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Il futuro prossimo di un terzo del pianeta

Workers wearing face masks grade cured tobacco leaves at Tilisa farm in Bromley on April 15, 2020, ahead of the start of the tobacco selling season scheduled to begin on April 22, 2020, but now likely to be disrupted due to the COVID-19 coronavirus pandemic. - Tobacco farmers fear the national lockdown measures could disrupt marketing of their crop which is the country's second biggest foreign currency earner after gold. (Photo by Jekesai NJIKIZANA / AFP) (Photo by JEKESAI NJIKIZANA/AFP via Getty Images)

Entro il 2025 una persona su tre sarà nata in Africa. Un boom demografico che comporterà un ulteriore aumento della domanda di risorse, educazione, sanità, edilizia abitativa e lavoro. Se si guarda all’Indice di sviluppo umano dei Paesi africani, il suo livello medio è cresciuto del 24% dal 1991 al 2018 e si prevede che crescerà del 30% dal 2018 al 2063. L’aspettativa di vita media, che attualmente è a quota 65 anni, arriverà a circa 78 nel 2063.

Sono questi i trend che stanno vivendo i popoli africani. E che li mettono di fronte a nuove sfide da affrontare. Una su tutte: che questa crescita sia accompagnata da un incremento reale di democrazia, di pace, e che questo vada a beneficio dei cittadini d’Africa e non di oligarchie corrotte, di multinazionali o potenze straniere. Affinché le cose vadano in questo modo, innanzitutto, è necessario che diffusamente nel grande Continente si raggiungano determinati obiettivi.

E proprio da questi traguardi da conquistare, e dai trend in atto che abbiamo citato, si sviluppa l’analisi di African Futures 2030. Un corposo dossier appena pubblicato e realizzato per l’Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza – l’agenzia Ue che fornisce analisi su temi di politica estera, security e difesa – da una Task force di analisti e istituzioni europee ed africane creata nel 2019. Il report delinea alcuni scenari prossimi venturi, ci permette di volgere uno sguardo a quella che potrebbe essere l’Africa fra un decennio, e disegna alcuni percorsi per raggiungere un futuro «integrato e prospero». Tracciati si inseriscono in quello che viene definito come viatico principale, come un «fattore chiave che guida le trasformazioni economiche, tecnologiche e sociali in Africa nel prossimo decennio»: l’attuazione dell’Area di libero scambio continentale africana (Afcfta) divenuta operativa a gennaio 2021.

«L’idea di creare un mercato unico tra i Paesi africani, in cui potranno circolare più facilmente persone, beni, servizi, è…


L’articolo prosegue su Left del 9-15 aprile 2021

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“Ma che bel cioccolatino crespo”

A man with afro hair wearing a face mask walks on in a centric street of Granada on October 23, 2020 in Granada, Spain. The Junta de Andalucía has announced a curfew in Granada from 23:00 to 6:00 due to the increase in coronavirus infections in the city and its metropolitan area. (Photo by Fermin Rodriguez/NurPhoto via Getty Images)

Cara Gabriella, mi chiamo Becky, sono nata in Congo e vivo a Treviso da 28 anni.
Ho sempre avuto la passione per le Barbie, forse addirittura quasi una ossessione.
Credo di averne possedute più di 100. Non mi è mai importato del colore della loro pelle, solo una cosa era fondamentale: la lunghezza dei capelli. Dovevano essere incredibilmente e innaturalmente lunghi e lisci. Ricordo che appena me ne regalavano una, il mio sguardo andava sulla chioma, mi chiudevo nella mia cameretta felice e liberavo la mia creatività. Mi trasformavo in una perfetta parrucchiera che con forbici e spazzola creava acconciature a mio parere molto glamour.
Mia figlia ha la mia stessa mia passione per le bambole ma non si sofferma mai sui loro capelli. Per lei è divertente cambiare loro i vestiti, come fanno tutte le sue amiche, farle camminare, correre, nuotare e vivere come delle compagne di gioco. Le mie Barbie invece erano sempre da sole, con i loro capelli spesso massacrati dalle mie mani. Guardo la mia bambina e vedo che i suoi ricci non sono crespi, indomabili, privi di forma, che tendono al cielo invece che alle spalle, sono più morbidi e gestibili. Guardo me allo specchio e vedo una cicatrice sulla testa, chiazze sparute di vuoto cosmico e capelli rovinati da anni di acido, stirature, code strette e treccine fitte.
Quando ero bambina ero come il miele per gli orsi, attiravo non solo sguardi ma anche mani curiose che si sentivano in dovere di toccare la mia testa, accompagnando il gesto a frasi come: “Che bei capelli da negrettina”, “che riccioli esotici”,”ma che bel cioccolatino crespo”.
Per questo motivo ho sempre provato a nasconderli e camuffarli.
Il razzismo inconsapevole di questi gesti ha fatto sì che crescessi con un grande complesso, sentendomi come un animaletto diverso dagli altri ma la resilienza e la determinazione mi hanno spinta a fare della mia debolezza una forza.
Da 7 anni mi occupo di capelli Afro, insegno alle mamme adottive e alle giovani ragazze a trattarli in modo naturale, lasciando liberi i ricci. Basta code strizzate, parrucche, trattamenti chimici.
Ho una linea di prodotti che faccio fare con ingredienti del tutto naturali.
Mentre nel mio salone, con le mani accarezzo e districo ricci meravigliosi, racconto alle bambine che nessuno deve convincerle che i loro capelli non sono belli e insegno loro come rispondere agli estranei che glieli toccano per strada.
Sono diventata una donna felice e una imprenditrice di successo ma mi sono sempre chiesta se quei gesti fossero solo ignoranza o razzismo.

*

Cara Becky, il razzismo è anche ignoranza. Conosco bene la sensazione perché accade molto spesso anche a mia figlia. Capita che noi mamme, a volte pensiamo che siano dei gesti in fondo carini, simpatici, di apprezzamento quando invece sono delle vere e proprie micro-aggressioni razziste.
Quando non riesci a stabilire dei confini sociali, quando le persone si sentono autorizzate a fare gesti che mai farebbero su bambini bianchi, vuol dire che il razzismo è latente, non dichiarato ma non meno esplicito. Il rispetto che si ha per un essere umano che non conosci e che il buon senso e la buona educazione non ti fanno toccare, cade come d’incanto quando si ha di fronte un ragazzino o una ragazzina nera. Sono le barriere dell’intimità che ci dicono chi siamo e con chi abbiamo a che fare. Credo che la battaglia che stai portando avanti sui capelli afro sia fondamentale ed importante.
La cultura antirazzista passa anche da qui.

 


L’articolo è tratto da Left del 2 aprile 2021

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Aperturisti? No, scriteriati che giocano col fuoco

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 26-11-2020 Roma, Italia Politica Senato - conferenza stampa centro destra Nella foto: Matteo Salvini Lega e Giorgia Meloni FdI durante la conferenza stampa congiunta dei partiti del centro destra Photo Mauro Scrobogna /LaPresse November 26, 2020  Rome, Italy Politics Senate - press conference center right In the photo: Matteo Salvini Lega and Giorgia Meloni FdI during the joint press conference of the center-right parties

Nel Paese sta montando un clima di tensione che investe le istituzioni, in particolare quelle sanitarie. A metà marzo scorso è stato sventato un attacco incendiario alla sede dell’Istituto superiore di sanità e in questi ultimi giorni, a Brescia, qualcuno ha lanciato una molotov contro un centro di vaccinazione. Episodi che si sommano alle volgari minacce di morte di cui è stato vittima il ministro della Salute Speranza e che disegnano un quadro allarmante. Spetterà alla magistratura accertare le responsabilità e mi auguro che avvenga in fretta, ma c’è una riflessione che sta tutta in capo alla politica e ai suoi rappresentanti e che va affrontata col coraggio di dire alcune verità. C’è chi soffia sul fuoco della rabbia.

Gli attacchi, reiterati e scomposti, di Matteo Salvini e della destra contro la gestione dell’emergenza sanitaria che fanno di Roberto Speranza il principale bersaglio degli “aperturisti”, sono un’operazione di vero e proprio sciacallaggio sulla pelle del Paese. Chiariamoci subito su questo punto: tutti vogliamo ripartire. Tutti vogliamo “tornare a vivere” e siamo consapevoli della sofferenza che attraversa cittadini, attività economiche, lavoratrici e lavoratori il cui destino è appeso alla possibilità di una ripresa. Non lo faremo a forza di imprecazioni contro la “dittatura sanitaria” e solleticando la pancia di una insofferenza diffusa che nelle sue declinazioni più violente può rappresentare un rischio altissimo per la nostra democrazia.
Questa fase richiederebbe coesione e responsabilità da parte delle forze che pur con le loro profonde differenze sostengono il governo Draghi. Non è più ammissibile che ci sia chi sta con …

*-*

L’autore: Francesco Laforgia è senatore eletto nel 2018 nelle liste di Liberi e uguali. Nel 2019 non rinnova l’adesione ad Articolo uno e fonda, assieme al deputato Luca Pastorino e agli “autoconvocati di Leu”, il movimento politico èViva!


Il reportage da Niamey prosegue su Left del 9-15 aprile 2021

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La logica disumana dell’embargo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 24-02-2020 Roma, Italia Politica Senato - uccisione Attanasio, Iacovacci in Congo Nella foto: Il Ministro degli Affari Esteri Luigi DiMaio riferisce al Senato sull' attacco armato in Congo dove hanno perso la vita l'ambasciatore italiano a Kinshasa, Luca Attanasio, e il carabiniere, Vittorio Iacovacci Photo Mauro Scrobogna /LaPresse February 24, 2020  Rome, Italy Politics Senate- killing Attanasio, Iacovacci in Congo In the photo: The Minister of Foreign Affairs Luigi DiMaio reports to the Senate on the armed attack in Congo where the Italian ambassador in Kinshasa, Luca Attanasio, and the carabiniere, Vittorio Iacovacci, lost their lives

«I beni di prima necessità, come il cibo e i medicinali non devono servire come strumenti di coercizione politica». Sono parole del paragrafo 13 della risoluzione che ha per tema «gli effetti negativi delle misure coercitive unilaterali sull’esercizio dei diritti umani» approvata al Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite il 23 marzo scorso. Nel documento si sottolinea come il sistema delle sanzioni decise unilateralmente da uno o più Stati nei confronti di altri Stati non rispettino i principi del diritto internazionale umanitario, la Carta Onu, la Dichiarazione al diritto allo sviluppo adottata nel 1986.

La risoluzione è generale, non cita Stati sotto embargo, evidenzia però fortemente le conseguenze delle sanzioni sulle fasce più deboli della popolazione civile, chiedendo agli Stati di astenersi dall’imporle, di promuovere «il multilateralismo» e di porre rimedio agli effetti negativi sul piano dei diritti umani. L’Italia è stata tra i quindici Stati a votare contro questa risoluzione e il fatto ha destato molte proteste perché tra i Paesi notoriamente sotto embargo da parte degli Usa dal 1960 – il bloqueo – c’è anche Cuba. La stessa Cuba che nel pieno della crisi pandemica nel marzo scorso aveva inviato in Lombardia e in Piemonte i medici e gli infermieri della brigata internazionale Henry Reeve. Facciamo il punto sul sistema delle sanzioni e sul voto all’Onu, con Fabio Marcelli, dirigente di ricerca dell’Istituto di studi giuridici internazionali del Cnr.

La risoluzione del Consiglio dei diritti umani ha rappresentato qualcosa di nuovo? Si profila un cambiamento a livello giuridico e politico?
La risoluzione, come tutte quelle approvate da organismi Onu, non ha effetti vincolanti ma ha un valore politico e giuridico preciso perché esprime da parte della maggioranza della comunità internazionale – trenta Stati contro quindici – una condanna di queste misure coercitive unilaterali, dette sanzioni, che sono misure che uno Stato o gruppi di Stati adottano nei confronti di altri, limitando la possibilità di avere scambi o di acquistare determinati beni. È importante perché viene approvata adesso, mentre infuria la pandemia da Covid, anche se…


L’intervista a Fabio Marcelli prosegue su Left del 9-15 aprile 2021

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L’equilibrista

Foto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse 08-04-2021 Roma, Italia Politica Conferenza stampa del Presidente Draghi presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio. Nella foto: Mario Draghi Photo Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse April 08, 2021 Rome, ItalyPolitics Italian Prime Minister, Mario Draghi, attends a press conference on vaccination plan to fight Covidf-19 pandemic. In the pic: Mario Draghi

Ci sono alcune novità dopo la conferenza stampa di ieri di Mario Draghi. Draghi, l’abbiamo capito bene, è uno con la stoffa democristiana, uno che le conferenze stampa le sa gestire provando ad accontentare tutti ma soprattutto stando attento a non scontentare nessuno, rimanendo sempre in bilico su quell’area di grigio che può essere scambiata per meritevole equilibrio oppure per inutile furbizia. Ognuno si costruirà la sua opinione, ognuno gli concederà la sua porzione di stima.

Draghi ha seppellito Salvini. E ha fatto bene, una volta per tutte: dire «ho voluto io Speranza nel governo e ne ho molta stima» significa togliere una volte per tutte dalle mani di Salvini e compagnia cantante la vecchia scusa di essere con Draghi ma contro Speranza, di fare opposizione a un pezzo del governo continuando a restare nel governo. Non sarà facile ora per il leader leghista raccontarlo ai suoi. Ci sarà da ridere e fa piacere che un presidente del Consiglio (ancora una volta) metta Salvini di fronte alla sua patetica doppia faccia.

Draghi durissimo su Erdogan: «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto». Chiamare un dittatore “dittatore” è sempre una bella notizia, cooperare con un dittatore rientra in quella realpolitik che può piacere o meno.

Ma se qualcuno è felice per la stoccata al sultano turco, allora dovrebbe ascoltare però le giustificazioni piuttosto flebili sulla Libia. Perché Draghi ha parlato di corridoi umanitari che non esistono, al di là di qualche sparuta persona e perché ha parlato di “superamento dei centri di detenzione libici” che sono proprio quel “salvataggio” per cui aveva ringraziato la Libia. No, proprio no. Non ci siamo.

Quindi un colpo di qua e un colpo di là. Non accontentare nessuno e non scontentare tutti. Come gli equilibristi, quelli che ti stupiscono per i primi metri sulla corda e poi annoiano tantissimo, e riescono a essere pericolosi per sé e per gli altri.

Buon venerdì.

Uprising, come si ribella un continente

TOPSHOT - Students gather in the courtyard ahead of the reopening of the school after a closure of eleven months on account of the Covid-19 pandemic in Luanda on February 10, 2021. (Photo by Osvaldo SILVA / AFP) (Photo by OSVALDO SILVA/AFP via Getty Images)

In questo lungo anno di pandemia sono stati pochi i media italiani che hanno allargato con continuità e in profondità lo sguardo al resto del mondo, nonostante la crisi sanitaria sia una crisi globale. La scorsa settimana ricordavamo che fin qui solo lo 0,8% dei vaccini distribuiti è andato ai Paesi a basso reddito, mentre a quelli di fascia medio-alta è andato l’80%.

A nulla è valsa la richiesta avanzata più volte presso il Wto da India e Sud Africa di sospendere i brevetti su vaccini, cure, trattamenti e tecnologie finché il Covid-19 non sarà reso innocuo. Con l’avallo di Unione europea, Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Australia, Giappone, Brasile e altri “big” si sta consumando una grave ingiustizia umana e sociale a livello globale. Che ci riguarda e ci colpisce tutti.

Perché finché non viene raggiunta l’immunità di gregge mondiale, il virus continuerà a circolare sviluppando pericolose varianti come quelle che in Italia ci hanno costretto a un altro mese di lockdown.

Per farsi un’idea, un nuovo studio pre-print sulla variante inglese ha stimato che questa aumenta la contagiosità del 55% rispetto al ceppo virale affrontato nei primi mesi; inoltre mentre aumentano i paper che dimostrano come il vaccino prevenga la trasmissibilità, altri hanno accertato che il vaccino Pfizer è efficace contro la variante sudafricana B.1.1351 trovata anche in Brasile (il Paese al momento più colpito al mondo da nuove morti e nuovi casi) e di cui la cd. variante giapponese, che tanto fa parlare in questi giorni, è un ceppo.

Di contro, i vaccini Novavax e J&J sono meno efficaci (ma il primo lo sarebbe comunque al 60%). Tuttavia ovunque si sta già lavorando per aggiornare i vaccini nel modo più veloce possibile. Ma tutto sarà vano se non troveranno applicazione concreta azioni come quella di India e Sud Africa, oppure come l’Iniziativa dei cittadini europei “NoProfitOnPandemic”, a noi ancora più vicina, che consiste nella raccolta di almeno un milione di firme tra i cittadini dei 27 Paesi per fare pressione su Bruxelles affinché sospenda i brevetti sui vaccini e se ne faccia promotrice presso il Wto (si può firmare qui: noprofitonpandemic.eu/it).

Veniamo al titolo della copertina “Primavere africane”. A qualche mese dal numero speciale “Mama Africa”, abbiamo sentito l’esigenza di tornare sulle rotte di questo continente scarsamente indagate dai media che accendono i loro deboli radar solo in occasione di sciagure nel Mediterraneo, conflitti tra le cui vittime ci sono dei cristiani o atti di terrorismo jihadista.

Come se fosse questa la realtà di un continente composto da 55 Paesi e con una popolazione complessiva di circa un miliardo e 300 milioni di persone (che a detta di alcuni nostri acutissimi leader politici sarebbero tutte intenzionate a trasferirsi in Europa passando per l’Italia). La realtà invece è che l’Africa sta ritrovando una sua centralità nelle dinamiche geopolitiche internazionali non più come mero “terreno di conquista” di potenze colonizzatrici ma come continente attraversato da Nord a Sud da grandi processi di trasformazione politici, sociali e culturali.

E guarda a futuri scenari economici che portano con sé la pacifica ma inflessibile pretesa di democrazia e diritti da parte delle giovani generazioni. Tutto questo però deve fare i conti con l’impatto della pandemia.

Data l’età media molto giovane della popolazione africana si pensa che questo continente sia stato il meno colpito dal Covid-19. La verità è che non abbiamo dati precisi sull’andamento africano della pandemia, come racconta qui Francesco Strazzari, politologo della Scuola Sant’Anna di Pisa e studioso di Africa, che ci aiuta a fare il quadro sui pesanti effetti della crisi sanitaria sull’economia di un continente che per anni è stata in continua crescita.

Poi a marzo 2020 anche qui tutto è cambiato. Ma non tutto si è fermato. E Strazzari appunto ci parla degli interessanti e importanti processi di cambiamento socio-politici e culturali in atto ma anche dei conflitti, alcuni vecchi altri nuovi, che stanno attraversando questo vastissimo territorio. In molti Paesi che hanno governi autoritari e corrotti stanno crescendo movimenti di protesta pacifica dal basso, sul modello di quello che è accaduto nelle primavere arabe e in Sudan.

Anche se non sempre la lotta per la democrazia prende il sopravvento. Basta pensare al caso dell’Uganda dove l’opposizione giovanile ha sostenuto la candidatura del cantante Bobi Wine alle presidenziali dello scorso 14 gennaio. Per quanto la sfida all’inamovibile Museveni sia stata fermata con un arresto illegale, qui il fermento sociale continua.

Ma sono molti i Paesi africani in cui la società civile alza la testa, le giovani generazioni aspirano a studiare, a realizzare le proprie possibilità e ad una migliore qualità della vita. Un’onda che sta diventando irrefrenabile e che presto riuscirà a cambiare il volto del continente, pur minacciato dai cambiamenti climatici e dell’esplodere di nuovi conflitti.

Se ne sono accorte anche le grandi potenze occidentali, che dopo aver colonizzato per secoli, sfruttato e depredato l’Africa delle sue preziose risorse (ma il land grabbing continua ancora oggi) ora tentano la strada di una egemonizzazione attraverso la costruzione di infrastrutture e attraverso la diplomazia dei vaccini (su questa strada si muovono soprattutto la Cina e la Russia).

Intanto a inizio gennaio ha mosso i primi passi il Trattato di libero scambio che permette ai Paesi africani di abbattere i costi doganali. E si comincia a parlare di «una volontà politica continentale» ci ricorda Giovanni Faleg, curatore del dossier African futures 2030 realizzato per l’Istituto dell’Ue per gli studi sulla sicurezza.

Anche se il reale processo di integrazione sarà ancora lungo e accidentato il Trattato di libero scambio sicuramente rappresenta un passo storico in un continente da secoli frammentato e diviso, segnato da confini nazionali imposti dalle potenze coloniali di altri continenti.

Ma c’è anche un altro fenomeno da registrare. In questo anno di pandemia che ha bloccato il flusso migratorio verso l’Europa sono aumentate le migrazioni interne all’Africa. Il rapporto Eurostat sui richiedenti asilo in Europa, passato anche questo inosservato dai media nostrani, ha rilevato un crollo globale del 34% delle istanze presentate nel 2020. Tra l’altro quelle presentate da cittadini africani sono sole poche decine di migliaia distribuite in diversi Paesi Ue.

Più in generale dei gravi danni provocati in prospettiva dal blocco migratorio allo sviluppo dell’Africa e dell’Europa ci aveva già parlato il demografo Livi Bacci. In questo numero Stefano Galieni, sulla base di dati dell’Africa center for strategic studies, traccia il quadro articolato e complesso degli spostamenti di grandi masse di cittadini africani: quelli all’interno dell’Africa ormai costituiscono l’80% del totale.

Spinte da motivi economici e di lavoro ma anche dai cambiamenti climatici, da nuovi conflitti, dal terrorismo fondamentalista religioso, nel 2020 oltre 1,5mln di persone si sono fermate nei Paesi del Nord Africa. Verso l’Europa invece lo scorso anno si sono mosse dalle coste del grande continente poco più di 40mila persone, un numero davvero irrisorio che smaschera le fake news dei politici xenofobi che si ostinano a parlare di “rischio invasione” e di “difesa dei confini”.

Ma sono soprattutto gli spaccati di vita raccontati nei loro reportage da Giacomo Zandonini dal Niger, da Valerio Giacoia dal Kenya e da Yuri Delmar da Luanda a darci il polso della situazione. Il massiccio processo di inurbamento che si regista nella metropoli angolana sta cambiando il volto della città di cui negli anni passati si parlava come della Dubai africana: crescono le disuguaglianze ma anche i conflitti positivi e le proteste di cittadini che reclamano una svolta politica con più diritti, equità e democrazia.

Un cambiamento apparente è invece quello che è avvenuto in Niger con l’elezione dell’ex ministro Bazoum a presidente, in perfetta continuità con il regime precedente mentre la società civile, dopo i sommovimenti del 2018 e 2019 «appare silente e silenziata», come scrive Zandonini ed è sempre più pervasiva la presenza turca.

Il Paese di Erdogan infatti è il terzo attore, insieme a Cina e Russia, impegnato nel tentativo di espandere la sua influenza e mettere le mani sull’Africa mentre l’Occidente è distratto e ripiegato su se stesso.


L’editoriale è tratto da Left del 9-15 aprile 2021

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Al gran galà della democrazia

Supporters dance next to a poster during the coalition campaign rally of Niger's presidential candidate Mohamed Bazoum on Febuary 18, 2021 in Niamey ahead of Niger's presidential election runoff on Febuary 21. - Opposition parties in Niger have urged candidates preparing for the second round of presidential elections on February 21 to rally behind former president Mahamane Ousmane, the runner-up to Mohamed Bazoum in last month's first round. Gathered in a coalition called Cap 20-21, 18 parties launched "an appeal for civic responsibility from all the political forces in Niger to join the final combat." (Photo by Issouf SANOGO / AFP) (Photo by ISSOUF SANOGO/AFP via Getty Images)

Elicotteri di sorveglianza, mitragliatrici spianate, carri armati che appaiono lungo i viali alberati del centro città. Così Niamey, capitale del Niger, ha accolto decine di delegazioni diplomatiche venute – lo scorso 2 aprile – a festeggiare un evento storico per il Paese e non solo: la prima transizione democratica nella storia dello Stato africano, abituato a colpi di Stato e governi d’emergenza.

«Sono tutti qui, tanto che nessuno è andato ad assistere all’investitura del nuovo presidente della Repubblica Centrafricana», scherza un funzionario nei corridoi dell’immenso centro conferenze Mahatma Gandhi, dono interessato della cooperazione indiana.

Processioni di sirene, Mercedes dai vetri oscurati e scorte di polizia, immettono senza sosta sul tappeto rosso alti dignitari di almeno venti Paesi. Quasi tutti africani: il presidente del Senegal Macky Sall, George Weah (sì, l’ex giocatore del Milan) che guida la Liberia, Nana Akufo-Addo del Ghana, il primo ministro algerino Abdelaziz Djerad e colleghi di Mali, Ciad, Sudan, Libia, Ruanda, Mauritania.

Due i nomi non africani…


Il reportage da Niamey prosegue su Left del 9-15 aprile 2021

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Lo stolto guarda il dito

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha incontrato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen decidendo di fare apparecchiare una sedia accanto alla sua per il presidente del Consiglio Europeo e lasciando di lato la presidente della Commissione. Di lato, con tutto il significato simbolico che ha quell’immagine in cui i due maschi se la cantano e se la suonano in posizione padronale mentre Von der Leyen appare lì solo di passaggio. Erdoğan, come molti dei sovranisti di questa epoca triste, sa benissimo che un’immagine può essere utilissima per solleticare gli sfinteri dei suoi elettori senza nemmeno prendersi la briga di dovere aggiungere altro. Del resto chi è povero di contenuti ha sempre bisogno di simboli per non apparire vuoto.

Von der Leyen ha capito al volo e non ha gradito se è vero che il suo portavoce Eric Mamer in conferenza stampa ha raccontato come sia rimasta “sorpresa” e dopo la «sorpresa, Von der Leyen ha deciso di andare avanti, dando priorità alla sostanza dell’incontro più che al protocollo». Anche sul fatto che la scelta del premier turco sia stata presa contro le donne non sembra lasciare molti dubbi (e lo scriviamo prima che qualche fallocrate venga a spiegarci che si tratta delle solite fisime da femministe) se è vero che Mamer ha dichiarato apertamente che «indipendentemente dal fatto che von der Leyen sia una donna, la presidente doveva essere accomodata come le altre istituzioni europee».

C’è da dire che anche l’atteggiamento del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel è riuscito a brillare per mediocrità: se è vero che da Erdoğan non ci sia molto di diverso da aspettarsi il collega di Von der Leyen avrebbe potuto fare un gesto, almeno un cenno, anche perché dalle informazioni a disposizione sembra che sia stato proprio il suo staff a eseguire il sopralluogo prima dell’incontro. Ma vuoi mettere la soddisfazione di fare il maschio tra maschi con una donna di lato? Deve essere stato irresistibile.

Poi, volendo, ci sarebbe il punto politico: Erdoğan già si è distinto per pessimi commenti discriminatori e offensivi nei confronti delle donne, nel 2016 disse che erano da considerarsi «prima di tutto delle madri». Poi il suo governo ha annunciato il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. In Turchia tra l’altro si viaggia alla media di due femminicidi al giorno e la pandemia ha escluso ulteriormente le donne dalla partecipazione al mondo del lavoro e alla politica.

Infine c’è la domanda delle domande e c’è anche la risposta: l’Europa si tiene stretto Erdoğan (con i nostri 6 miliardi regalati) per le sue ingerenze militari e per assolvere il lavoro sporco che l’Europa gli ha appaltato. I signori della guerra sono i sicari dell’Europa per fingere di dimenticarsi dei diritti umani. In cambio basta blandirli un po’ (come ha fatto nei giorni scorsi Draghi) oppure ingoiare qualche sgarbo nel cerimoniale. E chissà che i bifolchi non siano solo quelli che vengono colti in fallo, chissà che non si stia guardando il dito.

Buon giovedì.

L’inquinamento dell’aria per la Lega non esiste

Foto Claudio Furlan - LaPresse 08 Gennaio 2020 Milano (Italia) cronaca Conferenza Panoramiche della città di Milano avvolta dallo smog, dal 39esimo piano del Palazzo della Regione Lombardia Photo Claudio Furlan/Lapresse 08 January 2020 Milan (Italy) Pollution of the metropolitan area of Milan as seen from the 39th floor of Regione Lombardia

Non ha alcun senso bloccare interi settori produttivi per una «spasmodica difesa dell’aria e dell’ambiente». Lo ha detto nella plenaria del parlamento europeo l’eurodeputata leghista Simona Baldassare poco prima della votazione sulla risoluzione europea sulla qualità dell’aria.
L’onorevole del Carroccio, pugliese, di professione medico, ha cassato la proposta ambientalista in maniera compatta con il proprio partito e con il proprio gruppo parlamentare, Identità e Democrazia (Id), una delle due formazioni che a Strasburgo e Bruxelles raggruppa i partiti del Vecchio continente con posizioni di destra ed euroscettiche – oltre alla nostrana Lega, annovera tra i propri membri il francese Rassemblement National guidato da Marine Le Pen, la tedesca Alternativa per la Germania e l’austriaco Fpoe. A respingere il provvedimento è stata anche l’altra grande famiglia dell’ultradestra europea, Conservatori e Riformisti (Ecr) che per il nostro Paese vede l’adesione dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (in allegra compagnia dei polacchi del Pis e degli ultra nazionalisti spagnoli di Vox).

Alla fine il testo è stato approvato a larga maggioranza, con 425 voti a supporto, 109 contrari e 153 astensioni. Totalmente a favore si sono schierati S&D, Renew Europe, la Sinistra e i Verdi, mentre il Ppe si è spaccato – una sua parte, tra cui gli italiani di Forza Italia, ha optato per l’astensione.
La normativa, fortemente voluta anche dalla Commissione Ue, chiede una migliore attuazione delle normative vigenti sulla qualità dell’aria e introduce nuovi limiti più stringenti per inquinanti non regolamentati come le particelle ultrafini, il black carbon, il mercurio e l’ammoniaca. La risoluzione esorta gli Stati membri e la Commissione a rispettare e far rispettare i target già stabiliti dalle altre direttive: molti degli Stati membri, infatti, non si conformano ancora pienamente agli standard previsti. Tra questi c’è anche l’Italia, condannata dalla Corte di Giustizia Ue per aver “sistematicamente” violato i livelli di Pm10 tra il 2008 e il 2017.

Il percorso intrapreso si inserisce all’interno di una strategia che ha come obiettivo principale quello di azzerare tutti i tipi di inquinamento e di stilare una lista che contenga sostanze e gas nocivi per l’ecosistema e la salute che ogni anno causano, secondo l’Agenzia europea per la qualità dell’aria, circa 400mila morti.
Ma i sovranisti europei non sentono ragioni e continuano ad opporsi a qualsiasi forma di introduzione di regole severe per la tutela dell’aria e dell’ambiente. Secondo l’europarlamentare tedesca Sylvia Limmer (Id), le morti per inquinamento atmosferico sono «sempre citate e mai provate». E alla fine ci dice che possiamo anche stare tranquilli, perché «l’aspettativa di vita continua a crescere». Anzi, si spinge oltre, e citando alcuni dati ci fa sapere che «il rischio di morire per il fumo dei camini interni è addirittura inferiore rispetto agli effetti del sesso non protetto».

Per Carlo Fidanza (Ecr, Fratelli d’Italia) è sbagliato invece «bastonare le imprese già gravate da tasse e burocrazia, ed è sbagliato colpire i cittadini che, per tanti motivi, non possono andare a lavoro in bicicletta o in monopattino». Forse la stoccata è anche rivolta alla leader del suo partito, che in un passaggio parlamentare dello scorso novembre ha attaccato il bonus mobilità dell’allora in carica governo giallorosso, colpevole a suo parere di preoccuparsi «solo di chi abita in via Condotti».

La destra italiana ed europea storse il naso già a inizio 2020, quando l’Eurocamera espresse la propria posizione favorevole sul Green Deal – la strategia europea per decrementare le emissioni e rendere l’Europa un continente “climaticamente neutro” entro il 2050. All’epoca sia Id che Ecr votarono contro la road map verde, e lo stesso fecero anche nel marzo dello stesso anno, con la pandemia che incombeva, andando in direzione ostinata e contraria alla decisione degli altri colleghi di Strasburgo di approvare una legge europea sul clima e un nuovo target più ambizioso di riduzione dei gas serra (dal 40% al 60% entro il 2030 sui livelli del 1990, poi ridimensionato a 55% dalla Commissione Ue).

In occasione del voto sul Green Deal, Silvia Sardone, compagna di partito di Salvini, condannò l’approccio ideologico «anche un po’ succube degli slogan di Greta» dell’Europa. «Questa non è a tutela dell’ambiente» ha concluso poi Sardone «ma è un’ideologia ambientalista fatta da burocrati europei». La legge passò, comunque a larga maggioranza, con 392 voti favorevoli, 161 contrari, 142 astenuti, nonostante il muro dei sodali delle Le Pen, dei Wilders e dei Salvini.

Ma in realtà l’allergia di populisti e sovranisti alle proposte green risale già al 2016, quando fu ratificato l’Accordo di Parigi sul clima, giudicato dagli stessi nemico della sovranità nazionale: buona parte di loro votò contro sia al Parlamento europeo che in quelli statali.
Un dossier del think tank tedesco Adelphi, uscito poco prima delle elezioni europee del maggio del 2019, dimostra come nelle risoluzioni chiave sulle tematiche ambientali ed ecologiche approvate al Parlamento Ue nella scorsa legislatura, buona parte delle formazioni di ultradestra – dalla tedesca AfD, all’olandese Pvv, dall’Ukip britannico, alla Lega italiana, dai lepenisti francesi ai veri finlandesi – si sia sempre fermamente opposta. I deputati nazionalisti nel Parlamento europeo, che nella legislatura 2014-2019 pesavano circa il 15%, hanno contribuito con circa la metà dei voti complessivi all’opposizione nei confronti delle politiche climatiche. E a quanto pare l’antifona non è cambiata nemmeno negli ultimi due anni. C’è proprio una brutta aria che tira da quelle parti.

Nuove idee per una città solidale

Children wearing protective face masks play football in front of their building in Rome's neighbourhood of San Basilio on April 18, 2020, during the country's lockdown aimed at stopping the spread of the novel coronavirus COVID-19. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP) (Photo by ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images)

«Alzati che si sta alzando la canzone popolare…», cantava Ivano Fossati. Oggi una portineria di comunità, una radio delle tradizioni, un portale dei saperi, l’archivio partecipato, portano in vita la radice profonda della cultura popolare. Tutto nacque per caso e semplicemente. Tutto venne alla luce per creare comunità di prossimità, la grande ambizione era voler far parte di una collettività del dono, partendo dal concetto di identità locale, non settaria, individualista, ma altruista e davvero solidale.

«La Rete italiana della cultura popolare ebbe inizio ufficialmente nel 2009 – racconta Giovanni Damasco, il direttore – quando dopo un lungo dialogo con i territori io e alcuni visionari pensammo che la cultura non fosse solo metropolitana, ma che anzi, quella popolare potesse avere una forza propulsiva per scardinare ciò che non ci piaceva del presente. Allo stesso tempo volevamo che non si tradissero quei principi e idee di collettività che avevano reso grande la cultura popolare. Mentre ci si occupava di tradizioni, nascevano iniziative come la Notte della taranta, si scopriva una socialità profonda e vitale. Aperta agli altri. E man mano che arrivavano migrazioni diverse, rumeni, albanesi, marocchini, quelle identità che cercavamo di ripescare dal passato si mischiavano con i nuovi arrivi, creando incontri-scontri vivi e difficili che credemmo da subito potessero diventare il motore del nostro Paese. Un motore veloce e in grado di cambiarlo in meglio, questo Paese, nonostante le difficoltà che nascevano dall’incontro con l’altro. Questa era la nuova cultura popolare che nasceva sotto i nostri occhi. E noi ne fummo felici e approfittammo dell’occasione per creare una rete che raccontasse tutto questo e che diventasse il luogo del meticciato». Gramsci docet.

Fu proprio il filosofo sardo ad inserire la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizzò e la rese un’alternativa alla cultura dominante. E così, partendo da questi presupposti, la Rete oggi riattiva comunità e tende la mano alle solitudini.

Non sarebbe bello se ricevere l’aiuto di cui hai bisogno fosse allo stesso tempo un modo per aiutare gli altri? «Siamo partiti da qui. Perché si può generare un cambiamento nella vita di qualcun altro proprio quando si decide di entrare a fare parte della sua storia», precisa Damasco. Noi siamo le…


L’articolo prosegue su Left del 2-8 aprile 2021

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