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La psichiatria e il naufragio della politica

Mentre le morti per Covid 19 hanno superato in Italia di gran lunga le centomila unità e continuano a crescere con un ritmo preoccupante, la campagna vaccinale non è decollata ad oggi con la dovuta prontezza. Inoltre le statistiche mostrano che il tasso di suicidio nelle carceri è il più alto da vent’anni a questa parte mentre le malattie psichiatriche sono in forte e progressivo aumento soprattutto in età adolescenziale in risposta al lockdown e al suo devastante effetto sulla psiche delle persone oltre che sull’economia del Paese. Il bilancio a distanza di un anno dall’inizio ufficiale della pandemia non è molto confortante. Per gli psichiatri in prima linea sul fronte della psicoterapia è diventata prioritaria, in una situazione così difficile, la capacità di resistere connessa allo sviluppo di una ricerca sulle possibilità di cura offerte dalle tecnologie digitali che con i loro limiti ma anche con i loro vantaggi non ci consentono di indulgere né ad un facile ottimismo né ad un vittimismo sterile.

Noi psichiatri oggi non operiamo, come è stato detto, in un ospedale da campo durante un terremoto (con una metafora analoga a quella, poco “felice”, coniata nel 2013 da papa Francesco) ma su un nuovo fronte che ci obbliga ad esprimere ed ampliare le nostre abilità terapeutiche in condizioni inedite e ad elaborare a fondo esperienze che risulteranno preziose anche dopo la pandemia: nessuno di noi sarà più quello di prima. Se sono necessarie un insieme di competenze specialistiche teoriche e formative per reggere il difficile confronto con la malattia mentale durante l’emergenza sanitaria attuale, in esse e nel quotidiano confronto face to face non si esaurisce il compito dello psichiatra. È necessaria una visione d’insieme, una comprensione di quei processi psicopatologici che possono colpire intere comunità e società, come la storia del Novecento (e non solo) ci insegna: tali processi rischiano ancor oggi di rendere vano il concetto stesso di civiltà e di progresso umano. Nella minaccia invisibile alla nostra vita costituita dal Covid-19 e da future e annunciate pandemie, si riassume non solo la prospettiva, a cui bisogna far fronte, del tramonto dell’Occidente ma del mondo intero: molti preferiscono chiudere gli occhi di fronte a quelle che sembrano profezie di Cassandra. Negli ultimi anni negli Usa il grido di allarme di decine di psichiatri e psicoterapeuti sulle…


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Una cura ricostituente per il Servizio sanitario nazionale

Medical staff members tend to patients, in the intensive care unit of the Casalpalocco COVID-19 hospital in Rome, Thursday, March 18, 2021. Much of Italy is under new lockdown amid a new surge of infections and as its halting vaccination campaign slows down further thanks to the suspension of AstraZeneca shots. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Non sono sicuro di potere affermare che, a più di un anno di distanza, l’emergenza pandemica ci abbia realmente insegnato qualcosa che già non sapevamo delle gravi carenze della nostra struttura sociale, economica e sanitaria, soprattutto perché non sono molte le problematiche che come sindacato non avevamo già ripetutamente denunciato. Ci basta ricordare, con un minimo di sforzo di memoria a breve termine, le mobilitazioni messe in campo dall’anno 2010 contro i provvedimenti di Brunetta e Tremonti nei governi Berlusconi e da quelli che gli sono succeduti che, nelle declinazioni plastiche di una delle più violente politiche economiche neoliberiste, hanno posto le basi di una progressiva destrutturazione dei servizi pubblici, attraverso provvedimenti che oggi hanno mostrato i loro effetti anche in termini di perdita di vite umane.

In ambito sanitario abbiamo assistito in questi anni al definanziamento relativo del fondo sanitario nazionale, al taglio dei servizi territoriali e dei posti letto ospedalieri, alla drastica riduzione della spesa prevista per il personale, al blocco del turnover, all’inadeguato finanziamento dei contratti di formazione specialistica dei medici. Tutto questo avveniva perseguendo in maniera strategica la progressiva marginalizzazione del ruolo dei professionisti, anche attraverso…


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La mala gestione lombarda è un caso internazionale

Foto LaPresse - Claudio Furlan 26/01/2021 - Milano (Italia) Seduta del Consiglio Regionale della Lombardia Nella foto: Letizia Moratti Attilio Fontana Photo LaPresse - Claudio Furlan January 26, 2021 - Milan(Italy) Meeting of the Lombardy Regional Council In the photo: Attilio Fontana

La Regione Lombardia andrebbe commissariata. Lo dico da un anno, lo ripeto oggi, l’ho fatto, insieme ad altri, pure a livello europeo. Siamo di fronte ad un fallimento epocale, ad una sconcertante serie di errori e ad una perdita impressionante di credibilità. Voler minimizzare tutto questo è la più stupida delle prove di inadeguatezza. Il fatto che la classe dirigente di centrodestra insista con l’autoassoluzione è il racconto della miopia di Fontana e soci. O meglio, innanzitutto, di quella fallimentare “banda dei quattro” che ha oggi le responsabilità maggiori, sul piano politico e sostanziale di quel che sta avvenendo. Mi riferisco al già citato presidente ma pure a Letizia Moratti, Guido Bertolaso e al sempre attivo Matteo Salvini. Ovviamente il Covid-19 non lo ha portato nelle terre lombarde la giunta che (mal)governa. Ricordarlo è perfino banale. Ed è pure scontato sottolineare come non vi sia angolo nel mondo che possa dire di averle “azzeccate tutte”. Se guardiamo all’intero film dei dodici mesi che hanno stravolto la nostra società, le nostre comunità, dobbiamo essere inoltre consapevoli del fatto che la dimensione epocale del fenomeno abbia messo in crisi modelli sanitari, economici, istituzionali tra loro molto diversi. Tuttavia la regione più produttiva d’Italia, una delle più produttive d’Europa, si è resa protagonista di una  serie di inciampi che l’hanno vista andare in tilt, sempre, nelle diverse fasi pandemiche. Un unicum.

Basta stilare un breve e…


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Il fascino della divisa

Ve lo ricordate Sandro Gozi? Un “traditore dello Stato”, un “nemico dell’Italia”, un “meschino”, un “disertore”, “uno a cui bisognerebbe togliere la cittadinanza”: sono solo alcune delle definizioni che sono state usate da esponenti di Lega e Fratelli d’Italia quando l’ex sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni assunse un ruolo politico per Macron in Francia. Sia chiaro: tutto alla luce del sole, al di là dell’opportunità su cui ognuno può avere la sua idea.

Salvini e Meloni sono pronti a individuare “tradimenti dell’Italia” in ogni frangente, soprattutto quando si tratta di nemici politici. In questi giorni in Italia c’è l’ipotesi di un tradimento proprio bello e finito, roba quasi da film, un capitano di fregata, Walter Biot, sorpreso dai Ros a vendere segreti militari ai russi in un parcheggio di Roma: anche se fa piuttosto ridere comunque siamo di fronte a uno dei più gravi episodi di spionaggio degli ultimi anni.

Nessuna parola di Meloni e Salvini, ovviamente. È il fascino della divisa: se scorrete i loro social trovate le solite badilate sugli immigrati, sulla sinistra (più Giorgia Meloni ovviamente, poiché Salvini ora si deve fingere moderato), indignazione per la condanna ridotta a Kabobo ma niente sull’ufficiale. Eppure, oh, se ci pensate è proprio il prototipo del traditore perfetto. Ma niente di niente.

Curiosa anche certa stampa che da giorni ci racconta come Biot avrebbe venduto documenti riservati ai russi per problemi di soldi (la moglie ci dice che hanno “quattro cani da mantenere”, tra le altre cose). Parliamo di un dipendente dell’Esercito, eh. Provate a chiedere in giro per strada alla gente in pandemia, a proposito di povertà. Tutta la pietas che non hanno per i poveri senza divisa è esplosa per il capitano di fregata.

Che ipocrisia, che bassezza, che poca roba. Che peccato.

Buon venerdì.

Siamo tutti coinvolti

Ogni ora in Brasile muoiono 125 persone a causa del Covid-19. Nel più grande Paese del Sud America si segnalano più nuovi casi e decessi al giorno rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo. E questa settimana si supererà, purtroppo, la soglia delle 330mila vittime. Il sistema sanitario è ormai allo sbando da tempo e le terapie intensive non sono in grado di sostenere la pressione dei nuovi ricoveri.

Non c’è praticamente nulla che faccia da argine ai contagi. Il virus è lasciato libero di circolare dall’assenza di politiche efficaci e attacca in primis laddove la densità di popolazione è massima e il reddito è minimo: nelle favelas, tra i poveri, gli emarginati, tra chi è costretto a uscire ogni giorno da casa e andare a lavoro (o a cercare un lavoro) per sopravvivere. Ma anche e soprattutto il coronavirus sta facendo strage in Amazzonia, tra i nativi brasiliani le cui difese immunitarie possono ben poco di fronte a un nemico sconosciuto e così aggressivo.

Intervistato dallo Spiegel, l’ex presidente Lula, che come abbiamo anticipato due settimane fa sfiderà Bolsonaro alle elezioni del 2022, ha accusato l’attuale presidente di essere responsabile del «più grande genocidio della storia del Brasile». Come dargli torto? Se un capo di Stato ancora promuove l’idrossiclorochina come farmaco efficace, alimenta timori sui vaccini e minimizza la minaccia del virus, come appunto sta facendo Bolsonaro, il Sars-Cov2 non può che banchettare con i polmoni di chi incontra ed evolversi in nuove varianti più contagiose (come la P1 amazzonica, ad esempio).

In questo numero di Left torniamo a fare il punto sulla situazione in Italia. Affaticati come tutti da oltre un anno di emergenza sanitaria, di restrizioni, chiusure e rinunce ci siamo chiesti quando e come ne potremo uscire. Del resto Paesi come Israele e la Gran Bretagna iniziano a vedere la luce in fondo al tunnel. Perché dunque iniziare parlando del Brasile? Perché il signor Bolsonaro e il suo entourage hanno sempre negato l’utilità delle misure di distanziamento sociale, delle mascherine e soprattutto il ricorso ai lockdown.

A loro dire rigide misure contro l’avanzata del virus, e relativa chiusura delle attività lavorative, ricreative e commerciali, sarebbero nemiche dell’economia. Non vi ricorda vagamente qualcuno più vicino a noi? Quando il capo della Lega, Matteo Salvini, dice che è «impensabile chiudere l’Italia anche per l’intero mese di aprile» in risposta alle misure annunciate da Mario Draghi, capo del governo di cui la Lega fa parte, cosa pensa che accadrebbe se per caso fosse ascoltato?

«Chiediamo al presidente Draghi che dal 7 aprile, almeno nelle Regioni e nelle città con situazione sanitaria sotto controllo, si riaprano (ovviamente in sicurezza) le attività chiuse e si ritorni alla vita a partire da ristoranti, teatri, palestre, cinema, bar, oratori, negozi» ha detto il capo leghista in un crescendo di demagogia, populismo e scarsa considerazione della realtà che vive il nostro Paese.

«Siamo alle soglie del negazionismo – scrive Ezio Mauro su Repubblica – con Salvini ben attento oggi a non cascarci dentro e però capace di evocare con la sua politica echi paralleli a quella predicazione estrema che denuncia la “tirannia sanitaria”, la “distruzione della serenità”, e contrappone ai “morti viventi, disposti a chiudersi in un bunker per evitare il virus”, le “persone vive, pensanti e libere”. È il concetto – prosegue Mauro – di libertà che subisce una metamorfosi: non sono libero perché esercito consapevolmente tutte le mie facoltà, tra cui la coscienza del dovere di proteggere me stesso e gli altri, ma mi sento libero soltanto se sono liberato dal rispetto di ogni regola, perché sciolto dal legame naturale con la società, e dunque da ogni vincolo nei confronti altrui».

Salvini parla al ventre molle della società, apparendo – come Bolsonaro –  incurante delle conseguenze che le sue parole avrebbero sulla diffusione del virus e quindi sulla salute pubblica, se attecchissero in profondità. Più che una «metamorfosi», il concetto di libertà sbandierato dal capo leghista subisce un vero e proprio capovolgimento di senso. Non esiste la libertà di far ammalare gli altri.

La libertà, per dirla con lo psichiatra Massimo Fagioli, è l’obbligo di essere esseri umani. E rischiare di contagiare una persona con un virus potenzialmente mortale non è espressione di libertà ma “sintomo” di disumanità. Possono le persone con queste caratteristiche avere responsabilità di governo? Il “caso” Bolsonaro (ma anche Trump) dimostra di no.

E non basta auspicare la riapertura laddove la «situazione sanitaria è sotto controllo» per smarcarsi e sembrare ragionevoli. Già perché forse non è chiaro che in Italia (con il 40% delle terapie intensive occupate da pazienti-covid), in Europa e nel mondo non esiste Paese in cui la situazione sanitaria sia sotto controllo. Se non in alcuni dove sono in vigore le misure restrittive disdegnate dal presidente brasiliano e che Salvini vorrebbe eliminare «per tornare alla vita».

Misure peraltro affiancate da efficaci piani vaccinali. Dicevamo della Gran Bretagna. In circa quattro mesi più di 26 milioni di persone (il 38% della popolazione) hanno ricevuto almeno una dose di un vaccino contro il coronavirus. Sebbene sia indietro rispetto a Israele che finora ha immunizzato oltre della metà della sua popolazione (11 mln di persone), il Regno Unito ha ottenuto questo risultato grazie a un efficace programma di vaccinazione. La parola chiave è pianificazione.

Come ricorda Jane Corbin della Bbc, il Department of Health and Social care ha iniziato a pianificare prima ancora che ci fosse la conferma del primo caso di Covid-19 nel Regno Unito. E già durante l’estate del 2020 il governo di Boris Johnson aveva firmato un contratto per 100 milioni di dosi del vaccino Oxford-AstraZeneca.

Qui da noi Matteo Salvini il 25 giugno diceva: «Perché mai dovrebbe esserci una seconda ondata? È inutile continuare a terrorizzare le persone. Possiamo dire che in Italia fortunatamente, anche se bisogna continuare ad essere prudenti e non esagerare, la situazione è sotto controllo?».

No, non lo si poteva dire allora – come del resto abbiamo scritto e documentato più volte – e non lo si può dire nemmeno oggi. E non solo perché in Italia diversamente dalla Gran Bretagna al 30 marzo è stato vaccinato con la prima dose solo l’11,1% della popolazione (6,6 mln di persone) e il 3% con la seconda ma perché Londra ha accompagnato l’immunizzazione di massa con rigide misure di lockdown sin da prima delle feste di fine anno. Ricordate cosa è invece accaduto in Italia nei giorni precedenti a Natale?

Il 30 marzo nel Regno Unito è iniziata la fase 2 della road map che si dovrebbe concludere con il cosiddetto ritorno alla normalità pre-covid. Dopo la riapertura delle scuole a metà marzo, solo ora che circa il 40% della popolazione è vaccinato si può di nuovo praticare sportiva attività all’aperto anche non individuale e, sempre all’aperto, si possono incontrare massimo sei persone di due famiglie diverse. Il 12 aprile invece riaprono i barbieri e pub e i ristoranti con servizio solo all’aperto. Il 14 maggio tocca agli alberghi, mentre il 21 giugno cesserà ogni misura restrittiva, fermo restando l’uso obbligatorio delle mascherine fino al verificarsi della situazione “zero-covid”.

Ci chiedevamo quando e come anche l’Italia potrà intravedere un nuovo inizio. Per quanto riguarda il “come” uscire dal tunnel l’esempio inglese ci dice che siamo molto lontani dal traguardo. Basti citare un caso come quello del Santuario Madonna di Fatima a Trani, dove il parroco, tale don Sabino, il 28 marzo si è fatto un selfie in chiesa con un centinaio di fedeli compreso il comandante della Polizia municipale.

Ci sono comportamenti fatui e scellerati come questo da sradicare ma c’è anche un piano vaccinale nazionale applicato molto male, come raccontano Cavalli e Filippi nella storia di copertina. Un esempio per tutti: a dispetto delle priorità stabilite nel piano solo il 55% degli ultraottantenni, le persone più a rischio morte causa-covid, al 30 marzo ha ricevuto almeno una dose. Peggio è andato ai 70-79enni (mortalità 9%): sono solo 104.558 quelli vaccinati.

Il “come” ne usciamo (rigide misure di mitigazione, responsabilità politica e dei cittadini, e vaccinazione di massa) porta con sé il “quando”. Qui la risposta è meno precisa. Nemmeno il traguardo del 21 giugno può indurre gli inglesi a eccessivo ottimismo a causa di due variabili: l’incognita della durata dell’efficacia dei vaccini disponibili e quella sull’evoluzione dell’epidemiologia delle varianti Sars-Cov2. La prima è oggetto di diversi studi ed entro breve si avranno informazioni più precise sulla durata dell’immunità.

La seconda invece è il vero punto cardine. Quando Paesi come la Gran Bretagna o Israele, oppure gli Usa, avranno completato i rispettivi piani di vaccinazione nazionale nemmeno loro potranno dire di aver vinto la guerra. Perché fino a quando l’epidemia non sarà contenuta ovunque il virus continuerà a circolare e a variare mettendo a dura prova i vaccini esistenti.

Sappiamo che a causa della razzia di vaccini da parte dei Paesi ricchi 9 persone su 10 nei Paesi poveri e a basso reddito, vale a dire oltre 4,5 miliardi di esseri umani, non potranno essere vaccinate entro il 2021. Se anche l’Italia dovesse raggiungere l’immunità di gregge entro l’autunno come emerge dalle ipotesi più ottimiste – non ultima una emersa da uno studio dell’Istituto superiore di sanità e ministero della Salute in collaborazione con la fondazione Kessler, non ancora sottoposto a peer review ma rilanciato da alcuni media nei giorni scorsi – oltre metà del Pianeta starà ancora affrontando a mani nude il Sars-Cov2. E le sue varianti saranno una minaccia per tutti.

“Anche se vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” direbbe De Andrè. Per questo e per una questione di umanità noi di Left continuiamo a ribadire che va sostenuta l’Iniziativa dei cittadini europei “Nessun profitto sulla pandemia” per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a chiunque. Ce ne parla in questo numero Vittorio Agnoletto. Si può aderire firmando qui. È un nostro diritto-dovere.


L’editoriale è tratto da Left del 2-8 aprile 2021

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Vittorio Agnoletto: La politica fa il doppio gioco sui brevetti dei vaccini

Vittorio Agnoletto attends the press conference for Salviamo La Lombardia demonstration set for June 20 in Piazza Duomo in Milan against the emergency management in Lombardia and in memory of the Coronavirus (COVID-19) victims on June 12, 2020 in Milan, Italy. (Photo by Alessandro Bremec/NurPhoto via Getty Images)

Se il percorso di uscita dal tunnel del coronavirus ha subito rallentamenti e stop, è anche a causa della presenza di brevetti che impediscono ad ogni azienda che ha la tecnologia per farlo di produrre i vaccini anti Covid che sono risultati efficaci. Per sospendere i brevetti è nata una campagna europea, Right2cure, che si può firmare online su noprofitonpandemic.eu. Ma si tratta di una lotta globale. Ne parliamo con Vittorio Agnoletto, medico del lavoro, docente di Globalizzazione e politiche della salute alla Statale di Milano, e promotore della raccolta firme europea.

A che punto siamo nella lotta per la sospensione dei brevetti?
Purtroppo non siamo messi bene perché l’11 marzo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto, ndr) Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Singapore, Svizzera Australia, Giappone, Brasile hanno bloccato la proposta avanzata da India e Sudafrica e sostenuta da altri 100 Paesi di una moratoria temporanea sui brevetti dei vaccini anti Covid. Si tratta di un atto grave, avallato anche dal nostro governo, perché bloccando la moratoria c’è il rischio che i vaccini in diverse parti del mondo o non arriveranno mai o arriveranno tra uno, due o tre anni. Perché i brevetti attualmente in mano alle multinazionali durano 20 anni e per tutto questo periodo Big pharma può decidere cosa produrre, come produrre, quanto produrre, che tipo di accordi commerciali fare e ha un grande potere anche nello stabilire i prezzi perché agisce in una forma di oligopolio. La rimozione del brevetto invece autorizzerebbe tutte le aziende che ne hanno la capacità produttiva e tecnologica di produrre altri vaccini. Aziende pubbliche e private. Inoltre ciò spingerebbe gli Stati a sostenere economicamente la riconversione produttiva di imprese che oggi non son in grado di gestire quelle tecnologie ma a breve potrebbero acquisirne la capacità.

Perché i cittadini, tutti, dovrebbero unirsi in questa battaglia?
Si tratta questione che non riguarda qualche popolazione sperduta in chissà quale angolo del mondo, che…


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Tutte le falle del piano vaccinale

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 19 Marzo 2021 Roma (Italia) Cronaca : Il Centro Vaccinale dove viene son ministrato il vaccino Moderna allestito all’interno dell’Auditorium Santa Cecilia Nella foto : i box vaccinali Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 19, 2021 Roma (Italy) News : The Moderna’s vaccine centre in the Auditorium Santa Cecilia In The Pic : the vaccinations boxes

È sempre quella vecchia storia dell’innamorarsi degli uomini e di sottovalutare i sistemi: il “nuovo” piano vaccinale italiano, quello che avrebbe dovuto portare la sferzata decisiva per fare ripartire il Paese o almeno per uscire dal tunnel buio del virus è lastricato di buone intenzioni (com’era quell’altro) proferite da nuovi protagonisti ma nei fatti continua a incepparsi negli stessi granelli e ad ora continua a difettare allo stesso modo nei risultati. Se avessimo perso meno tempo a pesare e analizzare le posture e le parole di Draghi, di Figliuolo e di Salvini a cui ora tocca addirittura di sembrare “responsabile” forse avremmo potuto discutere di un impianto malato nelle fondamenta, di questa delega alle Regioni che rimane il punto critico di un’operazione che viene pensata a livello centrale ma poi si perde tra i rivoli dei regionalismi.

Il Piano strategico per la vaccinazione anti Sars-Cov-2 è stato elaborato lo scorso 12 dicembre dal ministero della Salute. Il decreto della sua attuazione ufficiale risale allo scorso 2 gennaio, con decreto del ministro, e poi aggiornato l’8 febbraio con il documento “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti Sars-Cov-2/Covid-19”. Leggendo il piano risulta subito evidente che il governo sia responsabile della definizione delle «procedure, gli standard operativi e il layout degli spazi per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine»: risulta quindi evidente che gran parte della fase operativa e strategica sia sostanzialmente demandata alle autorità regionali e già questo potrebbe bastare per comprendere il motivo di risultati così diversi da regione e regione.

Il numero delle persone vaccinate, la percentuale di vaccini che rimangono inutilizzati, perfino…


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E ora Draghi salvi le acciaierie di Piombino

Foto Federico Bernini/LaPresse 09-05-2014, Piombino (LI) Martin Schulz candidato per il PSE alla Preseidenza del Parlamento Europeo in visita alle acciaierie Lucchini di Piombino in un incontro con i Lavoratori e i sindacati. Presente anche il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e il sindaco di Piombino Gianni Anselmi. Foto: Martin Schulz Photo Federico Bernini/LaPresse 09-05-2014, Piombino (LI) Martin Schulz candidate for the PSE to Preseidenza of the European Parliament on a visit to steelworks Lucchini Piombino in a meeting with workers and trade unions Pic: Martin Schulz

Se non fosse drammatico sarebbe ridicolo. L’azienda siderurgica di Piombino cessa di vivere con la fermata definitiva dell’altoforno nel 2014. Da allora, tre accordi di programma a capo di una area di crisi complessa che ha portato solo ammortizzatori sociali. Si sono susseguiti, Kaledh, Cevital e Jindal che aveva dato una pia illusione di ripartenza della laminazione e della costruzione di uno anzi due ma forse tre forni elettrici, per produrre acciaio.

Finalmente da Jindal arriva una specie di piano industriale, loro lo chiamano rapporto preliminare del piano industriale che ci dice che ha “investito” 343 milioni di euro da quando è arrivato a Piombino ma ci dice anche che la fabbrica ha necessità di un grande investimento e chiede allo Stato di impegnarsi su una cifretta che si aggira intorno ai 280 milioni di euro che permetterebbe a Jindal di costruire un forno elettrico, e una bella sistemata ai treni di laminazione. Ovviamente con l’utilizzo di 5 anni di cassa integrazione e l’abbattimento del costo energetico per il forno elettrico.

Intanto i lavoratori di quella fabbrica sono smarriti, sfiduciati, stanchi, senza contare chi ha già perso il lavoro da anni o chi rischia di perderlo come le lavoratrici della mensa, ma sono donne e uomini che hanno pur sempre una dignità. Davvero il siderurgico Jindal, che è tra i primi venti produttori siderurgici del mondo, chiede allo Stato italiano i soldi per un grande investimento a Piombino. Forse è arrivato il momento di riflettere sulla provocazione-sfida che ci lancia Jindal, che dentro al suo conto mette spese per l’acquisto, le perdite di esercizio e i soldi del circolante che comunque ha prodotto anche ricavi. Ma a Piombino cosa serve?

Credo che Piombino abbia bisogno di un lavoro certosino che si sviluppi con l’unità delle forze sindacali e politiche. Oggi abbiamo un governo dalle larghe intese, con dentro tutto l’arco parlamentare da sinistra a destra, quindi una vera occasione per dare risposte vere e concrete a partire dall’ingresso dello Stato, in questo stabilimento. Tutti hanno chiaro che Piombino non può vivere solo di turismo, quindi serve il rilancio del settore siderurgico che ovviamente non potrà basarsi sui tre treni di laminazione, in contemporanea. Quindi dovremmo puntare, su un nuovo treno a rotaie che sarà fornito di blumi, per essere trasformati in rotaie, da Jindal, che li farà arrivare dall’India in attesa di un forno elettrico a carica di preridotto. Trovare un accordo con le acciaierie del nord che potrebbero fornire le billette per la Gsi e il Tmp.

Per fare questo, lo Stato, deve avere la maggioranza delle azioni in Jindal. Occorre che la politica dia vere risposte, perché tutti i lavoratori oggi a libro paga, non saranno occupati, quindi la politica deve modificare la legge sull’esposizione all’amianto e portarla per lo meno al 2014. Sembrerebbe una richiesta campata in aria ma invece è un semplice diritto dei lavoratori ad aver riconosciuto l’essere stati esposti a quel fattore cancerogeno. Questo la politica può e deve farlo. Dobbiamo esplorare l’ipotesi di isopensione usando la cassa integrazione. Dobbiamo avere uno spaccato dei lavoratori che possono smantellare i vecchi impianti, passando da una formazione pagata con le politiche attive della Regione.

Dobbiamo smantellare i vecchi impianti per rilanciare l’occasione per gli imprenditori a tornare ad investire su Piombino per poterlo risollevare dalla crisi. Dobbiamo puntare sui fabbisogni di un territorio (compito della politica) per avviare formazione nelle scuole, affinchè si possa preparare i ragazzi. La politica deve trovare come espropriare i terreni inutilizzati, dopo tre anni, vincolando le aziende a ripartire o convertire in tre anni la loro attività, oppure lo Stato interviene con l’esproprio e rimette a disposizione di nuovi imprenditori, quelle aree.

Insomma, a me pare che ora sia il momento giusto per Piombino, per ottenere risposte dalla politica che in questo momento ci dice che vuol dare risposte concrete ai cittadini e allora chi meglio di questo arco parlamentare, può dare risposte! Piombino non deve morire, è già stato ferito abbastanza, Piombino deve rinascere e i politici devono farlo rinascere, non hanno più scuse.

*-*

L’autore: Mirko Lami è segretario generale Cgil Toscana

I risparmi della mamma

Foto LaPresse - Claudio Furlan 08/01/2021 - Milano (Italia) cronaca Conferenza stampa Presidente Regione Lombardia Attilio Fontana su rimpasto giunta regionale Photo LaPresse - Claudio Furlan January 8, 2021 - Milan (Italy) news Press conference of President of the Lombardy Region Attilio Fontana on the reshuffle of the regional council

Era immaginabile che la procura indagasse il presidente di Regione Lombardia (l’ipotesi di reato è autoriciclaggio e falsa dichiarazione in sede di voluntary disclosure, lo scudo fiscale) per il suo conto corrente in Svizzera di 5,3 milioni di euro, a detta del presidente “ereditati” dalla madre.

Bastava leggere con attenzione la storia raccontata nelle carte dell’altra indagine che vede coinvolto il presidente, quella dei famosi camici del cognato e della moglie prima venduti alla Regione, poi “donati” (perché si erano sbagliati, hanno detto, che sbadati) e infine sequestrati dalla procura. Proprio nel tentativo di pagare quei camici si scopre che Fontana aveva usato il suo conto svizzero per un bonifico di 250mila euro. Sia chiaro: detenere denaro all’estero non è un reato (tra l’altro quei soldi sono stati scudati nel 2015 grazie alla legge voluta dal governo Renzi) ma, al solito, ci sono questioni di responsabilità politica (al di là della questione giudiziaria) su cui basterebbe dare alcune risposte.

Dice Fontana che quel tesoretto siano i risparmi della madre, dentista. «Evasione fiscale? Ma figuriamoci, lei era superfifona», disse Fontana. C’è da dire che fosse piuttosto scaltra, questo sicuro, se è vero che a partire dal 1997 aveva trasferito i suoi soldi prima in Svizzera e poi alle Bahamas su un conto su cui il figlio poteva tranquillamente operare. Attilio Fontana tra l’altro in quegli anni era sindaco di Induno Olona, vale la pena ricordarlo.

Si è parlato poco anche del fatto che i suoceri del presidente (Paolo Dini, il patron della Dama, deceduto due anni fa, e sua moglie Marzia Cesaresco) avessero, con la società di famiglia, spostato circa 6 milioni di euro poi condonati. «L’istante Paolo Dini ha detenuto attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi e di monitoraggio fiscale», si legge nelle note di accompagnamento alla domanda di condono. Evasione fiscale, in pratica. A questo si aggiungono una serie di operazioni (che ha raccontato benissimo Giovanni Tizian per Domani) segnalate come sospette proprio da parte della moglie di Fontana che ha ereditato l’azienda insieme a suo fratello. Quella dei camici, per intendersi.

Eppure a Fontana basterebbe rispondere solo ad alcune semplici domande: quel conto svizzero è il suo unico conto all’estero? Può dimostrare la legittimità di tutte le operazioni effettuate su quel conto? Quando è stato acceso, nel 1997, era destinato solo a preservare i risparmi della mamma, dentista di Varese e all’epoca ultrasettantenne? Fontana ha usato quel conto anche per suoi interessi personali? Se sì, quali? Con che soldi?

Perché siamo sempre alle solite: l’etica dei rappresentanti politici è un tema che sta fuori dalle indagini giudiziarie e Fontana deve delle risposte agli elettori. Semplicemente questo.

Poi magari si potrebbe discutere di come stia governando la Lombardia ma su quello ormai il giudizio è quasi unanime ed è già Cassazione.

Buon giovedì.

 

Le democrazie occidentali non sono immuni al Covid

Artists make a murals of characters wearing masks to spread awareness for the prevention of COVID-19 in Mumbai, India, Wednesday, March 24, 2021.(AP Photo/Rajanish Kakade)

Se si esce dal dibattito social tra chi denuncia la cosiddetta “dittatura sanitaria” e chi irride coloro che la evocano, si trova invece una discussione, anche istituzionale o tecnica, seria a proposito dello stato delle nostre democrazie. Peccato sia così scarsa l’attenzione che vi dedicano i mass media mainstream, che si confermano in questo attraversati dal problema. Una rapida carrellata su internet fornisce pochi articoli e molti rapporti ufficiali o di ricerca.
Le considerazioni sulla democrazia (e gli istituti che le generano) sono un materiale da maneggiare con la dovuta attenzione, perché troppo spesso sono state finalizzate a interventi (leggi: guerre) “umanitari” e a “difese attive” di modelli di vita considerati superiori. O sono intrise di logiche geopolitiche.

Ciò premesso, e tenuto presente, la condizione della democrazia in tempi di Covid viene giustamente attenzionata. Ancora pochi giorni fa, la sessantacinquesima conferenza delle Nazioni Unite dedicata alla condizione della donna, tenutasi a distanza, con l’intervento del direttore dell’Onu Guterres e della vicepresidente Usa Harris, ha visto levare un grido d’allarme sulla crescita della violenza e del gap sul genere e delle condizioni di disagio, esclusione, imposizione che subiscono le donne con la pandemia. Si va dall’esclusione o dal peggioramento delle discriminazioni sul posto di lavoro all’incremento del peso dell’impegno domestico, alla violenza tra le mura di casa, all’esclusione scolastica, all’aumento delle spose bambine.

Già nell’autunno del 2020 l’Onu aveva tenuto la sua sessione annuale sullo stato della democrazia nel mondo con tanto di rapporto presentato. Con una condizione di peggioramento degli indici sostanzialmente generalizzata. C’è da dire che i rapporti tendono a convergere su questo peggioramento. Un trend che riguarda sia i Paesi classificati come “democratici” che quelli “attenzionati” o “posti all’indice”.

È quanto emerge sfogliando il report dell’International institute for democracy and electoral assistance (Idea), istituto intergovernativo cui aderiscono una trentina di Paesi (ma non l’Italia) e che fa da consulenza anche all’Onu. Il rapporto di Idea affronta moltissimi aspetti della vita istituzionale, politica, sociale. Problemi di funzionamento democratico. Di ruolo dei mass media. Di crescita della corruzione. Ne emerge anche un dato sull’Italia che ha il record di stato di emergenza prolungato che è il più lungo al mondo insieme alle Filippine.

Il Democracy index 2020 elaborato dall’Economist intelligence unit e pubblicato dall’Economist nel febbraio di quest’anno, dice che lo stato della democrazia è in peggioramento abbastanza ovunque, in particolare se si guarda al rispetto dei diritti civili. L’indice attribuito sulla base di 60 quesiti rielaborati da esperti è il più basso da molto tempo. La classificazione viene fatta su quattro categorie di Stati, che vanno dai “Paesi pienamente democratici”, a quelli con difetti, agli ibridi, agli autoritari. L’Italia sta al ventinovesimo posto, con difetti. Ciò che emerge, come dicevo, è l’andamento generalizzato che riguarda sia i Paesi considerati pienamente democratici, che quelli più “precari”, che gli Stati considerati fuori dagli standard democratici.

Anche il Parlamento europeo ha affrontato il tema approvando una risoluzione non legislativa l’11 novembre 2020. Il testo di dodici pagine ripercorre alcuni punti chiave. Ad esempio sulle dichiarazioni dello stato di emergenza che in alcuni Paesi avvengono su base di legge costituzionale ed in altri (come l’Italia) con legge ordinaria. La risoluzione dice che è necessario agire all’interno di quadri normativi certi, di garanzia per le istituzioni e i cittadini; con strumenti proporzionati e temporanei. Questo riguarda anche lo svolgimento o il rinvio delle elezioni. Ci sono rischi di eccessi autoritari. Ci sono poi i temi dei cittadini più fragili, più esposti. Della informazione, delle fake news. Della gestione dei finanziamenti europei.

Dunque il tema della democrazia in tempi di pandemia è giustamente tenuto sotto osservazione. Purtroppo con poca conoscenza e poca partecipazione informata, che non sia ridotta a tifoseria da Facebook. È un problema serio quello della informazione e della opinione pubblica europee, che Left e Transform proveranno ad affrontare prossimamente.
Ma intanto torniamo al qui e ora. Ad esempio c’è da chiedersi perché in Italia non si sia pensato di predisporre norme per permettere il voto a distanza e per posta. Il fatto che importanti elezioni locali, di Regione e di grandi città, sono state rinviate senza prendere in considerazione la possibilità di operare per permetterle in sicurezza deve far riflettere.

Anche perché quest’anno si è votato in tantissime parti, dagli Stati Uniti all’Olanda.
In Italia si è votato solo per il referendum “taglia Parlamento” che ha ridotto la rappresentanza. Rendendo quella legislativa italiana, considerando pure i Consigli regionali e il Parlamento Ue, tra le percentualmente più ridotte d’Europa, come documentato dal nostro settimanale.

In “compenso” c’è un governo di (quasi) tutti e con chi non lo ha votato che fatica a definirsi opposizione visti i legami che ha con chi sta al governo. A maggior ragione, al di là di ciò che ci raccontano gli studi tecnici, porci il problema di come sta la democrazia da noi è qualcosa di urgente.