Home Blog Pagina 391

Sono attrice, ma per me niente fiction in Italia

Rearview of a young woman opening the curtains in her bedroom

Ciao Gabriella, mi chiamo Elisa e ho 31 anni. Sono nata in Italia da genitori camerunensi che hanno scelto il nostro Paese perché 40 anni fa era pieno di opportunità per i giovani, anche quelli neri.
Mio padre ha subito avviato una attività di import export che ha avuto molto successo e mia mamma, prima di avere noi figli, lo aiutava con la contabilità.
Ho avuto una vita molto tranquilla, piena di amore e tantissimi amici di ogni etnia.
Il mio quartiere era famoso per essere una babele dalle mille sfumature e religioni.
Grazie al cielo siamo cresciuti nel benessere e con l’idea di poter essere liberi di scegliere il lavoro che più si avvicinava alla nostra indole.
Questo mi hanno insegnato i miei genitori, non abbandonare mai i tuoi sogni, tu puoi essere quello che vuoi, dove vuoi.
Peccato che tre anni fa le cose in Italia siano diventate esplosive ed improvvisamente, anche loro, sempre amati dalla comunità, hanno iniziato ad avere problemi e a subire continui atti di razzismo.
Dopo aver conseguito la laurea in filosofia ho deciso di dedicarmi alla mia grande passione, il cinema e il teatro. Ho fatto una scuola di recitazione a Londra e una Roma, ho partecipato a molte serie tv francesi, inglesi e una americana ma nel mio Paese, nella mia Italia non ho mai avuto nessuna possibilità.
Gli unici ruoli che mi hanno offerto negli ultimi anni sono sempre stati gli stessi: prostituta, moglie dello spacciatore, donna delle pulizie, badante.
Questo è quello che la mia pelle suscita nella mente dei registi e di chi produce film, una serie sconfinata di stereotipi e di preconcetti che non rispecchiano più la realtà.
L’Italia di oggi non ha più solo la pelle bianca ma sembra che la nostra televisione non lo voglia ammettere e questo rende più difficile la nostra vita di tutti i giorni.
È arrivato il tempo di contronarrare la pelle nera anche attraverso la finzione. Io devo poter essere chiamata per interpretare il ruolo di una maestra, di una scienziata, di un medico, anche di una semplice mamma che cresce i suoi figli in questa Italia che ci appartiene.
Per i giovani è fondamentale avere una rappresentanza nella quale riconoscersi e i media ci stanno del tutto escludendo e questo purtroppo accade anche quando parlano di noi.
Quante volte abbiamo visto talk show in cui si discuteva di legge sulla cittadinanza o di razzismo o di inclusione senza mai nessuno di diversa etnia che potesse dire la sua.
Sembra che tutti sappiano sempre cosa è giusto dire, cosa ci offende, cosa possiamo o non possiamo fare ma lasciami dire una cosa: non è così, ci dovete ascoltare!
Solo in questo modo ci darete il rispetto e i diritti che ci spettano e forse capirete un po’ di più di come ci sente ad essere continuamente rifiutati o relegati in ruoli sempre negativi.

*

Cara Elisa, questa tua lettera mi ha fatto venire in mente un dialogo tra me e mia figlia proprio su questo tema. A lei piacerebbe molto diventare attrice ma l’altro giorno mi ha detto: «Mamma credo che diventerò architetto e costruirò scuole in giro per il mondo. Il mestiere dell’attrice non fa per me perché farei sempre dei ruoli che non mi piacciono solo perché sono nera».
Negli Stati Uniti i nostri figli possono aspirare a diventare presidente e in Italia?
Quello che tu scrivi a proposito della rappresentanza è fondamentale, ed è una lotta che stiamo portando avanti, sperando che prima o poi qualcuno ci ascolterà.
Abbiamo bisogno di vedere giornalisti, politici, attrici in ruoli importanti, magistrati, presentatori di diverse etnie. I nostri figli devono potersi riconoscere e avere pensieri aspirazionali da figure diverse dal solito stereotipo. Mi auguro di vederti presto in una fiction della Rai nel ruolo che più ti confà, non mollare!

Gabriella Nobile è fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle. Ha scritto il libro “I miei figli spiegati a un razzista”, edito da Feltrinelli con la prefazione di Liliana Segre


L’articolo è tratto da Left del 4-10 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

«Vi racconto la vita delle ragazze che, come Saman, sognano la libertà»

Infibulazione e matrimoni forzati sono pratiche sommerse e poco dibattute in Italia, a volte sottaciute dagli stessi esponenti dei diritti umani e da un certo femminismo intersezionale per timore che vengano strumentalizzate dalla politica. La recente scomparsa della giovane Saman Abbas ha riaperto una ferita che ci riporta alla memoria altri volti – quelli di Hina Saleem, Sanaa Dafani, Shahnaz Begum Butt, Sana Cheema – e ci spinge ad interrogarci su quale sia la linea di demarcazione tra ciò che impropriamente chiamiamo tradizioni, e ciò che invece va contrastato in nome dei diritti umani e che ha un’unica matrice: il patriarcato. Sperando si possa aprire un dialogo che agevoli un cambiamento culturale collettivo ho voluto intervistare Natasha Noreen, nata in Pakistan e trasferitasi in Italia quando aveva 14 anni. Oggi Natasha ha 26 anni, vive in Inghilterra, è un’attivista femminista e fa parte di European network of migrant women.

Natasha, non ti nascondo che quando ti ho proposto questa intervista avevo timore di metterti in difficoltà nel chiederti di affrontare questioni tanto delicate. Perché hai accettato?
Perché so che ci sono tante ragazze che stanno passando dalle stesse emozioni e se racconto le mie è per farle sentire meno sole. Le mie esperienze, anche quelle negative, mi hanno reso la persona che sono ma avrei tanto voluto sapere che non ero l’unica a soffrire in questo modo. Mi sarebbe stato di grande aiuto comprendere prima i fattori che hanno influenzato il mio malessere e la mia crisi d’identità. È importante condividere la propria crescita personale per poter analizzare tutto il dolore che c’è stato dietro a certe scelte e la forza di volontà che mi ci è voluta per arrivare dove sono oggi.

Cominciamo dal tuo arrivo in Italia. Come sono stati i primi anni?
Nonostante in Pakistan frequentassi già la prima superiore, essendo arrivata in Italia a metà anno scolastico sono stata inserita in una classe di seconda media. L’interprete di allora non ci illustrò bene il sistema scolastico italiano, e questo ha provocato il mio primo disagio: non mi sentivo di appartenere a quel gruppo perché ero più grande. Aver perso subito due anni di scuola mi ha penalizzato.

La vita sociale invece com’era, avevi amici?
Oltre ad essere molto timida il fatto di non avere il permesso di uscire, se non raramente e solo per andare in biblioteca, mi ha impedito di avere rapporti normali. Non avevo una visione aperta della società, e nemmeno una grossa stima di me stessa. Le uniche relazioni erano quelle con gli amici lasciati in Pakistan, coi quali mi sentivo al telefono. Si usavano le carte ricaricabili, ricordo che per comprarle di nascosto mi facevo 4 chilometri a piedi (più quattro al ritorno!); mi costava talmente tanta fatica che ho dovuto lasciar perdere.

Alle superiori le cose sono migliorate?
Alla timidezza si aggiunse una depressione fortissima. Mi sentivo di non appartenere, di non essere al posto giusto nel momento giusto. Avevo dentro un senso di inferiorità che partiva da casa mia e si espandeva alla società. In prima superiore decisi che avrei smesso di portare il velo, almeno in questo a casa non mi hanno oppresso eccessivamente per rimetterlo, ho avuto fortuna. Poi decisi che avrei smesso anche i vestiti pakistani; comprare i primi jeans in Italia fu una conquista incredibile! Guardando indietro ricordo ancora il dolore vissuto a livello psicologico e le lotte coi miei per mettere quei jeans. Quel giorno, tutta fiera, andai a scuola e sentii i commenti delle compagne sul fatto che non avessi stile: anche quello è stato pesante. In quel periodo poi dovetti rinunciare alla scuola per due anni a causa della malattia di mia madre. Quando ho potuto riprendere gli studi sono ripiombata nel disagio di essere più grande di tutti gli altri.

Veniamo alla questione di Saman Abbas e alla sua scomparsa. Ormai tutti gli indizi portano al femminicidio, che idea ti sei fatta di questa vicenda?
Ho il cuore spezzato. Sono arrabbiatissima percheé fin dal principio, pur avendo cercato di essere ottimista, ho avuto la certezza che avesse fatto una brutta fine. Più arrivano dettagli e più mi convinco sia un altro femminicidio basato sull’onore della famiglia, offesa per il rifiuto del matrimonio della propria figlia. Purtroppo conoscendo la comunità pakistana non mi stupisce. Questo gesto estremo contiene un messaggio chiaro non solo per i propri figli, ma per tutta la comunità, sia in Pakistan che in Italia: quello di far capire a noi ragazze a chi apparteniamo, che non dobbiamo sognare, bensì essere ciò che si aspettano da noi, ragazze remissive che obbediscono alle tradizioni e alla religione. Ogni minimo movimento al di fuori di queste regole viene visto come un pericolo per la comunità intera.

L’Unione delle comunità islamiche d’Italia ha dichiarato in un comunicato l’intenzione di emettere una fatwa sull’illeicità di infibulazione e matrimoni forzati. Tu ci credi o resteranno solo parole?
La cosa che più mi spezza il cuore è il silenzio della comunità pakistana che reagisce sempre alla stessa maniera, cercando di proteggersi dietro alla violenza di una sola famiglia. Penso che tutte le persone, inclusa me, siano coinvolte con la loro omertà. Non facciamo abbastanza per promuovere l’idea che le ragazze debbano avere la libertà di vivere, o far sapere alle ragazze che hanno il nostro appoggio. Questa rabbia la rivolgo anche a Ucoii perché non so concretamente se questa fatwa verrà mai messa in pratica dai fedeli. Trovo anche irrispettoso dover trovare motivi religiosi per rispettare una persona, specie se si tratta dei propri figli. Non trovo morale cercare nelle religioni motivi di rispetto, anche perché, come nel caso dei matrimoni, sono frutto di una manipolazione durata anni.

Tornando ai tuoi genitori, hanno fatto differenze nell’educazione fra te e i tuoi fratelli?
Nelle nostre famiglie allargate i miei due fratelli venivano adorati mentre io, che avevo il desiderio di sentirmi speciale essendo l’unica femmina, mi sentivo esclusa, non voluta. Da piccoli avevamo un ottimo rapporto tra noi, ma crescendo hanno cominciato ad accusami di ferire i miei genitori e io devo ancora oggi difendermi da queste accuse. Il rapporto con mia mamma, anche se ora è evoluto, era una lamentela continua nei miei confronti. Papà durante i primi anni in Pakistan l’ho visto pochissimo e ne conservo un bel ricordo. Poi tutto si è incrinato con la convivenza: io mi ero immaginata un papà diverso e lui una figlia diversa. Mi voleva più tradizionale mentre io rincorrevo un unico sogno: la mia libertà. A 16 anni, durante una lite, gli ho urlato: “perché non mi lasciate vivere la mia vita?”. È stato l’ultimo litigio, da quel giorno non mi ha più rivolto la parola, se non per le domande di rito. Mi ha rinnegato dicendo che se non potevo essere una figlia rispettosa, tradizionale, alla sua maniera, di me non aveva bisogno. In questi ultimi dieci anni ci siamo sentiti ogni tanto al telefono; se torno a casa e capita una discussione, visto che la mia opinione non conta mi ritiro nella mia camera. Mi dispiace perché umanamente sono bravissime persone, ma come genitori non mi hanno mai appoggiato.

Spesso certe richieste dei figli vengono delegittimate come capricci: “ragazze che vogliono vivere all’occidentale”. Ti saresti ribellata a certe regole anche in Pakistan o la tua ribellione è nata vedendo come vivevano le tue coetanee occidentali?
Che bella domanda, ci penso spesso! Intanto ti dico che il 90% delle amiche pakistane hanno finito per sposarsi subito. Hanno tutte in comune questa cosa di vivere una doppia identità. Chi si veste all’occidentale – che poi è jeans e maglietta, niente più – esce di casa coperta dalla testa ai piedi perché le famiglie nemmeno sanno di questo desiderio. Faccio fatica a capire questa doppia identità che non trova una via di mezzo e che si nutre di estremi. Forse anch’io avrei potuto fare la stessa fine ma, già prima di arrivare in Italia sognavo di emanciparmi. È un desiderio che c’è, specie nelle giovani, ma viene continuamente ostacolato: dalla famiglia, dai parenti, dagli amici di famiglia… mille strati di persone che ti limitano, tra minacce continue e insulti psicologici.

Nella comunità pakistana a che età si comincia a pensare al matrimonio delle figlie? E per i figli maschi come funziona?
Ti rispondo con l’esempio di una mia amica, trasferitasi in Italia che era appena nata. Mi ha mostrato un video che la ritrae e il padre, indicando un ditino le dice “qui è dove porterai l’anello”. C’è una gran paura quando nasce una figlia femmina, è una sorta di disgrazia. La gente dice “sarà questo che Dio voleva?”. Frasi che non celano un senso di dispiacere, derivante dal fatto che il sistema matrimoniale prevede l’allontanamento delle figlie dai propri genitori, quasi fosse un addio. Anch’io verso i dieci anni già sapevo che la mia realtà sarebbe stata quella. Per i ragazzi è diverso: loro vengono educati a diventare stabili economicamente, è un altro tipo di condizionamento, non si sposano ragazzini.

In Italia abbiamo leggi che proibiscono l’infibulazione e i matrimoni forzati, una rete di aiuto di centri antiviolenza e case famiglia, come quella che ha accolto Saman prima della sua sparizione. Però evidentemente non basta. Come dovrebbe intervenire il governo italiano per dare una svolta a questo fenomeno?
Dovrebbe capire che c’è sempre una storia dietro a una ragazza che a 16 anni sparisce dalla scuola. La società dovrebbe cercare ogni indizio per capire che fine fanno le ragazze, io so che il motivo che c’è dietro è il matrimonio forzato. C’è anche un altro aspetto: non necessariamente il motivo è violento. La violenza sta anche nella mancata scelta, nel condizionamento che si attua attraverso una manipolazione che dura anni. Conobbi una ragazza dagli occhi grandissimi che trasmettevano un’immensa curiosità di vedere il mondo; mi disse no, io non potrò mai viaggiare perché nella mia famiglia questo non è permesso. Ci sono tante ragazze da aiutare, le vittime non sono solo quelle che non ci sono più ma anche quelle che vivono impaurite e che hanno perso la speranza di sognare. Il loro sogno di libertà non è fasullo, non è al di fuori della loro portata, bisogna farglielo sapere.
Il governo deve fare la sua parte nell’educare, non basta insegnare l’abc della grammatica, bisogna costruire un dialogo tra comunità. Anche se la provenienza è diversa, una volta che si è cittadini italiani le cose cambiano. Anche gli stranieri devono capire questo.

Nonostante alcune resistenze in Occidente si stanno facendo tante battaglie per contrastare il razzismo e agevolare una società multietnica. Però, oltre al fatto che è difficile penetrare certi tessuti sociali, da parte di alcune minoranze c’è anche una sfiducia di fondo verso la società occidentale, spesso percepita dissoluta, distante, troppo libertaria. Quella di forzare un matrimonio su base etnica per scongiurare i matrimoni misti non è anch’essa una forma di discriminazione?
L’esperienza in Inghilterra evidenzia esattamente quello che hai descritto: è sì una società multietnica, ma dove ogni gruppo si è costruito il proprio quartiere dove non accetta nessuno al di fuori della propria etnia. Per quanto riguarda la comunità pakistana c’è un respinto che trae origine da un senso sotterraneo di superiorità, un mettersi al di sopra degli altri come gruppo umano. Bisogna promuovere l’idea che siamo tutti uguali e che tutti meritiamo lo stesso rispetto. Hai ragione, l’Europa sta dedicando tante energie e risorse nel migliorare questo aspetto e comincia a funzionare perché la gente è più aperta, se ne parla, e la mentalità sta cambiando. Ora bisogna entrare nella fase due: l’Europa si concentri sui migranti per creare un ponte e parlando ai genitori perché non possiamo più limitarci a parlare di rispetto reciproco quando c’è di mezzo la violenza. La cultura deve essere umanitaria e non ideologica.

Il femminismo attivista è forse l’ultima frontiera per tenere alta l’attenzione e combattere il patriarcato nelle nostre società. Tu sei femminista, cosa pensi delle tante associazioni che conciliano il femminismo con la religione? Secondo te è possibile che questi due mondi si incontrino nell’attivismo?
No, la religione non può coincidere con il femminismo. Personalmente non posso pregare un Dio dell’uomo violento che mi punisce con l’inferno. Piuttosto voglio credere in una Dea Madre, in madre natura, pregherei queste divinità che ti accolgono e ti fanno crescere, senza niente in cambio se non il rispetto. Noi donne non possiamo più permetterci di vivere nell’ipocrisia. Capisco non sia facile spezzare certe catene, ma la liberazione della donna, in qualsiasi parte del mondo, deve sottrarsi da ogni condizionamento patriarcale.

*-*
L’autrice: Agatha Orrico è una freelancer formatasi professionalmente presso la storica rivista Storie Leconte di Roma. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche ed è portavoce del Collettivo Donne contro le violenze.

Neocolonialismo e genocidi del Novecento, la parola non è “perdono” ma “responsabilità”

TOPSHOT - French President Emmanuel Macron looks at the images of genocide victims on display during his visit to the Kigali Genocide Memorial, where some 250,000 victims of the massacres are buried, in Kigali on May 27, 2021. - French President Emmanuel Macron arrived in Rwanda on May 27, 2021, for a highly symbolic visit aimed at moving on from three decades of diplomatic tensions over France's role in the 1994 genocide in the country. Macron is the first French leader since 2010 to visit the East African nation, which has long accused France of complicity in the killing of some 800,000 mostly Tutsi Rwandans. (Photo by Ludovic MARIN / AFP) (Photo by LUDOVIC MARIN/AFP via Getty Images)

Come si fa ad accettare che la memoria di uno sterminio possa essere liquidata con poche scuse formali e una foto di rito nel mausoleo di Kigali? Come si fa ad accettare i capziosi distinguo con cui il presidente Macron, dopo 27 anni, arriva ad ammettere la responsabilità francese nel genocidio ruandese ma negando ogni «complicità»? In soli cento giorni nel 1994, in quel piccolo Paese che oggi è considerato la Singapore d’Africa, anche per responsabilità di Belgio, Germania, Francia e della Chiesa di Roma furono massacrate più di 800mila persone, in maggioranza appartenenti all’etnia Tutsi. C’è voluto oltre un quarto un secolo perché almeno la Francia arrivasse ad avanzare le proprie scuse.

Ci si scusa per aver pestato involontariamente il piede a qualcuno… Di fronte a un sistematico sterminio non è una questione di scuse o di perdono. È innanzitutto una questione di ricostruzione della verità storica occultata per decenni, senza la quale non ci può essere riconciliazione. Questo vale per il Rwanda, è vero per il genocidio in Namibia, è vero per il Canada dove di recente è stata trovata una nuova fossa comune di bambini nativi canadesi nei pressi di una scuola dove preti e suore si affaccendavano per indottrinarli, strapparli dalla loro cultura d’origine, anche impedendogli di parlare la propria lingua, costringendoli alla fame e a vivere ammassati in luoghi insalubri, tanto che molti di loro morivano di stenti e tubercolosi.

Fra i primi in Italia a scrivere dell’atroce vicenda è stato Federico Tulli nel libro Chiesa e pedofilia (L’Asino d’oro, 2010). Abbiamo chiesto al collega di Left di tornare a fare luce sulla strage di bambini ordita da Santa Madre Chiesa nella sua feroce opera di evangelizzazione. Nonostante le sollecitazioni che gli sono arrivate anche dal premier canadese Trudeau, papa Francesco risponde con delle sterili parole di circostanza nei confronti delle vittime e conferma che la Chiesa non intende riconoscere le proprie responsabilità.

Diversamente dalle gerarchie ecclesiastiche, le istituzioni canadesi hanno realizzato un lungo lavoro di indagine per far emergere la verità e il governo di Ottawa ha stanziato risarcimenti miliardari ai sopravvissuti. Purtroppo non c’è risarcimento al mondo per le migliaia di giovani vite spezzate. Ma è un passo importante per il pieno riconoscimento dei diritti delle popolazioni native, negati per secoli dai colonizzatori bianchi.

Va in questa direzione anche la mossa della Germania che di recente ha riconosciuto le proprie responsabilità nel genocidio in Namibia, ma tristemente – fra i ricchi Paesi occidentali – c’è chi teme che questo passaggio storico possa innescare richieste di risarcimento a raffica da parte di altri Stati africani. L’ombra nera del colonialismo continua ad aduggiare tanta parte dell’Europa, dalla Gran Bretagna patria del nazionalismo di conquista, al Belgio che all’epoca di Leopoldo II si rese protagonista in Congo di una delle dominazioni più sanguinarie, all’Italia che ha il triste primato di aver usato gas chimici e che si è resa responsabile di genocidi in Libia ed Etiopia (come ricostruisce il doloroso e bellissimo Il re Ombra di Maaza Mengiste, ora pubblicato da Einaudi).

Tante volte ci siamo occupati delle ferite ancora aperte dei Paesi africani colonizzati e tutt’ora depredati di risorse. Su questo numero torniamo ad approfondire questo tema anche cercando di capire cosa c’è dietro le recenti mosse di Merkel e di Macron, dietro questi loro gesti dal forte significato sul piano simbolico ma che non possiamo non leggere anche in chiave geopolitica.

In un momento in cui Cina, Turchia e Russia avanzano nel continente africano attraverso la diplomazia dei vaccini e della costruzione di infrastrutture, Francia e Germania si giocano le proprie carte anche attraverso la “tattica” della richiesta di pubblico perdono. Ci siamo interrogati su questa gigantesca questione con esperti di geopolitica e colleghi che si occupano di diritti umani e che hanno raccolto per Left testimonianze sul campo.

Lo abbiamo fatto avendo laicamente come faro la parola verità che va a braccetto con la parola responsabilità.


L’editoriale è tratto da Left dell’11-17 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

“Cari Namibiani, scusate se vi abbiamo sterminato”

28 May 2021, Berlin: Federal Foreign Minister Heiko Maas (SPD) during a press conference on the genocide in Namibia. More than 100 years after the crimes committed by the German colonial power in what is now Namibia, the Federal Government recognises the atrocities committed against the Herero and Nama ethnic groups as genocide. Photo by: Tobias Schwarz/picture-alliance/dpa/AP Images

«Anche in veste ufficiale chiameremo questi eventi come è giusto indicarli in una prospettiva odierna: un genocidio». Le parole pronunciate il 28 maggio dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas arrivano al termine di un lungo contenzioso fra Berlino e due delle etnie presenti in Namibia, gli Herero e i Nama, che da decenni chiedevano, a lungo inascoltate, che gli ex occupanti riconoscessero gli orrori commessi. Il riferimento è all’occupazione dell’allora Impero germanico in Africa Australe fra il 1884 e il 1919, e le dichiarazioni, oltre a rappresentare un necessario seppur tardivo atto di riconoscimento delle atrocità perpetrate, possono avviare un processo a cascata, un domino che coinvolgerà altre nazioni africane e inchioderà le potenze coloniali alle rispettive responsabilità.
Oltre alle parole la Germania si impegna nei prossimi trent’anni a pagare 1,1 miliardi di euro in aiuti alla ricostruzione e allo sviluppo, «un gesto di riconoscimento della sofferenza incommensurabile che è stata inflitta alle vittime», ha commentato il titolare degli Esteri. Non si tratterà però di risarcimenti individuali, come richiesto dalle associazioni che rappresentano gli Herero e i Nama, ma di sovvenzioni che lo Stato namibiano gestirà per lo sviluppo, sulla scia di quanto già avviato da Berlino a partire dal 1990. Milioni di euro finiti soprattutto nelle tasche dell’etnia al potere, gli Ovambo, e ben poco per il benessere della popolazione costretta a sopravvivere in baraccopoli sterminate, in cambio di un sostanziale monopolio tedesco nella gestione dei terreni coltivabili e nell’estrazione e controllo delle innumerevoli materie prime presenti, a partire dai diamanti.

Un obolo in cambio di un potere economico immenso. Il timore, assai fondato, degli Herero e dei Nama è di vedere ancora una volta sparire i denari, beffati in quella che ritengono la premessa fondamentale per avviare un vero processo di emersione dalla povertà: poter gestire i fondi a livello di singole comunità. «Non è abbastanza per il sangue dei nostri antenati e il governo namibiano non ha alcun mandato per parlare a nome dei nostri popoli», lamenta Vekuii Rukoro, rappresentante della comunità Herero. «È in corso un tentativo volto a evitare di pagare le riparazioni direttamente ai discendenti delle vittime, motivo per cui le dichiarazioni fanno riferimento a “ricostruzioni” e “riforme”. Si tratta di un insulto ai nostri antenati e alla nostra intelligenza».

«Qualsiasi accordo senza di noi è contro di noi», gli fa eco il portavoce della comunità Nama Johannes Isack rispolverando lo slogan che ha caratterizzato questi anni di trattative. Sia Rukoro che Isaacks sostengono che l’inviato speciale della Namibia per il genocidio, Zed Ngavirue, e con lui il governo, si siano svenduti nell’aver accettato l’offerta. Intanto il namibiano diventa il primo genocidio ufficiale del secolo scorso, anticipando in questa triste contabilità quello turco ai danni della popolazione armena. La dichiarazione ufficiale di riconoscimento dovrebbe essere firmata da Maas nella capitale Windhoek nelle prossime settimane. I Parlamenti di entrambi i Paesi dovranno poi ratificare il testo. Toccherà infine al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier recarsi in Namibia e partecipare a un atto commemorativo in Parlamento, durante il quale chiederà formalmente perdono a nome di Berlino.

Quella messa in atto in Deutsch-Südwestafrika, Africa tedesca del Sud Ovest, è stata…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La risposta da dare a CasaPound

Foto LaPresse - Claudio Furlan 25 aprile 2021 - Milano (Italia) News Manifestazione per la festa della liberazione presso Piazza Castello Photo LaPresse - Claudio Furlan 25 April 2021 - Milano (Italy) Liberation Day demonstration in Piazza Castello

Ieri i «fascisti del terzo millennio» di CasaPound hanno fatto politica come la sanno fare loro, nel massimo del loro spessore e del loro impegno: appendendo striscioni. Poteva andare peggio, visti i personaggi. Hanno affisso in più di 100 città uno striscione con addirittura due parole consecutive («tornare potenza») perché, scrivono nel comunicato stampa, «tornare Potenza non significa solo riconoscere che il nostro paese è stato in grado, nel corso della storia, di sforzi industriali, politici e culturali senza precedenti ma soprattutto comprendere che dobbiamo essere ancora in grado di farne». Poi hanno aggiunto: «L’epoca attuale esige una presa di posizione netta: subire un corso storico, accettando passivamente diktat e imposizioni da organismi esterni ed estranei alla nostra nazione, oppure reagire, rialzando la testa e mettendo in moto un verso e proprio Risorgimento». Hanno usato il Risorgimento perché il Rinascimento era già occupato, solo per quello.

Comunque rovistando un po’ la risposta a CasaPound già bell’e scritta c’è ed è (giusto per farli ribollire) di quel comunista di Pietro Secchia in un suo discorso citato in Chi sono i comunisti. Partiti e masse nella vita nazionale, 1948 – 1970., edito da Mazzotta nel 1977, alle pagine 129-131. Non ha nemmeno bisogno di aggiunte, è già perfetta così:

«Ma voi non siete patrioti, voi non amate l’Italia, dicono i nostri avversari. […] Ma i fatti che cosa dimostrarono? I fatti dimostrarono che i traditori della patria furono i nostri calunniatori, furono i circoli dirigenti della grande borghesia, furono coloro che barattarono l’Italia, che la vendettero allo straniero, che la consegnarono al tedesco invasore, furono coloro che ridussero il nostro paese in un ammasso di rovine e di miserie. Toccò a noi allora, toccò ai comunisti prendere le armi e lottare per cacciare lo straniero, combattere per salvare quel poco che si poteva ancora salvare della nostra Patria, combattere per cacciare l’invasore tedesco e abbattere la tirannia fascista. Noi abbiamo dimostrato con i fatti di amare la patria. Certo il nostro patriottismo non ha nulla a che fare con il nazionalismo borghese. […] Il nostro patriottismo non offende, non ferisce, non aggredisce nessuno perché il nostro patriottismo non è odio per gli altri popoli ma consiste nella volontà di vivere in pace e in amicizia con tutti i paesi».

Ecco tutto.

Buon giovedì.

The European public opinion we need

European lawmakers take part in a debate on EU strategy towards Israel and Palestines at the European Parliament in Brussels, Tuesday, May 18, 2021. The EU has been united in its calls for a ceasefire and the need for a political solution to end the latest conflict, now in its second week, but the nations are divided over how best to help. (AP Photo/Francisco Seco)

We, as directors, journalists, and media operators in various European newspapers, and media, believe that it is essential to determine the conditions for creating a genuine European public opinion.

There can be no true European democracy if there is no European dimension to communication, information, debate, and participation.

We, therefore, need a new dimension of these factors that accompanies national public opinions and that is European.

We need to defend and expand real information pluralism.

To fight the concentration of media power.

To guarantee the autonomy of information systems from political and economic powers.

To protect the freedom of information and investigation of the media and their operators.

To prevent authoritarian government censorship.

To prevent market censorship.

To fight fake news and hate diffusion.

To have information that fights any discrimination based on gender, race, sexual, religious, or cultural orientation.

To have information operators protected and not precarized, exploited, and blackmailed.

To be able to achieve synergies between the media in order to achieve a European dimension by addressing technical difficulties such as language barriers.

We appeal to the European authorities to pay due attention to the content that we are advancing, and that also intend to take up what is stated verbatim in one of the first paragraphs of the resolution on pluralism and freedom of the media in the European Union approved by the European Parliament on 3 May 2018, which states:
«… Calls on the Member States to take appropriate measures, inter alia by ensuring adequate public funding, to safeguard and promote pluralism, independence, and freedom of the media landscape in the service of democratic society; including the independence and sustainability of public service media, associative media, and participatory media, which are fundamental elements of a favorable environment capable of guaranteeing the fundamental right to freedom of expression and information…»

We believe that this suggestion should also be extended to the European institutions.

The serious pandemic, social and economic crisis that we are still experiencing, and the need to redesign a new future for Europe, to which an interinstitutional conference is also dedicated, make it our view that we are pointing out a real priority.

(translation by Alessia Gasparini)

About Media Alliance meeting of May 7th here

Gli avvoltoi su Saman

Era prevedibile, in fondo ne avevamo parlato qualche giorno fa proprio qui e alla fine gli avvoltoi si sono buttati su Saman Abbas usandola come clava per colpire i propri avversari che in questo caso sono la sinistra (che poi, a pensarci bene, beati loro che vedono sinistra dappertutto e noi tutto il giorno tutti i giorni qui a cercarla), le femministe e di sponda anche gli amici degli “stranieri” (perché per loro Saman Abbas è morta perché di fede islamica, mica perché schiacciata da un patriarcato che non la voleva libera) che sarebbero addirittura complici morali.

Mentre le notizie su Saman Abbas disegnano un finale sempre più fosco si moltiplicano gli strumentali appelli di chi urla “e le femministe dove sono?”. Notare che poi siano sempre gli stessi che dipingono ad ogni pie’ sospinto le femministe come delle pazze esagitate rende il tutto ancora più cretino. A questi ovviamente la sorte della ragazza interessa poco, quasi niente, giusto il tempo di usarla come fionda per lanciare i loro sputi e poi tornare nelle loro tane. È la solita banalità del male.

Tra l’altro questi sono gli stessi che stanno trattando la vicenda come una “questione tra stranieri” rivendicando ovviamente la superiorità italiana (sovranisti anche nei femminicidi, che miserabile squallore) e sarebbe curioso sapere cosa ne pensino invece del fatto che Saman Abbas a novembre dell’anno scorso (era ancora minorenne) avesse chiesto aiuto ai servizi sociali di Novellara per non essere costretta al matrimonio, fosse stata trasferita sotto protezione in una comunità di Bologna, e avesse presentato una regolare denuncia ai carabinieri. Non è una storia tra “pakistani isolati”, insomma. Ci sono istituzioni, forze dell’ordine coinvolte. E non solo: l’11 aprile Saman Abbas, ormai maggiorenne, decide di tornare a casa per prendere i suoi documenti e presumibilmente trasferirsi all’estero. Il 22 aprile si presenta (di nuovo) dai carabinieri per denunciare i genitori raccontando che non le veniva permesso di prendere le sue cose, raccontando le minacce di morte a lei e al suo fidanzato pakistano.

I carabinieri si presentano nella casa dei genitori di Saman Abbas solo tredici giorni dopo. Tredici giorni dopo, il 5 maggio. Non trovano più la ragazza e lì cominciano ad affiorare i sospetti e poi l’indagine. Insomma, ci sono un po’ di responsabilità anche di casa nostra, forse, no?

Poi, volendo ci sarebbe il tema vero: questa narrazione di donne che “vogliono diventare occidentali” con la solita boria da superiori e che invece sono donne che vogliono essere libere, che rivendicano il diritto di dire no e che muoiono per questo. Ma del tema vero, credetemi, interessa poco agli avvoltoi.

Buon mercoledì.

Palestina e Israele: la parola ai giovani

A Palestinian man sits on a damaged car following Israeli airstrikes on Jabaliya refugee camp, northern Gaza Strip, Thursday, May 20, 2021. Heavy airstrikes pummeled a street in the Jabaliya refugee camp in northern Gaza, destroying ramshackle homes with corrugated metal roofs nearby. The military said it struck two underground launchers in the camp used to fire rockets at Tel Aviv. (AP Photo/Khalil Hamra)

Nel mese di maggio segnato dalle rivolte palestinesi, duramente represse dalle forze israeliane, dal lancio di razzi di Hamas e dal furioso attacco israeliano su Gaza, è venuta alla ribalta una nuova generazione sia in Palestina/Israele che in Italia e nel mondo. Diamo la parola a giovani ebrei e giovani palestinesi.

Micol, Daniel, Alessandro

C’è chi vive in Italia e chi in Israele

Micol, 24 anni, nata e cresciuta in Italia. Figlia di profughi ebrei scappati dalla Libia nel 1967, dopo un violento pogrom pan-islamico ai danni della popolazione ebraica. Studia per un Master a Londra in Politiche Globali. Laureata in Diritto Costituzionale tra Roma e Tel Aviv. Ha vissuto in Israele circa tre anni e si è impegnata sul campo, principalmente nei Territori Occupati, per una pace giusta e duratura nella Regione; Daniel, 36 anni, nato e cresciuto in Italia, da tre anni è in Israele, dopo aver studiato in vari Paesi. Vi si è trasferito per lavoro, ma anche perché considera Israele un posto in cui “mi è relativamente facile sentirmi a casa – avendo già amici, conoscendo abbastanza bene storia, politica, lingua”; e anche perché, diventando facilmente cittadino, “posso far contare la mia voce politica per migliorare il paese”. Alessandro, 29 anni, nato a Milano, vive a Gerusalemme, non ha avuto problemi ad integrarsi, e si reca regolarmente in Palestina.

Una valutazione delle politiche israeliane
Tutti e tre dissentono da molte delle politiche israeliane, in particolare quelle nei confronti dei palestinesi e dei rifugiati africani. «Nelle agende politiche dei partiti di maggioranza non vi è mai stato neanche un accenno alla questione palestinese, se non in termini di sicurezza per il paese». Micol aggiunge: «Non esiste nessun reale interesse da parte della classe politica israeliana di porre fine ad un sistema di disuguaglianze che rappresenta uno status quo nei Territori Occupati. Come donna, ebrea, il mio impegno per la causa palestinese è correlato a quello per migliorare il futuro di Israele. Nessuno di noi è veramente libero, fino a quando tutti non saranno liberi».

I successi di Netanyahu e il nuovo possible governo senza di lui
Alessandro trova che «Il successo di Netanyahu sia derivato dal mantenere la narrativa del nemico comune. Non è un caso che colui il quale attaccava più duramente I. Rabin, cavalcando l’onda di odio che spaccò in due il Paese tra “fedeli e traditori” sia stato eletto subito dopo l’assassinio del politico laburista». Daniel: «Netanyanhu è giunto al potere nel 2009, dopo una terribile stagione di attentati da parte palestinese, e con una sinistra fortemente indebolita. Ha convinto l’elettorato israeliano gestendo lo status quo con i palestinesi, con un “divide et impera” e una lenta intensificazione dell’occupazione. Ha stretto i legami con paesi arabi come l’Arabia Saudita e con le destre occidentali, consentendo agli israeliani di vivere in relativa sicurezza e all’economia di fiorire, malgrado forti e crescenti disuguaglianze. La fine dell’era Netanyahu è ora possibile, per due ragioni: i processi per corruzione e le sue reazioni “berlusconiane”; il gran numero di (ex) alleati che scalpitano per rimpiazzarlo. È molto interessante il nuovo accordo di governo col partito arabo Ra’am. Da un lato, indica una nuova apertura del mainstream politico israeliano ai partiti arabi. Dall’altro, c’è un allontanamento di parte della società arabo-israeliana dai palestinesi dei territori occupati.

La legge costituzionale su Israele come “Stato-nazione degli ebrei”
Micol e Daniel concordano sul fatto che la legge del 2018, anche se in teoria non intacca i diritti individuali dei cittadini non ebrei, di fatto li relega a cittadini di serie B. In altre parole – dice Micol questa legge mette nero su bianco il fatto che lo Stato appartiene più ad un ebreo americano o belga piuttosto che a un cittadino arabo nato nel paese. Non a caso è già stata invocata in Tribunale per giustificare scelte segregazioniste di amministrazioni locali. Alessandro aggiunge: la legge conferma una realtà già presente sul territorio da decenni. Ci sono diverse categorie di cittadini, ma la narrativa accettata è solo una. A questa egemonia “sionista” (in senso lato) vengono legate la lingua ufficiale e la Storia insegnata. Denota una forte insicurezza nell’affermazione della propria identità, terrorizzata dal poter coesistere con altre.

L’interesse per la “questione palestinese”
Micol lo nutre da sempre. «La maggior parte della mia famiglia vive in Israele e ho diversi amici sia israeliani che palestinesi. C’è il legame profondo , la preoccupazione per la tua famiglia e i tuoi amici in Israele, ma anche la lucida consapevolezza che la situazione attuale nei Territori Occupati rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni. Le attività di solidarietà congiunta sono varie: raccolta delle olive, costruzione di strade o case distrutte… Da lontano, continuo il mio impegno informandomi e facendo informazione, etc…». Per Alessandro l’interesse nasce dallo studio della Storia. «Avendo studiato in un liceo ebraico ho assorbito sin da giovane informazioni completamente distorte riguardo alla realtà sul territorio che ho riscontrato nella mia prima esperienza in I/P nel 2010/11. Ho voluto approfondire la questione viaggiando in West Bank, facendo amicizie a Haifa e Jaffa, parlando con diverse persone con tante storie diverse, e continuerò».

La rivolta palestinese, le nuove generazioni in diaspora, la convivenza
Alessandro constata amaramente quanto fosse fragile una “convivenza” che forse non è mai stata tale, perché il palestinese israeliano è accettato solo se rinuncia alla sua identità. Gli eventi recenti hanno risvegliato una generazione sulla realtà della coabitazione. Avere un partito arabo ad appoggiare il prossimo governo non può nascondere la frattura riemersa nelle ultime settimane. Amici palestinesi del 48 che vivono a Gerusalemme hanno lasciato la città perché hanno paura di parlare in arabo, di vivere nella parte “sbagliata” di una città segregata e profondamente disunita, al contrario della narrativa stantia della Gerusalemme “capitale unica e indivisibile”. Daniel ritiene invece che la convivenza sia una realtà in molte parti di Israele, ma «Gli ultimi eventi hanno reso questa realtà molto più complessa di quanto già non fosse. Il rischio è che nei prossimi anni la realtà dell’occupazione, fra episodi di violenze etniche reciproche e abusi della polizia, si estenda a tutto Israele».

Micol e Daniel osservano che in Israele, soprattutto negli ultimi tempi, cresce la speranza che la sinistra possa rinascere da una partnership di ebrei e arabi. I partiti della sinistra sionista eleggono deputati arabi, cresce il numero degli ebrei di sinistra che votano partiti arabi. Micol aggiunge: «Ho fatto parte di movimenti ebraico-arabi come Standing Together, Peace Now… La strada è lunga e difficile, ma ci sono tanti giovani sia in I/P che in Diaspora che continuano a lavorare insieme per un futuro giusto per tutti, con la consapevolezza che nessuno andrà via da quella terra, e che bisogna trovare il modo di vivere insieme». D’altra parte in Gran Bretagna e negli Stati Uniti i giovani ebrei e i giovani democratici hanno maturato una cultura anti razzista e critica nei confronti delle politiche israeliane. Alessandro ritiene essenziale il ruolo dell’ebraismo diasporico. «Qua in Israele non vedo possibilità di cambiamento nella popolazione ebraica (secondo una ricerca circa l’80% dei giovani tra 18 e 24 anni si dichiara di destra!). La disumanizzazione dell’Altro, il non riconoscimento del Soggetto palestinese e l’educazione machista e militarista hanno creato una distanza incolmabile. Nella Diaspora c’è (non sempre) una visione più lucida, perché fuori da una società perennemente traumatizzata. Il discorso è molto diverso per i giovani palestinesi tra il Giordano e il mare».

Criticare le politiche di Israele è antisemita?
Tutti e tre concordano sul fatto che he l’antisemitismo esiste, a destra e a sinistra, tra gli ignoranti e tra i colti, e fa male. Micol aggiunge: «Più di una volta mi sono trovata di fronte ad un antisemitismo più o meno consapevole, celato dietro le invece legittime critiche al governo israeliano». Questo è oggi l’ostacolo principale per una collaborazione diretta tra gruppi portatori di valori in parte simili ma con identità differenti. Bisogna cominciare a costruire un presente inclusivo per tutti e l’impegno sulla questione palestinese e per la fine dell’occupazione e quello contro l’antisemitismo – ed ogni forma di razzismo- sono due imperativi che devono poter camminare insieme.
Tutti e tre concordano che l’accusa di antisemitismo è spesso e volentieri strumentalizzata e politicizzata fino ad includere ogni critica al governo israeliano. Chi fa questa operazione è parte del problema e toglie valore alla lotta contro l’antisemitismo. Alessandro specifica che «definire il Bds (Boycott, divestment and sanctions, campagna globale contro la politica d’Israele) come “antisemita” mentre è opposizione non-violenta a un sistema ritenuto ingiusto, è una distorsione della realtà. L’antisemitismo esiste e va combattuto ma definire antisemita chi immagina un sistema economico e socio-giuridico più equo in I/P è sbagliato e controproducente».

Maya e Karim

Maya ha 21 anni, nata a Roma, da genitori palestinesi. Studia scienze politiche e relazioni internazionali. Fin da piccola attiva nello spiegare a compagni/e di scuola la storia vera della Palestina.
Anche Karim è nato a Roma, da padre palestinese e madre italiana. È cresciuto in Calabria, poi a Roma per gli studi universitari. Laureato in psicologia, lavora in una cooperativa (ex sprar) con ragazzi e ragazze rifugiati. Attivista da sempre, cercando di informare le persone su quanto succede nella sua terra.

La rivolta dei giovani, ovunque, uniti senza partiti né istituzioni

Maya: Ciò che sta accadendo in quest’ultimi giorni in Palestina, dimostra che il processo di pulizia etnica cominciato 73 anni fa nei confronti del popolo palestinese ancora continua. I giovani che sono scesi in strada, sono pieni di rabbia e dolore ma allo stesso tempo hanno forza, coraggio e voglia di continuare a lottare per difendere la propria terra e le proprie case. Hanno messo da parte le divisioni politiche, per combattere il vero nemico, Israele: dai palestinesi del ’48, ai palestinesi di Gaza, Cisgiordania, ai campi profughi in Palestina, Libano, Giordania e Siria, ai palestinesi in diaspora. Abbiamo capito che le intenzioni di Israele sono quelle di rendere Gerusalemme capitale ďIsraele e quindi realizzare il piano di Trump del 2016. Ma per noi Gerusalemme è intoccabile e resterà per sempre la capitale della Palestina.
Karim osserva che «i giovani attivi sono tantissimi, ma che spesso conta più l’eco mediatica che non le loro capacità espressive. Scendere in piazza, attivarsi concretamente, è l’unico modo per mostrare la propria presenza. È innegabile che la critica venga fatta sia al partitismo, incapace di rappresentare le diversità di opinione della popolazione, che alla politica, rappresentata da modalità proprie del tifo calcistico. Questa unità adesso fa notizia perché c’è stata la capacità di fare passi concreti che non potevano non essere visti; c’è stata la decisione dei singoli e dei gruppi di muoversi insieme per qualcosa che ha un’importanza fondamentale».

Anche in Italia come in Palestina la nuova generazione è protagonista critica

Karim è esplicito: siamo ancora schiavi, politicamente parlando, di concetti ormai antichi ma che si ripetono costantemente, vale per la Palestina come per l’Italia. La nuova generazione sarà protagonista con le proprie idee, non con quelle della vecchia classe dirigente. Io mi sono impegnato in questo grazie alla scoperta di un gruppo di ragazzi palestinesi in Italia su WhatsApp e la formazione di un gruppo di giovani universitari italo-palestinesi. Tante voci e tante idee, non una sola voce. Mi sono confrontato con tantissimi ragazzi diversi. Condannano quanto accade, anche all’estero. Ma Israele è come le sigarette: molti le condannano, non le fumano, sanno che fanno male. Eppure nessuno ha potere a sufficienza per impedirne il mercato. Troppo potenti le multinazionali produttrici e troppi soldi in gioco con i vari governi. Noi, gente comune, italiana, palestinese, e di altre parti nel mondo, abbiamo idee diverse da quelle che ci propinano. Ma abbiamo poco potere…

Maya: «Mi sono sentita in dovere di fare qualcosa di più forte per il mio popolo, di alzare la voce e far conoscere a più persone il vero volto ďIsraele. Qui in Italia, vorrei far conoscere la vera storia, la cultura e le tradizioni del mio popolo. Con il gruppo dei giovani palestinesi di Roma vogliamo andare nelle scuole, università, organizzare eventi e manifestazioni per mostrare la realtà ed essere la voce di chi il mondo ignora. Riteniamo che il cambiamento debba partire dalle scuole, dall’Univeristà. Personalmente penso che sia fondamentale boicottare Israele a livello accademico».

Israele, Gaza, Hamas, la violenza delle armi

Sia Karim che Maya non condividono le scelte politiche di Hamas. Karim non vuole giudicare le azioni conseguenti a violenze subite, individuali o collettiva, ma dice: «Da chi governa mi aspetto altro. Non di condannare a morte uomini, donne e bambini solo per dare un messaggio. La rabbia si può trasformare in lotta fruttuosa, ma quello che è stato fatto non ha valore di strategia. Hai fatto parlare di te, ma non hai ottenuto un vantaggio. La violenza deve essere una cosa del popolo. Il governo dovrebbe avere altri modi di veicolare le proprie emozioni. Scuola, sanità, uguaglianza di genere e di scelte. Io stesso “bombarderei Israele” incessantemente. Ma non sono a capo di nessuno. Se avessi responsabilità su altre persone, non agirei secondo il mio “stomaco” ma farei qualcosa di più duraturo. Dovremmo imparare a costruire qualcosa di più potente e duraturo delle armi: la cultura. La Palestina è ancora viva grazie al sacrificio dei nostri fratelli e sorelle che lottano in patria e dei nostri genitori, che hanno mantenuto la cultura, sapendoci arricchire e portare quanto accade in Palestina anche qui».
Maya è drastica: quello che avviene in Palestina non è una guerra (tra Hamas e Israele) ma un massacro, un genocidio. Non condivido la politica di Hamas, ma quella dei palestinesi è stata una reazione. Noi abbiamo il diritto di difenderci, anche secondo il diritto internazionale. Hamas, ha sfruttato la situazione per far parlare di se soprattutto in vista delle elezioni, mostrandosi come l’unico partito della resistenza. Io ritengo che la vera resistenza del popolo palestinese sia continuare a scrivere e studiare, perché Israele cerca di cancellare la nostra identità e la nostra cultura.

Dopo il cessate il fuoco. Il futuro, la comunità internazionale

Karim vede il futuro incerto. «Da un lato c’è una crescita culturale, la dignità e lo sviluppo umano, la possibilità di conoscere il mondo e le sue diversità, l’educazione, la sanità, la crescita senza cozzare contro la natura, mentre il percorso che, temo, si è imboccato punta ad una omogeneizzazione scriteriata. Lo sviluppo tecnico supera per importanza quello umano, e l’educazione serve solo a uniformare. Prima di rivolgerci a enti come comunità internazionale, Unione Europea ecc, dobbiamo lottare insieme, come esseri umani, studenti, operai, personale sanitario, insegnanti. Le istituzioni, alla fine, siamo noi. Si deve sentire che stiamo iniziando un movimento che arriverà, con la cultura e con la rabbia, anche là. Che vogliamo prendere la strada che porta alla Palestina, ed abbandonare quella che porta ad Israele. Maya pensa che la Comunità internazionale, ľUE e l’Italia devono adempiere ai propri obblighi e avviare sanzioni sulla economia israeliana. L’Italia deve rispettare ľart.11 della nostra costituzione e smettere di finanziare uno Stato criminale. Israele è stato riconosciuto come un regime d’apartheid e come tale deve essere condannato. Deve rispettare le leggi internazionali e le risoluzioni Onu, non si può sentire al di sopra del diritto internazionale e che nessuno faccia niente. Il popolo palestinese ha diritto a vivere in pace sulla sua Terra.

Sfratti, una bomba sociale a orologeria

ROME, ITALY - SEPTEMBER 20: Buildings of social housing the district Ponte Di Nona on September 20, 2014 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Getty Images)

«Fra un mese, se non trovo una soluzione, mi ritroverò con tutta la mia famiglia sotto un ponte. Per adesso non ci sono vie di uscita ma non posso arrendermi». Siamo a Roma e questo è il grido di aiuto di Ilenia, nome di fantasia, che insieme alla sua famiglia vede avvicinarsi sempre più inesorabile la data dello sfratto.

Il 4 maggio il governo Draghi ha approvato un emendamento alla legge di conversione del decreto Sostegni che proroga lo stop agli sfratti per morosità o pignoramento dell’immobile, ma solo per i provvedimenti avviati dopo l’inizio della pandemia. Per gli sfratti notificati prima dell’era del Covid-19, il blocco infatti resta al 30 giugno 2021, mentre tutti gli altri verranno scaglionati fra settembre e dicembre 2021. Una vera e propria bomba sociale ad orologeria secondo le stime dell’Unione inquilini, il sindacato degli affittuari e dei senza casa. Nella sola Capitale a luglio potrebbero essere più di 4.500 e quasi 150mila in tutto il Paese.

Ilenia racconta come la sua famiglia ha perso improvvisamente lavoro e casa. «Io facevo dei lavoretti a nero, mentre mio marito, ipovedente, prima della pandemia lavorava in un albergo. Non eravamo ricchi ma riuscivamo a pagare un affitto di 900 euro e vivere dignitosamente con due figli che studiano. Con l’arrivo del Covid abbiamo perso tutto e…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il fascismo non esiste, milionesima puntata

Immagino che tutti quelli che ieri si sono levati gli occhi sulle prime pagine e in pubblica piazza per la disperazione di dover cantare “Bella ciao” oggi con la stessa energia balilla si staranno sdegnando per l’indagine che ieri ha scoperchiato un’organizzazione neonazista chiamata “Ordine Ario Romano” che aveva radici in tutta Italia.

12 persone tra i 25 e i 62 anni, accusate di associazione a delinquere finalizzata alla propaganda e all’istigazione all’odio per motivi di discriminazione etnica e religiosa, nell’ambito di un’indagine del Ros dei Carabinieri e della procura di Roma che istigavano violenza contro ebrei e extracomunitari, che studiavano sul web le istruzioni per costruire ordigni artigianali e che, con il loro solito senso della misura, avevano in mente di attaccare una base Nato in Italia. Secondo il gip di Roma «la rassegna dei più qualificanti contenuti delle comunicazioni veicolate sulle pagine social del gruppo lumeggia in una visione di insieme l’attitudine a promuovere e istigare condotte violente ispirate a sentimenti razzisti e di discriminazione etnica».  Il Gip osserva anche come «gli innumerevoli post e scritti pubblicati sulle pagine social riconducibili al gruppo e a ciascun aderente» non si limitassero «a perseguire un condizionamento puramente mentale ed ideologico nei confronti degli utenti internet, ma sono palesemente volti a instillare comportamenti concreti, violenti e provocatori».

Gli slogan? “Popolo e razza, contro il giudeo e i suoi complici”, “Difendi la razza, devasta il resto”; “Se sei di Razza, sii fieramente Razzista”; “La nazione non consiste nella lingua ma solo nel sangue”; “cucù, settete: giudei di merda”. A proposito: alcuni esponenti del gruppo erano in contatto social, attraverso la piattaforma Vk, con il professor Marco Gervasoni, il professore romano dell’Università del Molise perquisito nelle scorse settimane nell’indagine per minacce e offese al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quel Gervasoni che tutti i destrorsi di casa nostra si sono buttati a difendere come novello Savonarola. Nel gruppo c’è anche un carabiniere (ma dai?). Tra loro anche Francesca Rizzi, 38 anni, detta Miss Hitler perché vinse un concorso di quelle combriccole. Lei, con un’aquila nazista tatuata sulla schiena, aveva già avuto guai con la giustizia ma evidentemente non riesce proprio a trattenersi dallo spargere odio su Liliana Segre, Laura Boldrini, promettendo forni crematori per fare sparire tutti gli ebrei.

Insomma quelli che ci dicono che “Bella ciao” è uno scandalo sono gli stessi che ci ripetono da sempre che non c’è nessun pericolo fascismo. Quindi immagino che questa mattina censurino con la stessa foga questi pericolosi squinternati.

Ultima cosa: il capo di questi elogiava Giorgia Meloni definendola «molto combattiva». Non ho dubbi che Meloni prenderà subito le distanze, no?

Buon martedì.