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Saman, le religioni monoteiste e i diritti umani

Le speranze di trovare Saman ancora viva sono praticamente svanite.
Le rivelazioni del fratello, anche lui presunto responsabile della aggressione familiare subita dalla ragazza lo scorso anno, non lasciano margine ad ipotesi diverse dall’omicidio.
L’uccisione di Saman è un femminicidio e come tale, ha le sue radici nella cultura patriarcale che si alimenta delle religioni abramitiche, nel caso di specie, dell’islam.

L’Ucoii, l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha emesso una fatwa, ovvero una condanna religiosa contro i matrimoni forzati e contro le mutilazioni genitali femminili.
Se per un verso le dichiarazioni dell’Ucoii rassicurano sulla presa di distanza verso le aberrazioni che maturano all’interno delle tradizioni islamiche, dall’altra suscitano una riflessione ulteriore che desta ulteriori preoccupazioni.

La fatwa contro i matrimoni forzati è rivolta a comunità islamiche che, nelle intenzioni degli imam, dovranno conformarsi a quella interpretazione del diritto religioso.
Le comunità islamiche, dunque, non dovranno più imporre con violenza i matrimoni alle ragazze, non perché è un crimine secondo le leggi civili, ma perché la legge del Corano non va interpretata in quella direzione.
Con buona pace del primato della legge civile sulla legge religiosa.

Gli imam, con quella fatwa, non hanno richiamato gli islamici al rispetto dei diritti umani, non hanno sollecitato quelle comunità al rispetto delle leggi nazionali, dell’autodeterminazione, della libertà di scelta nel riconoscimento dei diritti universali.
Nulla di tutto questo.

I referenti spirituali delle comunità islamiche hanno condannato il femminicidio patriarcale islamico con una interpretazione islamica della legge religiosa.

Il Principio di Laicità e l’islam non sono compatibili.
Quella fatwa conferma che la teocrazia, intesa come primato della legge religiosa sulla legge civile, è prepotentemente emersa.

La fatwa nell’islam ha la stessa valenza della direttiva nel diritto canonico: in entrambi i casi si pongono in sovrapposizione delle leggi civili, con la complicità delle istituzioni che confondono la libertà di religione con il disprezzo dei diritti umani.

Il patriarcato abramitico si aggrava nella incapacità delle istituzioni di avviare una seria politica di integrazione con le comunità islamiche, spingendole ancora di più ad una dinamica di isolamento che radicalizza le loro tradizioni, all’interno delle quali la violenza del patriarcato trova terreno fertile.

E in assenza di integrazione le comunità islamiche non riconosceranno mai la legge civile della società che li esclude, trovando naturale riconoscere la priorità della legge religiosa quale elemento regolatore delle proprie condizioni.

La legge religiosa e la legge civile non possono essere alternative l’una all’altra, e la legge civile deve affermare il suo primato ma avrà autorità etica solo nell’inclusione e non nell’emarginazione.

Saman ha pagato con la vita non solo le aberrazioni del patriarcato di matrice islamica, ma ha pagato l’incapacità delle istituzioni italiane di avviare a percorsi di civilizzazione la sua comunità, che non può limitarsi al multiculturalismo.

Il multiculturalismo nelle applicazioni pratiche, si è concretizzato in un miope multiconfessionalismo attraverso il quale le peculiarità religiose che stabiliscono comportamenti e rituali per gli appartenenti ad una precisa comunità religiosa, trovano una tutela giuridica che segna una separazione netta con gli altri individui appartenenti alla stessa società ma non praticanti la stessa religione.

E’ legittimo e doveroso tutelare le differenze religiose, ma senza limitare l’applicazione della legge generale, e soprattutto indicando le modalità attraverso le quali le diverse culture possano interagire tra di loro in una interculturalità che porti alla integrazione e non alla esclusione.

Altri femminicidi come quello di Saman non avranno come responsabili solamente gli autori materiali, perché la responsabilità, a questo punto, sarà dell’intera società.

*L’autrice: Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea

«Chiudere subito i Cpr», la mobilitazione dei giuristi dopo la morte di Moussa Balde

In piazza Castello a manifestare per primi sono stati i giuristi. Avvocati in toga che domenica 6 giugno a Torino si sono mobilitati per chiedere l’immediata chiusura dei Cpr, i famigerati Centri di permanenza per i rimpatri. «Sono buchi neri, in cui le persone all’interno capiscono di non essere già più in Italia perché i loro diritti qui non esistono» racconta Lorenzo Trucco, avvocato e presidente di Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, fra gli organizzatori della protesta che ha portato oltre duecento persone davanti alla Prefettura torinese per denunciare la morte di Moussa Balde, 23 anni, suicidatosi nella notte tra il 22 e il 23 maggio nel Cpr di corso Brunelleschi.

La sua vicenda è un tragico simbolo del totale fallimento delle politiche migratorie nazionali. In Italia dal 2017 per sfuggire a fame e terrore in Guinea, in un anno Balde ottiene la licenza media ma nulla cambia per lo Stato, la protezione internazionale non arriva, i giorni diventano mesi che diventano anni. Nessun progetto, nessuna reale possibilità di integrazione. Poi il pestaggio selvaggio a Ventimiglia il 9 maggio ad opera di tre persone, indagate a piede libero. Le immagini girate da un cittadino con il telefono sono un pugno nello stomaco. Moussa finisce in ospedale e quindi deportato al Cpr di Torino, l’inferno che precede l’espulsione. Da persona lesa diventa in un attimo, data la sua condizione di clandestino, soggetto da cacciare.

«Gabbie come pollai, situazioni non degne di un paese civile – prosegue Gianluca Vitale, avvocato che ha potuto incontrare due volte Moussa Balde – i Cpr vanno chiusi immediatamente prima di dover piangere altre vittime».

«L’indignazione e il dolore ci hanno portato qui in piazza oggi – conclude Trucco – e la scelta di farlo con le nostre toghe è per riaffermare il rispetto dei diritti democratici che in questa circostanza come in molte altre tragicamente simili sono stati totalmente ignorati. Non è possibile venire costretti in un luogo di reclusione senza aver commesso alcun reato, si tratta di un abominio giuridico cui la storia ci chiederà conto».

Sei morti nei Cpr italiani dal 2019. Una lista lunghissima di irregolarità denunciate a più riprese dai vari Garanti per le persone detenute. Diritti ripetutamente e sistematicamente calpestati. Udienze per le convalide dei trattenimenti che durano mediamente meno di cinque minuti e nel 98% dei casi si concludono con la prosecuzione del fermo. Qualcosa di serio si è inceppato nel sistema giuridico italiano.

Quante fake news per imporci il maggioritario

Foto Valerio Portelli/LaPresse 08-10-2019 Roma, Italia Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Politica Nella Foto: Flash Mob M5s per taglio Parlamentari con Luigi Di Maio Photo Valerio Portelli/LaPresse 08 October 2019 Rome,Italy Flash Mob M5s Party Politics In the pic: Flash Mob M5s Party on cutting the number of representatives in the country's upper and lower houses

Una legge elettorale proporzionale vuol dire semplicemente questo, che il numero dei parlamentari deve essere in proporzione al numero dei voti. Chi ha il 40% dei voti deve avere il 40% dei seggi, chi ha il 20% o l’1% dei voti deve avere il 20% o l’1% dei seggi, e così via. Poi chi, da solo o in coalizione, ha la maggioranza dei voti/seggi ha il diritto di governare, chi non ha la maggioranza dei voti/seggi ha il diritto di sedere in Parlamento e di fare l’opposizione.
È un’ovvietà – si dirà – ed effettivamente lo è, ma questa ovvietà crea problemi ai poteri esterni ed estranei alla democrazia, giacché può comportare quello che per loro è il pericolo massimo: che la volontà popolare possa contare, che il Parlamento rifletta il conflitto sociale, che sia “specchio del Paese”.

Così, quei poteri sono da sempre contro la proporzionale. Mussolini dovette abolirla per instaurare la dittatura. La cosiddetta legge Acerbo prevedeva i due terzi dei seggi al partito che avesse avuto più voti, così il “Listone” di Mussolini ebbe 355 seggi su 535. E fu il fascismo.
Fra i principali difensori della proporzionale ci furono allora, oltre ai socialisti e ai comunisti (Gramsci per primo) figure come Piero Gobetti, Guido Dorso, Luigi Sturzo, etc. Gobetti (sulla linea di un padre del liberalismo, Stuart Mill) scriveva: «La proporzionale obbliga gli individui a battersi per un’idea, vuole che gli interessi si organizzino, che l’economia sia elaborata dalla politica … il loro istinto di padroni guida assai precisamente i fascisti nella lotta contro la proporzionale».

Ci riprovò la Dc nel 1953 con la “legge truffa”, che premiava con il 65% dei seggi chi avesse raggiunto il 50% dei voti, e Terracini definì quella legge elettorale «una legge di eversione della nostra Costituzione». La “legge truffa” non scattò.
Invece l’attacco alla proporzionale di Segni-Occhetto (e Mattarella) fu coronato da successo, attuando con il maggioritario un punto decisivo del “Piano di rinascita” di Licio Gelli. E il maggioritario aprì le porte a Berlusconi & successori.
La Costituzione vuole il voto «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48): ma non è eguale un voto che…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

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Il coraggio che manca su Saman Abbas

Ogni tanto capita anche a coloro che si espongono a gran voce per i diritti, quelli che abitualmente non perdono (e per fortuna) occasione di sottolineare le ingiustizie: la paura di essere inopportuni fa tralasciare alcune storie e alcune battaglie. Ci sono del resto vicende che richiedono un certo allenamento alla complessità, che non sono così nette da dividere di primo acchito le tifoserie di una parte e dell’altra, storie che rischiano di non starci nei pochi caratteri di un tweet o nei fulminanti post di Facebook che galoppano nell’algoritmo.

Così il coraggio che manca relega Saman Abbas nel cassetto degli “altri” come se fossero mondi che non abbiamo il coraggio di frequentare e nonostante sia un terribile caso di sospetto femminicidio preferiamo annacquarlo con la stupida idea di un’arretratezza che non ci appartiene, che è roba “loro”, mica roba nostra.

Saman Abbas ad esempio potremmo cominciare a chiamarla Laila, come lei aveva deciso di farsi chiamare per togliersi anche dal nome quel velo di violenza di genere che la opprimeva, comunque sia il finale di questa storia. Laila ha denunciato, ha passato mesi in una struttura protetta, aveva avuto il coraggio di ribellarsi e noi non siamo riusciti a prendercene cura. Anche questa è una storia come molte altre, indipendentemente dalla provenienza e dalla religione.

Bisognerebbe avere il coraggio di dirci che siamo di fronte non solo a un presunto omicidio ma anche a una violenza di genere. Bisognerebbe avere il coraggio (smettendola di avere paura di prestare il fianco alle destre) che queste prassi non sono giustificate né nei Paesi d’origine né dalla religione ma sono figlie della cultura del patriarcato: i matrimoni forzati e i crimini sessuali sono condannati dal codice penale anche nei Paesi d’origine. Bisognerebbe smetterla una volta per tutte con questa narrazione di donne che “vogliono diventare occidentali” con la solita boria da superiori: si tratta di donne che vogliono essere libere, che rivendicano il diritto di dire no. Servirebbe una sinistra che abbia il coraggio di dismettere un certo relativismo culturale per cui un femminicidio di una donna straniera passi sotto traccia. Davvero siamo di fronte a una sinistra con una così bassa capacità di elaborazione per cui teme di risultare razzista? Si potrebbe perfino avere il coraggio di ammettere che un caso del genere sia il risultato di una mancata integrazione (ammetterlo con onestà, senza paura) poiché i ricettori del territorio (che siano le istituzioni, la scuola, i contatti sociali) non sono stati in grado di allertare una risposta integrata. Bisognerebbe avere il coraggio di leggere i numeri dopo l’istituzione in Italia del reato di matrimonio forzato (dal 2019) che sembrano indicare poche denunce e poche risposte.

Bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che regalare una battaglia del genere a Salvini che vede solo stranieri da strumentalizzare significa non essere capaci di comprendere (e di spiegare) che qui si tratta di diritti umani. Quelli sono il punto.

Buon lunedì.

La fine delle città, l’umiliazione dei cittadini

In questi giorni, la piaggeria verso il primo ministro Mario Draghi ha superato se stessa, con l’elogio del numero di pagine del Recovery fund inviato a Bruxelles. Ben 2.480 pagine, si è detto, a fronte delle 500 presentate nella precedente bozza del governo giallorosso. Il numero di pagine come indicatore assoluto di bontà dell’impostazione del piano. Un modo molto comodo per non misurarsi con la più macroscopica assenza contenuta nel documento approvato dal “governo dei migliori”, quello relativo al sistema città. Ci torneremo dopo. Conviene iniziare da alcune questioni di sostanza che pure non sono sfuggite ai sostenitori del nuovo governo, e cioè l’aver scardinato il Codice degli appalti, di aver ribadito che l’unico modo per fare le grandi opere è quello di tornare alla Legge obiettivo del governo Berlusconi e di aver mortificato il ruolo di tutela delle Soprintendenze di Stato. La Repubblica tutela il patrimonio artistico, recita la nostra Costituzione. Un vestito troppo stretto per gli economisti liberisti che collaborano con il premier.

Iniziamo con ordine. È noto che negli anni Ottanta il malcostume dilagò nel sistema degli appalti pubblici. Sono stati innumerevoli gli scandali e le malversazioni compiute nell’esecuzione di opere pubbliche. Nel 1994, dopo Mani pulite, l’allora ministro dei Lavori pubblici, Francesco Merloni, corse ai ripari e fece approvare una legge in grado di sconfiggere per sempre il malaffare. La legge per il suo grande rigore incontrò sin da subito forti resistenze da parte confindustriale e fu sottoposta a molte variazioni.

Ma non si era mai arrivati a pensare che – come nella bozza che è circolata per alcuni giorni – si potesse tornare ad affidare le opere indispensabili per l’ammodernamento del Paese attraverso il…


L’articolo è tratto da Left del 4-10 giugno 2021

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Xi Jinping e la lunga marcia dell’archeologia cinese

Members of the National Cultural Heritage Administration (NCHA) work at a site of Sanxingdui Ruins in Guanghan City, southwest China's Sichuan Province, 20 March 2021. Archaeologists have found six new sacrificial pits and unearthed more than 500 items dating back about 3,000 years at the Sanxingdui Ruins. (Imaginechina via AP Images)

Nei primi mesi del 2021, dal sito archeologico di Sanxingdui, a 40 km da Chengdu, capoluogo della provincia del Sichuan nella Cina centro meridionale, sono emersi dei reperti che stanno riscrivendo la storia della civiltà cinese.
L’arco temporale a cui risalgono questi ritrovamenti va dal periodo neolitico (2800 – 2000 a.C.) a quello pre-imperiale (2000 – 771 a.C.) quando sul territorio cinese si succedevano le dinastia Xia, Shang e Zhou.

Attivo sin dagli anni Venti del secolo scorso, Sanxingdui ha finora dato alla luce più di 50mila reperti, tra giade, ceramiche, bronzi e altri oggetti, conservati all’interno di diverse fosse sacrificali. Tra i “nuovi” reperti spiccano un enorme frammento di una maschera in oro che, dicono gli archeologi, considerando il peso potrebbe essere il più grande oggetto aureo risalente a un periodo contemporaneo a quello della dinastia Shang (1200 a.C.), e un’enorme raffigurazione antropomorfa in bronzo della stessa epoca, che sembrerebbe di matrice probabilmente cultuale.

Nel periodo compreso tra il 2800 e il 771 a.C. il concetto di Cina era ancora ben lontano: dapprima i villaggi neolitici dovettero consolidarsi in comunità sempre più grandi, fino a costituire delle vere e proprie culture a sé stanti con diverse strutture sociali e politiche; da tali culture si formarono poi le dinastie pre imperiali. La prima, quella Xia, ancora avvolta nel mistero, e la successiva dinastia Shang, di cui è stata appurata l’esistenza storica, tutt’ora considerata la culla della civiltà cinese. Per quanto potente ed estesa, però, la sfera d’influenza della dinastia Shang era limitata soltanto a una zona della Cina centro settentrionale, nell’attuale provincia dello Henan, ben distante dall’area in cui è localizzato il sito di Sanxingdui, che sfuggiva quindi al suo dominio.

A rendere emozionanti e rivoluzionarie le scoperte degli ultimi mesi è l’evidente influenza di altre culture limitrofe, stanziate in aree dell’Asia come l’India e il Tibet, sulla cultura di Shu, stanziata nell’area di Sanxingdui, e la conferma offerta da questi reperti che la cultura di Shu non era poi così marginale come si credeva. Al contrario sembrerebbe essere stata una realtà teo-politica evoluta e consolidata, che sta confutando l’ipotesi generalmente accettata che la dinastia Shang, al tempo, fosse l’unica grande dinastia a regnare sul territorio cinese.
Questa importante ritrovamento è solo l’ultimo di una serie di scoperte affascinanti che stanno delineando una vera epoca d’oro per l’archeologia cinese – come il ritrovamento in un cimitero di 80 specchi bronzei di 2000 anni fa o la tomba di due amanti antica di…


L’articolo è tratto da Left del 4-10 giugno 2021

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Se la Toscana rinnega la propria riforma “ambientale”

Foto di Gerhard Bögner da Pixabay

La coalizione di centrosinistra al governo della Regione Toscana nella legislatura 2010-15 qualcosa di sinistra l’aveva realizzato. Una nuova legge sul “governo del territorio” e un piano paesaggistico che insieme fissavano principi e definivano strumenti operativi per contenere gli interessi fondiari e immobiliari privati privilegiando l’interesse collettivo: il contrasto al consumo di suolo, la qualità del paesaggio quotidiano come questione sociale e politica, la corresponsabilità di Comuni e Regione nel garantire il buon governo. Promuovendo procedure trasparenti delle quali rendere conto, monitorandone gli esiti, garantendo la partecipazione dei cittadini sia nella redazione dei nuovi piani urbanistici che in tutti gli interventi rilevanti, anche di rigenerazione urbana.

Non era stato semplice, in un contesto politico comunque fortemente ancorato alla rappresentanza dei diversi interessi economici locali. Il dibattito aspro e infido relativo alle cave delle Apuane e ai grandi impianti di nuovi vigneti rappresentava soltanto la punta di un enorme iceberg, evitato solo grazie a un grande lavoro delle rappresentanze politiche più avvertite, e a una straordinaria mobilitazione delle associazioni civiche e ambientali. Quando Renzi, già sindaco di Firenze, nel febbraio 2014 era diventato presidente del Consiglio dei ministri, la strada s’era fatta ulteriormente in salita. Soprattutto per il Piano paesaggistico, approvato agli sgoccioli della legislatura grazie anche al contributo della sottosegretaria Borletti e del ministro Franceschini.

«La nostra risposta politica [per porre un freno all’inerzia delle scelte e alla rendita immobiliare] è stata il Piano del paesaggio e la nuova legge sul governo del territorio», scrive nel 2016 Enrico Rossi, il presidente che comunque in questa riforma aveva creduto, e senza il quale non sarebbe stata possibile. Ma anche un politico di lungo corso non particolarmente rivoluzionario come Gianfranco Venturi, allora presidente della commissione consiliare Ambiente e territorio, aveva salutato l’approvazione della nuova legge 65/2014 come un atto «che pone oggi la Toscana in primo piano nelle politiche di difesa del suolo e buon governo del territorio». Non erano esaltazioni improprie, in un contesto nazionale che andava in direzione opposta, e in un Partito democratico dove le politiche emiliane di riduzione della pianificazione del territorio a negoziazione con gli interessi privati non facevano problema.

Oggi questa riforma coraggiosa, già resa zoppicante da mancate attuazioni e ripetute modifiche, corre il rischio di essere definitivamente azzerata. Nella campagna per le elezioni regionali Italia Viva aveva promesso di smontarla. La nuova giunta Giani traveste ora l’ennesima proposta di modifica della legge di governo del territorio da atto dovuto per il recepimento di normative nazionali, con contenuti davvero sconcertanti: rinuncia a verificare gli effetti territoriali dei piani settoriali e a garantire conseguentemente l’integrazione delle diverse politiche, legittimazione degli aumenti di volume per gli edifici localizzati in aree a rischio idrogeologico, proroga delle previsioni urbanistiche non utilizzate che dopo cinque anni non possono più essere cancellate, e così via. Una serie di portatori di interessi privati, ovviamente, plaude all’innovazione.

A Enrico Rossi era ben chiaro come, di fronte a un referendum che si proponeva di riportare in capo allo Stato tutte le competenze in materia di governo del territorio, qualificare l’azione regionale in questo campo fosse decisivo per difenderne le competenze. E queste competenze sono in effetti tuttora condivise fra lo Stato, che dovrebbe dettarne i principi, e le Regioni, che hanno il potere di declinare i principi in legislazioni proprie. La Toscana sta buttando progressivamente alle ortiche il credito conquistato al riguardo, e non sembra nemmeno farlo in modo consapevole.

Se le competenze regionali vengono esercitate in questo modo, tanto vale che lo Stato se le riprenda.

*L’autrice: Anna Marson, già assessore regionale toscana all’urbanistica e pianificazione, è professore ordinario di Pianificazione del territorio presso l’​Università IUAV di Venezia


L’articolo è tratto da Left del 4-10 giugno 2021

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Il senso di Emergency per il diritto alla salute

Non è la savana sterminata a fare da scenario, né la foresta decidua del Madagascar, l’unica in Africa che può essere chiamata “giungla”. È invece sulle sponde del lago Vittoria, a Entebbe in Uganda, che il Centro di chirurgia pediatrica di Emergency ha aperto ad aprile.
Un traguardo importante per l’associazione umanitaria, che ormai da dodici anni è impegnata nello sviluppo di strutture sanitarie specializzate nel continente africano. «L’ospedale in Uganda nasce dal centro Salam di cardiochirurgia, inaugurato nel 2007 a Karthum, in Sudan» racconta Rossella Miccio, presidente di Emergency. Tutto ha inizio dall’inaugurazione dell’ospedale e dal confronto con una delegazione del ministero della Sanità ugandese. «Fu proprio l’allora viceministro alla Sanità che lanciò il sasso», esprimendo la volontà di realizzare una struttura specialistica. Avevano bisogno di qualcuno che li sostenesse, per dar vita a una realtà fondamentale «non solo dal punto di vista della cura ma anche da quello della formazione del personale». Un anno dopo, il seminario “Building medicine on human rights” nell’isola di San Servolo, a Venezia. Qui si pongono le basi dell’Amne, l’African network of medical excellence, la Rete sanitaria d’eccellenza nata nel 2010 e composta da undici Paesi africani.

Proprio qui Emergency invita i ministri della Sanità delle nazioni confinanti con il Sudan e, dopo aver condiviso i primi risultati incoraggianti del centro Salam, si fonda un sodalizio che porterà da un lato all’impegno dei Paesi africani nel trovare risorse utili a creare sistemi sanitari specialistici – non limitati quindi alla sanità di primo livello -, e dall’altro alla definizione di alcuni principi indispensabili per una sanità veramente inclusiva. Uguaglianza, non discriminazione nell’accesso alle cure, qualità, responsabilità sociale. Si stabilisce con decisione che “qualità” non significa, come potrebbe accadere in questa parte di mondo, acquistare il modello di apparecchiatura più avanzato, ma mettersi dalla parte del paziente e per questo motivo incrementare i processi di formazione, scardinando le logiche fagocitanti del profitto in ambito sanitario.

Quanto al concetto di responsabilità sociale, la dichiarazione si fa ancora più decisiva, perché richiama i Paesi e i governi ad essere i primi responsabili nel garantire cure gratuite ai propri cittadini.
Dopo un anno di fermo a causa della pandemia, l’ospedale di Entebbe apre le porte della struttura progettata pro bono da Renzo Piano e dal suo Studio Rpbw assieme allo Studio TAMassociati e alla Building division di Emergency. La struttura si estende su un terreno di…


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Il giubileo di Confindustria

Foto Claudio Furlan - LaPresse 06 Ottobre 2020 Cremona (Italia) News Assemblea Generale Associazione Industriali di Cremona presso CremonaFiere Nella foto: Carlo Bonomi Matteo Salvini Photo Claudio Furlan - LaPresse 06 October 2020 Cremona (Italy) Assemblea Generale Associazione Industriali di Cremona In the photo: Carlo Bonomi Matteo Salvini

Carlo Bonomi il presidente di Confindustria, ha segnato in agenda due date attorno alle quali ha dichiarato di voler «massimizzare l’effetto sul Pil in un’onda molta lunga» (tradotto, realizzare speculazioni e profitti): il 2025, anno per il quale il Vaticano ha già calendarizzato la rituale slot machine della fede, meglio nota come Giubileo, e il 2033, data in cui i cattolici festeggeranno i duemila anni dalla asserita uccisione del loro dio Gesù.

Le prospettive di Confindustria suscitano più di qualche riflessione. Il brand religioso è sempre stato appannaggio esclusivo del clero vaticano, che lo ha minuziosamente curato assicurandosi l’accaparramento di ogni centesimo speso a Roma dai turisti della fede, dagli alberghi ai pullman, dalle guide museali alla vendita delle bottigliette d’acqua per strada, dagli aerei alle statuine di plastica dei loro dei. Tutti i governi, di qualunque colore, d’intesa con i sindaci di Roma, hanno sempre elargito grandi investimenti per migliorare la qualità della ricettività turistica affinché il clero, e solo il clero, potesse avere in via esclusiva, un ritorno economico degli investimenti.

Confindustria, in effetti, ha lanciato un’opa su…


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Raffaele Guariniello: Sicurezza sul lavoro, quanta strada da fare

Ha appena inviato alla Commissione europea «un lungo documento» in materia di tutela penale dell’ambiente. E sullo stesso argomento a giugno 2020 ha anche presentato una proposta di legge. Raffaele Guariniello, il magistrato noto per il processo ThyssenKrupp e il processo Eternit, continua a darsi da fare sul tema della sicurezza del lavoro e dell’ambiente. «Non serve piangere o scoraggiarsi, bisogna agire», dice. E aggiunge: «Rimango colpito da eventi come quello di Stresa o di Prato, ma sono amareggiato ogni volta che riascolto le consuete parole d’ordine, anche in sede istituzionale, sulla necessità di fare cultura della prevenzione e della sicurezza».

Per la sua esperienza maturata in tanti anni di inchieste e per la sua conoscenza delle norme a tutela della salute dei lavoratori, comprese quelle sull’emergenza Covid (v. Left del 30 ottobre 2020) abbiamo chiesto la sua opinione nel momento in cui, con l’accelerata del Piano nazionale di ripresa e di resilienza e l’obbligo di “fare in fretta” per la ripartenza dell’economia, è grande il timore di un allentamento nella difesa della salute dei lavoratori. «Non c’è bisogno del Pnrr per trovarsi in una situazione allarmante – risponde – perché prima del Piano, purtroppo, abbiamo dovuto registrare una grave carenza di sicurezza, gli infortuni continuano a capitare e soprattutto persistono le cause profonde di questo fenomeno», dice il magistrato.

Sono due le cause: «La prima è la grave crisi degli organi di vigilanza, sia l’Ispettorato nazionale del lavoro, sia le Asl che sono state un po’ abbandonate a se stesse. E questo ha significato carenza di organici e carenza di professionalità. La seconda è la crisi della giustizia penale, un fenomeno che sto sottolineando da anni. E cioè il fatto che i processi penali in materia di sicurezza in ambienti di lavoro e di vita o non si fanno proprio o si fanno, ma purtroppo con una tale lentezza, che molto spesso finiscono con la prescrizione dei reati come omicidio colposo, lesione colposa e anche disastro colposo». Le norme, continua Guariniello ci sono, e buone, ma rimangono scritte sulla carta e non trovano concreta applicazione. Il risultato è, da un lato, il diffondersi di una tendenza tra le imprese a pensare che queste norme «si possono impunemente violare» e dall’altro, «un senso di ingiustizia negata tra le vittime e tra i parenti delle vittime».

Di fronte a questa carenza della giustizia penale che incide sul senso collettivo della garanzia dei diritti, il Pnrr apre uno spiraglio? «Ho letto più volte tutto il Piano cercando delle soluzioni. Si sottolinea l’esigenza di intensificare l’azione di vigilanza contro il fenomeno del caporalato e si danno indicazioni volte un po’ a riorganizzare gli uffici della procure della Repubblica. Bastano? No, sono insufficienti. Il caporalato è un fenomeno grave, ma c’è un problema più generalizzato che interessa tutto il Paese, in tutte le varie aziende e imprese». «La mia speranza – sottolinea Guariniello – è che si possa andare oltre queste indicazioni contenute nel Pnrr. Bisogna prendere ulteriori provvedimenti, aumentare gli organici e la professionalità non solo dell’Ispettorato nazionale del lavoro ma anche delle Asl. Sento dire che ci sono i controlli. Ma dove sono?».

Sul piano della giustizia penale, anche alla luce della sua esperienza del processo ThyssenKrup che si è concluso dopo dieci anni ma si è salvato dalla prescrizione perché le indagini sono state fatte in due mesi e mezzo, con magistrati che sapevano come muoversi, Raffaele Guariniello rilancia una sua proposta avanzata ormai da anni e finora rimasta inascoltata: «Una riforma della giustizia penale che comprenda l’istituzione di una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro e più in generale in materia ambientale. Abbiamo procure troppo piccole dove ci sono bravissimi magistrati, ma che non hanno modo di specializzarsi. E invece la specializzazione è la chiave di volta».

Uno dei problemi della sicurezza evocato ultimamente è quello relativo alle condizioni di lavoro negli appalti e nei subappalti, al centro del decreto Semplificazioni. Non è una preoccupazione infondata. «Nelle sentenze che leggo ormai da tanti anni l’infortunio in ambito degli appalti e dei cantieri è il fenomeno più frequente. Ma le norme ci sono ed è importante che non vengano toccate, che si continui a imporre la sicurezza e che se ne verifichi l’osservanza». Il magistrato ci tiene poi a fare chiarezza: «Le norme per un infortunio che avviene nei subappalti non ritengono responsabile solo il subappaltatore, ma anche l’appaltatore e il committente che ha l’obbligo di organizzare l’assistenza anche in rapporto al caso del subappalto. È chiaro che più si va scendere e più aumentano i pericoli, ma le leggi prevedono anche questo. Il decreto 81, il Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si preoccupa di evitare che i costi della sicurezza possano essere suscettibili di ribasso. E questo viene detto anche per i cantieri temporanei o mobili».

La conclusione, quindi, di fronte a qualsiasi scenario si venga a creare, è netta: «È importante che questa norma rimanga. Se vogliamo modificare il decreto 81, facciamolo, ma per renderlo ancora più incisivo. Questa norma contro il ribasso è stata messa per evidenti ragioni, perché l’impresa appaltatrice o subappaltatrice per vincere l’appalto potrebbe cercare di ridurre i costi della sicurezza, ma la legge è chiara, non si possono ridurre». Il tema della sicurezza sul lavoro riguarda l’annoso problema della cultura d’impresa ma non solo. Guariniello solleva l’attenzione sugli Rls, cioè i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza a cui sono demandati compiti di verifica e di controllo. «Un mestiere molto difficile, molto delicato. Come dice il decreto 81, nell’ambito di un’azienda l’Rls “non deve subire pregiudizio alcuno”, ma poi in concreto non è così. E poi è realmente formato? Gli Rls rischiano di essere dei figli di nessuno, non li possiamo abbandonare a se stessi, anche i sindacati devono farsi carico di aiutarli nell’assolvere i loro compiti che sono, appunto, delicati».

La sicurezza sul lavoro, infine, non può essere disgiunta da quella ambientale, che spiega l’impegno recente dell’ex magistrato dopo che la Commissione europea ha lanciato una campagna per modificare una direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. «Le due cose – lavoro e ambiente – non si possono disgiungere. Il processo Eternit ci ha insegnato che i rischi non restano confinati nell’azienda ma finiscono per coinvolgere tutta la popolazione. Ogni anno a Casale Monferrato – e l’ho segnalato anche alla Commissione Ue – muoiono 50 persone, sono cittadini esposti all’amianto nell’ambiente. Purtroppo tanti procedimenti penali in materia di crimini ambientali sono finiti in prescrizione». La proposta di legge che Guariniello ha presentato come presidente della Commissione amianto nel giugno 2020 prevede norme nuove tra cui «una che prevede che quando si verifica un disastro, il reato si consuma fino a quando si verificano gli effetti, non basta cessare l’attività dell’azienda». È stata recepita questa proposta di legge dalle forze politiche? «È rimasta lì, è ferma».


L’intervista è stata pubblicata su Left del 4-10 giugno 2021

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