quella legge ungherese è inaccettabile. È una norma che nasce come contrasto alla pedofilia ma proibisce di parlare di omosessualità di fronte a minorenni. È insultante ed è grave che una parte della nostra classe politica non condanni tutto questo, specialmente se questi partiti poi si dicono dialoganti rispetto a una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia.

Perché secondo lei il ddl Zan non è ancora legge?

Rispetto al ddl Zan vorrei ricordare che alla Camera ci furono moltissime mediazioni. In particolare l’articolo 4 fu inserito proprio per accontentare chi sosteneva che il ddl sarebbe stato in contrasto con la libertà di espressione. Poi al Senato ci sono stati dei cambiamenti. Non spetta al mio ruolo entrare nella valutazione del ddl Zan, ma posso dire che l’omo-lesbo-bi-transfobia esiste e non va minimizzata come purtroppo spesso viene fatto; le persone Lgbt, in assenza di una legge come questa hanno timore a denunciare, spesso non lo fanno. E quando lo fanno il loro caso non viene registrato come caso omo-lesbo-bi-transfobia ma come aggressione generica. Ma non possiamo chiudere gli occhi: su 46 Paesi analizzati nella mappa di The Europe rispetto ai diritti umani delle persone Lgbt l’Italia è allo stesso livello dell’Ungheria. Dunque non si fa nulla per rispettare i diritti delle persone Lgbt. L’Italia ha bisogno di una legge contro l’omo-lesbo-bi-transofobia che però sia efficace. Servono delle definizioni chiare perché poi i giudici devono trovare una definizione giuridica di cosa sia l’identità di genere altrimenti faremmo l’ennesima legge inefficace.

Le destre si oppongono alla giornata contro l’omo-lesbo-bi-transfobia nelle scuole. Cosa ne pensa?

C’è l’autonomia scolastica, lo sanno tutti, anche se molti fanno finta di non saperlo. Nulla può essere imposto ai genitori e alle scuole. È un dibattito a mio avviso strumentale quello che si fa rispetto all’articolo 7: ribadisco, una legge serve, speriamo che l’Italia presto la abbia perché altrimenti saremmo gli ultimi rispetto ai diritti umani delle persone Lgbt. Non è accettabile che nel nostro Paese ci siano persone che non possono esprimere un proprio sentimento rispetto al proprio partner per paura di essere picchiati, insultati, di essere vittime di violenza. Il Parlamento si deve prendere carico di tutto questo. Mi lasci dire anche che io sono molto ottimista considerando le nuove generazioni. Loro al contrario di noi sono molto più aperte alle diversità, hanno un senso di solidarietà e di attenzione e di protezione verso le persone nella loro specifica realtà, qualunque essa sia, e questo fa ben sperare per il futuro.

Alcune femministe storiche sono contrarie al ddl Zan. Mi domando: come donna cosa mi toglie  un’altra persona che per motivi suoi, privati, abbia deciso di cambiare genere? Proprio noi donne che abbiamo subito millenni di discriminazioni e annullamento come possiamo discriminare esseri umani che si trovano in una situazione di transizione così difficile e vulnerabile?

Rispetto alle posizioni del femminismo storico a cui lei accenna ricordiamoci che c’è una divisione molto forte nel mondo femminista quindi non riscontriamo una posizione unitaria. Anzi, la posizione prelevante è a favore del ddl Zan. Ricordiamoci che questa legge è volta anche a contrastare la misoginia e ricordiamoci che le persone più colpite dall’hate speech, dalla violenza verbale e fisica, sono proprio le donne.

È un provvedimento che condanna l’abilismo di cui si parla troppo poco. È inaccettabile che si possa offendere una persona perché in carrozzina, perché rallenta il nostro percorso. Eppure accade ogni giorno. Come si cambia tutto questo? Bene una legge, ma ci vuole anche una radicale svolta culturale?

Serve un cambiamento culturale ma anche il superamento di un individualismo che porta a una mancanza di empatia, una mancanza di comprensione della persona disabile e dei familiari che per non essere vittima di aggressioni verbali e fisiche si limitano a non uscire di casa. È una realtà che purtroppo viviamo anche perché ci troviamo in contesti urbani troppo spesso ostili a ogni tipo di disabilità. Il nostro Paese è molto indietro rispetto a tutto questo. Si parla molto di sensibilità nel mondo politico, ma quello che viene fatto in concreto è molto poco.

Veniamo ad altre violazioni dei diritti inaccettabili come quelle che avvengono ogni giorno in carcere. Pensiamo al caso di Santa Maria Capua Vetere di cui molto abbiamo scritto. Non solo per gli inaccettabili pestaggi dei detenuti ma anche per le condizioni materiali di vita: in quel carcere, denunciano i familiari, manca anche l’acqua potabile. A venti anni dalla mattanza alla Diaz e nonostante la legge contro il reato di tortura passata nel 2017, il lavoro è ancora tutto da fare?

Sembra che vent’anni siano passati invano. Denunciamo la violenza e la tortura rispetto a quel che succede in altri Paesi ma in realtà ce l’abbiamo in casa anche noi. Vorrei parlare anche dei Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio, ovvero di gravi limitazioni di libertà personale.

Le persone che sono detenute nei Cpr non hanno compiuto nessun reato come abbiamo denunciato nel nostro libro inchiesta Mai più.  Che ne pensa?

Ricordiamo il recente caso del giovane Moussa Balde che si è suicidato nel Cpr di Torino nel quale era stato rinchiuso dopo aver subito un brutale pestaggio. Abbiamo la testimonianza di chi è andato a fare delle ispezioni, in particolare quella del garante Mauro Palma. I Cpr sono delle piccole Libie che abbiamo in Italia. Noi non dobbiamo avere neanche l’ipocrisia di sentirci superiori poiché noi in Italia tolleriamo tali sacche di disumanità e violazioni dei diritti umani. Ci sono circa 600 persone rinchiuse in questi luoghi in Italia dove il rispetto della democrazia e dei diritti umani sembrano un optional. Dobbiamo attrezzarci come Paese e meritarci il titolo di Paese democratico. Non solo dirlo a parole. La storia di Moussa Balde è stata per me uno choc, per tutto il percorso che ha dovuto fare questo ragazzo, per ciò che ha dovuto sopportare: la violenza, le sprangate da tre persone. Non so per quale motivo nei suoi riguardi è stato escluso il motivo di odio razziale dal processo. Abbiamo avuto pochissime informazioni rispetto a tutto questo. Moussa si sentiva una vittima, era stato picchiato a sangue da sconosciuti e dopo questa lesione si era ritrovato rinchiuso nel Cpr di Torino. Non riusciva a capire perché lui, che era la vittima, si trovava lì recluso in quell’inferno che è il Cpr di Torino. La sua psiche non ha retto. Aveva problemi psicologici che erano stati certificati da un medico ma è stato ignorato e questo è stato per lui impossibile da reggere. È inaccettabile quel che gli è accaduto. Non lo dimenticheremo, a lui dedicheremo la prossima settimana contro il razzismo che si terrà nel marzo 2022 proprio per ricordare il suo caso e per parlare di molti altri come lui che rischiano lo stesso trattamento che ha dovuto subire Moussa Balde.

 


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Il Rinascimento e l’embargo che non esiste

Sarebbe curioso sapere che interessi ci siano dietro la diffusione di una notizia completamente falsa come quella che ieri Repubblica e altri giornali hanno sparato a piena pagina parlando di uno “stop all’embargo sulle armi agli Emirati Arabi Uniti” chiesto dalla commissione Esteri alla Camera. Raccontano i giornaloni di “tensioni nate dopo la decisione del governo Conte su pressioni del Movimento 5 stelle” e di una nuova “postura” di EAU e Arabia Saudita nel conflitto in Yemen.

Peccato che l’embargo non ci sia mai stato mai. E basterebbe questo per dare l’idea di certo giornalismo italiano. Come racconta Rete italiana pace e disarmo: «Non c’è mai stato alcun embargo da parte del governo italiano o dall’Autorità nazionale competente, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) né verso gli Emirati Arabi né verso l’Arabia Saudita, ma solo la revoca di sei licenze di forniture di bombe e missili utilizzati da questi Paesi nel conflitto in Yemen. Non c’è nessuna risoluzione della Camera sulla situazione nello Yemen, ma una semplice “Comunicazione congiunta” della commissione Affari esteri della Camera al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo».

Se davvero la situazione in Yemen è cambiata forse sarebbe il caso piuttosto di votare una nuova mozione in Parlamento magari ascoltando anche direttamente le associazioni impegnate in Yemen negli aiuti umanitari. Come scrive Rete italiana pace e disarmo «va sopratutto detto con forza che proprio le numerose risoluzioni del Parlamento europeo (che per anni ha chiesto di imporre un embargo verso Arabia Saudita e UAE) e sopratutto le decisioni di vari Paesi europei, tra cui l’Italia, di revocare le licenze di forniture di armamenti hanno contribuito all’annuncio da parte degli Emirati di ritirarsi dallo Yemen. Questo dimostra che la revoca delle licenze decisa dal governo a seguito delle mozioni parlamentari e soprattutto delle reiterate richieste da parte delle nostre associazioni ha sortito l’effetto desiderato: l’annuncio del ritiro degli Emirati Arabi dal conflitto in Yemen. Solo una politica che non si piega ad indebite pressioni ma che mette rigorosamente in atto le norme stabilite dalle nostre leggi e dai trattati internazionali è in grado di portare Paesi belligeranti a rivedere il proprio atteggiamento assumendo una nuova e più responsabile postura nella scena internazionale. Solo il dialogo tra le parti può infatti condurre ad una soluzione pacifica del conflitto in Yemen e non certo i bombardamenti indiscriminati sui civili attuati per anni da parte della coalizione militare a guida saudita».

Però se ci pensate la dinamica è piuttosto curiosa: ci si inventa un embargo che non è mai esistito, ci si impegna a raccontare le tensioni tra Italia e EAU e Arabia Saudita dimenticando i morti in Yemen e di colpo sui media gronda una narrazione perfetta per un Nuovo rinascimento. Notizie false mischiate a mezze notizie vere e strapiene di sensazioni. Ognuno tragga le sue conclusioni.

Buon venerdì.

 

* In foto: un uomo cammina in un cimitero dove sono sepolti centinaia di combattenti yemeniti, a Marib, Yemen. 21 giugno 2021

La parola “amare” e le poesie di Sanda Pandza

Pubblichiamo la prefazione di Fiorella Quaranta al libro di poesie di Sanda Pandza “Amare-I respiri dell’essere” (Kimerik)

Amare è una parola che, insieme alla parola vita, è la più bella, la più universale, la più naturale.
Amare è capacità innata degli esseri umani, pensiero degli esseri umani.
I poeti, gli artisti, gli scrittori, tutti hanno provato a raccontarne la bellezza, che è diversa per ognuno perché legata all’unicità dell’essere umano.
Non è mia intenzione, quindi, imbarcarmi in quella che sarebbe una folle avventura: pensare di trovare parole più belle di quelle di tanti poeti che da sempre hanno fatto battere forte il nostro cuore.
Le poesie sono parole messe una dopo l’altra, ma che non seguono alcun ordine.
Sono parole libere, musica, colore, ritmo e calore. Somigliano ai sogni e come i sogni svaniscono e poi ritornano.
Conobbi una donna molto tempo fa che mi chiese aiuto.
Si lamentava perché convinta che tutti gli uomini che incontrava non la amassero abbastanza e nel modo che lei chiedeva.
Con una serie di parole infinite quanto noiose mi spiegava quello che lei intendeva per amore.
Parole vuote, ammucchiate e distratte, registrate e ripetute, a volte persino fastidiose. Parole di vetro.
Fui costretta ad interromperla e le chiesi, prima ancora di poter pensare:
Ma si è mai chiesta se lei sa davvero amare?
Mi guardò, spalancando gli occhi e sul suo volto lessi in un attimo infinito, una serie di espressioni, dal dolore alla paura di cui l’ultima fu sorprendentemente, una grande tristezza.
Non lo so rispose onestamente.
Se lei me lo chiede ora, dottoressa, ecco io… davvero non lo so.
Tacque allora e si mise in ascolto di una storia rubata a chi vivendo me l’aveva raccontata.
Amare è essere e volere che l’altro sia. Pretendere che l’altro sia.
È una parola morbida e forte.
Indissolubilmente legata alle parole identità e realizzazione e per questo ancor più legata alla parola separazione, parole dure, potenti.
È l’alba. Devi andare via..
È guardare l’altro andare via, ma saperlo tenere nel cuore sempre come un battito che riconoscerai ogni volta tra mille e mille battiti, ognuno diverso dall’altro.
Ecco, questo è il suo.
Esserci, sempre. Vedere, sentire, rispettare sempre la libertà dell’altro e non permettere mai che diventi brutto, ma pretendere sempre dall’altro la sua bellezza, perché diventi la tua. È come ballare in fondo.
Non facile direi, ma solo per consolarvi un po’, quella donna alla fine ci è riuscita e ha ballato.
Buona lettura.

 

Recuperare spazi di vita collettiva nelle città

Dopo lo tsunami mondiale della pandemia, è diventato visibile a tutti lo scheletro delle disuguaglianze che innerva l’intero globo. Ma se gli spazi urbani sono diventati ancor più simili a delle gated towns circondate dal filo spinato la risposta non può essere quella di un fuga nel passato, cercando rifugio in una idea consolatoria di ritorno al piccolo mondo antico, vagheggiando un’età dell’oro pre moderna di vita nei borghi che forse non è mai esistita (rapporti feudali, isolamento, mezzadria erano la quotidianità).
Tante volte abbiamo scritto negli ultimi mesi che la crisi acuita dall’emergenza sanitaria imponeva piuttosto uno scatto di immaginazione, uno sguardo al futuro, un nuovo modo di progettare, rigenerare, ripensare il nostro vivere insieme agli altri, in modo dialettico e costruttivo. I luoghi dell’incontro, del conflitto, della creazione del nuovo sono indubbiamente le città. Non ce ne vogliano gli eremiti, gli scalatori di vette, i neo bucolici.
È la città che va ripensata perché sia veramente a dimensione umana. Questo è un tema che ci è particolarmente caro, che svolgiamo da anni, con storie di copertina e libri di Left come Le mani sulle città. Ma ora è diventato ancora più urgente come ci raccontano in questa storia di copertina architetti, attivisti e urbanisti da ogni parte del mondo e un regista-architetto come Amos Gitai.
Nell’ambito di un progetto sulle città del futuro realizzato in collaborazione con la Fondazione Feltrinelli abbiamo fatto una serie di interviste che aiutano a comprendere più da vicino le grandi trasformazioni, i conflitti e le dinamiche che stanno attraversando megalopoli come San Paolo, Mumbai, Dhaka. Qui nelle estese baraccopoli manca pure l’acqua potabile e le donne e i bambini hanno patito enormemente la crisi sanitaria ed economica. Eppure proprio dall’energia e dal desiderio di riscatto di chi vive negli slums viene la capacità di immaginare per costruire una svolta, come ci racconta la cooperante indiana Sheela Patel, direttrice della Society of promotion of resource center. Sono fenomeni che ci possono apparire lontani visti dall’Italia delle tante, piccole, città storiche. Ma il filo di pensiero e di ricerca è comune dopo questo anno e mezzo di emergenza sanitaria che ci ha costretti al lockdown e al distanziamento fisico, rendendo a tutti più evidente quanto sia impattante e distruttivo il modello di produzione e lo stile di vita in cui eravamo immersi e in cui ci siamo rituffati non appena abbiamo potuto alzare di nuovo un po’ la testa.
Il più grande errore sarebbe ora “dimenticare” la dura lezione che ci ha impartito il Covid gettandoci a capofitto nella disforia consumistica, nello sblocca cantieri ad ogni costo in nome del profitto, in un turismo estrattivo che, quando diventa monocultura non produce conoscenza e nemmeno reddito (intere città d’arte come San Gimignano sono finite quasi sul lastrico durante il lockdown).
Noi pensiamo che ci sia un’altra strada da percorrere, quella di provare a ricucire le ferite che attraversano le nostre città, non limitandosi a rammendarle, ma ripensandole più belle e accoglienti, riconquistando e risemantizzando gli spazi pubblici. Il Covid ci ha spinti a riflettere su un differente modello di habitat, a ripensare le relazioni sociali e culturali nelle metropoli, ci ha obbligati a pensare a un progetto di “cura e attenzione” per le città, mettendo al centro la società, i bisogni e le esigenze dei cittadini. Il virus ha acceso i riflettori sulle periferie che non sono le zone più lontane dal centro in termini spaziali, quanto quelle più lontane dall’accesso ai servizi, alle opportunità, agli stimoli culturali, come ben esemplifica il libro Le sette Rome (Donzelli) di Lelo, Monni e Tomassi che racconta la capitale delle disuguaglianze attraverso 29 mappe. Ma, come accennavamo, in questa storia di copertina non ci limitiamo alla disamina critica di un modello di urbanistica neoliberista che ha palesemente fallito, creando solo disagio, isolamento, povertà, abissale emarginazione accanto a vertiginosi privilegi.
Molto ampia e stimolante è la riflessione su una possibile “rivoluzione urbanistica” che riporti al centro della discussione pubblica la transizione ecologica, la rigenerazione urbana, la qualità dell’architettura, il disegno delle città e il recupero di spazi pubblici di vita collettiva, degli spazi verdi, l’integrazione dell’entroterra con la metropoli, la tutela del patrimonio d’arte e del paesaggio. È una discussione politica urgente che va fatta abbandonando gli slogan, se vogliamo davvero frenare il cambiamento climatico e uscire una volta per tutte dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo sprofondando.
Su questo ci giochiamo il presente ma anche il futuro.


L’editoriale è tratto da Left del 6-26 agosto 2021

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Il nero che piace alla Lega

Foto Stefano Cavicchi / LaPresse 1/08/2019 Milano Marittima / Ravenna Politica Ministro Matteo Salvini durante la conferenza stampa al Papete di Milano MarittimaNella Foto Matteo Salvini Photo Stefano Cavicchi / LaPresse August 1, 2019 Milano Marittima - Ravenna - Italy news Matteo Salvini during in press conference - Papete of Milano MarittimaIn the Matteo Salvini

Fa sorridere amaro lo sfogo di Massimo Casanova, eurodeputato leghista e proprietario del Papeete accusato di evasione fiscale attraverso fatture false a cui sono stati sequestrati 500mila euro dal Gip di Ravenna. Fa sorridere perché c’è dentro tutta l’ipocrisia di un partito che continua a sbattere la faccia contro le proprie contraddizioni e che insiste nell’essere benaltrista fino al midollo.

«Quanto accaduto è oltremodo spiacevole per chi, da oltre mezzo secolo, opera sul territorio romagnolo con precisione e puntualità – ha detto ieri tramite i suoi avvocati Rossella Casanova, sorella dell’eurodeputato amicone di Salvini – ed ancora prima di affrontare un processo, viene mediaticamente paragonato è trattato come il peggiore dei delinquenti, in un momento storico in cui la ripresa è fondamentale». Avete letto bene: dice Casanova che non bisognerebbe indagare troppo su chi ha origini romagnole e soprattutto che le indagini frenano la ripresa dell’economia. L’ha detto tra le righe, ovviamente, ma l’ha detto. Del resto è perfettamente in linea con l’idea della Lega: punire in base alla provenienza geografica i delinquenti è un punto saldo della narrazione verde.

Non solo: sentire il proprietario del Papeete lamentarsi di “essere trattati come il peggiore dei delinquenti” mentre tutta la narrazione leghista da anni si nutre proprio dell’additare delinquenti comuni (spesso nemmeno condannati) come cause del declino dell’Italia è qualcosa di immorale e offensivo verso l’intelligenza. «Possiedo le aziende probabilmente più controllate d’Italia, oggi più di ieri. E sono sempre state condotte con integrità, serietà, correttezza, nel rispetto della legge», dice Massimo Casanova, eurodeputato eletto nella Lega per lo spessore politico dei suoi aperitivi. E anche questa è una contraddizione mica da ridere: ma non sono proprio i leghisti a professare lo sceriffismo come soluzione di tutti i mali?

Poi ovviamente c’è la lezione che Salvini ha imparato perfettamente dal suo ex padrone Berlusconi e che ha condiviso con i suoi: attaccare la magistratura, veicolare il messaggio che sia tutto un gioco politico, sempre. E che Casanova si lamenti della “tempistica” dell’indagine è piuttosto gustoso: ma non sono loro che si lamentano del poco lavoro estivo dei dipendenti pubblici e della magistratura? Rileggetevi le dichiarazioni.

Il trucco sostanzialmente è sempre lo stesso, minimizzare, sempre. Del resto è passato sotto silenzio il fatto che lo scorso giugno siano stati condannati in primo grado con rito abbreviato i commercialisti proprio della Lega Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni (5 anni e 4 anni di condanna) per turbativa d’asta, peculato e reati fiscali: hanno acquistato un capannone come nuova sede della Lombardia Film Commission (una fondazione controllata dalla regione Lombardia) distraendo oltre 800mila euro di fondi pubblici. Di Rubba e Manzoni avevano un ruolo di primo piano nella gestione delle finanze della Lega. Il primo era infatti direttore amministrativo del partito al Senato, mentre Manzoni era revisore contabile del gruppo del Carroccio alla Camera. E indovinate un po’? Regione Lombardia non si è costituita parte civile nel processo. Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva ma Attilio Fontana, che sbadato, deve essersene dimenticato.

A questo si aggiunge la vicenda dei 49 milioni che la Lega si è serenamente intascata e che restituirà in comode rate per 80 anni. Ora, alla luce di questo, sorge una domanda? Ma siamo sicuri che il nero che pesa sulle tasche degli italiani sia quello che arriva dal mare?

Buon giovedì.

 

Tornare a vivere insieme

Pique-nique et détente le long des quais sur les "Rives de Seine" le 10 Mai 2017, Paris, France. (Photo by Robert DEYRAIL/Gamma-Rapho via Getty Images)

Come vivere insieme? La città esiste per rispondere a questa domanda, da sempre, fin da quando circa seimila anni fa sostituì il villaggio protourbano. Motore di quella trasformazione fu l’innovazione tecnologica in agricoltura che rese disponibile una eccedenza produttiva che venne gestita centralmente nel “tempio”, dando vita alla divisione del lavoro; l’eccedenza scambiata sui mercati forniva le risorse per realizzare i servizi e le infrastrutture necessarie ad organizzare la produzione ma anche a migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini. All’origine della città c’è quindi un chiaro ed evidente vantaggio, non solo economico ma di qualità della vita e di benessere individuale.

Vivere insieme nella città vuol dire migliorare la qualità della nostra vita per avere qualcosa di più che la sussistenza. La città è diventata nel tempo lo scenario migliore per l’agire e condizione che, delle tre descritte da Hannah Arendt, è quella più propriamente umana e che per questo sta sopra alle altre due: il lavoro (homo laborans) e il fare (homo faber). Un vantaggio, quello di vivere in città, che proprio oggi che è divenuta la più diffusa forma di abitare il mondo, non sembra essere più così certo.

La città è messa in discussione con critiche sempre più diffuse e in modo ricorrente si insiste sulle sue crisi, fino ad affermare che dalla città bisogna difendersi e forse anche redimersi, cercando fuori da questa: in campagna, nei borghi, nei paesi o ancora nelle città medie.

Le città odierne hanno forme ben diverse da quelle che avevano alla fine della Seconda guerra mondiale, quando era ancora possibile separare la città e la campagna; in questo poco tempo è avvenuta una delle trasformazioni più rilevanti: la città ha delirato, tracimato oltre i confini, e ha ora la forma di un territorio abitato. Roma copre un territorio di circa 100 chilometri per 100 chilometri, Milano è uno dei tanti nodi di una rete urbana che si distende quasi senza soluzione di continuità su tutta la Pianura padana, tra Torino e Venezia. Non sono da meno Parigi con il Grand Paris o il core dell’Europa che da Bruxelles si distende fino a Rotterdam e da qui ad Amsterdam e così nelle Americhe o in Asia.

La città è il territorio e ha una trama a maglie larghe, il costruito è giustapposto all’agricolo come alle aree naturalistiche, il residenziale di fianco alla logistica, la città si presenta con un nuovo equilibrio geografico non solo tra centro e periferia (una dualità ormai saltata) ma tra città e natura, tra costruito e paesaggio. Redimersi dalla città ha significato anche ampliare il distanziamento sociale e stringere invece verso una socialità diversa, ibrida, che connette spazi fisici e spazi digitali in una reciprocità che non esclude ma aumenta il potenziale dell’uno e dell’altro.

Si è aperta di conseguenza una discussione sull’urbano, su come debba essere interpretato quello che eravamo abituati a chiamare urbano per assegnarlo solo a una parte, quella della città densa e costruita dando forma alle relazioni sociali in spazi e contesti densi e pensati. Se durante la pandemia si è diffuso un pensiero anti-urbano e si sono accentuati i dati di chi lasciava le città, è stato anche perché questo dibattito era presente da prima, la pandemia ha solo messo in evidenza quello di cui già si discuteva. Lasciare la città è in realtà una espressione solo in parte vera, nel senso che per lo più si lascia la città centrale per andare ad abitare nella città territorio lì dove è possibile dare forma ad un abitare che si ridefinisce a partire da un nuovo equilibrio con la natura, con la terra, con la geografia spaziale e con quella sociale.
La questione è allora prendere atto…

*
L’autore: Professore di Urbanistica all’Università di Roma tre, Giovanni Caudo è presidente del Municipio III di Roma e promotore della lista civica Roma futura per le elezioni comunali di ottobre


L’articolo prosegue su Left del 6-26 agosto 2021

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