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I fantasmi di Beirut

204 ritratti affissi lungo l’arteria principale del quartiere di Downtown, Beirut. È così che l’artista Brady Black ha voluto ricordare le vittime della tremenda esplosione che il 4 agosto 2020 ha sventrato il porto della capitale libanese, lasciando dietro di sé, oltre alle centinaia di morti, più di 7.000 feriti, 300.000 sfollati e interi quartieri e infrastrutture distrutti. Ad un anno da quella tragedia, ancora nessuna chiarezza è stata fatta sulle dinamiche dell’accaduto, ed anzi secondo la denuncia di Amnesty International le autorità libanesi continuano ad ostacolare la ricerca della giustizia. Il primo anniversario dell’esplosione si prospetta quindi incandescente: centinaia di persone si sono date appuntamento per scendere nelle strade e protestare in quella che non potrà che essere una giornata di profonda rabbia. Una rabbia che però non è legata solamente alla commemorazione di quella giornata di lutto, ma che raccoglie i sentimenti di frustrazione, disperazione e collera che la popolazione libanese sta vivendo a causa della grave instabilità sociale, politica e economica che attanaglia il paese da più di un anno. Da mesi infatti il Libano è attraversato da molteplici crisi che si rafforzano a vicenda, in quello che si configura come il periodo più buio dai tempi della lunga guerra civile. Da un lato il paese soffre gli effetti della crisi siriana: secondo le stime sono più di un milione e mezzo i rifugiati siriani che hanno fatto ingresso nel paese e che, andando ad unirsi alla già cospicua popolazione rifugiata, in primis palestinese, presente in Libano, fanno di questo la nazione con il maggior numero di rifugiati pro-capite al mondo. A questa, si aggiungono le conseguenze della drammatica crisi economica e finanziaria che non accenna a migliorare.

Secondo il Lebanon economic monitor, l’attuale crisi economica libanese è fra le tre peggiori crisi registrate a livello globale dalla metà del Novecento. La moneta locale ha perso più del 90% del suo valore e il tasso d’inflazione è in costante crescita, anche a causa della fortissima dipendenza dell’economia libanese dalle importazioni. Secondo il Wfp, il prezzo dei beni alimentari ha subito un incremento di oltre il 400%: se prima l’insicurezza alimentare colpiva quasi esclusivamente la popolazione rifugiata, ad Aprile 2021 il 47% delle famiglie libanesi dichiarava di avere difficoltà nell’accesso al cibo. Secondo le stime di Unescwa, più del 55% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre il tasso di persone in condizioni di povertà estrema è triplicato passando dall’8% del 2019 al 23% del 2020. Persino carburante ed elettricità sono divenuti beni difficili da reperire; le luci che un tempo rendevano scintillante lo skyline di Beirut sono solo un lontano ricordo, mentre le lunghe file alle pompe di benzina sono oramai parte dello scenario quotidiano. Anche il Covid-19 non ha risparmiato il Libano, ed alla crisi sanitaria legata alla pandemia si uniscono le difficoltà nell’approvvigionamento di molteplici farmaci, per la maggior parte importati e quindi sempre più scarsi a causa della perdita di valore della moneta libanese. In questo contesto divengono ancora più profondi gli effetti della crisi politica e dello stallo istituzionale protratto in cui versa il paese. A seguito dell’esplosione del porto le proteste della popolazione, che già a Ottobre 2019 avevano invaso le piazze per 100 giorni nel corso della Thawra, rivoluzione politica, segnando un punto di rottura fra la società e la leadership politica libanese messa sotto accusa per le modalità di gestione clientelare e confessionale e per l’elevato livello di corruzione, si sono riaccese e il primo ministro Hassan Diab si è dimesso, ma ancora oggi le trattative per la formazione di un nuovo esecutivo sono bloccate dalle rivendicazioni settarie dei partiti e pertanto nessuna risposta viene data alle gravi problematiche che colpiscono il paese. Come conseguenza di questa situazione, si acuisce in Libano anche una profonda crisi sociale che porta con sé un aumento delle diseguaglianze nella società e l’accendersi delle tensioni sia tra le varie confessioni religiose presenti all’interno della popolazione libanese, che tra quest’ultima e la popolazione rifugiata.

Nel grande vuoto lasciato dalla politica e dalle istituzioni libanesi, è la società civile che prova a far fronte alle crescenti necessità delle persone. Mothers’ Cooking per esempio è un’impresa sociale che si occupa di supportare l’empowerment economico delle donne dando la possibilità a madri disoccupate di accedere al reddito attraverso la preparazione e la vendita di pasti tramite app. Attraverso il progetto “Wee.Can! Women Economic Empowerment: comunità ospitanti e rifugiate siriane per creare nuove opportunità di sussistenza” finanziato dall’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e implementato da Oxfam Italia, Cospe e Mais, ha ricevuto una sovvenzione a fondo perduto grazie alla quale ha contribuito insieme all’organizzazione Berrad El Hay alla distribuzione di pasti quotidiani alle persone rimaste sfollate dopo l’esplosione del porto. Nel 2019 Berrad El Hay ha infatti installato tre frigoriferi per lo stoccaggio e la distribuzione di pasti per le persone in condizione di povertà rispettivamente a Junie, città nel distretto del Monte Libano, e a Mar Mikhael e Achrafiye, due dei quartieri di Beirut maggiormente colpiti dalla tragedia del 4 agosto 2020. Nei mesi successivi all’esplosione, parte dei pasti preparati dalle donne di Mothers’ Cooking sono stati donati a Berrad El Hay e distribuiti attraverso questi frigoriferi alle famiglie colpite. Secondo Reema e Mirna, operatrici dell’organizzazione, se prima della deflagrazione l’associazione distribuiva in media circa 200 pasti al giorno, successivamente il numero è salito a quasi un migliaio.

Durante la visita alla loro sede, la voce di Reema diventa rotta e dalle sue parole si percepisce chiara la frustrazione mentre ricorda: «La mia casa è stata colpita dall’esplosione, eppure nessun rappresentante delle istituzioni si è presentato per offrirmi del supporto; sono stati i miei vicini a bussare alla mia porta per offrirmi il loro aiuto, e lo stesso ho fatto io con loro. L’unica risposta è la solidarietà, per questo anche un piccolo gesto come la donazione di 25 pasti giornalieri da parte di Mothers’ Cooking è fondamentale».
L’importanza della presenza della società civile viene sottolineato anche da Ahmad, presidente di Urda, l’organizzazione locale partner del progetto Wee.Can!, che specifica come attraverso le attività di micro credito per donne sia libanesi che siriane attivate dal progetto sia stato possibile supportarle in questo momento di grave instabilità economica. Ma Ahmad sottolinea anche come i bisogni della popolazione, sia locale che rifugiata, siano in costante aumento in tutti i settori: dall’accesso all’istruzione a quello alla sanità, dall’incremento dei casi di violenza di genere a quello della criminalità e delle tensioni settarie.

Il 4 agosto 2021 quindi non solo segna il primo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut, ma mette in risalto il continuo deterioramento delle condizioni economiche, sociali e politiche dell’intero Paese, caduto in una spirale negativa dalla quale al momento non si prospetta ancora una via d’uscita.

Un’ordinaria giornata di sadismo imprenditoriale

Veloce rassegna stampa tra le notizie delle ultime ore.

Alla Modular, ditta di San Vendemiamo che fa parte del gruppo Nice di Oderzo, la dirigenza ha pensato bene di comunicare che «come da comunicazioni esposte negli scorsi anni, le bottigliette d’acqua possono essere prelevate esclusivamente prima dell’inizio del lavoro o durante le pause». In orario di lavoro è vietato avere incidentalmente avere una sete non preventivata perché il fatturato ne risentirebbe a causa della mal organizzata idratazione dei dipendenti. Effettivamente questa fa il paio con i dipendenti di Amazon costretti a pisciarsi addosso per non perdere tempo. Le funzioni vitali, hanno scoperto dalle parti della brillante imprenditoria, sono un enorme ostacolo alla crescita del fatturato. Evidentemente madre natura è comunista e sfaticata. Del resto Matteo Renzi (uno che nella sua vita non ha mai lavorato, facendo sempre politica) ci ha sgridato perché non siamo più abituati a soffrire, lui che si consuma le suole nel salire e scendere dalle scalette degli aerei privati che lo portano dai più brillanti dittatori del mondo.

A Bologna i lavoratori della Logista, multinazionale monopolista nella distribuzione del tabacco, sabato sera hanno ricevuto un messaggio WhatsApp che diceva testualmente: «Da lunedì 2 agosto lei sarà dispensato dall’attività lavorativa. Cordiali Saluti». Circa 90 persone in 36 ore scoprono di non avere più un lavoro. Molti di loro sono in ferie dopo una pandemia che non ha mai fermato l’attività (il tabacco è stato considerato bene essenziale, ovviamente) e alla Logista non si è pensato di chiudere nemmeno quando è scoppiato un focolaio di Covid. Chissà se ora qualcuno della cosiddetta “classe dirigente” di questo Paese ci insegnerà anche come “soffrire” bene mentre in 36 ore tocca riorganizzare tutta una vita, chissà che non ci spieghino anche il senso educativo che sta nella precarietà impaurita di chi sa di potersi ritrovare senza reddito nel giro di qualche ora. Ovviamente Logista non è in crisi e non ha registrato nessuna perdita di fatturato.

Ieri il Gip di Ravenna Corrado Schiaretti, su richiesta della Procura, ha sequestrato mezzo milione di euro al Papeete Beach, il famoso locale preferito di Matteo Salvini: lì, tra cubiste che ballavano l’inno nazionale con l’ex ministro dell’inferno alla console e tra bicchieri di mojito il leader della Lega ha intravisto l’enorme spessore politico del proprietario Massimo Casanova che giustamente è stato premiato con un bel seggio al Parlamento europeo. Nella lunga lista di imprese – 35 in totale – destinatarie del decreto di sequestro emesso dal Gip, nell’ambito dell’inchiesta sulla Mib Service, compaiono infatti anche la Papeete srl e la Villapapeete srl, entrambe intestate a Rossella Casanova, sorella di Massimo. Per la prima il sequestro è di 384.676 euro, per la seconda di 147.142 euro. L’accusa verso gli imprenditori che hanno subito i sequestri è perlopiù di avere utilizzato – come riportato dalla stampa locale – fatture relative a operazioni ritenute inesistenti per evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto. L’estate scorsa Casanova tuonava contro il governo Conte che aveva deciso di chiudere le discoteche dicendo che non c’era nessun contagio (ricordate la favola del Covid che era stato sconfitto) e diceva testualmente: «Quella di Ferragosto è stata l’ultima serata. Ovviamente ci saranno problematiche: merce pagata che rimarrà ferma un anno, tasse». Poi aggiunse: «Stasera ne sono sbarcati altri 100, ma dove vogliamo andare a finire? Che senso ha prendersela con le imprese? Questo governo non ha la minima idea di cosa voglia dire gestire un’attività, non sanno cosa significhi non dormire la notte per il pensiero delle banche e di centinaia di famiglie che, questo inverno, non potranno dar da mangiare ai figli». Poi si era lamentato per il ritardo dei ristori (pensate quanti ristori in più si sarebbero potuti pagare con i soldi evasi) e ovviamente contro i giovani che non hanno voglia di lavorare: guardando il suo bilancio i soldi che ha speso nel 2019 per i suoi lavoratori (dice lui “quasi 450”) fanno una media di 2.500 euro ciascuno all’anno. 2.500 euro per ogni lavoratori, in tutto l’anno.

Ve la ricordate Luana D’Orazio morta a giugno incastrata in un macchinario su cui lavorava? Ricordate lo sdegno? È successo di nuovo, ieri: Laila El Harim è rimasta incastrata in un macchinario, probabilmente una fustellatrice ed è morta. Lascia il compagno e una figlia di 4 anni. È accaduto a Modena presso la Bombonette, ditta specializzata nella lavorazione della carta e packaging per pasticceria. A Modena mancano almeno il 30% degli ispettori del lavoro e sono pochi anche gli ispettori di Inps, Inail e Ausl. Sono circa 58mila le aziende. Sul lavoro si muore oggi come 50 anni fa, come se non ci fosse stato nessun avanzamento tecnologico: per lo schiacciamento in un macchinario, per la caduta da un tetto, il trascinamento da un rullo. Ci sarà ancora lo sdegno (un po’ meno perché la vittima questa volta è di origine marocchina) e poi basta. A proposito: la sicurezza sul lavoro doveva essere una priorità del Pnrr. Com’è andata a finire?

Il dibattito politico tutto concentrato su quanto faccia schifo il reddito di cittadinanza e sui poveri che sono solo indolenti. Il sadismo imprenditoriale invece rimane taciuto, come se fosse normale. Avanti così.

Buon mercoledì.

 

Scimpanzé che mangiano gorilla

Two one-year old baby mountain gorillas play together in the forest of Bwindi Impenetrable National Park in southwestern Uganda Saturday, April 3, 2021. (AP Photo)

Nel Parco nazionale africano di Loango in Gabon tra il 2014 e il 2018 scimpanzé e gorilla hanno convissuto pacificamente, dividendosi lo spazio e il cibo. I ricercatori dell’Università di Osnabrück e del Max Planck Institute hanno osservato nove occasioni in cui scimpanzé e gorilla hanno interagito pacificamente e si sono persino nutriti insieme sugli stessi alberi da frutto.

Nel 2019, a causa del surriscaldamento che ha portato a una drastica diminuzione delle razioni di cibo in due occasioni è accaduto che gli scimpanzé abbiano formato una coalizione per attaccare i gorilla. Si sono combattuti per oltre due ore e alla fine sono rimasti a terra due gorilla neonati morti. Nel secondo episodio un cucciolo di gorilla è stato ucciso ed è stato quasi interamente consumato da una femmina adulta di scimpanzé.

«Potrebbe essere che la condivisione delle risorse alimentari da parte di scimpanzé, gorilla ed elefanti della foresta nel Parco Nazionale di Loango a spingere a una maggiore competizione e talvolta anche in interazioni letali. tra le due grandi specie di scimmie – ha detto Tobias Deschner, un primatologo del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology – . L’aumento della concorrenza alimentare può essere causato anche dal fenomeno più recente del cambiamento climatico e dal crollo della disponibilità di frutta, come osservato in altre foreste tropicali del Gabon».

Nello studio pubblicato su Scientific Reports sono riportate le crudelissime scene: «Littlegrey (così viene chiamato un esemplare maschio di scimpanzé) ha annusato un cucciolo di gorilla, lo ha messo a terra davanti a sé e lo ha colpito tre volte con la mano destra. Non lo ha ucciso, ma lo ha lasciato agonizzante a terra che si lamentava». Poi 25 minuti dopo quel cucciolo di gorilla è stato passato ad altri tre scimpanzé e in breve tempo è morto.

In un episodio dell’11 dicembre 2019 un gruppo di 27 scimpanzé hanno avvistato una femmina di gorilla con il suo cucciolo. Uno di loro ha lanciato il grido di allarme che ha preceduto l’attacco. Tutti i gorilla sono fuggiti ma un cucciolo è stato catturato e ucciso. Nello studio si descrive un gorilla neonato morto con uno squarcio nello stomaco con l’intestino sporgente.  Una femmina di scimpanzé ne aveva mangiato alcune pezzi di carne.

Se l’evento vi sembra angosciante sarebbe il caso di chiederti anche quanto potrebbe essere tristemente profetico. Mentre in molti si sforzano di sminuire il cambiamento climatico accade che l’ordine naturale delle cose si stia sbriciolando sotto il peso della precarietà. Se avessimo ancora una collettiva capacità di sentire potremmo annusare la violenza partorita dalla disperazione, potremmo capire quanto sia naturale spostarsi per sopravvivere. Lo squilibrio dell’ordine naturale concima la violenza: quando si parla di ambiente non si parla solo di ambiente, è una questione di equilibrio sociale.

A meno che non si voglia finire per essere considerati buonisti solo perché ci si rifiuta di mangiarsi.

Buon martedì.

Angelo Mastrandrea: La logistica dello sfruttamento

Engineer man with yellow crash helmet and worker west checking cargo freights in front of colorful cargo container stacks in shipping port

Angelo Mastrandrea, giornalista de il manifesto, di cui è stato anche vice direttore, e curatore dell’inserto settimanale ecologista Extraterrestre, scrittore reporter tra i più prolifici, affida i suoi reportage a Internazionale, Venerdì di Repubblica, Le monde diplomatique.Ha pubblicato anche libri ibridi tra memorialistica storica, giornalismo d’inchiesta e narrazione tout court come Il trombettiere di Custer e Il paese del sole, entrambi per Ediesse, e Lavoro senza padroni. Storie di operai che fanno rinascere imprese (Baldini e Castoldi). Da pochi giorni è in libreria il suo ultimo lavoro, L’ultimo miglio (Manni) un viaggio nel mondo della logistica, nuova frontiera di una economia capitalista sempre più autoritaria.

Negli ultimi anni sei tra i rari cronisti che hanno tenuto in vita il reportage narrativo come forma di conoscenza del mondo che va oltre il giornalismo dei fatti. Come è cambiato questo mestiere dai tempi di Ermanno Rea, che è stato uno dei tuoi maestri?
Può sembrare un paradosso, ma la crisi della carta stampata e del suo modello economico riapre degli spazi che parevano chiusi per sempre. Non che fossero sempre rose e fiori anche all’epoca. Hai citato Ermanno Rea, che per scrivere Mistero napoletano (pubblicato da Feltrinelli) ha dovuto attendere di andare in pensione, però di sicuro il suo viaggio a puntate lungo gli argini del Po è un piccolo capolavoro. Quello che voglio dire è che i giornali investivano nella scrittura: La Stampa mandava un Carlo Levi a raccontare la Cina di Mao e l’India di Nehru, Corrado Alvaro faceva scoppiare uno scandalo raccontando il mercato dei ragazzini schiavi a Benevento, e così via. Quando i giornali hanno preso a inseguire la televisione e l’ultima notizia di giornata, è stata la catastrofe. Pure i giornalisti si sono adeguati al linguaggio televisivo, al racconto per immagini, come se l’enfasi descrittiva potesse sopperire all’assenza di queste ultime. Su questo ha influito pure una certa sudditanza verso un modello anglosassone che privilegia il cosiddetto storytelling allo scavo e alla denuncia. Si è privilegiato, nei casi migliori, il ritmo narrativo alla profondità della parola. Credo che le ragioni più profonde della loro perdita di senso e di credibilità vadano cercate da quelle parti. Internet le ha solo estremizzate. Ora credo che siano maturi i tempi per un recupero della buona scrittura, quello che manca è il coraggio di investirci da parte dei giornali.

Nel tuo libro, L’ultimo miglio, edito da Manni, c’è una inchiesta magistrale sul mondo Amazon, una sorta di limbo prima del mondo robotizzato, un ambiente di lavoro nuovo che definisci «militaresco e disumano», quello di un capitalismo sempre più autoritario, ma che secondo te ricorda la fabbrica fordista. Per quale motivo?
Ascoltando i racconti dei lavoratori di Amazon, mi è venuto alla mente il Gian Maria Volontè di La classe operaia va in paradiso. Mi sono detto: il…


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Cristiano Godano: «Le mie scoperte da solista»

Dopo oltre 30 anni di carriera con i Marlene Kuntz, Cristiano Godano presenta in tutta Italia Mi ero perso il cuore, il suo primo album solista con tredici brani inediti, prodotti, tra gli altri, da Gianni Maroccolo. Lo raggiungiamo al telefono nel bel mezzo del suo tour che lo vede il 30 luglio all’Anfiteatro del Venda a Galzignano Terme (Padova) e il 7 agosto ad Auronzo di Cadore (Belluno).

Artista poliedrico, cantante, chitarrista, autore, ma anche scrittore – l’ultimo libro è Nuotando nell’aria per La nave di Teseo – Godano è anche docente presso il master in Comunicazione musicale all’Università Cattolica di Milano e nel 2019 ha ricevuto il Premio Ciampi al Mei. Parliamo della sua nuova veste da solista, del suo cambiamento, ma anche delle emergenze pre e post pandemia, cominciando dalla questione ambientale, verso la quale le nuove generazioni sono particolarmente sensibili.

Partiamo dai Marlene Kuntz. Giorni fa Victoria dei Måneskin, al Guardian vi citava tra le band che hanno contribuito a dare lustro al rock italiano. Qual è stato il segreto di un successo come il vostro?
Credo l’intelligenza della nostra amicizia. Il fatto di saper comprendere che ciascuno di noi ha dei talenti utili alla band. Non ci sono mai state invidie.

Che cosa ti ha spinto ad un certo punto a fare un album tutto tuo?
Stare trent’anni con una band significa condividere un progetto in modo molto democratico e ogni canzone è il prodotto del contributo di tutti i musicisti. Dopo anni di condivisione di questo tipo, avevo voglia di un disco le cui canzoni fossero esattamente quelle che io mi ero immaginato quando le avevo pensate.

Quali sono stati i temi che volevi affrontare nel tuo album personale?
Ho raccontato una mia parentesi esistenziale in cui c’era terreno fertile per sviscerare tutta una serie di questioni che…


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Licenzia, prendi i soldi e scappa

Il 9 luglio Gkn azienda di componenti per l’industria automobilistica di proprietà del fondo britannico Melrose, ha licenziato via mail 422 lavoratori del suo sito produttivo a Campi Bisenzio. Ci sono state proteste (che continuano ancora), notizie sui media e politica interessata.

Sulla vicenda è stato aperto un tavolo di crisi, dopo che l’azienda ha rifiutato qualsiasi proposta del Ministero del lavoro per evitare il licenziamento collettivo. Il tavolo su Gkn era stato convocato il 15 luglio scorso. Il tavolo doveva tenersi in video conferenza con i vertici aziendali, i sindacati, gli enti locali e il ministero del Lavoro, ma Gkn ha mandato un avvocato. Un atteggiamento mai verificatosi prima che la viceministro Todde ha definito «un atteggiamento scorretto nel metodo e nel merito». L’azienda ha risposto dicendo che il coinvolgimento del Ministero «rappresenta una variazione dalla norma di legge», togliendo qualsiasi autorevolezza al suo interlocutore.

È in crisi Gkn? Nell’ultimo bilancio, i vertici aziendali scrivono che il primo trimestre del 2021 ha visto una crescita dei ricavi del 7 per cento e del 14 per cento sul budget di previsione. In realtà i ben informati dicono che l’idea dell’azienda sarebbe quella di delocalizzare in Francia (dove sta andando anche Stellantis, il colosso automobilistico nato dalla fusione di Fca e Psa) e in Polonia.

C’è un altro piccolo particolare. Come riporta Carmen Baffi sul quotidiano Domani: «Gkn ha tre sedi nel centro nord, due fabbriche a Brunico, in provincia di Bolzano e un’altra a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Per la Drivelive Brunico spa, dal 2017 ad aprile 2021, Gkn ha ricevuto 1.204.354 euro in totale dalla provincia autonoma di Bolzano, per effettuare miglioramenti in termini di ricerca e innovazione, formazione e aggiornamento del personale. Per la Sinter Metals spa, il secondo stabilimento di Brunico, ha invece acquisito 1.408.772 euro di fondi pubblici. Solo in Trentino, la Gkn ha ottenuto più di 2 milioni e 600mila euro per effettuare gli interventi necessari alla produzione. Per lo stabilimento toscano, invece, quello di Campi Bisenzio, dove l’azienda ha licenziato 422 dipendenti, Gkn ha riscosso 139mila euro: 15mila nel 2018 dal ministero del Lavoro e 124mila dalla regione, tutti presumibilmente spesi per la formazione del personale».

Siamo al solito “prendi i soldi e scappa” che molte multinazionali attuano qui da noi. E intanto la gente resta a casa. Dall’1 luglio, dopo lo sblocco dei licenziamenti, i colossi di diversi settori produttivi hanno licenziato già 1.704 dipendenti. Attualmente al ministero dello Sviluppo economico sono aperti 87 tavoli di crisi. Decine di multinazionali hanno avviato le procedure di licenziamento collettivo, una possibilità prevista dal jobs act nel 2015 da Matteo Renzi, che dopo la legge Fornero del 2012, ha ulteriormente precarizzato il mondo del lavoro. Sarebbero 50mila i lavoratori a rischio. Stando ai dati raccolti dal ministero del Lavoro e da Banca d’Italia, anche in piena pandemia da Covid-19, nel 2020, si sono verificati 550mila licenziamenti, nonostante fosse vietato.

Questo è il punto in cui siamo. Questo è il tema che si continua a rimandare nel dibattito mentre ci tocca sorbire i paternalismi di chi dice che “gli italiani devono imparare a soffrire” e chi molto più furbescamente non lo dice ma lo pensa e agisce di conseguenza.

Questo è il tempo, non rimandabile, di aprire in Italia un largo e sincero discorso su reddito e lavoro. Gli italiani voteranno su quello.

Buon lunedì.

Foto dalla pagina facebook Collettivo di fabbrica-Lavoratori Gkn Firenze

 

Jack London e i piccoli schiavi d’America

Johnny è un ragazzino di 12 anni che lavora con la madre in una fabbrica tessile. Lavora da quando era solo un bambino, è nato letteralmente fra gli ingranaggi delle macchine, dove la madre, distesa sul pavimento, lo ha dato alla luce – o, per meglio dire, alla luce opaca e plumbea del reparto telai, con il rumore assordante delle macchine nelle orecchie, respirando l’aria densa di filamenti di iuta. Non conosce che il lavoro, e crescendo diventa sempre più veloce ed efficiente, un operaio modello, quanto di più vicino ci sia a una macchina e di più lontano dalla natura umana. Come lascia presagire il titolo del racconto di Jack London di cui è protagonista, L’apostata, a un certo punto Johnny smette di essere un uomo “verticale” e smette di muoversi, rinnegando così, attraverso la sua immobile orizzontalità, il dio del lavoro e il mito dell’efficienza.

Alla classe operaia, in cui era nato, Jack London era profondamente legato. Lo scrittore (il cui vero nome era John Griffith Chaney, detto Johnny) questo abisso di umanità oppressa e dolente se lo portò dentro sempre, anche quando ormai era uno scrittore affermato e un uomo ricco e famoso in tutto il mondo. Nel 1902 cominciò a raccogliere dati e a consultare documenti sull’enorme slum dell’East End londinese, ma soprattutto decise di eliminare qualsiasi barriera tra sé e l’oggetto della sua indagine, e in questo metodo lo scrittore si faceva già reporter. Per accorciare il più possibile le distanze tra l’osservatore e gli osservati, fra esterno e interno, “cambiò pelle”, indossando abiti da straccione e affittando una stanza nel cuore più tetro del quartiere, in Flower & Dean Street, a poche decine di metri dall’intrico di vicoli in cui, appena 15 anni prima, aveva commesso i suoi delitti Jack lo Squartatore.

Questo metodo di indagine e rappresentazione della realtà London lo applica in tutta la sua produzione letteraria, che vede spesso protagonista “il popolo dell’abisso” (titolo, appunto, che darà al suo romanzo-reportage sull’East End, pubblicato in Italia, a cura di Mario Maffi, da Mondadori), da cui lo scrittore stesso proviene – un’origine che da una parte fugge, dall’altra vorrebbe riscattare. In molte delle sue opere si percepisce potente il…

L’apostata, il racconto di Jack London tradotto dai ragazzi del liceo “Da Vinci” di Civitanova Marche nell’ambito del progetto Il traduttore in classe – La voce dell’altro pubblicato da Giaconi editore a cura di Stella Sacchini e Fabio Pedone, viene presentato l’1 agosto a Pedaso (Fermo), come evento conclusivo della quarta edizione del festival di traduzione BookMarchs – L’altra voce. Info www.bookmarchs.it    


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Oliviero Diliberto: Il nuovo codice che ci avviCina

Books of the Civil Code of the People's Republic of China are seen during the Beijing Book Fair at the Chaoyang Park in Beijing, China on June 11, 2020. The park located in the center of Beijing is a place to breath for Beijing citizens. ( The Yomiuri Shimbun via AP Images )

Frutto di un lavoro più che ventennale, il nuovo Codice civile della Repubblica Popolare Cinese, entrato in vigore il primo gennaio 2021 è stato ora tradotto in italiano da Huang Meiling. Pubblicato da Pacini giuridica è un’opera monumentale a cui ha lavorato per anni il docente di diritto romano e preside della Facoltà di Giurisprudenza de La Sapienza Oliviero Diliberto. All’ex ministro della Giustizia di due governi D’Alema (1998-2000) abbiamo chiesto di raccontarci la genesi e il significato che questo corpus giuridico assume per il futuro della Cina. «Intanto comincerei col dire che questa di Pacini giuridica è la prima e, per ora, unica traduzione del codice fuori dalla Cina. C’è poi la traduzione inglese ma è quella che hanno fatto in Cina e non è stata ancora pubblicata in altri Paesi».

Ripercorriamone le tappe. Come ha preso forma questo codice in cui si cerca di combinare l’economia di mercato con un forte indirizzo dello Stato in economia?
Vuole che le racconti la genesi del codice? È una storia lunga, iniziata all’inizio del secolo scorso quando, sul modello del Giappone, la Cina provò a dotarsi di un codice civile. Molte commissioni fallirono prima che venisse finalmente approvato un codice nel 1931. Di fatto però, non fu applicato, anche perché nel frattempo ci fu l’invasione della Manciuria, poi lo scoppio della seconda guerra mondiale e poi di nuovo la guerra civile e alla fine la vittoria di Mao dopo la Lunga marcia. Chiang Kai Shek scappò a Taiwan dove il codice civile cinese sarà così applicato. Nella Cina continentale non lo fu mai.

Qualcosa cambiò con l’apertura al mercato?
Avvenne a partire dalla seconda metà degli anni Settanta con l’arrivo al potere di Deng Xiaoping. Quando la Cina si aprì al mercato si rese conto di avere la necessità di regole che non esistevano perché il loro sistema non prevedeva la proprietà privata, non aveva contratti e non aveva il mercato. Le regole di diritto civile in quelle condizioni servivano pochissimo. Ma nel momento in cui cambiò l’economia ne ebbe bisogno. In quel momento avvenne un fatto casuale – ce ne sono molti in questa storia -, il decano della Facoltà di giurisprudenza di Pechino, Jiang Ping, venne a Roma per un convegno. Conosceva il diritto romano, da ragazzo, prima della rottura fra Cina e Urss, aveva studiato a Mosca. All’epoca il diritto romano era obbligatorio nelle Facoltà di giurisprudenza sovietiche. Poi a Roma il professor Ping incontrò il…


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Taiwan e la diplomazia del lupo guerriero

WASHINGTON, DC - APRIL 16: U.S. President Joe Biden (R) and Prime Minister Yoshihide Suga of Japan walk along the Rose Garden Colonnade as they arrive for a news conference at the White House on April 16, 2021 in Washington, DC. The two leaders met to discuss issues including human rights, China, supply chain resilience and other topics. (Photo by Doug Mills-Pool/Getty Images)

In un white paper pubblicato nei giorni scorsi, intitolato Difesa del Giappone, il governo di Tokyo ha rotto una serie di tabù che dicono molto riguardo ai delicati equilibri in Asia orientale e sud-orientale, sempre più in bilico tra un fronte anti-cinese, costituito da alcune delle nazioni più potenti del mondo, e la Cina. Da una parte c’è il Giappone, sostenuto dagli altri tre Paesi del gruppo Quad (Usa, Australia, India) e supportato dal dissenso che si sta diffondendo sempre di più tra i popoli d’Asia e d’Occidente nei confronti di Pechino, dall’altra c’è la Cina popolare di Xi Jinping, appoggiata passivamente da una serie di nazioni che dipendono da lei e che preferiscono non inimicarsi la super potenza rossa. Il grosso di questa partita si giocherà su Taiwan e i mari che la circondano, sebbene il bilanciamento del dominio sull’Asia sia in balia di una moltitudine di attori, interessi e pericoli.

Sono passati 50 anni da quando il Giappone ha voltato le spalle alla Repubblica di Cina, conosciuta altresì come Taiwan, in favore della Cina continentale di Mao, firmando un accordo ufficiale con il quale tagliava ogni sorta di relazione con i repubblicani. Oggi, sulla scia di nuove dinamiche geopolitiche, il Giappone torna a riconoscere Taiwan come la nazione indipendente quale è, seppur in via non ufficiale, e si schiera al suo fianco contro l’aggressività diplomatica e militare cinese. Intitolando Difesa del Giappone il suo più recente report militare, il governo di Yoshide Suga lancia indirettamente un allarme rispetto all’atteggiamento tenuto da Pechino nei confronti delle altre nazioni asiatiche, Taiwan in primis. Il Giappone sottolinea come la Cina abbia più volte invaso lo spazio aereo taiwanese con oltre 380 velivoli da guerra. A detta di Mike Studeman, ammiraglio della marina statunitense, l’invasione di Taiwan da parte dell’esercito cinese è solo questione di tempo e, d’altronde, a dirlo è lo stesso Xi Jinping che durante il discorso del centenario del Partito comunista cinese ha ribadito che la riannessione di Taiwan è uno degli obiettivi primari. Proprio in questo frangente Usa e Giappone si sono uniti a favore di Taiwan, che sta lentamente recuperando il proprio posto a livello mondiale come nazione indipendente. Sempre nel medesimo white paper, difatti, il Giappone ha assicurato che difenderà Taiwan nel caso di un attacco o invasione da parte della Rpc.

Anche il deteriorarsi dei rapporti tra Cina e Stati Uniti alimenta i timori giapponesi. Si credeva che l’amministrazione Trump sarebbe stata l’apice del conflitto verbale e diplomatico con Pechino, mentre in realtà il democratico Biden sembra aver preso in eredità il lavoro svolto dal predecessore repubblicano e di volerlo addirittura spingere ancor più in là, parlando apertamente delle violazioni dei diritti umani compiute dalla Cina ai danni degli uiguri e dando tutto l’appoggio possibile alle nazioni che non vogliono sottostare alle pretese cinesi. Un esempio importante è stata la…


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Il salario minimo? Ce lo chiede l’Europa

BRUSSELS, BELGIUM - JANUARY 14: European Commission President Ursula Von Der Leyen (R) and European Parliament President David Sassoli (L) arrive at the European Commission ahead of the college seminar in Brussels, on 14 January 2021. (Photo by Dursun Aydemir/Anadolu Agency via Getty Images)

In Europa si è riaperto il dibattito sul salario minimo. Il Parlamento europeo sta esaminando una proposta di direttiva sul tema, redatta dalla Commissione. Richiede che i salari minimi siano fissati al di sopra della soglia di povertà. L’obiettivo è la lotta alla disuguaglianza e alla povertà lavorativa. Il salario minimo, hanno sottolineato gli eurodeputati, deve valere per tutti i lavoratori, anche per i lavoratori atipici ed in particolare per i lavoratori delle piattaforme digitali.

In realtà, la proposta di Direttiva lascia aperta una discrezionalità nella determinazione dei salari minimi, se attraverso una norma di legge o mediante contrattazione (come fanno 6 Paesi su 21, tra cui l’Italia, ndr). Essa mira a garantire, in ogni caso, salari minimi adeguati, a farli rispettare, e a far crescere il tasso di copertura della contrattazione collettiva nei Paesi membri.

Pur essendo una realtà nella maggioranza dei Paesi europei, il salario minimo è ancora oggetto di molte polemiche. Si discute se la sua introduzione sia veramente necessaria o sia piuttosto un pericolo per lo sviluppo economico, e poi si discute sulla cifra a cui dovrebbe ammontare. Sul tema, i sindacati europei hanno posizioni diverse. I sindacati scandinavi, ad esempio, non sono molto favorevoli alla misura perché ritengono che la sua introduzione non sia necessaria e temono che il salario minimo minerebbe il sistema delle relazioni sindacali nei loro Paesi.

Malgrado questa critica e le posizioni controverse delle sigle che la compongono, la Confederazione europea dei sindacati (Ces) si è…


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