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Che errore lo sblocco dei licenziamenti

ROME, ITALY - JULY 22: Whirlpool workers demonstrate against closure of Whirlpool plant in Naples and consequent dismissal of workers on July 22, 2021 in Rome, Italy. The Whirpool workers are protesting against a collective layoff of 340 employees by the American company. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

Ho dichiarato in tempi non sospetti che la decisione del governo Draghi di sbloccare i licenziamenti a fine giugno si sarebbe rivelata un errore non privo di pesanti conseguenze. E così è avvenuto: ad approfittarne sono state, per prime, le multinazionali. Non aver preso in considerazione la proposta, sensata, del ministro Orlando di prolungare il blocco fino a tutto agosto, ha enormemente indebolito la tutela del lavoro e messo a rischio i più fragili. Avrebbe avuto senso fare prima la riforma degli ammortizzatori sociali e, soltanto dopo, sbloccare i licenziamenti. Inoltre, il costo dell’operazione, quella di erogare la Cassa Covid a luglio e agosto di pari passo con il prolungamento del blocco, avrebbe comportato un costo inferiore al miliardo di euro, considerati gli attuali andamenti della Cassa integrazione. Sarebbe stata una operazione encomiabile sotto il profilo sociale e compatibile sotto quello economico. Una scelta che avrebbe fatto sentire più sicuri i lavoratori i quali, invece, in molte aziende sono colpiti dai licenziamenti. Dove sta la tanto invocata “coesione sociale” che dovrebbe caratterizzare la transizione ecologico-digitale-infrastrutturale sospinta dalle enormi risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza?

In questa situazione è ormai chiaro quanto fondamentale sia una profonda revisione degli ammortizzatori sociali, riforma che il ministro del Lavoro sta predisponendo e che dovrebbe vedere la luce prima della fine dell’estate. Dal nostro punto di vista, accanto alla necessità di garantire un più avanzato sistema di tutele “passive” (misure di sostegno del reddito universali in caso di disoccupazione involontaria e in costanza di rapporto di lavoro a fronte di un momentaneo calo di attività), è necessario rispondere all’esigenza, delle imprese e dei lavoratori, di…


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Riforma Cartabia, a rischio l’autonomia della magistratura

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 22-07-2021 Roma Politica Conferenza stampa del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Mario Draghi, Marta Cartabia Photo Roberto Monaldo / LaPresse 22-07-2021 Rome (Italy)Politics Press conference of the Prime Minister Mario Draghi In the pic Mario Draghi, Marta Cartabia

Il progetto di riforma Cartabia/Draghi presenta certamente note positive, di cultura più garantista rispetto alla coazione a ripetere giustizialista dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Sia chiaro, parlo solo di una timida razionalizzazione, che ha subito e subirà ulteriori mediazioni. In un tema, quello della giustizia penale, che non sopporta mediazioni, perché è collegato ad un punto di vista sulla società e riguarda il controllo di legalità, la violazione dei codici di convivenza regolamentati dalla giurisdizione penale. Materia incandescente. Non a caso, su Left, abbiamo parlato, negli ultimi anni, di “diritto del nemico”, espressione di Livio Pepino che critica un diritto penale teso a sanzionare soprattutto migranti, No Tav, attivisti sociali, povera gente. Abbiamo parlato di carcere “classista”, che ingabbia disagi e bisogni sociali come fossero problemi di ordine pubblico. È ritornata la tortura sistematica e diffusa. Continuiamo a ritenere che il carcere debba essere sanzione di “ultima istanza”.

Una vera riforma della giustizia dovrebbe essere fondata su due concezioni, depenalizzazione e decarcerizzazione, nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». È, quindi, molto banale e riduttivo (e segno di cattiva politica e pessima stampa) che, invece, tutto il dibattito sul progetto di riforma Cartabia sia limitato al tema della “prescrizione”, certamente importante e complesso perché attiene alla storica dialettica tra “processo giusto” e “processo breve”. Ma il dibattito è politicista e simbolico, teso a marcare le distanze tra i partiti e dentro i partiti. Non vi è sofferenza né approfondimento, su un tema che pure attiene alla vita delle persone. Sono molto preoccupato, inoltre, dall’oscuramento di questioni, presenti nel progetto di riforma, che attengono all’assetto degli stessi poteri costituzionali. Questioni su cui il giudizio di larga parte dei giuristi democratici è molto negativo. Penso alle priorità da indicare per l’azione penale, che sono previste in un atto di indirizzo parlamentare, in una legge. Muterebbe il rapporto tra politica e giurisdizione. È una proposta incostituzionale. L’articolo 112 della Costituzione recita: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Non vi possono essere indicazioni altrui a…


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Vi ricordate la scuola, un anno fa come ora?

Pensate a un anno fa, a quest’ora: paginate e paginate di giornali che inveivano contro la ministra alla scuola Azzolina, una pioggia generale di derisione contro la ministra, contro il governo, migliaia e migliaia di articoli sui banchi a rotelle, sul fatto che la scuola non fosse messa al primo posto e sul fatto che nonostante il tempo a disposizione nei mesi estivi non sarebbe stato pronto niente. Pensate a Meloni, Salvini e perfino Italia viva che bombardavano Azzolina, colpevole di tutti i mali, l’istruzione che non veniva presa in considerazione, le vignette, le battute (Azzolina poi è donna, viene più facile) e anche i giornali definiti “progressisti” che martellavano da tutte le parti.

Ci avete pensato? Ve lo ricordate? Bene. Che la ministra del precedente governo piacesse o no si può dire nei fatti che abbia preso alcuni provvedimenti: ha stanziato 2 miliardi aggiuntivi per finanziare le nuove cattedre nella scuola, stanziò i fondi per coprire le cattedre di sostegno (25mila posti in più), mise 335 milioni di euro per rinnovare gli arredamenti delle scuole, stanziò fondi aggiuntivi sull’edilizia scolastica “leggera” per tutti gli interventi che potevano ampliare o recuperare spazi (660 milioni, metà ai dirigenti scolastici, metà agli enti locali), ci fu un grande screening di massa. Questi sono i numeri.

Un anno dopo della scuola non parla più nessuno. Non si sa esattamente quali precauzioni verrano prese in classe (non c’è un dibattito, siamo passati da quello infuocato dell’anno scorso a quello inesistente di quest’anno) e non si sa nulla di un eventuale screening. E poi ci sono i numeri (numeri, badate bene, dopo più di un anno di pandemia che avrebbe dovuto insegnarci qualcosa): stima del fabbisogno delle aule aggiuntive? Per ora non se ne sa niente. I soldi per le cattedre aggiuntive (si dice sui 2 miliardi)? Non se ne sa niente. Fondi aggiuntivi per l’edilizia scolastica (leggera e pesante)? Nulla di stanziato. Dibattito? Zero.

Si sa (lo si capisce) che molto probabilmente si chiederà la vaccinazione agli insegnanti e quindi si può ipotizzare che gli insegnanti che non accetteranno la vaccinazione verranno spostati a altro incarico e quindi presumibilmente serviranno altri insegnanti.

Sia chiaro, qui non si difende a spada tratta Azzolina ma si sottolinea una certa differenza di trattamento, di dibattito pubblico (che fa solo bene in una sana democrazia), un improvviso cambio di atteggiamento.

Siamo sicuri che i giudizi siano tutti intellettualmente onesti?

A proposito: anche il governo Draghi ha ordinato i banchi a rotelle.

Va così. Buon venerdì.

Il tempo dell’ingiustizia

Foto LaPresse/Giordan Ambrico 01/03/2019, Torino (Italia) cronaca Inaugurazione anno giudiziario Corte dei Conti Nella foto: toga Photo LaPresse/Giordan Ambrico March 01, 2019 , Torino (Italy) news inaugurates the judicial year of the Court of Auditors In the pic: toga

Forse non è un caso che Orson Welles abbia scelto di girare nel Palazzo di Giustizia di Roma alcune scene de Il processo dall’omonimo libro di Franz Kafka. La triste vicenda di Josef K. che rimane inghiottito in un vortice giudiziario incomprensibile e interminabile, ben rispecchia la realtà della giustizia penale italiana, nota per l’eccessiva durata dei processi e per il sovraffollamento carcerario. Sono passati due anni da quando l’ex ministro Alfonso Bonafede ha tentato malamente con la legge “Spazzacorrotti” di intervenire sul suo malfunzionamento. La riforma ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sebbene i dati ci dicano che la maggioranza delle prescrizioni avvenga prima della sentenza di primo grado. Il solo effetto di quella riforma è stato quello di spianare la strada a processi potenzialmente infiniti. L’intervento normativo doveva essere accompagnato da una riforma strutturale che però non è mai arrivata.

A imporre una riforma per abbreviare i tempi della giustizia ci ha poi pensato l’Europa che ne ha fatto una condizione per la concessione dei fondi del Recovery plan, e questa incombenza è caduta sulla neo ministra Marta Cartabia e la sua squadra. L’impresa è titanica, sulla giustizia penale non è mai stato facile trovare un accordo e il governo Draghi è composto da forze politiche che sul tema non potrebbero essere più lontane.

Tuttavia, dopo mesi di consultazioni e reciproche rinunce, il…


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Alla ricerca del tempo libero perduto

Infinite riunioni su Zoom, fino a tarda ora (perché in smartworking non si stimbra mai), che magari sarebbero potute essere qualche mail. Turni estenuanti nelle corsie dei supermercati, o negli altri avamposti produttivi e distributivi, a continuo rischio di contagio. Niente svago quando si stacca, negato dal combinato lockdown-coprifuoco che ha azzerato anzitutto la nostra dimensione culturale e ricreativa. Poche possibilità di spostarsi per una vacanza, per coloro che se lo potevano permettere. Relazioni interpersonali perlopiù congelate.

Per oltre un anno, al di là di qualche tregua concessa dal virus, è stato questo il copione delle esistenze di milioni di persone. Una condizione che ha portato molti individui a porsi interrogativi sulla propria vita lavorativa, specie per chi ha un impiego poco soddisfacente, oppure del tutto inutile, privo di senso. Quei bullshit jobs, fondamento del capitalismo globale contemporaneo, che l’antropologo radicale David Graeber ha saputo identificare e descrivere con schiettezza e ironia.

«Abbiamo avuto tutti un anno per valutare se la vita che stiamo vivendo è quella che vogliamo vivere» ha sintetizzato Christina M. Wallace, docente alla Harvard business school, a Kevin Roose del New York times, in un articolo che ha fatto discutere in tutto il mondo, dedicato alla Yolo economy. L’acronimo sta per you only live once, “si vive una volta sola”. Il neologismo coniato dal Nyt indica l’atteggiamento post pandemico adottato da molti giovani millennial che, incoraggiati da un mercato del lavoro in ripresa e dalla crescita delle vaccinazioni (malgrado le indecenti parate no vax tenutesi in varie parti del mondo) e forti dei risparmi raggranellati durante mesi di sopravvivenza casalinga, mostrano una più elevata propensione a rinunciare al “mito della carriera”, a rifiutare impieghi anche stabili ma poco flessibili oppure poco soddisfacenti, per ricercare un’attività che restituisca maggior senso alla propria vita.

Più in generale, il punto è che, dopo 17 mesi di emergenza sanitaria, milioni lavoratrici e lavoratori di ogni età sono sfiniti. Diverse grandi aziende, in particolare fra quelle più moderne e a più alto valore aggiunto, si sono attivate per alleviare la sofferenza psicologica dei propri dipendenti e prevenire il burnout. Solo per fare alcuni esempi: LinkedIn ha concesso nei mesi scorsi alla maggior parte dei propri lavoratori una settimana retribuita, mentre ai dipendenti di Twitter è stato concesso un giorno libero in più al mese per riposarsi nell’ambito di un programma chiamato #DayofRest.

Ma – per fortuna – la prospettiva di incrementare il tempo libero, riducendo la settimana lavorativa senza toccare il salario, non rappresenta solo una cortesia aziendale: in varie parti del globo si sta concretizzando come diritto per iniziativa dei governi, grazie alle lotte di sindacati e partiti di sinistra.

In Islanda, tra il 2015 e il 2019, l’esecutivo e il Comune di Reykjavik hanno condotto un esperimento per valutare gli effetti di una settimana lavorativa di quattro giorni. I test hanno riguardato una platea di 2.500 lavoratori pubblici (uffici, servizi sociali, scuole materne, ospedali) che rappresentano l’1,3% della forza lavoro del Paese. I lavoratori coinvolti hanno visto le proprie ore lavorative ridursi da 40 a 36 oppure 35 a settimana, mentre la loro retribuzione è rimasta invariata. I risultati della prova? I ricercatori del think tank britannico Autonomy e dell’Associazione islandese per la democrazia sostenibile li hanno raccolti di recente in un rapporto. Nel testo, di oltre 80 pagine, parlano di un «successo travolgente». La produttività e la fornitura di servizi sono ovunque cresciute o rimaste invariate. Mentre è aumentato in modo considerevole il benessere dei lavoratori, come segnalano i vari indicatori: dallo stress percepito, alla salute, al bilanciamento tra vita e lavoro.

I sindacati islandesi, che hanno svolto un ruolo da protagonisti in questa sperimentazione, hanno saputo capitalizzare subito i primi risultati positivi emersi negli anni scorsi. Senza perdere tempo, grazie ad una serie di contratti negoziati tra il 2019 e il 2021, sono riusciti a strappare per l’86% dei lavoratori del Paese (la popolazione islandese conta circa 350mila abitanti, quelli che lavorano sono meno di 200mila) una riduzione dell’orario di lavoro o la facoltà di negoziarla in futuro. Per chiarire meglio la dinamica di questa vittoria, va ricordato che i Paesi del nord Europa vantano la più alta densità sindacale del mondo – sebbene negli ultimi anni sia in calo.

Will Stronge, direttore della ricerca ad Autonomy, ha dichiarato alla Bbc: «Questo studio mostra che il più grande esperimento al mondo di lavoro su una settimana corta nel settore pubblico è stato un grande successo. Mostra che il settore pubblico può essere pioniere per un sistema di lavoro con meno giorni lavorativi in settimana e può essere di esempio per altri governi».

Per riuscire a mantenere il medesimo livello di servizi e ridurre le ore lavorate, le realtà che hanno partecipato ai test islandesi hanno dovuto ripensare la propria organizzazione interna. Tra le innovazioni più frequenti: taglio dei compiti inutili, ottimizzazione dei turni, abbreviamento delle riunioni. Certo, in alcuni casi il nuovo modello lavorativo ha comportato costi in più. In particolare nel settore ospedaliero, il governo islandese ha dovuto assumere più dipendenti per compensare le ore perse.

Quello islandese, comunque, è solo uno dei vari esperimenti di questo genere. In Spagna lo scorso marzo il partito di sinistra Más País ha raggiunto un accordo col governo per un progetto pilota che testerà la riduzione della settimana lavorativa da 5 a 4 giorni, da 40 ore a 32. La sperimentazione si spalmerà in un periodo di tre anni, coinvolgendo circa 200 imprese di media dimensione. Vi parteciperanno tra i 3mila e i 6mila lavoratori. Lo Stato si farà carico di tutti i costi della transizione nel primo anno, della metà nel secondo e di un terzo nell’ultimo anno di test, utilizzando fondi europei. Requisiti per usufruire degli aiuti: non tagliare il personale e non ridurre gli stipendi. L’obiettivo, di nuovo, è ripristinare una quotidianità più umana per lavoratrici e lavoratori. Perché «la quarta ondata sarà quella della salute mentale», ha dichiarato il leader di Más País Íñigo Errejón, aprendo il dibattito in Parlamento. In Giappone, per citare un altro esempio, proprio nelle scorse settimane il governo ha inserito nelle linee guida del Piano economico annuale un’indicazione per le aziende affinché lascino scegliere ai propri dipendenti se lavorare 4 o 5 giorni alla settimana.

E in Italia? In base a dati elaborati dall’Ocse nel 2019 risulta che il Belpaese sia medaglia di bronzo dell’area Euro nel triste campionato delle ore lavorate per settimana, 33, tre ore in più rispetto alla media di 30 ore. Peggio di noi fanno solo Grecia ed Estonia. In Germania si lavora ben sette ore in meno alla settimana. Sopra alla media europea si posizionano anche Irlanda, Portogallo, Slovacchia, Lettonia, Slovenia e Lituania, e appunto Spagna.

Alla luce di questi dati, sarebbe dunque importante che si avviasse un dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario anche nel nostro Paese. Ma così non è. L’ultima iniziativa di questo tipo realmente discussa in Parlamento è stata quella di Rifondazione comunista, nel 1997 (l’anno successivo una storica legge di questo tipo veniva introdotta in Francia, con esiti tra luci e ombre). Poi, nel 2019, Sinistra italiana ha presentato assieme al sociologo Domenico De Masi una nuova proposta di legge, per lavorare meno, lavorare tutti, a parità di salario. Il progetto si sarebbe dovuto finanziare, almeno in parte, con una tassa patrimoniale. Infine, nel maggio 2020, a pandemia inoltrata, è stata la task force istituita dal ministero dell’Innovazione a riportare in auge il tema. In una relazione sull’impatto economico della crisi sanitaria si leggeva: «La necessità di garantire il distanziamento assieme alla difficoltà di svolgere il lavoro utilizzando protezioni (guanti, mascherine, etc.) suggeriscono una riduzione sostanziale dell’orario di lavoro… Tale riduzione dovrebbe avvenire a salario invariato con un contributo dello Stato (si noti che costa allo Stato meno della cig a zero ore)». Entrambe le proposte, però, sono state rapidamente accantonate dalla politica (mentre Renzi addirittura blatera di abrogare via referendum il reddito di cittadinanza, affiancandosi alle destre che non l’hanno mai voluto) e anche dai sindacati. 

Perché? Simone Fana, autore di Tempo rubato, ha interpretato così la motivazione del disinteresse nei confronti di questa lotta: «Non è stato più un argomento perché sostanzialmente, per trent’anni, l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi. Bisognava lavorare di più per produrre di più, e questo ha ispirato tutte le politiche economiche del lavoro degli ultimi anni. La riduzione degli orari veniva vista come qualcosa che avrebbe ridotto la produttività e che avrebbe compromesso sostanzialmente la crescita. Non è stata considerata una politica efficace perché si è martellato costantemente sul fatto che lavorando di più il reddito da distribuire fosse più ampio, e fosse quindi più utile aumentare gli orari di lavoro piuttosto che ridurli».

Ora, però, una nuova consapevolezza di sé dettata dalla pandemia – uno dei pochi, forse l’unico lascito positivo di questa epocale tragedia – potrebbe ridare linfa alla lotta per una esistenza più dignitosa in cui il lavoro non debba assorbire per forza tutte le proprie energie e in cui meno persone si trovino prive di reddito. Sta alla sinistra accorgersene e trasformarla in una rivendicazione concreta.

 


L’articolo è tratto da Left del 30 luglio – 5 agosto 2021

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Lavorare tutti, vivere meglio

Tempo libero, tempo liberato. C’è bisogno di tempo per riprendere in mano la propria vita, per rigenerarsi, dedicando tempo agli affetti, alla qualità delle relazioni, alla socialità. Lo sanno bene i lavoratori del settore sanitario, della logistica, delle fabbriche, dei supermercati che durante la pandemia non si sono mai fermati.

L’ideologia della produttività a tutti i costi, che dopo la fine del lockdown si è tradotta nella corsa forsennata al recupero del profitto perduto, si è rivelata criminale come hanno reso evidente fatti drammatici come la strage del Mottarone e la morte sul lavoro della giovane Luana D’Orazio.

Due casi tristemente emblematici dietro ai quali ce ne sono centinaia di altri, uno stillicidio quotidiano di morti sul lavoro che troppo spesso non fanno neanche notizia. Manomissione dei freni per accelerare l’attività e accogliere più turisti in un caso. Manomissione dei dispositivi di sicurezza dell’orditoio per accelerare la produttività e tenere il passo con la concorrenza internazionale nell’altro. Queste le ipotesi degli inquirenti. Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva ma non rifletteremo mai abbastanza sulla crudele insensatezza di quanto è avvenuto. Così come sulla uccisione del sindacalista Adil Belakhdim investito da un camionista che doveva consegnare a tutti i costi entro i tempi stabiliti.

Non sono purtroppo eventi casuali ed eccezionali se come ci dice l’indagine dell’Inail le morti sul lavoro sono aumentate dell’11% rispetto al 2019.

C’è bisogno di una riflessione radicale sul senso, sulla sicurezza e sulla qualità del lavoro in questa Italia che attende ancora di vedere segnali di ripresa, nonostante i primi stanziamenti dei fondi del Pnrr, in questa Italia dove lo sblocco dei licenziamenti ha sdoganato i tagli e le scelte dissennate e selvagge delle multinazionali come Whirlpool e Gkn che hanno mandato a casa centinaia di lavoratori dall’oggi al domani, dopo aver goduto di finanziamenti pubblici e non soffrendo di una crisi di settore.

C’è bisogno di un piano industriale per creare posti di lavoro, ma anche di un ripensamento complessivo del sistema capitalistico che impone turni di lavoro estenuanti a lavoratori sfruttati (a livello di schiavismo come è emerso dal blitz anti caporalato presso la più grande azienda di stampa italiana, la Grafica Veneta) mentre la disoccupazione è schizzata a livelli altissimi. C’è bisogno di quella riforma degli ammortizzatori sociali che andava portata a termine prima dello sblocco dei licenziamenti (come aveva proposto il ministro Orlando) ma c’è bisogno anche di un sistema più generalizzato di reddito di sostegno, perché troppi sono rimasti esclusi dai ristori. «Dove sta la tanto invocata “coesione sociale” che dovrebbe caratterizzare la transizione ecologico-digitale-infrastrutturale sospinta dalle enormi risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza?» si domanda giustamente l’ex ministro del lavoro e sindacalista Cesare Damiano in questo sfoglio di copertina.

Sui media mainstream veri approfondimenti su questi temi trovano pochissimo spazio, mentre molto ne ottengono ex presidenti del Consiglio che inneggiano al sistema lavorativo schiavistico dell’Arabia Saudita e, insieme alle destre, non trovano di meglio da fare che proporre un referendum abrogativo del reddito di cittadinanza. Beninteso non che sia una misura senza difetti (a cominciare dalla questione dei navigator, precari impiegati per trovare un lavoro ad altri). Ma in tempi in cui è aumentata a dismisura la povertà abolirlo non sarebbe certo d’aiuto.

Semmai sarebbe molto proficuo seguire l’esempio della Germania e di molta parte d’Europa riguardo a misure come il salario minimo. A questo riguardo è interessante quanto sta accadendo a Bruxelles dove è in discussione una direttiva che promuove una soglia retributiva minima al di sotto della quale non si può scendere. L’obiettivo è la lotta alle disuguaglianze e al lavoro povero, come scrive su Left il presidente del Partito della sinistra europea Heinz Bierbaum, approfondendo la scelta del governo tedesco di aumentare il salario minimo. Tema, purtroppo, quasi del tutto sparito nel dibattito italiano. Ancor più coraggioso e lungimirante è la proposta che viene da alcuni Paesi nordici (ma non solo) di sperimentare la riduzione di lavoro a parità di salario. Lavorare meno e lavorare tutti, sarebbe l’auspicio in un quadro di difesa del settore pubblico e dei servizi sociali. Un esponente politico di primo piano come la premier finlandese Sanna Marin ha rilanciato il dibattito su questo tema più di un anno fa. Una proposta diventata esperimento concreto in Islanda come ricostruisce su questo numero l’inchiesta di Leonardo Filippi, raccontando anche di analoghi tentativi in Spagna e della discussione che ha preso forza ora anche in Giappone.

Abbiamo un po’ provocatoriamente intitolato “Diritto all’ozio” questa nostra nuova storia di copertina dedicata al lavoro, pensando all’otium letterario dei latini, a quel diritto ad avere tempo per leggere, studiare, creare che dovrebbe essere di tutti e non solo di chi può permetterselo. Ricordando quel che diceva Marx riguardo al tempo liberato dal lavoro che ognuno dovrebbe poter dedicare all’arte e proprie passioni. Ma l’ozio si sa è sempre stato il demonio per la religione cristiana alleata al capitalismo che predica il lavoro, come fatica, come espiazione. Invece questa parola potrebbe essere degnamente rispolverata in un progetto di riorganizzazione radicale della società e del mondo del lavoro che metta al centro la dimensione umana, l’individuo con i suoi bisogni ed esigenze di realizzazione di sé nel rapporto con gli altri, il potenziale creativo della collettività. Tema affascinante e ancora tutto da esplorare per mettere in moto processi di trasformazione che non distruggano il pianeta e modelli di sviluppo non più basati sullo sfruttamento.


L’editoriale è tratto da Left del 30 luglio – 5 agosto 2021

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Cari G20, cultura è anche lavoro e dignità

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 23-07-2021 Roma , Italia Cronaca Lazio terra di cultura, inaugurazione del restauro della biblioteca lancisiana Nella foto: Il Presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, il ministro della cultura Dario Franceschini, intervengono all’ inaugurazione della biblioteca nel complesso monumentale di Santo Spirito Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 23, 2021  Rome, Italy News Lazio land of culture, inauguration of the restoration of the Lancisiana library In the photo: The President of the Lazio region Nicola Zingaretti, the minister of culture Dario Franceschini, intervene at the inauguration of the library in the monumental complex of Santo Spirito

Roma, 29-30 luglio: occupando monumenti simbolo e palazzi storici della città – e dell’umanità – i ministri delle 20 economie più potenti della Terra si ritrovano per parlare di cultura, a quasi due anni dall’inizio della crisi pandemica che ha “scoperto” i nervi tesi del settore. I temi centrali da loro trattati sono tre: tutela del patrimonio dal traffico illecito; tutela del patrimonio dall’emergenza climatica; patrimonio e formazione. Infinita la lista di temi assenti, ma in una riunione di poche ore (si inaugura con una cerimonia il 29 luglio alle 19, si chiude alle 17 del giorno successivo), che punta a pubblicare anche il più classico dei documenti congiunti, era difficile, se non impossibile, trattare di tutti i temi caldi.

Eppure le scelte dicono molto, sia logistiche, sia tematiche. Sembra la solita riunione diplomatica per assicurare il buon funzionamento della cooperazione internazionale, eppure in realtà questa volta non c’è niente di “normale”. Non è normale il contesto in cui si svolgeranno i lavori, non sono normali le premesse e non lo è nemmeno il dibattito, monopolizzato dagli stessi schemi – fallimentari – del passato prossimo. Le estreme condizioni di precariato e di lavoro sottopagato sono infatti totalmente assenti dalle discussioni del G20 e da anni vengono ignorate dalla politica italiana ed internazionale. Non si tratta di un problema esclusivamente italiano, anzi: la perdita di sicurezza sul posto di lavoro è un trend in crescita stabile in quasi tutte le economie del G20 che dovrebbe essere alla base di qualsiasi ragionamento culturale sul settore, perché nel settore possiede delle caratteristiche proprie e peculiari che spesso lo rendono “immune” alle poche politiche volte a tutelare il lavoro in senso lato.

Il caso più esemplificativo è quello dei sussidi durante la pandemia, che per molte categorie lavorative “anomale”, come chi non vedeva rinnovato un contratto in scadenza, non sono mai stati disponibili, mentre sono andati a concentrarsi sulle realtà che erano più ricche nel 2019. La difficoltà nel regolare un settore caotico nelle sue fondamenta rende quasi vano affrontare altri discorsi: il buon lavoro è alla base non solo della qualità della vita (e di riflesso dei servizi offerti) delle operatrici e degli operatori, ma aiuta a garantire il rispetto di norme di tutela del patrimonio, contro la corruzione e lo sfruttamento, che…

*

Oltre il G20 – Senza cultura, nessun futuro è il tema della due giorni di mobilitazione a Roma organizzata dal movimento e associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, insieme con altre associazioni del settore tra cui Italia nostra, Associazione Bianchi Bandinelli, Associazione nazionale archivistica italiana, Associazione italiana biblioteche, oltre al sindacato Usb. Il 30 luglio è in programma la conferenza stampa dei promotori dell’evento dopo il presidio, l’assemblea e la discussione di temi e proposte che si tengono il 29 luglio a Largo Gaetana Agnesi. @miriconoscibeniculturali   


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Il diritto di non vincere

Il poker d’assi l’ha buttato Repubblica con una muscolare paginetta in cui ha messo una di fianco all’altra Federica Pellegrini (la nuotatrice italiana che a 33 anni ha guadagnato una splendida finale) e dall’altra Simone Biles a stella americana della ginnastica che il pubblico vedeva già circondata di ori, e che ieri ha dichiarato di voler rinunciare alle Olimpiadi di Tokyo per dedicarsi alla cura della sua salute mentale: “La forza e la fragilità”, titola Repubblica e più sotto il sottotitolo “La forza e la fragilità, le donne protagoniste a Tokyo. Pellegrini infinita, Biles in tilt”.

Accade con Repubblica ma accade in realtà ogni volta che qualcuno, un persona qualsiasi, decide di arrogarsi del diritto di non provare a vincere, di non dedicarsi al ruolo che pubblicamente lo definisce (come se non avesse un’identità proprio fatta di mille rivoli) e accade ogni volta che qualcuno ha il coraggio di dire al mondo che in quel momento no, proprio non ce la fa. Il diritto di essere fragili è diventata un’onta che si deve scontare, come se fosse un tradimento alla narrazione generale che invece ci vuole sempre felici, sempre vincenti, sempre performanti, sempre sorridenti. Sempre instagrammabili, si potrebbe dire per condensare il dovere di questo tempo con un cacofonicisissimo neologismo.

Siamo ancora ai tempi in cui il modello è quello dell’infallibilità nonostante sia una truffa: siamo essere fallibili e imperfetti, perdiamo tutti noi decine di volte al giorno, sconfitte minime, delusioni che si posano come polvere. Io, non so voi, mi deludo tutti i giorni, più volte al giorno, prima e dopo i pasti, di solito mi delude già la colazione che mi immagino epocale quando apro gli occhi e invece è la mia prima sconfitta. Ma se lo dici sei un perdente.

Il diritto alla fragilità andrebbe aggiunto nella Costituzione, bisognerebbe cominciare fin da piccoli a raccontare come sia coraggioso dirsi che no, che quella parte in cui ho primeggiato non è mica un ruolo che riesco a tenere sempre e per sempre. Vincerò ancora, sicuro, ma poi perderò moltissimo e ce la metterò tutta a imparare a perdere ogni volta un po’ meglio.

Dentro c’è tutta la stortura con cui oggi si guarda pregiudizialmente il disagio mentale, che continua a essere uno stigma perché a differenza delle altre malattie non sanguina e non si vede dalle lastre e c’è dentro anche un machismo sentimentale che fa a gara a scovare i deboli dappertutto, nelle diverse situazioni, con tutte le loro diverse declinazione.

Eppure basterebbe pensare che dietro a un vincitore perché risulti primo c’è una lunga sequela di sconfitti e che al di là del risultato sportivo forse sarebbe il caso di cominciare a scrivere anche un’apologia dei secondi perché lì c’è il 99% del mondo. Mollare una gara (che sia sportiva o che sia una delle mille gare quotidiane che corriamo ogni giorno nella nostra quotidianità) significa avere cura di se stessi e consapevolezza delle proprie forze. Sicuramente non ti fa vincere una medaglia, certo, ma lì dentro ci vedo un coraggio non indifferente.

Dice Simone Biles che in questo momento non riesce a tenere “il mondo sulle spalle” e “il mondo” tutto intorno si è risentito additandola come debole: in fondo ha confermato la tesi.

Buon giovedì.

«La storia siamo noi». Perché ci serve oggi la ricerca della Rete No Global

A demonstrators-plenum on July 21, 2001 during the 27th G8 summit in Genoa, Italy Photo by: Marijan Murat/picture-alliance/dpa/AP Images

«La memoria è lotta». Così recitava la maglia indossata da Haidi Giuliani in piazza Alimonda il 20 luglio scorso in un’assolata Genova. In quelle parole c’è un significato profondo, che bisogna saper cogliere. In queste giornate, una delle cose che più si è ripetuto di più è che «avevamo ragione noi». Purtroppo, però, non basta dirlo e, a furia di ripeterlo, si corre il rischio di divenire grotteschi e petulanti. Non è per questo che bisogna ricordare. Ciò che il movimento no global intuì fu il fatto che il capitalismo, segnatamente nella sua versione globalizzata e neoliberista, avrebbe favorito la concentrazione della ricchezza fra le mani di pochissimi super-potenti a discapito dell’umanità e del pianeta in cui abitiamo.

Durante il ventennale del G8 ci sono stati molti momenti di aggregazione e belle manifestazioni che non si vedevano da tempo. Si è celebrato – com’era doveroso fare – il ricordo di Carlo. Nei telegiornali e sulla stampa, per la prima volta, si è aperto uno squarcio di verità sulle violenze brutali compiute da reparti scelti delle forze dell’ordine a danno di centinaia di migliaia di manifestanti inermi che scesero in piazza per contestare il G8. Amnesty International ha rilanciato una campagna per chiedere il numero identificativo degli agenti in divisa. Sono tutti alcuni significativi passi in avanti. Ma non basta. Spenti i riflettori sulla ricorrenza, non sono emerse le ragioni reali per cui, dal 1999 al 2002, il movimento no global si mobilitò in tutto il pianeta per contestare i vertici della Banca Mondiale, del Fmi, del Wto, dell’Ocse e di un’infinità di altri macro-organismi che riuniscono i Paesi a capitalismo avanzato e in cui si discutono i diktat neoliberisti che vengono imposti ai tre quarti dell’umanità. E non basta anche perché nei diversi ambiti in cui si è parlato del movimento no global si danno per scontate una serie di cose, che non lo sono affatto.

Troppo spesso si scade in un discorso retorico sulla spirale violenza/repressione di cui è importante parlare, ma che non può sussumere l’intero dibattito sulla contestazione al capitalismo e sull’immaginario di un’intera generazione che si mobilitò contro l’ordine costituito. In Italia, quando si parla dei “no global”, ci si riferisce essenzialmente all’esperienza di Genova, ma non la si contestualizza, né la si approfondisce, preferendo allo studio e alla ricerca, l’artifizio degli slogan raccontati attraverso le immagini. È fondamentale spiegare soprattutto a chi non c’è stato cosa sia realmente accaduto.

La contestazione al G8 non nacque per puro caso, ma venne preceduta da una lunga preparazione e da un’incubazione tanto delle strategie del dissenso, quanto della repressione. L’episodio-chiave, che nell’analisi generale del movimento finora è incredibilmente stato omesso, è la contestazione al Global Forum dell’Ocse che si svolse nel marzo 2001 a Napoli. Decine di migliaia di persone, provenienti da tutta Italia e da diversi Paesi d’Europa, per quattro giornate si mobilitarono contro il capitalismo pochi mesi prima del G8 e sperimentarono sulla loro pelle tanto la «macelleria messicana», quanto il continuismo fra centrodestra e centrosinistra nella gestione del dissenso. Non a caso, sia col governo Amato (Napoli), sia col governo Berlusconi (Genova), il capo della Polizia fu Gianni De Gennaro.

La corretta ricostruzione di ciò che accadde su scala planetaria è stata oggetto di ricerca dell’opera: Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global (DeriveApprodi, pg. 320, euro 20) da me curata, cui hanno partecipato decine di attivisti, lavoratori, intellettuali, esponenti della società civile. Questo lavoro, che avanza per la prima volta l’arduo compito di un bilancio politico, rifugge dalla retorica o dal “reducismo”, affrontando a viso aperto una vasta gamma di aspetti anche controversi che segnarono il movimento no global. Il punto focale di questo lavoro risiede nel voler spiegare a chi non ha vissuto quella formidabile stagione di lotte ciò che è realmente accaduto. Per farlo, si è scelto stilisticamente di costruire un ibrido letterario, o uno scritto ipertestuale, che ricomponesse le trame di quel movimento, riproducendone fedelmente i linguaggi, le culture, i punti di vista.

Ne è nato un libro suddiviso in cinque sezioni: una narrativa, il cui autore è lo studioso Francesco Festa; una di inchiesta giornalistica, in cui si ricostruisce sul campo la cronistoria della Rete No Global, descrivendone la genesi, le pratiche, la composizione di classe in relazione al contesto del Mezzogiorno. Fra le numerose testimonianze spicca quella di Don Vitaliano Della Sala, il parroco no global, che ha contribuito al libro con un’intervista e delle lettere finora inedite. Poi, si passa all’incubazione del G8 di Genova, documentando rigorosamente le violenze perpetrate a danno dei manifestanti tanto in piazza quanto nella Caserma Raniero, su cui – dopo la produzione di un libro bianco – ne scaturì un’inchiesta giudiziaria ad ispettori e funzionari della Polizia di Stato, che ha avuto dopo dodici anni un esito controverso. Segue poi, un’importantissima sezione archivistica, cui ha dato un fondamentale contribuito il ricercatore Fabrizio Greco, e una sezione visiva, cui hanno contribuito le foto di Luciano Ferrara, le grafiche di Massimo Di Dato/Karl Max e i manifesti di Francesco Sollazzo.

L’idea è quella di costruire una narrazione corale del movimento no global, dando a chi non è stato in quelle mobilitazioni tutti gli strumenti conoscitivi per potersi formare un’opinione, sfuggendo a cliché e revisionismi. Conoscere realmente cos’è accaduto in passato, ci può aiutare a ricostruire conflitto contro le ingiustizie odierne. In base alle stime della rivista Forbes, durante la pandemia da Covid-19, sono addirittura aumentati i super-ricchi nel mondo, grazie a piattaforme di e-commerce, iper-sfruttamento del lavoro, devastazione ambientale. Non dobbiamo fare in modo che la memoria si ossifichi o subisca un processo di svuotamento dal suo portato reale. Il capitalismo si presenta come l’ultimo stadio evolutivo della nostra specie. Siamo più che mai una società posata sulla proprietà privata (lo vediamo col tema dei vaccini), sulle disuguaglianze, sul divario ricchi/poveri, nord/sud, guerra/barbarie. Dovremmo, però, ricordare uno degli slogan del movimento no global, troppo spesso dimenticato: «la storia siamo noi» e sulla strategia gramsciana di quell’esperienza, capace di unire e mobilitare interi settori della società.

Nella foto i manifestanti a Genova 2001

Quegli schiavi ci riguardano

Sempre a proposito dei lavoratori-schiavi che secondo la Procura di Padova sarebbero stati presi in subappalto da Grafica veneta (l’azienda che tutto il Veneto elogiava come punta di diamante dell’imprenditoria dalle parti di Zaia) sono usciti alcuni particolari dell’indagine che tornano molto utili non tanto a farsi un’idea su questa vicenda (ci sarà un processo, deciderà un giudice) ma almeno a capire come sia avvenuta la graduale distruzione dei diritti sul lavoro e quindi, di conseguenza, il crollo dei salari.

Il 7 luglio del 2020 i carabinieri si presentano nella sede dell’azienda a Trebaseleghe per sequestrare alcuni documenti che regolano i rapporti tra Grafica veneta e Bm service (l’azienda pagata per reclutare gli schiavi, controllarli e nel caso punirli). Nei mesi precedenti cinque persone di nazionalità pachistana erano state ritrovate pestate e legate ai bordi delle strade e altre cinque si erano presentate al Pronto soccorso lamentando botte e sevizie. I lavoratori lavoravano 10, 12, 16 ore al giorno per uno stipendio di 1.100 euro che veniva decurtato di 120 euro per l’affitto e ulteriori 200, 300 o 400 euro.

L’azienda veneta si difende dicendo di non saperne niente (come se fosse comunque normale subappaltare la manodopera fottendosene delle condizioni in cui lavora) ma il gip la pensa diversamente: «Grafica veneta è perfettamente consapevole del numero di ore necessarie per svolgere il lavoro che appalta e non a caso, disponendo delle timbrature dei dipendenti Bm Service, ha fatto di tutto per non consegnarle alla Polizia giudiziaria», scrive nell’ordinanza.

Il procuratore di Padova, Antonino Cappelleri, ha spiegato bene il sistema durante la conferenza stampa seguita al blitz: «La particolarità di questo caso di caporalato è la complicità, che credo siamo riusciti a dimostrare in pieno, dell’azienda italiana con quella gestita dai pakistani, nonostante le solide condizioni economiche e la possibilità di operare in maniera regolare. Sono riusciti a delocalizzare un settore nella loro stessa sede, appaltando manodopera a prezzi bassissimi».

Secondo il gip, «è l’amministratore delegato che indica il numero di persone da assumere, soffermandosi anche sulle tipologie di contratto da utilizzare e sull’attività di vigilanza che pretende sia fatta sui dipendenti». Inoltre, il giorno dell’arrivo dei carabinieri, l’analisi delle telefonate tra Bertan e Pinton (amministratore delegato e dirigente di Grafica veneta) relative agli ingressi e alle presenze degli operai, «dimostra che i due fanno di tutto per non comunicare quei dati in quanto avrebbero provato il loro pieno coinvolgimento nello sfruttamento dei lavoratori». Il gip scrive: «Addirittura, vi sono state telefonate in cui i dirigenti della Grafica hanno detto al proprio tecnico di non consegnare nulla e cancellare i dati, disperandosi una volta appreso che la Polizia giudiziaria era comunque riuscita ad acquisire un dato parziale». Bertan a Pinton: «Mi raccomando con le timbrature». Bertan invita il titolare pakistano di Bm service a parlare «ai suoi operai affinché rispondano bene». Bertan chiede a Pinton: «Noi gli abbiamo dato le timbrature?». E si sente rispondere: «No…se le sono prese loro dal computer per quanto riguarda gli ingressi e le uscite. Nell’aprire il programma hanno visto tutto». A quel punto Bertan non usa mezze parole: «Ci siamo inculati da soli».

Quegli schiavi ci riguardano. Quegli schiavi sono la fotografia di un modo di fare impresa che subappalta i diritti al migliore offerente che per stare nel prezzo i diritti li maciulla senza troppe cortesie. Dietro quegli schiavi c’è quella stessa imprenditoria che si lamenta di non trovare altri schiavi puntando il dito sui sussidi e sul reddito di cittadinanza. Dietro quegli schiavi c’è la riflessione che manca a un pezzo dell’imprenditoria italiana che fa la morale agli altri ma ha un enorme questione morale che finge di non vedere.

Buon mercoledì.