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Migliori anche a leccare chi viola i diritti umani

Ieri il presidentissimo Mario Draghi si è recato in Libia. Ogni volta che qualche esponente di qualche nostro governo passa dalla Libia non riesce a evitare di tornare con le mani sporche di sangue per un qualsiasi atteggiamento riverente verso i carcerieri sulle porte d’Europa, come se fosse una tappa obbligata per poter frequentare i salotti buoni per l’Europa e anche il “migliore” Draghi è riuscito a non stupirci rivendicando con orgoglio l’amicizia, la stima e la vicinanza ai libici che violano i diritti umani. Ogni volta è stupefacente: negare la realtà di fronte ai microfoni della stampa internazionale deve essere il risultato di un corso speciale che viene inoculato ai nostri rappresentanti. E ogni volta fa schifo.

«Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto ieri Draghi, con quella sua solita soffice postura con cui ripete le stesse cose dei suoi predecessori aggiungendoci un filo di zucchero a velo. Sarebbe curioso chiedere a Draghi cosa si intenda esattamente per “salvataggio” poiché i libici (questo è un fatto accertato a livello internazionale) si occupano principalmente di respingimenti, di riportare uomini e donne nei lager dove continuano le torture, gli stupri e lo schiavismo, poiché i libici sono quelli che il 10 ottobre del 2018 hanno sparato a una motovedetta italiana, poiché i libici sono gli stessi che il 26 ottobre 2019 hanno sparato sulla nave Alan Kurdi per impedire il soccorso dei migranti, poiché i libici sono gli stessi che il 28 luglio dell’anno scorso hanno sparato contro i migranti uccidendone 3. Solo per citare qualche esempio, ovviamente, dato che quel pezzo di mondo e di mare continua a rimanere sguarnito, anche questo per precisa volontà politica.

Caro presidente Draghi, siamo contenti che lei si senta barzotto per questo tipo di salvataggi ma le auguro di non essere mai “salvato” così. Del resto legittimare quella combriccola di assassini che vengono educatamente chiamati Guardia costiera libica è un esercizio retorico che dura da anni: anche su questo il governo dei migliori continua spedito. Considerare la Libia un partner affidabile significa accettare la sistematica violazione dei diritti umani: come si chiamano coloro che elogiano in pubblico un’attività del genere facendola passare per doverosa? Ognuno trovi comodamente la risposta.

E mentre Draghi si è occupato di proteggere gli affari dell’italiana Eni in Libia, di farsi venire l’acquolina in bocca per l’autostrada costiera al confine con Bengasi (che riprende il tragitto della strada inaugurata nel 1937 da Benito Mussolini e conosciuta anche come “via Balbia”, evocando le azioni di Italo Balbo), di continuare a foraggiare la Guardia costiera libica per essere il sacchetto dell’umido dell’umanità nel Mediterraneo e di riassestare e ristrutturare la Banca centrale libica, i diritti e i dolori delle persone rimangono sullo sfondo come semplice scenografia dei barili di petrolio per cui i canali sono invece sempre aperti.

Del resto secondo il leader libico Abdul Hamid Dbeibah, Italia e Libia «soffrono e devono affrontare una sfida comune che è l’immigrazione clandestina, un problema che non è solo libico ma internazionale e riguarda tutti, come il terrorismo e il crimine organizzato». Solo che in questo caso sono chiarissimi gli autori di questo “problema”: Libia, Europa, Italia e la nuova spinta di Mario Draghi.

L’eccelso Mario Draghi insomma è il vassoio di cristallo delle solite portate, schifose uguali ma dette con più autorevolezza: avrebbe dovuto essere “il competente” e invece non è riuscito nemmeno a leggere un rapporto dell’Onu prima di andare in gita. E ovviamente non ha nemmeno fatto un giro nei campi di concentramento, non sia mai, si sarebbe sporcato il polsino.

Buon mercoledì.

Le donne emancipate nel mirino dei talebani

LONDON, ENGLAND - APRIL 11: Two women wearing Islamic niqab veils stand outside the French Embassy during a demonstration on April 11, 2011 in London, England. France has become the first country in Europe to ban the wearing of the veil and in Paris two women have been detained by police under the new law. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Passo svelto, sguardo basso, una mano a stringere l’hijab sotto il mento, più per nervosismo che per esigenza. Sul lato sinistro della strada c’è molto traffico che scorre piano, poi una macchina accelera di botto e si affianca, mentre un bambino strilla all’altro angolo della strada. Il battito accelera. Un rumore di ferraglia arriva alle spalle, un ragazzo in motorino suona il clacson mentre una signora anziana sbatte una porta. Le tempie ormai pulsano. Shakiba Haidary è terrorizzata. «Ogni volta che sono in strada, sia per lavoro che per motivi personali, mi aspetto di morire» – racconta Shakiba, che ha 24 anni e fa la giornalista per una televisione di Kabul.

Negli ultimi mesi le minacce ai giornalisti sono diventate quotidiane, soprattutto alle donne, e dall’inizio dell’anno sono già stati uccisi cinque operatori dell’informazione. Le ultime reporter sono state trucidate a inizio marzo nella città orientale di Jalalabad: Mursal, di 25 anni, Sadia e Shanaz, di 20, sono state uccise con un colpo d’arma da fuoco alla testa esploso da un’auto in corsa. «Mursal la conoscevo – racconta Shakiba – e quando è morta mi sono chiusa in bagno per ore. Ho dovuto razionalizzare tanto prima di tornare al mio lavoro. Ora, quando sono in strada ogni rumore improvviso che gli altri nemmeno notano per me è un colpo al cuore».

I talebani stanno pianificando una serie di attacchi e omicidi che hanno come obiettivo principale i giornalisti, soprattutto le donne, ma anche gli operatori della società civile. «Le cose sono precipitate negli ultimi mesi – dice Shakiba – e infatti ogni giorno a Kabul e nell’intero Afghanistan assistiamo a omicidi, attentati e rapimenti perché i talebani stanno preparando il terreno per il loro ritorno». Il 29 febbraio 2020 gli Stati Uniti e i talebani hanno firmato un accordo a Doha, in Qatar, per programmare l’uscita di scena dell’esercito americano entro aprile 2021.

I colloqui di pace che sono seguiti tra il governo afghano, guidato da Ashraf Ghani, e i talebani, rappresentati dal mullah Abdul Ghani Baradar, hanno di…


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Il vaccino non premia Benjamin Netanyahu

An election campaign billboard for the Likud party that shows a portrait of its leader Prime Minister Benjamin Netanyahu, left, and opposition party leader Yair Lapid, is defaced with Hebrew that reads, "go home," in Ramat Gan, Israel, Sunday, March 21, 2021. Israelis head to the polls on Tuesday for what will be the fourth parliamentary election in just two years. Once again, the race boils down to a referendum on Prime Minister Benjamin Netanyahu. (AP Photo/Oded Balilty)

Aveva puntato tutto sul successo della campagna vaccinale convinto che, nel mezzo di una pandemia, l’avere oltre metà della popolazione israeliana vaccinata gli avrebbe garantito il successo alle urne. E invece non è andata così per Benjamin Netanyahu, al potere in Israele dal 2009. Le elezioni dello scorso 23 marzo hanno ribadito infatti quello che le altre tre tornate elettorali (in soli due anni) avevano già espresso chiaramente: a trionfare è lo stallo politico perché «re Bibi» non ha la maggioranza necessaria per formare una coalizione governativa. I cinque partiti religiosi e di estrema destra del suo presunto blocco conquistano 59 scranni, 2 in meno per ottenere la maggioranza. Certo, il partito del premier più longevo della storia israeliana, si conferma nuovamente la prima forza politica con 30 seggi staccando di oltre una decina di deputati il suo principale oppositore, il centrista Lapid di Yesh Atid (“C’è futuro”). Tuttavia, è per ora una vittoria di Pirro.

Da astuto politico, Bibi aveva provato a giocare tutte le carte a sua disposizione pur di vincere per salvarsi dal processo per corruzione e abuso d’ufficio a cui è sottoposto. Aveva decantato lo scorso anno il successo dell’Accordo di Abramo firmato da Israele con quattro Paesi arabi (e benedetto dall’ex amministrazione Usa di Trump). Ma né la pace con gli arabi – ormai sempre meno una preoccupazione per la maggior parte degli israeliani – né il pugno duro contro il principale rivale israeliano (Teheran) potevano avere molto appeal. Ecco allora che Bibi aveva ripiegato sulla velocità della campagna di immunizzazione compiuta dal suo governo. Un «modello» che, oltre a salvare vite umane, ha anche nascosto in parte le grandi inefficienze del suo esecutivo nel fronteggiare l’epidemia e la grave crisi economica dovuta alle restrizioni anti-coronavirus.

La non vittoria di Netanyahu è nei numeri ufficiali: rispetto alle elezioni dello scorso marzo, il suo Likud ha…


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Lo Stato di diritto (e di rovescio)

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 15-02-2018 Roma Politica Trasmissione tv "Porta a Porta" Nella foto Marco Minniti Photo Roberto Monaldo / LaPresse 15-02-2018 Rome (Italy) Tv program "Porta a Porta" In the photo Marco Minniti

Non sta facendo il clamore che dovrebbe il fatto che in Italia la giornalista Nancy Porsia, esperta di Libia, sia stata illegalmente intercettata nell’inchiesta di Trapani sulle Ong nel 2017. Partiamo da un punto fermo: Nancy Porsia non è mai stata indagata eppure un giudice, su richiesta della polizia giudiziaria, ha deciso che si potesse scavalcare la legge: nel documento di 22 pagine – datato 27 luglio 2017, firmato Sco, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera – ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’Africa del nord. La notizia è stata data dal quotidiano Domani che racconta come indirettamente, oltre a Porsia, siano stati ascoltati anche il giornalista dell’Avvenire Nello Scavo, conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti, Fausto Biloslavo de Il Giornale e Claudia Di Pasquale di Report.

Primo punto fondamentale: in uno Stato di diritto che non venga rispettato il diritto per intercettare giornalisti che parlano con le loro fonti (nel caso di Porsia addirittura vengono intercettate anche telefonate con l’avvocata Ballerini, la stessa che si occupa della vicenda Regeni) significa che il potere giudiziario (su mandato politico, poi ci arriviamo) scavalca le regole per controllare coloro che per mestiere controllano i poteri per una sana democrazia. È un fatto enorme. E non funziona la difesa di Guido Crosetto (il destrorso “potabile” che è il braccio destro di Giorgia Meloni) quando dice che anche i politici vengono intercettati: si intercetta qualcuno dopo averlo iscritto nel registro degli indagati e soprattutto in uno Stato di diritto si proteggono le fonti dei giornalisti, con buona pace di Crosetto e compagnia cantante.

C’è un altro aspetto, tutto politico: in quel 2017 gli agenti di sicurezza presenti a bordo della nave Vos Hestia dell’Ong Save the Children portano foto e prove (che poi si sono rivelate più che fallaci visto che tutto si è concluso in una bolla) prima a Matteo Salvini, prima ancora che alle autorità giudiziarie. È scritto nero su bianco che proprio Salvini su quelle informazioni ci ha costruito tutta la sua campagna elettorale. Un giornalista, Antonio Massari, racconta la vicenda su Il Fatto Quotidiano e costringe Salvini ad ammettere di avere avuto contatti, prima delle forze dell’ordine, proprio con i due vigilantes che puntavano a ottenere in cambio qualche collocazione, magari politica. Salvini, conviene ricordarlo diventerà ministro all’Interno.

Rimaniamo sulla politica: l’ordine di indagare sulle Ong parte dal ministero dell’Interno dell’epoca di cui era responsabile Marco Minniti. Ci si continua a volere dimenticare (perché è fin troppo comodo farlo) che proprio da Minniti parte la campagna di colpevolizzazione delle Ong che verrà poi usata così spregiudicatamente da Salvini e compagnia. Ad indagare sull’immigrazione clandestina viene applicato il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato, il servizio di eccellenza degli investigatori solitamente impegnato in indagini che riguardano le mafie. Anche questa è una precisa scelta politica.

Rimane il sospetto insomma che politica e magistratura si siano terribilmente impegnate per legittimare una tesi precostituita. Di solito (giustamente) ci si indigna tutti di fronte a una situazione del genere e invece questa volta poco quasi niente. Anzi, a pensarci bene la narrazione comunque è passata.

È gravissimo e incredibile eppure accade qui, ora.

Buon martedì.

Regione che vai vaccinati che trovi

Secondo un report dell’Istituto superiore di sanità, allo scorso 1 marzo erano 1.055 su 96.141, ossia l’1,1%, i pazienti deceduti positivi al Covid di età inferiore ai 50 anni. Sarebbe stato ragionevole, dunque, immaginare un piano vaccinale che avesse come priorità inderogabile – oltre all’immunizzazione del personale sanitario “in prima linea” – la protezione delle persone più vulnerabili a causa dell’età e di patologie pregresse. Ciò nonostante, in Italia al 30 marzo (dati del governo elaborati dal Sole 24 ore) la percentuale di persone vaccinate tra i 70 e 79 anni (1,7%) è assai inferiore rispetto a quella dei ventenni (3,8%), trentenni (4,5%), quarantenni (4,3%), cinquantenni (5,3%) o sessantenni (4,4%). E ancora: ad aver ricevuto almeno una dose del vaccino è solo il 55% circa degli over 80, quando questa categoria nelle intenzioni iniziali, e se non fossero intervenuti ritardi nelle consegne dei sieri, sarebbe dovuta essere protetta già entro fine febbraio. Mentre, se si guarda alla vaccinazione del personale scolastico, la quota di chi persone alle quali è stata somministrata una dose sale a circa il 65%. Parliamo di lavoratori e lavoratrici di ogni età, in parte, attualmente, impegnate nella didattica a distanza.

Si tratta di una discrasia particolarmente evidente nella “rossa” Toscana. Premessa: per valutare le performance regionali occorre rifarsi agli ultimi dati disaggregati disponibili mentre andiamo in stampa, quelli forniti da Palazzo Chigi aggiornati al 26 marzo, comunque utili per farsi un’idea delle sperequazioni da una zona all’altra d’Italia. La Toscana, dicevamo, è fanalino di coda nella corsa al vaccino per gli ultraottantenni: solo il 32,44% di loro ha ricevuto la prima dose. Ma la situazione si ribalta se si considerano insegnanti e operatori dell’istruzione toscani, tra cui ben il 73,14% ha ricevuto almeno una iniezione. I dati sulle persone immunizzate, inoltre, variano molto da una regione all’altra. Per quanto riguarda le vaccinazioni di chi ha oltrepassato gli 80 anni, considerando la popolazione a cui è stata somministrata la prima dose, risultano in testa…


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Nell’uovo, le armi

© Mauro Scrobogna / LaPresse 06-05-2010 Roma Interni Celebrazione 149/o anniversario della Costituzione dell'Esercito Italiano Nella foto: trasporto truppe Freccia © Mauro Scrobogna / LaPresse 06-05-2010 Rome Home Celebration of 149th anniversary of Italian Army In the picture: troops transport vehicle Freccia

Quatti quatti, zitti zitti, i signori delle armi entrano nella proposta di Pnrr che il governo Draghi si prepara a stilare per la consegna del Recovery Plan alla Commissione europea. Il comparto militare, settore precedentemente ignorato dal governo precedente, sorride sotto i baffi intravedendo la luce.

Il governo Conte aveva presentato le linee guida del Piano nazionale di ripresa e di resilienza il 15 settembre del 2020, poi formalizzato con la proposta del 31 gennaio 2021. Il testo aveva tre assi di intervento, già condivisi in ambito europeo: digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Già durante la crisi di governo il Parlamento ha continuato a lavorarci con audizioni di operatori economici. Ebbene: il 9 febbraio si tiene alla Camera, davanti alle Commissioni riunite di Bilancio e Attività produttive, l’audizione informale della Leonardo S.p.A., azienda partecipata che si occupa di difesa, aerospazio e sicurezza. Subito l’insediamento del governo Draghi, poi, il 23 febbraio, la Commissione Difesa del Senato ascolta una rappresentanza di Anpam, Associazione Nazionale di Produttori di Armi e Munizioni, la settimana successiva è il turno dell’Aiad (Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), il cui presidente è il fedelissimo di Giorgia Meloni, Guido Crosetto.

Ecco la novità: le Commissioni Difesa di Camera e Senato propongono l’utilizzo di fondi «per promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca» e per «valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica e incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare».

Le osservazioni delle Commissioni Difesa vengono recepite nel parere della Commissione Bilancio ma anche il governo sembra essere d’accordo: nel resoconto della seduta del 17 marzo della Commissione Difesa del Senato, infatti, si legge che il sottosegretario Mulè «ringrazia il relatore per il lavoro svolto ed esprime apprezzamento per la bozza di parere della Commissione, che, nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha il Governo».

Dove siano innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale in tutto questo potrebbe spiegarcelo Draghi, magari ricordandosi che sono stanziati per i prossimi quindici anni ben 36,7 miliardi di euro in spese militari, più del 25% dei fondi pluriennali per l’investimento e lo sviluppo infrastrutturale dell’Italia.

Buon lunedì.

Non c’è tregua per le Ong

«Gli Stati non devono ostacolare le Ong». L’affermazione, durante un incontro sui salvataggi in mare organizzato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), non proviene dal mondo della solidarietà ma da Christian Mommers, consigliere della Commissaria europea ai diritti umani, Dunja Mijatović. Presentando il rapporto Una richiesta di aiuto per i diritti umani. Il crescente divario nella protezione dei migranti nel Mediterraneo Mommers ha evidenziato come anche in Italia prosegua, nonostante le raccomandazioni giunte dall’Unione europea, un attacco sistematico a chi porta soccorso in mare: «Sono stati emanati decine di provvedimenti contro le Ong, ad alcune navi è stato impedito di salpare dai vari porti siciliani – ha aggiunto -. Ma bisognerebbe domandarsi perché ci sono le Ong. Se non ci fossero chi salverebbe le persone? Chi accusa le Ong di non seguire le istruzioni degli Stati si dovrebbe domandare se gli Stati obbediscano alle leggi e alle convenzioni in difesa dei diritti. La Commissaria si è già espressa a favore delle Ong e contro gli Stati che non fanno il proprio lavoro. Le Ong poi sorvegliano quanto accade in mare».

E forse è proprio in ragione di questo che, nonostante i cambi di governo, poco è realmente cambiato. Prima, con la logica dei “porti chiusi” si impediva, anche per settimane, l’attracco alle navi cariche di richiedenti asilo. Ora i tempi fra l’ingresso in acque territoriali e l’approdo si sono ridotti a poco più di due giorni ma i guai arrivano dopo. Le organizzazioni umanitarie partono ormai dal presupposto che quando le loro navi offrono salvezza, pioveranno loro sul capo provvedimenti di fermo amministrativo. Non le multe draconiane dei decreti leghisti e nemmeno il rischio – se non si ravvisa il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – di trovarsi a dover rispondere penalmente per aver salvato persone, ma il sequestro è quasi assicurato.

L’ultimo episodio risale al…


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Solo ma non dimenticato, un altro compleanno in carcere per Apo Ocalan

Ancora non bastano? Il 4 aprile compie 73 anni il presidente kurdo Abdullah (Apo) Ocalan. È detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola turca di Imrali da quando ne aveva 51 , da solo, con scarsa possibilità di leggere, poca di scrivere, e ostacoli in continuazione per incontrare avvocati, parenti, medici. Alcune settimane fa erano girate voci circa un presunto peggioramento delle condizioni di salute, non era la prima volta che capitava e, al di là delle smentite, ad ogni anno che passa, il timore diventa più duro da affrontare.

Ma non solo per il popolo kurdo, per le tante e i tanti che con la loro lotta è solidale, che dagli scritti di Ocalan, da quanto messo in pratica, quotidianamente, soprattutto dalle donne, raccoglie un messaggio di pace e di libertà. Bisogna ricordare, ai governi italiani che hanno tradito un richiedente asilo, che, come riconosciuto ormai in ambito internazionale, Abdullah Ocalan è un rifugiato politico in Italia che non ha potuto veder rispettati i propri diritti dopo quanto accaduto nel febbraio 1999. Allora, nel complicato scenario geopolitico, il governo D’Alema scelse di far estradare in Kenya il richiedente asilo che, all’aeroporto, venne prelevato da agenti turchi e portato in carcere prima con una condanna a morte, sospesa, poi con l’attuale assurda condizione di detenzione.

Il Consiglio d’Europa appare incapace di seguire le raccomandazioni fatte dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (Cpt). Il Consiglio dei ministri sta fallendo nell’imporre l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani, e le Nazioni Unite guardano solamente a come la Turchia calpesta ripetutamente tutti gli accordi e convenzioni internazionali. Chi si oppone chiede per ora unicamente che il loro trattamento speciale nell’isola di Imrali, sui diritti finisca.

Tutti coloro che sono coinvolti nel mantenere il totale isolamento nel carcere dell’isola di Imrali stanno agendo illegalmente e sono coinvolti nella violazione dei diritti umani. Questo lo chiede, inascoltata, la stessa Ue che ha donato 6 mld di euro al sultano Erdogan, in cambio dell’opportunità di fermare l’afflusso nel continente di richiedenti asilo siriani, anche lì ignorando qualsiasi forma di rispetto dei diritti e, di conseguenza, non intromettendosi negli “affari interni” turchi.

Le richieste kurde sono altre ed è a quelle che va prestata attenzione. Non solo i kurdi ma anche la sinistra turca, sottoposta a dura repressione, partono dalla richiesta della libertà per Ocalan, unico atto politico che potrebbe favorire un percorso di pace e di riconciliazione, per approdare ad altro. La situazione in quell’area del pianeta è in fibrillazione, sta sfuggendo al controllo e la comunità internazionale deve agire subito e chiedere la fine di ogni violenza e di spargimento di sangue.

Le forze della resistenza kurda lamentano il fatto che, nonostante l’impegno contro l’Isis, nel nord est della Siria e nonostante i loro ripetuti appelli per una soluzione pacifica del conflitto, il mondo è rimasto a guardare. La Turchia ha praticato una “pulizia etnica”. Fra il 2013 e il 2015 a dire il vero un processo di pace era iniziato ma è stato interrotto bruscamente dal presidente turco Erdogan e sono ripartite le violenze. È partita una campagna “Freedom for Ocalan” con cui si invita i politici, la società civile e tutta la comunità internazionale, ad agire ora prima che sia troppo tardi.

Le organizzazioni kurde, rappresentate in Italia dall’Uiki (Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia) chiedono oltre alla fine dell’isolamento e alla liberazione di Ocalan, la fine delle persecuzioni e il rilascio di tutti i detenuti politici in Turchia, la cessazione delle operazioni militari nel nord est della Siria e in Iraq, un nuovo processo di pace col pieno coinvolgimento della comunità internazionale. In questo quadro il ruolo i Ocalan è semplicemente fondamentale.

Il “Mandela del Medio Oriente”, nei 22 anni trascorsi in carcere, ha elaborato un progetto e un percorso i cui valori fondanti sono nella laicità, nella parità di genere, in nuove forme di socialismo e del rifiuto di ogni forma di nazionalismo. Se nel regime di Erdogan, invece di prevalere la paura o il bisogno di vendetta su cui costruire consenso verso un presunto “nemico interno”, ci si rendesse conto che dalla vita e dalla libertà di Ocalan dipende gran parte della possibilità di portare pace nell’area le cose potrebbero cambiare realmente.

Non sono questi i segnali che giungono per cui, da uomini e donne europei che dalle esperienze kurde continuano ad imparare possiamo solo dire ad Abdullah Ocalan che non lasceremo le sue speranze isolate e che oltre che un compleanno in salute ci auguriamo che prossimo possa essere un compleanno di pace e libertà. Per lui, per il grande popolo che rappresenta e per chi aspira ad un mondo radicalmente diverso e migliore.

George Orwell, così poco orwelliano

Ne La fattoria degli animali (1945) George Orwell scrisse una delle frasi più abrasive della letteratura del Novecento: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Non gli fu perdonata questa critica allo stalinismo in un momento in cui la Gran Bretagna con la Russia erano alleate contro la Germania. Curiosamente fu il poeta conservatore T. S. Eliot, per conto della casa editrice londinese Faber & Faber, a comunicargli il rifiuto di pubblicazione con una lettera del 13 luglio 1944.
Con l’altro suo celeberrimo romanzo Millenovecentottantaquattro (1947, edito nel 1949) inventò la figura del Grande Fratello, diventando il più fiero critico di quello che oggi chiameremmo il capitalismo della sorveglianza.

In entrambi i casi però, a ben vedere, non si tratta di distopie, di utopie negative come spesso si è detto; certo quelle che Orwell esprime non sono visioni ottimistiche, ma spronano a costruire un diverso futuro dell’essere umano e della società.
Ma c’è anche un altro fatto che ci colpisce tornando a sfogliare Millenovecentottantaquattro e che non appare di primo acchito. Indirettamente Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) scegliendo quel titolo, sembra voler alludere anche alla difficoltà e al contempo alla forte esigenza di nuovo rapporto fra uomo e donna. Eileen O’Shaughnessy scomparsa prematuramente nel 1945 e sua compagna di vita e nella lotta al franchismo in Spagna, nel 1934, un anno prima di incontrare Orwell, aveva scritto una poesia dal titolo “The End of the Century 1984”.
Una recente biografia di Sylvia Topp, Eileen. The Making of Orwell (Unbound, 2020) ci dice qualcosa di più di quella donna misteriosa (dalle lunghe gambe e «dal viso di gatta»), lettrice di inglese all’università e psico pedagogista, sostenne Orwell nei suoi progetti di scrittura, accettando la sua idea un po’ folle di vivere in campagna, senza luce e senza soluzioni igieniche adeguate; condizioni certo non ideali per lo stesso Orwell che aveva una salute precaria.

Fra loro si sviluppò un rapporto aperto, creativo sul piano artistico, ma anche inquieto e burrascoso, del tutto insolito per i tempi.

Insieme, per iniziativa dello scrittore, decisero di adottare un bambino, Richard Horatio Blair, oggi riservato ingegnere che solo una decina di anni fa è uscito dal silenzio per raccontare di un Orwell padre attento, premuroso, che si prese personalmente cura di lui. Raccontiamo questo lato più intimo e personale dell’enigmatico autore di Millenovecentottantaquattro, perché ce ne restituisce u po’ il lato umano, offuscato dal fatto che nell’immaginario collettivo la sua figura sia quasi scomparsa dietro a quell’aggettivo “orwelliano”, che ci parla di agghiaccianti forme di potere corrotto, oppressivo e tecnocratico.

In realtà a rileggere oggi quel celebre romanzo non vi scorgiamo minimamente tracce di quell’antiumanesimo heideggeriano che lo portava il filosofo di Essere e tempo a condannare la tecnica in nome di una regressiva difesa della selva, della patria, del sangue.

Al contrario, Orwell in Millenovecentottantaquattro, come in tutta la sua opera e nella vita, si pose sempre dalla parte della liberazione e della difesa della dignità umana opponendosi ad ogni forma di potere dispotico a cominciare dall’imperialismo britannico.

«Il ragazzo euroasiatico che camminava accanto a me indicò il punto da cui venivamo, con un sorriso d’intesa; lo sa, signore, che quando il nostro amico – intendeva il morto impiccato – ha saputo che il suo appello era stato rifiutato si è pisciato addosso? Di paura. Prego prenda una delle mie sigarette signore. Le piace il mio nuovo astuccio di argento, signore? L’ho preso da un venditore ambulante, due rupie e otto anna. Di gran classe, in stile europeo». Così Orwell scriveva nel 1931 per The Adelphi in un pezzo dal titolo “Un’impiccagione”.

In quel testo che ora Mattioli 1885 ripropone in una interessante raccolta di scritti dal titolo George Orwell autobiografia per sommi capi lo scrittore raccontava l’inaccettabile annientamento di un essere umano e lo scandalo della “normale” routine che lo accompagna. Assistere a quell’impiccagione in Birmania portò Orwell ad appendere l’uniforme di ufficiale della polizia imperiale britannica. Le sue parole risuonano profondamente in questi giorni mentre nella Birmania di oggi di consuma un’ennesima strage militare, con centinaia di vittime fra i civili.

«È strano – scriveva Orwell – ma fino a quel momento non mi ero reso conto cosa significasse uccidere un uomo sano e cosciente…quando vidi il prigioniero farsi da parte per evitare la pozzanghera compresi il mistero, compresi quanto fosse indicibilmente sbagliato stroncare una vita nel pieno del suo vigore. Quell’uomo non stava morendo era vivo come noi… noi e lui eravamo un gruppo di uomini che camminavano insieme, che vedevano, sentivano, percepivamo e decifravano lo stesso mondo. E tra due minuti, con uno schiocco improvviso, uno di noi se ne sarebbe andato – una mente in meno, un mondo in meno».

Decidendo di abbandonar l’uniforme lo scrittore decideva di separarsi nettamente anche dalla propria famiglia, essendo lui nato nel 1903 in India dove suo padre era funzionario dell’amministrazione britannica. Vicino ad idee socialiste e, a suo modo, marxista Orwell non sopportava l’ideologia che diventa sopraffazione, annichilimento e annullamento della persona. Per questo si schierò contro il nazifascismo, per questo lasciò tutto per andare a combattere in Spagna contro il regime di Francisco Franco rischiando la vita, per questo ebbe il coraggio di denunciare lo stalinismo che aveva tradito gli ideali della rivoluzione socialista. Per questo rimase solo.

Come notava Geno Pampaloni (ora in 1984, Chiarelettere), Orwell era un irregolare dal piglio brusco e asciutto, dall’umorismo scostante, snob per estrazione sociale ma interessato e consonante con la vita di operai e dei barboni conosciuti personalmente vivendo per strada a Parigi, mentre provava a scrivere senza grande successo e faceva il lavapiatti per sopravvivere.

Pur fra le sue molte contraddizioni, rileggendo oggi i suoi testi, particolarmente quelli più autobiografici contenuti in questa nuova antologia edita da Mattioli 1885, emerge con forza l’immagine e lo spessore di uno scrittore profondamente innamorato dell’umano. Sono testi eclettici, colti, ma mai astratti o auto compiaciuti.

Qui ritroviamo anche il bellissimo “Perché scrivo” del 1946, in cui rievoca la sua aspirazione di diventare scrittore, coltivata fin da bambino.

«Avevo l’abitudine – ricorda – tipica dei bambini soli di inventarmi storie e di fare conversazione con personaggi immaginari e credo che fin dall’inizio le mie ambizioni letterarie si siano mescolate alla sensazione di essere isolato e sottovalutato. Sapevo di avere dimestichezza con le parole e la forza di affrontare realtà spiacevoli e pensavo che questo desse vita a una specie di mondo tutto mio nel quale potevo prendermi una rivincita sui fallimenti della vita quotidiana».

Erano gli anni in cui maturava il suo spirito anticlericale, avendo sperimentato sulla propria pelle la violenza della scuola cattolica. Un anticlericalismo che da grande diventerà maturo ateismo, scevro da accenti positivisti, mosso da un forte impeto morale e ideale.

Un ateismo mai rinnegato, nonostante abbondino le letture in chiave metafisica della sua opera e si sia tentato in ogni modo di tirarlo per la giacchetta sotto questo profilo.

In “Perché scrivo” appare salda la sua visione ma anche ambizioso l’intento programmatico: «Slancio estetico. Percepire la bellezza del mondo e delle parole». «Spinta storica. Desiderio di vedere le cose per ciò che sono, portare alla luce i fatti e registrarli ad uso dei posteri». «Scopo politico dove la parola politico ha l’accezione più ampia possibile. Desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di far cambiare idea alla gente sul tipo di società per cui dovrebbe lottare». Ancora una volta, concludeva, «nessun libro è del tutto privo di influenze politiche. L’idea che l’arte non debba avere niente a che fare con la politica è di per sé una presa di posizione politica».


L’articolo prosegue su Left del 2-8 aprile 2021

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Partisan alla Orwell

Perché rileggere, e perché ritradurre Orwell oggi?
Enrico Terrinoni: In primis, perché la lettura è una pratica di interpretazione infinita. Non che abbiamo la libertà di vedere quel che ci pare per pura ossessione libertaria. L’interpretazione ha le sue regole e i suoi paletti. Ma la catena delle letture produce sempre cambiamenti nella percezione degli oggetti culturali, e conoscere le condizioni di nascita di un testo è fondamentale ma non sufficiente a interpretarlo. Un testo cambia quando entra nelle nostre teste, e ho l’impressione che la percezione generale di Orwell sia rimasta un po’ statica. Da un lato è stato semplificato e ridotto a una formula secca per via delle due opere ritenute principali; dall’altro, sempre per via di quelle, è stato tirato per la giacchetta strumentalmente. Rileggerlo oggi significa sperare di vedervi qualcosa di nuovo; ma per farlo servono sia nuovi occhi che nuovi oggetti da guardare. Vanno “ri-viste” le sue avventure e incursioni, che per qualcuno conservano qualcosa di profetico.

Andrea Binelli: A interrogarci ancora oggi sono le sue generose incursioni, vuoi di respiro documentario, etnografico o fittizio, in territori controversi quali la povertà e la destituzione, le relazioni sociali e identitarie al reagente della retorica imperialista, la nostalgia e le illusioni della pubblicità, l’idea di verità e la propaganda. Queste esplorazioni proseguono la tradizione censoria inglese -il modello resta la puntualità asciutta di Swift – e la corredano degli sviluppi modernisti eludendone le aporie ed evitando di affondare nella palude della de-responsabilizzazione. Orwell indica una via nella misura in cui riesce a declinare in ambiti distanti una critica etica leggera ma sempre in grado di sovvertire le induzioni della falsa coscienza. In tal modo, ha saputo raccontare l’autocompatimento torbido e le proiezioni frustrate con cui reagiamo all’inadeguatezza del criterio liberista per cui gli individui sono valorizzati e godono di libertà in ragione di ciò che possiedono.

Francesco Laurenti: Anche per questo è facile vedere in Orwell un profeta; perché, in parte, un profeta lo è stato. Ma proprio in virtù di quest’aura di cui lo si investe, si corre rischio che il suo messaggio venga in parte “sepolto”. Orwell è stato un intellettuale coraggioso perché onesto; e se, come credeva, «in un momento di inganno, dire la verità è un atto rivoluzionario», fu anche un grande rivoluzionario. Il suo insegnamento oggi può assumere il…


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