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Grandi opere, piccoli risultati

“I soldi ci sono, ora bisogna correre”. Il mantra risuona a reti unificate. Le “riforme” per “rimuovere gli ostacoli agli investimenti” sono la nuova formula magica della politica ai tempi del Recovery fund. Una propaganda ossessiva che eccita l’immaginazione, promette opere rivoluzionarie, sviluppo e lavoro. Ma, finiti gli annunci, restano solo costi esorbitanti e corruzione, precarietà e devastazione ambientale. E il Paese, intanto, continua a piangere le vittime dell’incuria quotidiana.

Lo chiamano il “paradosso delle grandi opere” e funziona più o meno così: un mega progetto muove grandi quantità di denaro con la promessa, sostenuta da politici e mass media, di lavoro e sviluppo. Ma questi benefici sono destinati a restare solo sulla carta: «Più i mega progetti si diffondono nel mondo, più risulta chiaro che i risultati sono ampiamente sotto le aspettative, sia in termini economici che ambientali», scrivevano già nel 2003 gli autori di Megaproject and risk: an anatomy of ambition, libro pubblicato dall’università di Cambridge e ancora oggi l’opera più citata dalla letteratura scientifica nel campo della pianificazione delle grandi opere. «I costi superano in maniera netta i guadagni previsti, quasi sempre sovrastimati», aggiungono gli autori che sottolineano anche il ruolo dei politici impegnati nella «politicizzazione del dibattito» e nel «promettere, per fini elettorali, benefici che non si realizzeranno mai».

Che le grandi opere fossero più utili alla propaganda politica che allo sviluppo delle comunità era anche la conclusione alla quale, già agli inizi del ’900, era arrivato il politico meridionalista Francesco Saverio Nitti. Analizzando le politiche per il Sud nel trentennio successivo all’Unità d’Italia, Nitti sostenne che la creazione di una rete di infrastrutture slegata dalle reali necessità del tessuto socio-economico del Meridione aveva, da un lato, aggravato il divario con il Nord e, dall’altro, garantito alle classi di politici-notabili ottimi argomenti di propaganda per consolidare il proprio potere clientelare. Le nuove reti ferroviarie, sosteneva ad esempio Nitti, avevano garantito alle imprese del Nord l’accesso alla manodopera a basso costo del Sud mentre politici e proprietari terrieri del Meridione si spartivano i ricchi proventi degli investimenti statali.

Ma se la politica si alimenta di questo paradosso, anche i mezzi d’informazione giocano un ruolo. Un esempio è lo scarso rilievo dato, lo scorso giugno, al parere della Corte dei conti europea sulla Tav Torino-Lione. Nonostante la grancassa mediatica che solitamente accompagna l’opera, infatti, le conclusioni dei giudici di Bruxelles hanno trovato poco spazio nel dibattito pubblico. Eppure, queste appaiono chiare: la Tav è un’opera inutile e dannosa. Inutile, perché le previsioni di crescita degli scambi commerciali tra Italia e Francia fatte agli inizi degli anni 90 non si sono mai realizzate. Dannosa, perché, con…

*-*

L’autore: Michele Bollino è giornalista dell’agenzia di stampa Dire


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Legittima offesa

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 13 Giugno 2021 Roma (Italia) Cronaca Sparatoria ad Ardea, un uomo uccide due bambini ed un uomo sulla bicicletta Nella Foto: i rilievi sui corpi dei ragazzi e dell’uomo uccisi Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse June 13, 2021 Rome (Italy) News Shooting in the street in Ardea, killed an elderly man and two kids In The Pic: the forensic on the place where were killed the kids and the man

Era «solo e isolato», «non aveva amici e non si curava»: sono le prime parole pronunciate ieri dalla madre di Andrea Pignani, il 35enne ingegnere informatico che pochi chilometri fuori Ardea ha ucciso l’84enne Salvatore Ranieri e i fratelli David e Daniel Fusinato prima di suicidarsi. Perché quel “pazzo” avesse a disposizione un’arma è una domanda che si pongono quasi tutti, soprattutto alla luce del fatto che Pignani fosse già stato segnalato come «persona instabile». Ecco, appunto, com’è che ci fosse quell’arma?

Conviene fare un passo indietro: lo scorso 10 aprile a Rivarolo Canavese, siamo in provincia di Torino, Renzo Tarabella, pensionato di 83 anni, ha ucciso la moglie Maria Grazia Valovatto di 70 anni e il figlio disabile Wilson di 51 anni, ha ucciso i due proprietari della casa in cui viveva e poi ha tentato di suicidarsi. Anche in quel caso la pistola era regolarmente detenuta, per uso sportivo e nonostante la presenza di un figlio con problemi psichici la figlia ha raccontato che l’uomo tenesse l’arma sempre sul comò ben in vista.

L’Italia è uno dei Paesi con il più basso numero di omicidi in Europa. Nonostante una certa retorica i numeri di omicidi collegati alla criminalità organizzata e per furti e per rapine sono in netto calo. Gli unici omicidi che rimangono stabili sono quelli in ambito famigliare e relazionale: sono stati più 150 nel 2019, poco meno della metà di tutti gli omicidi (315 casi). In sostanza nel biennio 2017/2019 abbiamo avuto 131 omicidi perpetrati con armi regolarmente detenute a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e di 37 omicidi per furto o rapina. In sostanza, lo dicono i numeri, in Italia è più facile essere ucciso da un legale detentore di armi rispetto a un mafioso o un rapinatore.

«Avere un’arma in casa – riporta un’ampia ricerca del Censis – rappresenta una formidabile tentazione di usarla e molti assassini sono in possesso di regolare licenza». E come si ottiene un’arma? Un cittadino esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicodipendente, sostiene un un breve esame dopo che la Questura ha verificato che non abbia precedenti penali. E l’esame medico? Niente di che: c’è un certificato del medico curante e una visita presso l’Asl come avviene per l’esame di guida. Nessun controllo tossicologico, nessuna valutazione psichiatrica. Anzi, a differenza della patente di guida, il rinnovo anche per persone di una certa età avviene comunque ogni 5 anni, sempre con il certificato del proprio medico.

Sulle armi poi c’è la legge voluta dalla Lega (che governava con il M5S) nel 2018 per cui chi è in possesso di licenza (anche se non pratica alcuna disciplina sportiva o la caccia) può detenere tre pistole o revolver con caricatori fino a 20 colpi, 12 fucili semiautomatici con un numero illimitato, e senza obbligo di denuncia, di caricatori fino a 10 colpi e numero illimitato di fucili da caccia. Un gran bel regalo ai produttori di armi.

Non solo: da otto anni l’associazione “Ognivolta onlus – familiari e amici di Luca e Jan” (fondata in memoria di Luca Ceragioli e Jan Frederik Hilmer uccisi da un collega che regolarmente deteneva un’arma con regolare licenza nonostante 3 tentativi di suicidio e nonostante fosse in cura in un centro di salute mentale) chiede l’istituzione di un’anagrafe informatizzata per il collegamento fra le strutture sanitarie e le autorità preposte al rilascio e al rinnovo del porto d’armi, affinché si possa tempestivamente rifiutare o revocare il medesimo a soggetti psichicamente non idonei.

Insomma, siamo sicuri di essere di fronte a un caso isolato? O siamo di fronte a una legittima offesa, legittimata dalle leggi che mungono i produttori d’armi e una certa parte politica?

Buon lunedì.

Così Erdoğan vuole silenziare la voce del popolo curdo

Parlimentary member, Sebahat Tuncel visits the protests at Taksim Square. Protests began as a fight to save Gezi Park in central Istanbul. After the small peaceful protest was overrun by the police force- violently using tear gas and pepper spray, thousands came out in support as well as to protest the AKP Government and its leader Tayyip Erdogan who has been in power for 10 years and has made no secret that he wants to continue. (Photo by Monique Jaques/Corbis via Getty Images)

Le detenzioni e gli arresti delle attiviste e degli attivisti del movimento politico curdo in Turchia, in particolare del movimento delle donne curde, delle solidali e delle militanti di sinistra, ricordano il processo di “caccia alle streghe” iniziato nel XVI secolo in Europa e continuato fino al XVIII secolo, in cui milioni di donne furono brutalmente assassinate sulla base del fatto che erano considerate “streghe”. «La persecuzione delle streghe non era l’oscura, irrazionale, segreta reliquia del Medioevo, ma la manifestazione della nascente società moderna», dice Maria Mies (sociologa, docente universitaria e attivista).

Lo sfruttamento del lavoro delle donne, e dei loro corpi con la caccia alle streghe, l’esclusione dalla vita economica e sociale, e la denominazione di “stregoneria” di tutto ciò che facevano le donne nel campo della scienza, rappresentavano un’espressione dell’istituzionalizzazione del sistema di dominio maschile e dell’eliminazione dell’attività femminile in campo sociale, economico e politico. Come affermato sempre da Maria Mies esiste un legame diretto tra il massacro delle “streghe” e la professionalizzazione della legge.

La repressione del regime di Erdoğan contro le forze democratiche in Turchia, con l’oppressione dei curdi, dei movimenti di sinistra, delle donne e degli ecologisti, attraverso processi, arresti e detenzioni, ricorda proprio la caccia alle streghe e il loro massacro. Coloro che venivano chiamate “streghe” nel Medioevo oggi vengono definite “terroriste”. Tale termine ha un significato talmente ampio in Turchia che praticamente chiunque non obbedisce e non si allinea al potere è passibile di essere definito “terrorista”. Concetti come democrazia, diritti umani, uguaglianza, libertà, pace, sono utilizzati al di fuori del loro senso reale con il solo scopo di proteggere gli interessi del potere, per occultare quello che in realtà fa il governo e per nascondere le sue bugie. L’indipendenza della giustizia rappresenta solo una vuota retorica che copre il vero legame di subordinazione al governo.
Il fatto di non aver preso in considerazione la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che intimava di rilasciare i rappresentati dell’opposizione curda arrestati per motivi politici, dimostra la morte della giustizia turca.

Il potere giudiziario indipendente, che è un elemento indispensabile della società democratica, è purtroppo diventato completamente dipendente dal governo in Turchia. Se pensiamo alle decine e decine di arresti di giornalisti, militanti e attivisti curdi, e agli anni di carcere a cui sono stati condannati solo per le proprie idee politiche, capiamo che oggi la giustizia turca rappresenta una minaccia per la società. Ci troviamo di fronte a presidenti dei tribunali che agiscono come se…

Traduzione a cura di Cosimo Pica


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Altolà compagni cinesi, ora il Partito vuole il terzo figlio

BEIJING, CHINA - MAY 12: Women push children in strollers at a local park on May 12, 2021 in Beijing, China. According to data released by the government from a national census, China's population grew 0.53 percent over the last 10 years down from 0.57 percent a decade ago bringing the population to 1.41 billion. (Photo by Kevin Frayer/Getty Images)

Durante l’ultimo incontro dell’Ufficio politico del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha annunciato una nuova riforma della politica sul controllo delle nascite che permetterà alle famiglie cinesi di avere fino a tre figli, superando la strategia messa in atto a partire dal 2016 che prevedeva un massimo di due nascituri per famiglia. Tale decisione, che risale al 31 maggio, mira a contrastare il picco minimo di 12 milioni di nascite registrato nel 2021 dal settimo censimento generale del popolo cinese, il più basso dal 1960, causato principalmente dagli oltre quarant’anni di politica del figlio unico.

Il Pcc parla di controllo delle nascite sin dai primi anni del suo dominio. Con un tasso d’incremento naturale della popolazione del 20% già nel 1949, nel periodo dal 1953 alla fine degli anni 60 la Cina passò da 600 milioni di abitanti a 800 milioni. Il demografo Ma Yinchu fu il primo a proporre una politica di controllo delle nascite proprio in occasione del primo censimento generale tenuto nel 1953 ma, nonostante il largo appoggio riscosso all’interno del Partito, non riuscì a ottenere il favore di Mao. Nei vent’anni successivi al primo censimento divenne via via più evidente per la leadership cinese che misure per il controllo della popolazione dovevano essere prese. Si tentò prima con l’educazione delle coppie, la diffusione di contraccettivi e l’aborto legalizzato. Nacquero poi, negli anni 70, slogan come “tardi, distanti, pochi”, con cui il popolo veniva invitato a sposarsi tardi e fare due figli, a distanza di anni l’uno dall’altro. Tali mezzi non riuscirono ad arginare la crescita della popolazione, che già nel 1976, anno della morte di Mao, era pericolosamente vicina al miliardo di abitanti. Si arrivò così nel 1979 al lancio della politica del figlio unico, con Deng Xiaoping, che nell’arco di tre anni venne inserita anche nella Costituzione del 1982.

Nei trent’anni di politica del figlio unico, la popolazione cinese è cresciuta di circa 300 milioni di individui e la struttura del nucleo familiare si è solidificata attorno a un modello “triangolare”, che ha giocato un ruolo fondamentale nella trasformazione sociale ed economica della Cina. Ma se da un lato la politica del figlio unico ha creato il terreno per una serie di barbarie contro i diritti fondamentali dell’uomo, come l’aborto e la sterilizzazione forzati, fino all’infanticidio (fatti ben esposti ad esempio in China’s longest campaign: birth planning in the People’s Republic, 1949-2005 edito da Cornell university press, nda), dall’altro ha posto le basi per…


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Una giornata per ricordare i crimini del colonialismo

SOLDATI ITALIANI E INDIGENI NEI DINTORNI DI ADUA, ETIOPIA, FASCISMO, AFRICA ORIENTALE, ESPANSIONISMO, ITALIANO, ANNI 30, B/N, 716613/8, 03-00003295

Della memoria si può fare un pessimo uso, tossico, avvelenando la stessa tenuta democratica delle nostre istituzioni. L’esempio più evidente è il Giorno del ricordo. A Firenze, per parlare delle celebrazioni del 10 febbraio, si è arrivati ad invitare a Palazzo Vecchio un dirigente di Fratelli d’Italia, nonostante abbia pubblicato con case editrici di estrema destra (come Ferrogallico) e abbia partecipato a iniziative di CasaPound.
Com’è possibile arrivare a tanto in un Comune medaglia d’oro della Resistenza? Ci siamo interrogati su questo episodio, come gruppo consiliare di Sinistra progetto Comune, anche guardando alle reazioni importanti che si sono registrate sul nostro territorio, dall’Anpi alla Camera del lavoro, passando per i movimenti e le altre realtà antifasciste.

Tra le cause crediamo ci sia il falso mito degli “italiani brava gente”, apertamente difeso dalle destre in Palazzo Vecchio dopo che, non molte settimane fa, abbiamo depositato una risoluzione con cui proponiamo l’istituzione di un momento annuale in cui fare i conti con il passato coloniale del nostro Paese. Troppo spesso ci raccontiamo di un’Italia che avrebbe fatto l’unico errore di allearsi con il nazismo tedesco, dimenticando come l’Italia stessa abbia portato avanti politiche disumane anche prima dell’avvento del fascismo.
La monarchia ha avuto delle responsabilità enormi, anche prima della Marcia su Roma, di cui l’anno prossimo ricorrerà il triste centenario: razzismo e imperialismo fanno parte della storia d’Italia e non sono ancora scomparse dalla nostra società.

Il 5 maggio, a 80 anni dalla liberazione dell’Etiopia dal giogo fascista, l’area Cultura e formazione di Rifondazione comunista ha organizzato un dibattito importante su queste tematiche, da cui abbiamo tratto, con Dmitrij Palagi, l’ispirazione per un atto che recupera un’azione legislativa rimasta senza seguito dopo essere stata proposta in Parlamento nel 2006. Lì elenchiamo alcune delle stragi portate avanti dalla…

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L’autrice: Antonella Bundu è capogruppo della lista “Sinistra progetto Comune” in Consiglio comunale a Firenze


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Dove hanno sepolto i bambini?

Era solo questione di tempo. Il ritrovamento di una fossa comune con i resti di 215 bambini nei pressi di una cosiddetta Residential school per nativi canadesi della British Columbia ha scosso e indignato l’opinione pubblica mondiale ma ha sorpreso solo coloro che non conoscono o hanno “dimenticato” l’orrenda storia del genocidio canadese. Difatti la scoperta delle piccole ossa di scolari appartenenti alla comunità dei Tk’emlups te Secwepemc, avvenuta nell’ultima settimana di maggio nei pressi della Kamloops indian residential school, non solo squarcia il velo di omertà e complicità su una realtà agghiacciante di cui i nativi canadesi che abitano nell’area di Kamloops sospettavano da decenni, ma si aggiunge a decine di altre scoperte simili avvenute nei primi anni Duemila in Canada e documentate dalle commissioni d’inchiesta governative che nel 2007 e nel 2015 hanno ricostruito gran parte della storia iniziata nel 1874 con l’emanazione dell’Indian act.

Con questo documento redatto insieme ai rappresentanti della Chiesa cattolica, anglicana e battista e fondato sulla “idea” di inferiorità legale e morale degli indigeni, il governo canadese istituì il sistema delle Residential school. Tra le mura di questi istituti per circa 80 anni in Canada sono stati trasferiti circa 150mila bambini figli di indiani nativi delle Prime nazioni (Inuit, Metis etc) per «assimilarli alla cultura dominante» e «farli diventare veri canadesi». In tutto sono state coinvolte almeno 139 scuole; di queste, 79 erano in capo alle diocesi cattoliche e gestite da ordini religiosi. Tutti gli istituti, missionari e non, erano concepiti per sradicare le tradizioni indiane e insegnare, con le buone, o con le cattive, gli usi e i costumi dei bianchi.

Chi varcava l’ingresso di una Residential school era costretto a parlare solo inglese, a dimenticare la propria cultura e a rinunciare alla propria religione per professare quella cristiana e cattolica. I genitori che si ribellavano all’Indian act e alla sottrazione coatta dei figli venivano “convinti” dalle autorità a cedere oppure fatti sparire. Dalle inchieste è emerso che almeno 50mila minori nell’arco di un secolo hanno subìto violenze psicofisiche e sessuali, elettroshock, sterilizzazioni da educatori e insegnanti. Non si contano le ragazze stuprate e costrette ad abortire, né si sa quanti sono i morti o coloro che sono impazziti in seguito alle violenze. Le scuole residenziali sono state chiuse a partire dal 1969, ma l’ultima ha cessato di funzionare soltanto nel 1996.

La Kamloops indian residential school era la più grande del sistema di “rieducazione” canadese. Aperta nel 1890, la scuola contava fino a 500 studenti quando le iscrizioni raggiunsero il picco negli anni Cinquanta. È stata gestita dalla Chiesa cattolica fino al 1969, dopo di che è…


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Eva Cantarella: Libere sì, ma non liberate. La vita delle donne a Sparta

La storia di Homo Sapiens è una storia di emancipazione dai vincoli imposti dalla natura, emancipazione dalla volontà degli dei. È in questo percorso che l’essere umano si scopre libero, e dunque responsabile». Di questo percorso si trovano tracce anche nei poemi omerici. E in questo viaggio, letterario e poetico, dell’umanità verso la propria auto determinazione ci guida Eva Cantarella (che il 12 giugno scorso sul tema ha tenuto una lectio a Reggio Emilia in collaborazione con left  per Le giornate della laicità  ). «È un tema affascinante e vastissimo. Io lo affronto dal mio punto di vista, quello storico», racconta la grande studiosa del mondo greco e latino, autrice di importanti libri come L’ambiguo malanno e Secondo natura, (editi da Feltrinelli) che hanno svelato la misoginia dei filosofi antichi, e hanno permesso di conoscere più approfonditamente la condizione della donna nel mondo antico, così come quella dei fanciulli nella paideia fondata sulla pederastia. «Per preparare quest’incontro alle Giornate della laicità ho pensato che potesse essere interessante andare a cercare le radici, il momento in cui l’essere umano si rende conto di poter essere libero dal fato, quando scopre che la propria esistenza può essere svincolata dal volere degli dei. La crescente consapevolezza della propria autonomia morale è chiarissima nei poemi omerici ma è anche interessante vedere come avviene questo processo».

La storia del diritto all’epoca degli eroi omerici non si profilava ancora…
Gli eroi omerici sono dei personaggi che tutto sommato appartengono alla cultura della vendetta. No, non c’è ancora il mondo del diritto, si stava per profilare all’orizzonte, ma non c’era ancora. Insomma, per dirla con una battuta, il loro comportamento non è esattamente quello del “gentleman” europeo. Nell’Iliade l’ideale è primeggiare, vincere su tutti. L’eroe è quello che sopraffà, che sbaraglia in ogni modo; è colui che riesce sempre a imporre una propria volontà (per dirla in maniera gentile) perché questo significa vincere i nemici. Nei poemi omerici c’è chi ritiene lecito uccidere qualcun altro e addirittura uccidere qualcuno per una presunta offesa. Non ci sono ancora regole precise valide per tutti. Achille si sente offeso anche per uno sguardo. Il personaggio che ci racconta meglio questo aspetto è quello di Ulisse. Lo seguiamo in un percorso in cui cerca di capire quali sono gli atti che vengono considerati involontari, cosa è stato fatto con la violenza fisica e anche psichica, o per obbedire a un ordine superiore. È un processo che via via appare sempre più chiaro nell’evoluzione delle parole. Faccio solo un esempio: eikos originariamente indica “causa ed effetto”, poi diventa “colpevole”, quindi “responsabile” se lo hai fatto volontariamente. Assistiamo così alla nascita dell’etica della responsabilità.
Nell’antichità la peste e in generale le pandemie erano considerate un castigo mandato dagli dei. Ma con Tucidide avviene una svolta, nasce una nuova consapevolezza?
Dal modo con cui descrive la peste di Atene emerge con chiarezza che la pandemia non dipende dagli dei. Tucidide la osserva da storico. Dice: io non sono un medico, ma posso descrivere i sintomi della malattia. Ci dice che non sapevano come seppellire i cadaveri. Scrive che restavano lì e tutto questo naturalmente peggiorava la situazione. Notava anche che la popolazione era concentrata in città e che c’erano problemi di igiene. Leggerlo è impressionante…
In qualche modo si rendeva conto che il problema erano anche gli assembramenti?
Esatto, i ben noti assembramenti erano visti come un pericolo. A un certo punto nacque il sospetto che la peste fosse stata portata dagli spartani, additati come nemici. Tucidide lo riporta come informazione, ma poi come causa individua l’ambiente insalubre, l’eccessiva concentrazione di popolazione e tutto quello che ne deriva. La cosa interessante è anche che lui dice espressamente: io questa cosa ve la racconto perché potrebbe servire in futuro, non si sa mai.
La consapevolezza della responsabilità soggettiva compare nettamente ne L’Edipo a Colono?
Avviene un passaggio dall’Edipo re all’Edipo a Colono. Nell’Edipo re lei si uccide e lui si acceca e se ne va in esilio. Eppure Edipo poveretto non sapeva di aver ucciso il padre e di essersi unito con la madre. Né lui né lei ne avevano contezza. Non possono dire di aver agito volontariamente, di aver provocato volontariamente e aver commesso incesto volontariamente. Solo nell’Edipo a Colono lui afferma: non posso essere considerato colpevole, perché io non lo sapevo, come potevo volere io una cosa che era stata decisa molti anni prima che nascessi. Questo è un accenno interessante. Ci sono solo 30 anni di distanza fra i due testi ma evidentemente le cose stavano evolvendo.
La parola laicità aveva un senso nella Grecia antica, oppure è un concetto del tutto moderno?
Non mi pare ci fosse un equivalente. Ma quanto meno possiamo dire che il politeismo teneva una porta aperta rispetto agli altri dei. Io ho sempre ritenuto che il politeismo fosse superiore rispetto al monoteismo, proprio perché lasciava quanto meno una possibilità di scelta fra tanti dei così diversi l’uno dall’altro. La laicità, nel senso che noi diamo a questa parola oggi, però non trova un corrispettivo di senso. Non c’era il concetto, non c’era l’idea.
Però nella romanità si dava cittadinanza agli dei degli altri, seppur per un fine imperiale.
Questa è tutta un’altra cosa: dare cittadinanza ai popoli che hai conquistato e sottomesso. I Greci si guardavano bene dal farlo. Atene non dava la cittadinanza a nessuno. Ciò a cui non si pensa – e che per certi versi potrebbe apparire paradossale – è che per noi la democrazia coincide con il massimo della democrazia raggiunta allora! E in effetti lo era per quei tempi. Ma, ripeto, non concedeva la cittadinanza a nessuno. Pericle stesso nel 451 a.C. emise un decreto. Prima la cittadinanza spettava a chi nasceva da padre ateniese. Da quel momento in poi per essere cittadini divenne necessario essere nati anche da madre ateniese, un fatto che è stato spesso interpretato come una concessione alle donne, ma in realtà fu una limitazione della cittadinanza. Ci si è chiesti perché lo avesse fatto. C’era la guerra del Peloponneso, mancavano gli uomini, mancavano le donne e Pericle voleva evitare che gli ateniesi sposassero donne straniere. Non fu per un interesse verso il sesso femminile. Semmai quel decreto dimostra come la democrazia ateniese fosse stitica nel concedere la cittadinanza. Erano imperialisti come i romani, secondo me. Anche se su questo si discute a lungo. Ma l’imperialismo ateniese durò pochissimo. Invece Roma riuscì a governare un impero che loro neanche si sarebbero sognati. In che modo lo fece? Anche concedendo la cittadinanza.
Se guardiamo all’emancipazione e all’auto determinazione Atene e Sparta rappresentano due mondi così diversi? Dal suo nuovo libro, Sparta e Atene. Autoritarismo e democrazia (Einaudi), emerge un quadro più sfaccettato e complesso di quanto si pensi.
Riguardo ad Atene abbiamo molte fonti storiche e filosofiche. Di Sparta sappiamo pochissimo. Sul piano della religione erano considerati così superstiziosi da essere presi in giro. Di più è difficile dire…
Quanto alle spartane, che facevano sport all’aperto e non dovevano starsene chiuse nel gineceo, erano davvero più libere delle ateniesi?
Se la domanda è avrei preferito essere nata a Atene o a Sparta, sarei in difficoltà a rispondere. Perché le donne spartane erano infinitamente più libere nei movimenti, però se dovessi sintetizzare in poche parole, direi che erano libere ma non erano affatto liberate. Formalmente, esternamente, non erano vincolate al ruolo di madri. Ma poi vedi che le donne spartane venivano celebrate in quanto madri di uno spartano, possibilmente morto in guerra. La maternità veniva celebrata a parole e solo in quei casi lì. Ma il rapporto fra madre e figlio praticamente non esisteva. Perché a sei/sette anni i bimbi dovevano lasciare la casa e andare in comunità, praticamente non li vedevano più. Questo vuol dire che le madri erano libere da quella che noi chiamiamo attività di cura. Per i servigi domestici avevano gli schiavi. Con ciò è vero che erano libere negli spostamenti, uscivano per strada, facevano sport, si vestivano come volevano rispetto alle ateniesi. Tanto che il buon Aristotele che odiava Sparta le giudicava scostumate. Però la loro era una libertà limitata. Tutti i raccontini delle madri per i figli dicono: meglio che tu muoia guerra. La loro maternità implicava poca frequentazione con i figli, ma anche con gli uomini che, perlopiù erano in guerra o la preparavano. Mi colpisce è che le uniche donne che avevano diritto ad avere il proprio nome iscritto sulla tomba erano quelle che avevano perso un figlio in guerra. Gli ateniesi tenevano molto alla sepoltura. A Sparta no, non c’era il culto del cimitero e non si scriveva il nome sulla tomba tranne nel caso che dicevamo. A me fa impressione. Erano donne libere queste? Fino a che punto queste donne erano condizionate?
Erano condizionate al punto che quando si sposavano nella prima notte si facevano trovare rasate e vestite da uomo per farsi accettare?
Noi la vediamo dal nostro punto di vista femminile, ma lì non c’era. Il problema era far accettare al maschio un rapporto con una donna invece che con un uomo. Uno spartano lasciava precocemente la casa e andava nella agoghé, il corrispettivo della paideia ateniese. Quando aveva 12 o 13 anni poteva avere un amante: era la famosa pederastia dei greci, di cui non si parlava fino al secolo scorso. Quando andavo a scuola io nessuno mi ha mai detto queste cose. La pederastia come modo di formazione del cittadino non era solo una cosa ateniese. C’era anche a Sparta tale e quale. Il punto è che fino al momento del matrimonio lui aveva avuto rapporti solo con un altro uomo, lo dovevano abituare a una sessualità procreativa, perché da quel momento doveva dare figli a Sparta. Non lo dico solo io. Lo dice il massimo studioso di Sparta che è Paul Cartledge. A Sparta era addirittura obbligatorio il rapporto pederastico perché faceva parte della agoghé. A venti anni poteva sposare una donna, poteva avere rapporti con la moglie ma poi doveva tornare a dormire con i compagni fino a 30 anni. Tutte queste erano tappe obbligatorie. La pederastia era obbligatoria.


L’intervista è stata pubblicata su Left dell’11-17 giugno 2021

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Neocolonialismo, barbarie

French and Djiboutian officers gather together as they take part in a two-week military training in the desert in Ali Sabieh, Djibouti, on January 30, 2021. (Photo by Daphné BENOIT / AFP) (Photo by DAPHNE BENOIT/AFP via Getty Images)

La ripresa economica post pandemica sta facendo intravedere importanti cambiamenti nello scenario internazionale. Le tradizionali potenze europee che da decenni, in maniera spregiudicata, attuano soprattutto in Africa politiche neocoloniali (in particolare Francia e Italia), debbono fare i conti con attori già dominanti nelle aree di interesse strategico, come Cina, Usa e Russia e con potenze in espansione come Turchia, Iran e Paesi del Golfo. Sono sommovimenti che comprendono azioni militari, scambi economici, progetti di “cooperazione e partenariato”, interventi che agiscono sul piano del simbolico, in cui non è estraneo il ruolo svolto dalle nuove tecnologie e dai mezzi di comunicazione.

È l’azione del mercato globale in un gigantesco “risiko” che è da considerare come un “colonialismo 4.0”. Quello di cui disponiamo sono solo parti di un puzzle che dobbiamo ricomporre. Una premessa è necessaria e riguarda il ruolo dell’Ue: si preparano interventi riguardanti i percorsi migratori e progetti di cooperazione mentre gli stessi Stati membri, per conto proprio, agiscono, a volte di comune accordo, altre in concorrenza, per stipulare accordi più vantaggiosi con le aree interessate. Il “caso libico”, di cui più volte abbiamo scritto, è da manuale. Nella fase che dovrebbe portare il Paese, si spera pacificato, alle elezioni del 24 dicembre, la presenza ingombrante turca in Tripolitania è un ostacolo enorme.

Il governo italiano, sin dalla nomina del premier ad interim Dbeibah, si è prodigato in missioni diplomatiche che hanno visto tanto il ministro degli Affari esteri Luigi Di Maio che il presidente del Consiglio Mario Draghi, protagonisti. In un incontro ad aprile, a Tripoli, si sono definiti accordi che riguardano il ruolo dell’Eni (la Libia vuole arrivare a produrre 3 milioni di barili di greggio al giorno), la ricostruzione dell’aeroporto di cui si occuperà il consorzio Aeneas, gli interventi per il sistema sanitario libico e quello delle telecomunicazioni. Libia e Paesi limitrofi dovrebbero essere inseriti in “BlueMed”, la realizzazione di un immenso cavo sottomarino che collegherà la Liguria all’India, passando per la Sicilia. L’Italia è stato il solo Paese occidentale, dopo la guerra del 2011, a mantenere l’ambasciata a Tripoli e il clima che si respira oggi fra i…


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Prove tattiche di riconquista dell’Africa

French President Emmanuel Macron speaks next to the visitor's book at the genocide memorial site in the capital Kigali, Rwanda Thursday, May 27, 2021. In a key speech on his visit to Rwanda, Macron said he recognizes that France bears a heavy responsibility for the 1994 genocide in the central African country. (AP Photo/Muhizi Olivier)

“Finalmente, il tempo è venuto”. Così titola l’articolo in prima pagina il giornale francese Le Monde per raccontare la visita del presidente Emmanuel Macron a Kigali, il 27 maggio scorso. Ventisette anni dopo il genocidio dei Tutsi in Rwanda, avvenuto nel 1994 e andato avanti ininterrottamente per 104 giorni, il presidente francese nel parco del Genocide Memorial ha pronunciato un discorso per ricordare – «Ibuka», “ricordati” in lingua locale, ha ripetuto quattro volte – le vittime e salutare i sopravvissuti. Non solo. Ha riconosciuto le responsabilità del governo francese, allora guidato da François Mitterrand, nell’appoggiare il regime genocidiario ed estremista Hutu. Citando un debito verso le vittime, Macron ha espresso la speranza di «uscire da questa notte e camminare di nuovo insieme».
«Su questa strada – ha aggiunto – solo chi è passato nella notte può perdonare, e farci il dono, poi, di perdonarci».

In quei giorni dell’oblio, in cui un’intera popolazione è stata uccisa, dunque, Parigi non si sarebbe limitata a commettere i «gravi errori» già ammessi nel 2010 da Nicolas Sarkozy, ma avrebbe altre responsabilità che, ventisette anni dopo, spingono l’Eliseo ad ammettere le sofferenze inflitte ai ruandesi. Ma forse, le uniche parole davvero decise di questo discorso sono quelle che coinvolgono una promessa politica che, in passato, ha avvelenato le relazioni bilaterali tra i due Paesi: l’impegno di proseguire un’opera di giustizia affinché nessuna persona sospettata di crimini di genocidio possa sfuggire.

Macron fa evidente riferimento agli esuli ruandesi in Francia additati da tempo da Kigali per il loro ruolo nei massacri. Un’opera iniziata già nel maggio del 2020, quando il ministero della Giustizia francese aveva comunicato l’arresto di Félicien Kabuga, il criminale più ricercato in Rwanda. Sulla sua cattura gli Usa avevano posto una taglia di 5 milioni di dollari. L’uomo viveva nel piccolo Comune francese della regione dell’Île-de-France sotto falsa identità. Stando all’International residual mechanism for criminal tribunals (Irmct) dell’Onu, nel 1997 Kabuga era stato incriminato per sette capi di accusa tra i quali: genocidio, complicità in genocidio e istigazione al genocidio. Macron, poi, sigilla il patto bilaterale con il Rwanda annunciando l’imminente nomina d’un nuovo ambasciatore in Rwanda, un posto rimasto vacante dal 2015 sullo sfondo della fase più tempestosa nelle relazioni fra i due Paesi.
Un lavoro di ammissione iniziato però ben prima della…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 giugno 2021

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Perché non si ascoltano gli sconsigli?

Italy's special COVID-19 commissioner General Francesco Paolo Figliuolo delivers his speech during a press conference after visiting COVID-19 vaccination hubs, in Milan, Italy, Wednesday, March 31, 2021. (AP Photo/Luca Bruno)

Intervistato da Radio 24 il generale Figliuolo ieri a proposito di AstraZeneca si è lanciato in una arzigogolata risposta: «Polemiche sugli Open Day per vaccinare i giovani? Oggi noi sappiamo che questo tipo di vaccini sono consigliati agli over 60, dopodiché possono esse usati per tutte le classi di età. È bene fare un’anamnesi molto approfondita, ma ovviamente le riflessioni le devono fare gli scienziati. E io sono sempre pronto a recepire qualsiasi riflessione che venga fatta in ambito ufficiale, quindi le raccomandazioni che poi daranno sono da applicare». Una risposta che sembra avere un senso ma che non ne ha.

Le raccomandazioni sono già state date: l’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) ha detto e ripetuto che quel vaccino è raccomandato per gli ultrasessantenni. La “scienza” di cui parla Figliuolo ha già chiarito da tempo che le trombosi cerebrali sono eventi rarissimi ma sotto quella soglia di età conveniva iniettare Pfizer o Moderna. E forse non è un caso che in Gran Bretagna (là dove AstraZeneca è stato inventato) si è deciso di non darlo sotto i 40 anni e in Germania non viene somministrato sotto i 55 anni.

La morte della 18enne a Sestri Levante, dopo una trombosi al seno cavernoso e operata per la rimozione del trombo e ridurre la pressione intracranica, vaccinatasi durante gli open day in Liguria dello scorso 25 maggio è un duro colpo per la fiducia nella campagna vaccinale ed è inevitabilmente un enorme assist per no vax e complottisti. In questo scenario non aiuta anche il fatto che le Regioni continuino ad andare in ordine sparso, c’è chi annulla tutto e chi continua imperterrito, mentre i ragazzi si interrogano sulla seconda dose. In tutto questo AstraZeneca continua a tacere, riuscendo perfino a far perdere la pazienza a Burioni a cui tocca riconoscere che «talvolta le priorità di una immensa multinazionale non coincidono con quelle della sanità pubblica».

Si torna però sempre allo stesso punto: è responsabilità della politica declinare in scelte i dati della scienza. Troppo comodo ora ributtare la palla nell’altro campo come se improvvisamente il “governo dei migliori” sia un mero esecutore delle scelte degli altri. Altrimenti a che serve un governo? E non stupisce per niente che i soliti noti, pur facendo parte della maggioranza, ora abbiano cominciato a bombardare con fuoco amico fingendo di essere l’opposizione, con il solito trucco di usare il ministro Speranza come Malaussene della situazione.

Perché, se il vaccino era stato consigliato agli over 60, sono stati autorizzati gli open day AstraZeneca per gli under 30?  Questa è una risposta che spetta alla politica.

Buon venerdì?