Home Blog Pagina 393

Una firma contro l’ambasciatore che cantava nella band fascio-rock

È passato un mese dallo sconcertante e inaspettato insediamento di Mario Vattani a capo dell’Ambasciata italiana a Singapore ma (fortunatamente) non si è placata l’indignazione della società civile. In pochi giorni una petizione su change.org per chiedere al presidente Mattarella di revocare la nomina è arrivata a quasi 150mila firme*. E questo è un buon segnale.

Del resto in tanti ancora ci si chiede come sia stato possibile dirottare a Singapore, crocevia economico e commerciale del Sud est asiatico, l’ex console di Osaka nonostante le sue dichiarate simpatie per il Ventennio, culminate giusto dieci in un concerto con il suo gruppo musicale fascio-rock, organizzato da CasaPound, tra saluti romani e canzoni contro la Repubblica italiana e i partigiani, in cui Vattani svelò di essere il misterioso cantante dal volto mascherato.

È davvero possibile che il ministro Di Maio, colui che ha suggerito la nomina di Vattani al Cdm, non sapesse o non ricordasse il motivo per cui Vattani era stato richiamato dal Giappone? Eppure di quel concerto se ne è parlato tanto, anche attraverso diverse interrogazioni parlamentari del 2012, ma tant’è.

Tra i tanti che ancora non si capacitano della nomina, compresa l’Associazione nazionale partigiani, spicca il nome dell’ex-ambasciatore Calogero Di Gesù al quale abbiamo chiesto un commento. «Per prima cosa – dice Di Gesù – desidero ricordare l’articolo 54 della Costituzione in cui c’è scritto: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.

E già questo basterebbe per comprendere come Mario Vattani, per i comportamenti trascorsi e ripetuti negli anni, sia strutturalmente inadatto alle funzioni diplomatiche e tanto meno alla rappresentanza dell’Italia all’estero che richiedono equilibrio, obiettività e aderenza ai valori dell’attuale Repubblica».

Si tratta, prosegue l’ex ambasciatore di un preoccupante vulnus per la democrazia perché «per la prima volta dal secondo dopoguerra è stato nominato a rappresentare l’Italia all’estero un ambasciatore dichiaratamente vicino agli ambienti della destra estrema». Secondo Di Gesù «è un precedente gravissimo che potrà avere delle conseguenze ancor più gravi, poiché rotto questo tabù potranno essere pian piano nominati a ricoprire ruoli istituzionali altri individui legati a movimenti politici o correnti ideologiche distanti dai valori fondanti della nostra Repubblica».

Dopo quel concerto, richiamato da Osaka, per dieci anni Vattani ha svolto il suo lavoro da funzionario ministeriale, ben stipendiato, all’interno della Farnesina. In tutto questo tempo nessun ministro degli Esteri ha pensato di reintegrarlo nel circuito della diplomazia estera, tantomeno di suggerirlo per il ruolo di ambasciatore, poi improvvisamente è arrivata la decisione di Di Maio. Di Gesù legge questa mossa come un segnale di «debolezza e isolamento» del ministro alla Farnesina.

«Se ha scelto Vattani per quel ruolo è stato solo per ingraziarsi un ambiente a lui estraneo». Ci si chiede però come mai sia stata approvata dal consiglio dei Ministri. «Io penso – osserva l’ex ambasciatore – che il Cdm dovendosi occupare di questioni più importanti, ha avallato, come è prassi, l’indicazione ricevuta fidandosi del ministro. Sicuramente non c’è alcun appoggio specifico da parte del Cdm, né del presidente tanto meno da parte del Presidente della Repubblica Consiglio e presidente della Repubblica».

Di Gesù ha scritto un libro dal titolo “Dietro le quinte della Farnesina” in cui parla del mondo diplomatico come di un ambiente in cui «o si è spalleggiati dalle famiglie diplomatiche o dai poteri istituzionali e non».

Per cui rintraccia l’immunità e i “salvacondotti” concessi a Mario Vattani nell’influenza di un cognome che «è stato per anni “padrone” del ministero». Il riferimento è soprattutto al padre Umberto che oltre a essere stato per due volte segretario generale del ministero degli Affari Esteri nonché ultimo presidente dell’Istituto nazionale per il commercio estero, negli anni ha rappresentato l’Italia presso l’Onu, l’Osce, l’Unione europea etc ricoprendo varie cariche.

Conclude Di Gesù: «Raramente all’interno della Farnesina viene riconosciuto qualche merito effettivo ed è anche per questo che i funzionari più bravi vengono spediti nelle sedi peggiori, dove alcuni rischiano anche la vita, come ci dimostra la tragica vicenda del povero Luca Attanasio. Occorre però precisare che egli era mosso da una vera passione per l’aiuto allo sviluppo delle popolazioni svantaggiate per cui svolgeva attività di cooperazione che come Ambasciatore italiano non era tenuto a fare. Come appunto scortare convogli di consegna di aiuti internazionali, cosa che gli è stata fatale».

*Aggiornamento del 4 novembre 2021: Per disposizione del Tribunale di Genova il 3 settembre 2021 la petizione è stata rimossa

Gli inauditi sul Ddl Zan

«Nella vita faccio il precario per Provvidenza e lo scrittore per Vocazione», «a casa mia gira voce che volessi fare lo scrittore da quando di anni ne avevo quattro, la scrittura non sapevo cosa fosse, ma le storie quelle sì le conoscevo. Pare che un giorno, deluso dal racconto di una favola fatto da mia nonna, la interruppi a metà della storia per raccontarle la mia versione della favola, completamente diversa dall’originale, dichiarando infine che questo era quello che avrei fatto da grande: io volevo fare lo scrittore».

È l’inizio della nota autobiografica con cui si presenta Giorgio Ponte, che si definisce “scrittore” e che ha affrontato, come scrive lui stesso,  «un lungo percorso che è passato dal seminario di Luca di Tolve (“ex-gay” oggi sposato con una donna), e da Nicolosi, uno dei padri della teoria riparativa». Ieri Giorgio Ponte è stato audito in Commissione giustizia del Senato per dire la sua sul Ddl Zan, uno dei tanti chiamati a ingolfare il percorso del disegno di legge per ostacolarne l’approvazione. Come ha raccontato meravigliosamente sul suo profilo twitter il giornalista Simone Alliva (facendo una telecronaca degli orrori) Ponte “si è definito omosessuale e felice di non avere gli stessi diritti di tutti gli altri, affermando che la sua «condizione» ha «cause psicologiche» e che necessariamente deve essere modificata o ignorata attraversando la totale astinenza”. Poi, siccome i social ogni tanto sanno regalare momenti di meraviglia, poco sotto al tweet di Alliva è spuntata la testimonianza di qualcuno sul signor Ponte su Grindr, un’app per appuntamenti gay: evidentemente non funziona moltissimo la sua “totale astinenza”.

Poi c’è stata la fondamentale testimonianza di suor Anna Monia Alfieri. In effetti una suora per parlare di sessualità mi pare proprio fondamentale. Dice suor Anna: «Non esiste una lacuna normativa da colmare. Il nostro ordinamento tutela già» e aggiunge: «Il ddl Zan prevede indottrinamento di pensiero unico per rassicurare guadagni certi a qualche circuito. E limita libertà di espressione, pensiero e educazione». Capite? Una suora che denuncia un «indottrinamento di pensiero unico per rassicurare guadagni certi a qualche circuito e limita libertà di espressione, pensiero e educazione» potrebbe essere una collaboratrice di giustizia, in fondo. Poi ha aggiunto: «Io stessa religiosa farei fatica ad accettare una legge che mi tuteli. Devo essere inserita dentro una categoria protetta per questo?» e Simone Alliva fa giustamente notare che quella legge esiste già: la legge Mancino-Reale e quel «per motivi religiosi».

Finito? No, no. C’è stato l’ex magistrato Carlo Nordio che ci ha voluto spiegare come “orientamento sessuale” sia una definizione «ambigua» perché: «Anche la pedofilia è un orientamento sessuale», dimenticandosi che la pedofilia sia un reato. Ma che ci volete fare, in fondo Nordio è solo un giurista. Va bene così.

Poi c’è una tale avvocata Daniela Bianchini con la solita bugia del ddl Zan che «pretenderebbe di introdurre nella scuola argomenti legati all’identità di genere. Per il Miur la teoria gender non può essere compresa nella scuola» e per dimostrarcelo cita una circolare del Miur del 2005 che vieta «l’insegnamento delle teorie del gender nelle scuole». Il bravissimo Alliva fa notare che «la circolare è del 2015 e definisce “truffa culturale la teoria del gender”».

Questo è il livello del dibattito in Senato, questo è il livello. Nel frattempo Silvio Berlusconi ha preso posizione contro il Ddl Zan rendendo fondamentali i voti in Senato di Italia Viva sempre più intenzionata a non votare una legge che aveva già votato alla Camera. A proposito di Italia Viva: il senatore Faraone sta continuando con successo la sua transizione verso la destra più becera dichiarando che su identità di genere ci si «autocertifica di un sesso piuttosto che un altro, questo può cambiare diverse volte»: un’affermazione pregna di ignoranza su cosa sia un processo di transizione e trattandolo come un “cambio di stagione” tralasciando un percorso farmacologico, psicologico, medico e legale. Tra l’altro sancito come diritto da una sentenza della Corte Costituzionale.

Bravi. Avanti così.

Buon venerdì.

 

Le intenzioni dei “migliori”

Quando si insediò alla guida del Paese nel febbraio scorso Mario Draghi venne incensato dal coro quasi unanime dei media e da una schiera di politici e intellettuali vicini per storia e sensibilità al mondo appannato della sinistra. Che si trattasse di un’ubriacatura adolescenziale fu palese sin dalle prime battute. Ma nelle ultime settimane il velo di opacità è caduto e ora Mario Draghi e il suo esecutivo si mostrano per quello che sono: un governo sostanzialmente di destra, sodale alleato delle rivendicazioni di Confindustria e alfiere di una ricostruzione alimentata da picconate a quel che resta dei diritti dei lavoratori. In questo quadro si inseriscono l’intenzione di avviare lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio per le aziende dei comparti manifattura e costruzioni e la volontà di liquidare le regole sugli appalti e subappalti.

Sblocco dei licenziamenti e liberalizzazione dei subappalti sono misure che rispondono ad un disegno complessivo di governo della crisi. Le pressioni di Confindustria sul superamento del blocco ai licenziamenti sembrano aver avuto ragione in un esecutivo, sempre più sbilanciato sulle posizioni della Lega e dove pesano le ambiguità e le inconsistenze del Partito democratico e del Movimento cinque stelle. Entrando nel merito della misura, lo sblocco dal primo luglio riguarderà svariati settori produttivi, dalla metalmeccanica all’edilizia, dall’industria chimica al tessile, che occupano circa quattro milioni di lavoratori. Resta invece fermo al 30 ottobre il blocco per le imprese artigiane, del commercio e terziario.

Nelle ultime settimane la propaganda dispiegata dai media allineati alle posizioni di Confindustria e dell’esecutivo Draghi insiste sul fatto che lo sblocco dei licenziamenti non produrrà esuberi e non avrà ripercussioni sull’occupazione. L’argomento principale è che la ripresa della domanda estera e le riaperture avrebbero un impatto positivo sulla crescita, riducendo l’incentivo per le imprese di liberarsi di una quota di lavoratori in eccesso.

Peccato che questa non sia la realtà dell’economia italiana. Come evidenziato dal Rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall’Istat lo scorso 7 aprile, a fronte di una performance positiva di alcune branche dell’industria (agro-alimentare, farmaceutico, macchinari elettrici) ci sono settori che hanno perso quote rilevanti di mercato con il combinato disposto tra crisi sanitaria e crisi economica e la cui ripresa è molto più incerta.

Tra questi il settore tessile, abbigliamento e pelli, ma anche le costruzioni che hanno subito una contrazione robusta a causa della caduta della domanda interna. Settori interessati dallo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. Si tratta a ben guardare di quel pezzo di industria leggera, a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro. Tradotto: settori in cui il costo del lavoro incide enormemente sulle performance aziendali e in cui lo sblocco dei licenziamenti è lo strumento principale di recupero del profitto. Insomma, parliamo di aziende che hanno una bassa se non nulla propensione agli investimenti tecnologici e la cui ripresa passa dalla compressione del costo del lavoro. Non a caso la Banca d’Italia stima che lo sblocco dei licenziamenti avrà un impatto negativo sull’occupazione con una perdita che si aggira sui 500mila occupati in meno.

A dare la portata della voragine sociale che si aprirà dal primo luglio è utile ricordare che gli esuberi di personale avverranno in un contesto segnato dal superamento dei limiti al ricorso al contratto a termine (con il superamento del decreto Dignità) e dall’assenza di una riforma…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

O il profitto o la vita

È una strage. Solo nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati trecentosei gli infortuni mortali sul lavoro. Trecentosei lavoratrici e lavoratori che non hanno mai fatto ritorno alle proprie famiglie.
Trecentosei vite spezzate da errori nelle procedure di sicurezza, dall’insufficienza dei controlli, dalla mancanza di manutenzione, dal mancato rispetto delle norme vigenti in materia di sicurezza sul lavoro, dalla stanchezza dovuta ai turni estenuanti.

Tutte morti che potevano essere evitate già in fase di valutazione dei rischi e con adeguate misure di carattere organizzativo. Ma se l’organizzazione non funziona è perché la produzione risponde male all’esigenza di aumento della produttività, che viene ricercata sempre di più nell’intensificazione dei ritmi di lavoro e nella deroga agli standard di sicurezza.

C’è qualcosa di profondamente ideologico in tutto ciò: ritroviamo in queste vicende le cause di una visione del mondo che guarda più all’accumulazione di profitto che alla salvaguardia della vita, nei casi di infortuni mortali sul lavoro così come nelle tragedie come quella del Mottarone.

Il problema è un intero sistema. Siamo un Paese con infrastrutture obsolete e gravi limiti manutentivi, in cui tantissime persone si muovono su mezzi vecchi e inadeguati, ogni giorno, sottoponendosi a un rischio altissimo.
Tracce di questa riflessione si trovano anche nella discussione di questi giorni sul blocco dei licenziamenti e la liberalizzazione dei subappalti. Ad esempio, un po’ sorprende la pretesa di Confindustria di sbloccare i licenziamenti già dal primo luglio. A ben vedere, però, di sorprendente non c’è nulla. Mutuando un’espressione dell’ex presidente di Confindustria Macerata, che recita «se qualcuno morirà, pazienza», si potrebbe dire “se qualcuno perderà il lavoro, pazienza”.

L’importante è il profitto. Il rischio di lasciare a casa fino a due milioni di lavoratrici e lavoratori, dopo aver ricevuto il 74% delle risorse pubbliche stanziate nell’anno del Covid, non ha alcuna importanza.
La battaglia sulla proroga del blocco dei licenziamenti è ancora aperta e intendiamo farla fino in fondo. Bisogna mettere in campo soluzioni per contrastare la disoccupazione crescente (solo nell’ultimo anno un milione di posti di lavoro in meno), per garantire la riqualifica professionale ed accompagnare la transizione economica di chi subirà lo sblocco con una seria riforma degli ammortizzatori sociali.

Senza la chiarezza necessaria su queste misure, non può esistere discussione sul tema licenziamenti. Altro fronte su cui ci troviamo è quello dei subappalti e del principio del massimo ribasso, che ha reso centrale il dibattito sul decreto Semplificazioni.

L’intento di velocizzare le opere infrastrutturali non può essere un mezzo per tornare alla giungla dei cantieri, all’apertura agli illeciti, al cottimo, alla liberalizzazione criminogena che fa comodo alle mafie.

In questo modo, non solo si negano i diritti fondamentali dei lavoratori, ma si dà man forte a quello stato di insicurezza sul lavoro che ci siamo ripromessi di combattere, nella Commissione d’inchiesta sul lavoro in Italia, con il contrasto alle esternalizzazioni selvagge.
Per questo è positivo aver espunto il principio del massimo ribasso.

Ora bisognerà tenere il punto sulle liberalizzazioni. Davanti a margini di profitto troppo bassi qualcuno vorrebbe poter ricorrere a sfruttamento e sottrazione di diritti, a scapito della sicurezza di chi lavora. Anche qui, ci troveranno pronti.

*L’autore: Francesco Laforgia è docente universitario, senatore Leu e fondatore di èViva


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Sulla mafia fingono di non cogliere il punto

Niente, continuano imperterriti. Salvini (che deve avere studiato la storia dell’antimafia fermandosi a qualche poster appeso in camera) ha continuato a tuonare contro Brusca che è inaccettabile che adesso possa «girare in strada e andare in palestra (giuro, ha proprio detto palestra)» dal momento che «il 90% degli italiani la pensa così». Tra l’altro tutto questo mentre presentava i referendum lanciati con i Radicali (i Radicali con Salvini sembra il titolo di un film dell’orrore rispetto all’ammirevole storia che si portano dietro) e quindi avrebbe dovuto fare il garantista. Poco male: in conferenza stampa ha anche promesso che non si fermeranno semplicemente alle 500mila firme che servono per i referendum ma, ha detto, «raggiungeremo il milione». Peccato che i quesiti referendari siano 6 e quindi di firme ne servano 3 milioni, qualcuno glielo bisbigli all’orecchio senza che se ne accorgano.

Comunque mentre si prosegue con questo indicibile reality show su Brusca (che intanto rilascia video messaggi in cui si dice pentito, poteva andarci peggio, avrebbe potuto aprirsi un account Instagram), Maria Falcone decide di parlare ancora e pone un punto che è invece tutto politico: «In questi giorni ho evitato sovraesposizioni mediatiche e dichiarazioni rabbiose rispettando una legge che è stata e continua a essere fondamentale nella guerra contro Cosa nostra, ma nessuno può essere più addolorato e indignato di noi davanti alla scarcerazione di uno degli individui peggiori che la storia del Paese abbia conosciuto. Ho ascoltato moltissime dichiarazioni di politici e assistito a un’ondata di indignazione dell’opinione pubblica che dimostra quanto la coscienza dei nostri concittadini sia mutata e maturata in questi 29 anni», dice la sorella del giudice Falcone. “«ggi – aggiunge – in un giorno tanto importante per la nostra Nazione in cui, come ha detto il capo dello Stato, Sergio Mattarella, rinnoviamo la gratitudine a chi ha sacrificato la vita per l’Italia, voglio lanciare un appello alla politica affinché traduca lo sdegno espresso per la liberazione di Giovanni Brusca in un impegno reale per un’approvazione veloce della riforma della legge sull’ergastolo ostativo sollecitata dalla Corte costituzionale».

Eccoci al nocciolo della questione: alcune forze politiche in questi giorni stanno ovviamente cavalcando l’indignazione della vicenda Brusca per chiedere una revisione della legge sui pentiti (uno dei grandi sogni dei boss di Cosa Nostra) e ovviamente ridurre gli sconti di pena significherebbe diminuire l’incentivo a pentirsi. Sia chiaro: ognuno legittimamente porta avanti le proprie idee ma eliminare i benefici ai pentiti è esattamente il contrario di ciò che avevano in testa Falcone e Borsellino. Basta saperlo. Ma intanto sarebbe anche il caso di capire come intendano muoversi i partiti sul “fine pena mai” dichiarato incostituzionale per i reati di mafia e terrorismo.

Allo stesso modo sull’ergastolo ostativo ritenuto incostituzionale dalla Corte costituzionale bisognerebbe avere il coraggio di prendere una decisione chiara (finora solo il M5s ha avanzato una proposta). Come ha detto Maria Falcone: «Voglio dire a tutti i nostri parlamentari e a tutte le forze politiche, molte delle quali peraltro votarono la legge sui pentiti voluta da mio fratello, che oggi hanno l’occasione per dimostrare che la lotta alla mafia resta una priorità del Paese e che possono, al di là delle parole, attraverso una normativa giusta, evitare scarcerazioni e permessi a boss che mai hanno interrotto il loro perverso legame con l’associazione mafiosa. Concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del ‘macellaio’ di Capaci». È il momento in cui tirare le somme sull’azione della politica nella lotta alla mafia e capire chi alle parole ha fatto seguire i fatti.

Di questo sarebbe opportuno parlare. Ognuno ci dica legittimamente qual è la propria posizione e le soluzioni che propone. È questo che sarebbe opportuno “esternare”. Indignarsi per Brusca e commemorare Falcone non basta, non serve, no. Fate politica.

Buon giovedì

La Brusca indignazione

Da più di 24 ore la politica si è scatenata sulla scarcerazione di Giovanni Brusca. Noto con il nome di ‘u verru (il porco) Giovanni Brusca è stato uno dei protagonisti della stagione del sangue guidata dai Corleonesi di Cosa Nostra. Fedelissimo di Totò Riina è stato arrestato nel 1996 e pochi anni dopo è diventato collaboratore di giustizia confessando di essere stato l’uomo che ha azionato il telecomando della bomba che a Capaci uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini di scorta. Fu l’uomo che ordinò il rapimento e l’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il 12enne figlio di Santino che doveva subire una lezione per essere diventato collaboratore di giustizia: Giuseppe dopo una lunga prigionia fu strangolato e sciolto nell’acido. Secondo le fonti investigative Brusca sarebbe responsabile di almeno 200 omicidi. Lui stesso ha confessato di non ricordare nemmeno i nomi delle sue vittime.

I politici hanno cominciato compulsivamente dichiarazioni. Salvini dice: “Autore della strage di Capaci, assassino fra gli altri del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido perché figlio di un pentito. Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la ‘giustizia’ che gli italiani si meritano”. Virginia Raggi parla di “vergogna inaccettabile, un’ingiustizia per tutto il Paese. Sempre dalla parte delle vittime e di chi lotta e ha lottato contro la mafia”. Giorgia Meloni incalza: “È una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. Venticinque anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera”. Giuseppe Costanza, autista di Falcone, dice: “che Paese è il nostro? Chi si macchia di stragi del genere per me non deve più uscire dalla galera”. E così via.

Tutti indignati, certo, ma anche parecchio ignoranti. Sì, ignoranti perché che Brusca sarebbe uscito dal carcere si sapeva da tempo, basterebbe conoscere le leggi che non sono un particolare così irrilevante per chi vuole ergersi a eroe dell’antimafia e soprattutto perché sono le stesse leggi volute e sostenute da Falcone e Borsellino, i due giudici che svettano nei profili degli stessi indignati. L’ha spiegato con invidiabile equilibrio proprio la sorella di Falcone, Maria: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno”. Forse vale la pena leggere anche la dichiarazione di Pietro Grasso, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, che dice: “Con Brusca, infatti, lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai“.

Ora rimane un punto sostanziale per non alimentare un’indignazione populista: i politici, tutti, sanno bene che le leggi sui pentiti in Italia sono queste e fingere di non conoscerle per solleticare gli sfinteri non serve a nulla. Non sono d’accordo con queste leggi? Che ne propongano di altre. Non sono convinti del ravvedimento di Brusca? Usino tutti gli strumenti a disposizione per garantire tutti gli accertamenti del caso. Temono che l’ex boss possa non avere reciso i suoi legami con il passato? Usino tutti gli strumenti che hanno a disposizione per assicurare un serrato controllo. Però almeno un po’ di serietà e di consapevolezza giuridica, almeno quella.

Rimangono anche due riflessioni. Brusca ha raccontato della morte di Falcone ma noi oggi non abbiamo ancora tutta la verità sulla morte di Falcone. Ma soprattutto: vi rendete conto, vero, che tutta questa indignazione è il regalo migliore per chi vorrebbe cancellare la legge sui pentiti? E basta ripassare la storia per capire chi avrebbe interesse a farlo.

Buon mercoledì.

Per il Mezzogiorno ci vorrebbe un piano Biden

Railway and Mediterranean Sea, Calabria, South Italy

Quello che sta succedendo nei confronti del Sud con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza oramai trascende la fantascienza. Lo schema che il governo di turno attua per sottrarre fondi al Sud è sempre lo stesso, immutabile nel corso dei decenni: promesse vane sull’arrivo di fondi, che è progressivamente spostato sempre più in avanti nel tempo per poi non parlarne più. Così il Mezzogiorno improvvisamente è sparito dal dibattito politico e dei media.
Dopo il taglio dei fondi del Pnrr, dal 65% da destinare al Sud come indicato dall’Europa, al 40%, senza fornire nessuna giustificazione da parte del governo, con la ministra del Sud in silenzio complice e il dibattito surreale sul Ponte sullo Stretto usato come “arma di distrazione di massa”, ecco ora che anche sull’alta velocità il governo penalizza il Sud. Lo schema è lo stesso già usato dal precedente governo Conte nel novembre 2020 quando nella bozza del collegato alla legge di Bilancio l’articolo 150 definiva il “Fondo per la perequazione infrastrutturale” con lo stanziamento di 4,6 miliardi di euro diluiti nel tempo per il Mezzogiorno dove per il 2021, periodo di competenza, i soldi stanziati erano zero, ora la stessa cosa sta per accadere con i fondi del Pnrr a proposito di alta velocità ferroviaria!

Facile notare infatti che per l’alta velocità la gran parte delle risorse nei primi anni è destinata al Nord. Per il Sud, sull’asse Salerno-Reggio Calabria, andranno fondi in prevalenza dopo la chiusura del Pnrr del 2026. Questo significa che mentre l’arrivo dei fondi al Nord sono garantiti dalle strette condizionalità poste dall’Europa, quelli al Sud rimangono affidati alla volontà della politica nazionale del dopo Piano. Non è un aspetto secondario se analizziamo brevemente tempi, condizionalità e conseguenti rischi a cui ci sottopone il Pnrr.
Insieme alla Grecia siamo l’unico Paese ad aver chiesto, oltre ai sussidi, tutta la quota disponibile dei prestiti. Il dato non è incoraggiante. Bisognerebbe anche capire cosa impedisca all’Italia, che quest’anno emetterà titoli per 600 miliardi, di emetterne altri 30 all’anno fino al ’26 per finanziare investimenti decisi in autonomia e senza controlli della Ue, al fine di evitare di avere tutto deciso, come da dettagliato cronoprogramma dettato dall’Europa, punto per punto, per l’attuazione rigorosa del Recovery. Il Parlamento così è nei fatti commissariato, l’attuazione del…

*-*

L’autore: Natale Cuccurese è il presidente del Partito del Sud


L’articolo prosegue su Left del 28 maggio – 3 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Wright’s world, unconfined like that of the Native Americans

Wright’s architecture is to some extent explicitly pervaded by a strong link with the cultures of the peoples that flourished on the soil of the Americas and by the importance of integrating architecture into the landscape with the built space.
This aspect is fundamental today in a period in which there is intense debate about the transformations architecture will have to measure itself against with respect to the environment and social justice. In October 2020 the docufilm Unity Temple was released: Frank Lloyd Wright’s Modern Masterpiece by Lauren Levine with the narrative voice of Brad Pitt and dedicated to the conservative restoration of Frank Lloyd Wright’s first public work, the Unity Temple (1905-1909, Oak Park, Illinois).
The building’s restoration process, defined by Wright as his contribution to modern architecture, highlights the architect’s approach drawing inspiration from the art and techniques of ancient civilizations, such as the Japanese one, evident in the interior finishes, and the Mesoamerican one for the monumental complex as a whole. The documentary mentions a reference to the ancient Neolithic – and sustainable – construction technique of rammed earth. A vernacular architecture technique widespread in the Himalayas and China which essentially consisted of the stratification of earth (sand, gravel and clay) distributed and compressed in successive layers in a wooden formwork.
In this work, like those that followed in Wright’s long career, both public and private, the importance of light design emerges in the general idea of space giving the architecture a level of poetic definition. The Unity Temple is a transitional work in Wright’s design path; in fact it seems to be very different from those that followed due to the rational compositional rigor of the whole, prefiguring the Maya Revival of the 1920s.

Research of the years 1911-1939
After meeting Mamah Borthwich Cheney, translator of the Swedish feminist writer Ellen Key, Wright started a new life with her in the studio house in Taliesin Spring Green (1911-Wisconsin), a manifestation of his new way of thinking about architecture in the natural landscape. Years of great transformation in the contemporary context of architecture would follow. As for Wright, his life was marked by a tragedy: the murder of Mamah Borthwich herself, her two children and others by a worker in Taliesin (as recounted in T.C. Boyle’s novel Le donne, Feltrinelli, 2009). Thereafter, for a few years Wright lived in Japan where he also designed the Imperial Tokyo Hotel (1919-1923, later demolished in 1968). Later, in California in the 1920s he built the houses known for the monumentality and austerity of the whole (Ennis House 1923-24; Millard House 1923) as well as the famous experiments of prefabricated textile blocks in cement conglomerate, clearly inspired by the architecture of the Maya Revival. Critic Christopher Hawthorne in the documentary That Far Corner: Frank Lloyd Wright in Los Angeles (2018) said that these houses were the architecture of Wright’s personal journey after the tragedy of the loss of Mamah Borthwich. Before taking on the project of the house on the waterfall (Fallingwater,) in the difficult years of the economic crisis from 1927 until the mid-1930s, Wright devoted himself to research and theorized the theme of the garden city of Broadacre city, an urban and rural utopia, conceived to provide an urban, agricultural and architectural solution to the problems debated in those years following the new development of suburban areas and the contemporary proposals of the Modern Movement. Ideas that would form the basis of the series of houses called Usonian, including the Roland Reisley House (1951, New York) and the same year the Laurent House (Illinois) designed for a client with disabilities.

In Franklin Toker’s book Fallingwater Rising (2005), the author recounts that the model of Broadacre City represented an important step in Wright’s public image. It was the entrepreneur E.J. Kaufmann, father of Edgar Junior and recently arrived in Taliesin Green in 1934, who offered his support for the funds necessary to build the model. A month later in December 1934 Wright went to Pittsburgh as a guest of Edgar and Liliane Kaufmann to visit the property where the weekend residence would be built, later named Fallingwater. In addition to the link between the built space and the landscape, in many works there is a direct reference to the archetype of the architecture of some native tribes, namely the Teepee, an organic, transportable construction. This can be seen for example in the house built for H.F. Johnson, former customer of the Johnson Wax office building (1936-1939, Racine, Wisconsin), called Wingspread 1939, where the reference is evident in the central hall. In research by the Metropolitan Museum of Modern Art on the Nakoma Memorial (1923-24 Winsconsin) and the adjoining Golf Club, researcher Elisabeth Hawley defines this design reference to indigenous Native American architecture regarding the constructions of the Teepee and the Wigwam as a fantasy of an Indian identity (fantasy of India-ness) even if, according to the scholar, Wright would have limited himself mainly to using the stereotypical images of the natives, that is, responding only to the eclectic taste of the early twentieth century.
I strongly believe, however, that for Wright these elements constituted a compositional structure of added reference, comparable to that represented by the Artistic Avant-gardes for the Modern European works of the 20s, in particular in the theme of the house.This inspiration can be found in the lines created in the research of laboratories of Taliesin Spring Green and then of Taliesin West (1937 -1959, Arizona).
In general, the influence of Native American iconography expressed in the geometric patterns of the designs of textile art, pottery, archaeological finds and archetypes of indigenous architecture is evident in Wright’s work. This influence is manifest in the compositions of triangles, rhombuses, hexagons, spiral signs and various geometric aggregations, as well as in the use of colors close to those used in the artifacts of the various indigenous groups, not to mention the vital and artistic relationship that the natives had with nature.

The denied identity of the natives
The cultural identity of Native Americans, after the massacres of the nineteenth century – we speak in this regard of genocide – was then often denied, and only in 1988 did the United States Congress approve a document, Concurrent Resolution 331, that recognized the influence of the Iroquois constitution on the American Constitution. The Federation of Iroquois consisted of an allied group of tribes who lived in North America along the Appalachian mountain range. It was a semi-nomadic population and had established rules of alliance and coexistence between different ethnic groups long before the arrival of the Europeans. Their architecture was characterized by a type of construction called a longhouse, i.e. a wooden structure covered with tree bark modules that covered the horizontal extension of the building while the curved roof had closable openings, and the space housed the areas set up for 5 or more families arranged in line at the sides of a single room.

Often this culture and others of the Native Americans have been presented as primitive and savage, identifying them more in the practice of hunting and war, mainly male tasks, when instead the scientific, anthropological and artistic testimonies show that there was also a reality made up of cultural exchanges, creativity and great technical innovation.
This is the opinion of Mark Jarzombek, professor of history and theory of architecture at the Massachusetts Institute of Technology. In one of his lectures for an online course at MIT in December 2017, the professor explained the technical evolution of the teepee or tipi, the portable tent of the prairie Indians. A word that in the Lakota language belonging to the Sioux means “they live” from thi, which means to live.
The teepee, perhaps invented around 3000-2000 BC, is built with a more sophisticated structure than some previous examples. In fact, it was removable, made of wooden poles and a leather covering designed and drawn to form a semicircle also fixed to a pole. The innovation also consisted of an opening at the top that is no longer open in the center, but can be closed with wings that can be maneuvered from the outside and moved towards the perimeter to the west in front of the entrance to the east. Not all teepees were historiated. The decorations related to personal experiences concerning hunting, visions and dreams depicted in artistic images produced by those in the community who knew how to draw. Drawings that represented the thoughts of an individual became the cultural heritage of the tribes.
According to Jarzombek, the invention of the teepee was the work of the women who took care of the materials, food and activities of the village. This technological flexibility gave the tribes a great advantage in terms of the possibility of movement and survival in the natural context.
The technological innovations of housing structures linked to the nomadic culture of the Native Americans represent a model of sustainable architecture ante litteram. Behind this approach, there is an image linked to movement and a poetic world that Wright manages to capture in its essence, not just as a figure.

The example of Casa Hagan (1954-56), Pennsylvania
2021 marks the 25th anniversary of the opening of the house called Kentuck Knob or Hagan house to the public. Immersed in nature and located on a panoramic hill in the territory of the Appalachian mountains, it was the last house he built before his death in 1959.
The first owners lived in Kentuck Knob for 30 years and then had to leave it for health reasons. The new owner Peter Palumbo discovered it by chance thanks to a visit to the nearby “Fallingwater” and acquired it in 1985. The house was designed for the two Hagan spouses and is inscribed in the category of Usonian Houses built with sustainable costs. Kentuck Knob, like Fallingwater, has a synergistic relationship with nature, but marks a further step in Wright’s organic research and in the idea of themovement of parts of the architecture, as in the contemporary Guggenheim Museum.
Construction work began as Wright moved to New York City where the Solomon R. Guggenheim Museum was due to open in 1958.
As in other Usonian houses the floor plan has a particularity that in Kentuck Knob favors the geometric composition of the hexagon and excludes the presence of right angles left only in the shower in the bathrooms.
The courtyard is designed by perspective views that cut the view of the surrounding nature landscape. The copper roofs, in the contrast of the materials – red cypress and local stone for the other built parts – stop being pitched roofs and become light elements.

The openings, which dematerialize the roof of the veranda to the south, are an expedient already used by Wright and allow us to observe the sky through a wooden frame, forming hexagonal cuts designed here to draw an immaterial line of reflected geometries which, losing themselves in nature, mark the indefinite border between architecture and the poetry of drawing.
The light is filtered on the side of the entrance through the narrow windows with perforated panels, as in the Bernard Schwartz house (1939, Winsconsin) and other Usonian houses. In the hexagonal kitchen, the skylight appears off-center, like the top opening of the teepee, and creates geometric lines of light on the surface of the interior walls of the kitchen that seem to come from native textile art. Faced with this space, it is possible to imagine that the rational and well-constructed geometric lines on the wood of the hexagonal holes of the veranda of the long Hagan house stem from a momentary image invented by women in a nomadic culture, where everything had to move, like the passing of the light, when the time came and then took shape elsewhere towards the infinity of every thought. (translation of Francesca Serri)

(in the picture: Kentuck Knob)


Versione italiana dell’articolo su Left del 5-11 febbraio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Mille balle blu (sulla Libia)

Foto Fabio Frustaci/POOL Ansa/LaPresse 31-05-2021 Roma, Italia Politica Roma, premier Draghi incontra primo ministro libico Abdulhamid Dbeibeh Nella foto: Abdulhamid Dbeibeh, Mario Draghi Photo Fabio Frustaci/POOL Ansa/LaPresse May 31, 2021 Rome, Italy Politics Draghi meets Head of the Government of Libyan National Unity In the pic: Abdulhamid Dbeibeh, Mario Draghi

«È anche interesse della Libia assicurare il rispetto dei diritti dei rifugiati e dei migranti», dice Draghi in conferenza stampa mentre il primo ministro libico viene accolto con tutti gli onori del caso qui dalle nostre parti. La strategia del governo dei migliori è uguale a quella dei peggiori prima di loro: negare la realtà, negarla sempre, fingere che la Libia non sia il sacchetto dell’umido al servizio dell’Europa e dipingere un fatato mondo che non c’è.

Così siamo al punto di dovere ascoltare che «stabilizzare la Libia è cruciale», come se i principi di fondo ci dovessero andare bene e sia solo un problema di disordine politico. Tutto questo metre la Libia ha ricominciato a riempirsi di migranti detenuti illegalmente, raccolti in veri e propri lager e tenuti pronti per aprire i rubinetti quando i libici chiederanno ancora più soldi, ancora di più.

Fingono di non vedere i dati dell’Onu che raccontano di come i numeri dei detenuti (crollato nel 2019/20) nel giro di un anno sia quintuplicato (e parliamo dei dati ufficiali, quelli che si riescono a reperire). Fingono di non vedere che quei numeri siano solo una parte infinitesimale di persone che fanno la fame, che subiscono stupri e violenze, che sono rinchiuse come animali. Fanno finta di non sapere che quei centri di detenzione non abbiano nessuno scopo, nessuno, poiché i migranti rimangono chiusi fino a che non pagano i loro carcerieri (anche più di una volta) per uscire. Sono caselli autostradali criminali e illegali in cui viene chiesto un illecito pedaggio per riottenere la libertà. Non ci sono rimpatri da questi centri.

Il governo insiste nella rappresentazione di una Libia che possa essere “verificata” da Unhcr e dall’Oim che invece negano la possibilità di qualsiasi accesso ai centri di detenzione: «Non solo non c’è stato alcun progresso nella gestione di queste strutture, ma gli operatori Onu “attualmente hanno scarso o nessun accesso a questi centri e sono solo in grado di monitorare la situazione o fornire assistenza”», ha raccontato una fonte al giornalista Nello Scavo.

E intanto si prepara il terreno per votare il rifinanziamento alla cosiddetta guardia costiera libica (che finora ci è costata più di 800 milioni di euro). Tutto, come sempre, in nome di una narrazione falsa che copre i criminali. E non vedere un favoreggiamento politico è sempre più difficile.

Buon martedì.

Podemos cambia passo nel segno delle donne

(L-R) The United We Can candidate for the presidency of the Community of Madrid and secretary general of Podemos, Pablo Iglesias; the third vice president and Minister of Employment, Yolanda Diaz; the 'number 2' of the party for the elections to the Assembly of Madrid, Isa Serra; the 'number 4' of the party for the elections to the Assembly of Madrid, Alejandra Jacinto; the deputy of the party in the Assembly, Vanesa Lillo and the mayor of Barcelona, Ada Colau during the closing ceremony of the party's campaign in the amphitheater Lourdes and Mariano of the park of the Green Wedge of Vicálvaro, on May 2, 2021, in Madrid (Spain). The event will have limited capacity and will respect all health and safety measures. 02 MAY 2021;CLOSING CAMPAIGN;ELECTIONS;4M;MADRID;COMMUNITY OF MADRID;ASSEMBLY OF MADRID;ASSEMBLY;WE CAN;UNITED WE CAN Isabel Infantes / Europa Press 05/02/2021 (Europa Press via AP)

In Spagna il mese di maggio appunta in agenda diversi cambiamenti, già dai primi giorni. Una elezione regionale, quella della Comunità autonoma di Madrid, ha confermato ancora una volta le destre al governo di quel territorio, ha rianimato un Partito popolare in difficoltà e ha cancellato la destra moderata e neoliberista di una formazione come Ciudadanos. Non solo, un leader come Iglesias, fallito il tentativo di unificare e far vincere la sinistra – pur ottenendo un buon risultato per il suo partito – non ha comunque rinunciato all’idea di dimettersi anche dal ruolo di segretario di Podemos, dopo aver già lasciato le altre cariche di governo.

Il tutto mentre viene sospeso lo stato d’allarme e si inoculano vaccini, la pandemia segna un rallentamento nei contagi e si registrano i primi casi di regioni con zero decessi. Fa quindi capolino la prospettiva di una ripresa del turismo – ahinoi! anche di quello mordi e fuggi – sebbene il parere dell’Inghilterra e della Germania su una Spagna Paese ancora a rischio Covid con relativo crollo di prenotazioni di pensionati e famigliole. Con gli operatori turistici rimasti a occhieggiare, per ora, con i Paesi dell’Est europeo meno sofisticati su prevenzione e quarantene. I risultati delle elezioni della Comunità di Madrid vengono subito utilizzati per mettere in difficoltà il governo di coalizione Psoe-Unidas Podemos. I socialisti madrileni in queste regionali hanno subito una sconfitta senza attenuanti, ma questo che appare come un gigantesco ribaltamento elettorale negli equilibri di governo non è estrapolabile a tutta la Spagna, come molti analisti politici sostengono.

Il vero risultato delle elezioni dell’area di Madrid – oltre ad azzerare Ciudadanos e devitalizzare la sinistra – è stato quello di portare alle urne votanti del centro e della destra che solitamente partecipano solo alle elezioni generali, questa volta preoccupati per la loro egemonia in regione e motivati a esprimere il loro rifiuto nei confronti del governo progressista. Certo la continuità del governo progressista e la maggioranza eterogenea che lo sorregge è anche insidiata dalla nuova formazione del governo catalano che riunisce il fronte indipendentista, sebbene il neo presidente, il secessionista Aragonès, abbia sollecitato la ripresa del dialogo con il governo nazionale. Ma le prossime elezioni politiche sono ancora lontane e Sánchez assicura che il Psoe porterà a termine la legislatura e che il risultato di Madrid non condizionerà il suo progetto politico. Un messaggio molto chiaro. Parole altrettanto inequivocabili quelle di Pablo Iglesias subito dopo il…


L’articolo prosegue su Left del 28 maggio – 3 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO